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miércoles, 29 de febrero de 2012

Due Partite - Enzo Monteleone (2009)


TÍTULO ORIGINAL Due partite
AÑO 2009
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No 
DURACIÓN 94 min. 
DIRECTOR Enzo Monteleone
GUIÓN Cristina Comencini, Enzo Monteleone
MÚSICA Giuliano Taviani
FOTOGRAFÍA Daniele Nannuzzi
REPARTO Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini,
Valeria Milillo, Claudia Pandolfi, Alba Rohrwacher
PRODUCTORA Cattleya / Rai Cinema
PREMIOS 2008: Premios David di Donatello: 2 nominaciones
GÉNERO Comedia. Drama | Comedia dramática
 
SINOPSIS Todos los jueves un grupo de señoras se reune para jugar a las cartas y hablar de sus amores, su vida y los niños mientras sus hijas juegan en la habitación de al lado. Treinta años después, las hijas se reúnen en el funeral de una de las madres. Al igual que sus progenitoras, hablan de sus esperanzas, sueños y temores. (FILMAFFINITY)


Critiche contrastanti: “Cinema teatrale molto raffinato” (La Repubblica), “…la sensazione è più quella dell’esercizio di intelligenza che d’introspezione” (Il Corriere della Sera), “Commedia acuta e spiritosa” (Il Giornale), “Monteleone… finisce con il fotografare la soggezione del mezzo cinematografico nei confronti del testo” (Sentieriselvaggi).
“È un film sulla vita. E su come le donne siano in grado di reagire e ricominciare, sempre” ha dichiarato il regista.
Due Partite non è esclusivamente un film di donne per donne. Parla di noi tutti, dei nostri problemi, e più di uno spettatore potrà identificarsi nei temi trattati.
Il film è la versione cinematografica della commedia di Cristina Comencini che per due anni ha riempito i teatri di tutta Italia. Sul palcoscenico quattro attici interpretavano sia le madri che le figlie (Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi e Valeria Milillo), sullo schermo sono diventate otto (con l‘aggiunta di Paola Cortellesi, Carolina Crescentini, Claudia Pandolfi e Alba Rohrwacher): il che ha tolto mordente e parte dell’interesse che lo spettacolo aveva (era intrigante e più incisivo vedere una stessa attrice mostrare il cambiamento, nel tempo, delle donne… cambiamento che non ha procurato la felicità sperata).
Pur con un tono leggero e sorridente, Due partite è un lavoro amaro: l’evoluzione c’è stata nel passaggio generazionale ma i problemi sono rimasti (“gli uomini sono sempre assenti, come prima e più di prima. Non c’è un perché solo un dato di fatto”, Luciana Morelli).
Da elogiare sia quello che si dice che l’aspetto tecnico (un plauso particolare alla colonna sonora, ai truccatori, alla fotografia che è un trionfo di colori nella prima parte per poi incupirsi nella seconda), ma il film ha scarso ritmo e ha un sapore di costruito e di artefatto. Regia e sceneggiatura non hanno trasformato il linguaggio teatrale in linguaggio cinematografico, non uguali e con esigenze diverse. Sullo schermo sembra di vedere, soprattutto nella prima parte, ‘teatro filmato’: interessante come documento storico ma non come spettacolo cinematografico (benché la macchina giri incessantemente intorno alle otto attrici  nel tentativo di creare movimento all’interno del set). Un che di falso serpeggia continuamente e, a volte, si rischia la noia.
Peccato, un’occasione sprecata di offrire un affresco sul ruolo della figura femminile nell’evoluzione dei tempi, nonché di celebrarla con le sue frustrazioni, le sue aspirazioni, le sue emozioni, le sue contraddizioni, la sua forza. Ottima la prestazione delle otto attrici.
Le cose migliori del film sono il finale (cinematograficamente ben riuscito) e, naturalmente, la voce di Mina.
Leo Pellegrini
http://cineocchio.altervista.org/wordpress/2009/03/07/due-partite-2008-di-enzo-monte/
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"Non se ne esce"
Enzo Monteleone, regista di “opere al maschile” come “El Alamein - La linea di fuoco” e “Il capo dei capi” (miniserie tv), dirige un’opera totalmente al femminile, forse per questo più facilmente recepibile, apprezzabile, identificabile per un pubblico di donne. Perché una coscienza femminile riesce a cogliere le sfumature profonde e immedesimarsi, chi più chi meno, in quest’opera scritta dalla penna sensibile, ricercatrice e indagatrice di Cristina Comencini.
Due partite è un libro, edito da Feltrinelli, è stata un pièce teatrale, diretta dall’autrice stessa e, in occasione della Festa della Donna, arriva sui grandi schermi, con la regia di Monteleone; la Comencini ha detto di averci lavorato troppo, di non avere il distacco necessario, di esserci troppo dentro per affrontare una prova cinematografica.
Due partite, due epoche: 1966-1996. Tra le madri anni Sessanta e le figlie dei nostri tempi i mutamenti sono evidenti, ma i problemi di fondo sono sempre quelli; non a caso: “non se ne esce” è una frase che ricorre spesso nel testo della Comencini. Le protagoniste sono solo donne, che parlano degli uomini, in quanto mariti, in modo talmente ben definito che è come se fossero presenti in carne e ossa. Sara (Carolina Crescentini), Cecilia (Valeria Melillo), Rossana (Claudia Pandolfi) e Giulia (Alba Rohrwacher) si ritrovano ad affrontare chi sono diventate, a confrontarsi con le proprie madri; loro sono figlie, rispettivamente di Gabriella (Margherita Buy), Claudia (Marina Massironi), Sofia (Paola Cortellesi) e Beatrice (Isabella Ferrari). Sono cresciute insieme, le loro madri sono sempre state amiche; si ritrovavano ogni giovedì a giocare a carte. Quel giorno era, per le madri, sacro, era solo per loro. Donne appartenenti a una classe sociale medio-alta della borghesia, mogli, madri e casalinghe, nessuna lavorava, dedite alla loro famiglia. Ma attorno al tavolo da gioco provavano un brivido di realizzazione, riuscendo a confessarsi liberamente, ad esprimere il loro malessere, la loro frustrazione, sentimenti taciuti per preservare l’unità della famiglia, le convezioni sociali.
Tuttavia la loro speranza, la loro allegria, la loro leggerezza perversava sempre. A evidenziarlo è anche la fotografia, che nella prima parte del film, dedicata alle madri, è un trionfo di colori, come nei film anni Sessanta, colori pastello dai toni pop. Trent’anni dopo le tonalità che imperversano sono il bianco e il nero, non siamo più, come nella prima parte, a inizio estate, ma in autunno inoltrato. I loro sentimenti, di figlie, sono più dolorosi, il rapporto con le loro madri le ha influenzate inevitabilmente nelle scelte di vita. Sono meno intimidite dalle convenzioni sociali, lavorano, sono realizzate, ma intimamente le loro paure restano irrisolte, i loro desideri e le loro ansie, soprattutto riguardo la maternità, sono gli stessi che in modo diverso provavano le loro madri. Non se ne esce! Monteleone ha reclutato nel cast le attrici che già sul palcoscenico avevano dato volto e voce al testo della Comencini: Isabella Ferrari, Marina Massironi, Margherita Buy, Valeria Melillo. Il regista ha fatto un cambio di ruolo, dove nell’opera teatrale le quattro donne impersonavano anche le rispettive figlie, trent’anni dopo, per la trasposizione cinematografica, L’interpretazione di queste meravigliose attrici dona al film una verve concreta, spiritosa e profonda. La dolcezza malinconica di Beatrice (Ferrari), l’ostentata sicurezza di Claudia (Massironi), la determinazione ribelle di Sofia (Cortellesi), la frustrazione sopita di Gabriella (Buy) sono rese magistralmente e intensamente, come anche la fragilità di Giulia (Rohrwacher), l’egoismo di Sara (Crescentini), l’ansia nevrotica di Cecilia (Melillo), il nervosismo e disagio di Rossana (Pandolfi) sono lo specchio dei tempi che narrano. Monteleone ha rivelato che “il testo all’80% è rimasto quello teatrale, passando dal teatro al cinema abbiamo dovuto rendere i dialoghi e le battute più quotidiane e familiari. Il mio compito è stato pertanto quello di snellire i passaggi e di muovere la scena.” Il risultato è una pellicola più che gradevole, armoniosa, sincera e fluida.
C’è un catena, un cordone ombelicale che non si spezza; motivo per cui Due Partite è più comprensibile da una sensibilità femminile, perchè una donna sa cosa vuol essere madre e figlia, ne apprende il legame di amore e rabbia, necessità ed egoismo. Non se ne esce!
Ilaria Falcone
http://www.nonsolocinema.com/DUE-PARTITE-DI-ENZO-MONTELEONE_15343.html


Due atti, due blocchi drammaturgici che congelano il film alla claustrofobia del teatro filmato.
Monteleone ostinatamente "gira" intorno alle quattro attrici  con una macchina da presa che cerca di creare movimento all'interno del set, ma finisce - soprattutto nella prima parte, quella più faticosa e costruita - con il fotografare la soggezione del mezzo cinematografico nei confronti del testo. Alla base c'è un testo teatrale di grande successo, vincitore del premio Gassman quale miglior commedia della stagione 2006/2007, scritto da Cristina Comencini, qui in veste anche di sceneggiatrice. Fatta questa premessa la regia di Enzo Monteleone per l'adattamento cinematografico di questo Due partite poteva suggerirci una capacità interpretativa ingegnosa e in grado di regalarci un denso affresco crepuscolare sul ruolo della donna nell'arco di un trentennio. Storia di una generazione di madri/mogli che vogliono tornare a essere figlie e di figlie che vogliono diventare madri/mogli, Due partite di Monteleone/Comencini inizia in un pomeriggio del 1966 in cui
quattro donne di famiglia (Buy, Cortellesi, Massironi, Ferrari) si riuniscono per giocare a carte e confidarsi i loro disagi amorosi e famigliari e finisce trent'anni dopo nella stessa casa con l'incontro tra le rispettive figlie (Crescentini, Pandolfi, Milillo, Rohrwacher) in occasione della morte di una delle madri. Due atti, due blocchi drammaturgici che congelano il film alla claustrofobia del teatro filmato. Monteleone ostinatamente "gira" intorno alle quattro attrici  con una macchina da presa che cerca di creare movimento all'interno del set, carrellate circolari che anzichè scomporre l'unità di luogo o creare cinematograficamente il corrispettivo di una prigione mentale delle protagoniste finisce - soprattutto nella prima parte, quella più faticosa e costruita
- con il fotografare la soggezione del mezzo cinematografico nei confronti del testo.
Per questo i momenti migliori, quelli in cui il film di Monteleone riesce a prendere vita, sono quelli "di passaggio", di transizione tra le due epoche rappresentate. Una comunicazione a distanza generazionale che attraverso lo spazio vuoto della casa, l'ellissi temporale tra le due sezioni narrative, l'accavallamento finale di volti e voci tra madri e figlie riesce a suggerire un flusso emotivo potenziale che travalica la scrittura e certe impostazioni recitative. Frammenti che anzichè illuminare, fanno rimpiangere il film che non è stato.
http://www.sentieriselvaggi.it/5/31125/Due_partite,__di_Enzo_Monteleone.htm

martes, 28 de febrero de 2012

Un dollaro bucato - Giorgio Ferroni (1965)


TÍTULO ORIGINAL Un dollaro bucato
AÑO 1965
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 98 min.
DIRECTOR Giorgio Ferroni
GUIÓN Giorgio Ferroni, Giorgio Stegani
MÚSICA Gianni Ferrio 
FOTOGRAFÍA Antonio Secchi
REPARTO Giuliano Gemma, Ida Galli, Pierre Cressoy, Giuseppe Addobbati, Franco Fantasia, Tullio Altamura, Massimo Righi, Andrea Scotti, Nazzareno Zamperla, Benito Stefanelli, Franco Lantieri, Gino Marturano, Nello Pazzafini, Bernard Farber, Luigi Tosi, Alfredo Rizzo
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Adriatica Film / Dorica Film / Explorer Film '58 / Fono Roma / Franco Roma / Les Films Corona
GÉNERO Western. Acción. Romance | Spaghetti Western

SINOPSIS Gary O'Hara es un pistolero que ha luchado valientemente en la Guerra de Secesión del lado de los confederados. Al regresar a casa en Yellowstone, su meta es mejorar la vida de su familia. Pero el asesinato de su hermano le hace desenfundar de nuevo el arma... (FILMAFFINITY)



TRAMA
Phil e Gary sono due fratelli che, al termine della guerra di secessione, abbandonano il paese di origine per cercare fortuna altrove. A Yellowstone, Gary viene ingaggiato da MacCory, un uomo senza scrupoli che si serve di lui per uccidere uno straniero che interferiva nei suoi loschi affari. Ma al momento di ucciderlo, Gary riconosce nell'uomo suo fratello Phil. Ormai però è troppo tardi e lo stesso Gary viene fatto fuori dagli uomini di MacCory. Gary però non è morto, perché la pallottola si è fermata contro un dollaro che portava come ricordo nel taschino del panciotto. Ripresosi, egli torna a Yellowstone per vendicare il torto subìto. Qui però trova nuove difficoltà perché la moglie Judy è caduta nelle mani di MacCory e lo stesso sceriffo, al quale si è rivolto per aiuto, appartiene alla banda dei fuorilegge. Ciò nonostante, il valoroso ragazzo riesce a sgominare la banda, acquistandosi la riconoscenza degli abitanti del paese e la possibilità di una nuova vita con Judy.
CRITICA
"Il film, nonostante segua gli abusati canoni dei più noti western, dimostra un mestiere maturo specie per quanto riguarda la strutturazione dell'avventurosa vicenda e la densità ritmica di ogni singola sequenza. L'ambientazione e le caratterizzazioni sono di maniera." ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 58, 1965)
http://cinema.ilsole24ore.com/film/un-dollaro-bucato/


...
Dopo l'enorme esplosione del cinema western italiano grazie ai film di Sergio Leone, altri registi italiani si cimentano nel genere, portando una enorme espansione del genere spaghetti-western nel mercato dagli anni sessanta ai settanta. Eccellente la soundtrack di Gianni Ferrio, che compone un main-theme di grandissimo impatto, con tanto di canzone "A Man...a Story" cantata da Fred Bongusto, che nella versione in Italiano, con il titolo "Se tu non fossi bella come sei", raggiunse all'epoca il vertice delle classifiche musicali.
Giorgio Ferroni crea un duello finale originale per il suo primo film: si svolge di notte tra Giuliano Gemma e Pierre Cressoy, il quale, a causa dell'oscurità, non è consapevole di sparare con una pistola con la canna mozzata di netto e quindi estremamente imprecisa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Un_dollaro_bucato

lunes, 27 de febrero de 2012

La fisica dell'acqua - Felice Farina (2009)


TITULO ORIGINAL La fisica dell’acqua
AÑO 2009
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 76 min.
DIRECCION Felice Farina
GUION Mauro Casiraghi, Felice Farina, Eleonora Fiorini
REPARTO Claudio Amendola, Paola Cortellesi, Stefano Dionisi, Lorenzo Vavassori, Francesca Brizzolara, Lorenzo Pavanello, Fabio Ferrari, Anita Zagaria, Samuele Longhi
FOTOGRAFIA Pietro Sciortino
MONTAJE Esmeralda Calabria
MUSICA Franco Piersanti
PRODUCCION Ninafilm, Rossellini Film & TV
GENERO Drama / Misterio

SINOPSIS Ale ha 7 anni e ha perso il padre quando cominciava a muovere i primi passi. Dopo molti anni e in modo improvviso nella vita del bambino riappare Claudio, lo zio, un uomo inafferrabile, testardo e deciso a vendere la villetta sul lago dove il piccolo vive con la mamma. Visioni surreali tormentano Ale che prova un rancore incomprensibile e violento nei confronti dell'uomo. Una sera il piccolo, preso dalla follia, opera maldestramente sui freni dell'auto di Claudio su cui a sorpresa all'indomani sale anche la mamma. Ale si lancia in un disperato inseguimento, invano. L'auto non risponde ai comandi, i due hanno un incidente. Il Commissario di polizia si prende cura del piccolo per cercare la verità e aiutarlo a districarsi nel buio dei ricordi. (Comingsoon)


Impossibile avvicinarsi a La fisica dell’acqua senza parlare della sua genesi a dir poco laboriosa: girato nel 2004 è poi rimasto in un cassetto a causa del fallimento della società di produzione. Letteralmente scongelato da pochi mesi è nei cinema distribuito dalla nuova arrivata Iris Film.
Si tratta di un film che fin dal titolo ci chiarisce come voglia lavorare su fin troppo sbandierati simbolismi fra l’acqua, con il suo scorrere infinito, ma mai uguale a se stesso e il passato dei protagonisti che non dà loro pace. Riuscirà la verità a riemergere dal turbinio apparentemente placido delle acque? La prima sequenza del film ci conduce in una villa su un lago, nel mezzo di una situazione apparentemente serena di vita quotidiana: un uomo (Claudio Amendola) sta per uscire di casa in macchina, viene fermato da una donna (Paola Cortellesi), immaginiamo la sua compagna, che decide all’ultimo momento di andare via con lui. Accortosi di ciò il figlio di 6 anni inizia una corsa disperata per fermare la madre. Non ci riuscirà e la macchina avrà un incidente. Scopriremo infatti che aveva i freni manomessi. Colpevole il bambino, evidentemente già in possesso di insospettabili abilità da meccanico. Dopo questa premessa il film racconta in parallelo di un poliziotto improbabile (Stefano Dionisi) che interroga il bambino e le vicende legate alla morte del padre anni prima, quando era molto piccolo. Il nuovo compagno della madre è nientemeno che il cognato tornato dopo essere andato per anni in Australia in seguito alla morte per annegamento del fratello.
Il film dimostra la passione e l’attenzione formale e tecnica del suo regista, Felice Farina, che crea un mondo piuttosto affascinante, anche grazie alla location sul Lago Maggiore, un thriller psicologico quando non psicanalitico che potrebbe ricordare alcuni film francesi, magari di Claude Chabrol. Ma il problema è nello sviluppo narrativo che non decolla mai, nei dialoghi poco credibili, che non facilitano il lavoro degli attori poco a loro agio nei rispettivi personaggi, su tutti, in negativo, un poco credibile Stefano Dionisi. La sensazione è quella di un’idea interessante, impreziosita da atmosfere poco usuali nel nostro cinema, ma anche di un’occasione mancata.
Mauro Donzelli
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Recensioni/Page/?Key=1734
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Un thriller psicologico di grande qualità. Un film avvincente, il cui ritmo si orchestra sulle maglie di una trama fitta e trascinante. Farina ci introduce in modo abile nell’inconscio di un bambino con l’ausilio di un cast che incarna in modo impeccabile la bellezza e l’indecenza umana.
Alessandro (Lorenzo Vavassori) ha otto anni e nel profondo del suo inconscio nasconde una verità, nascosta dalle bugie degli adulti. Una verità dolorosa legata alla morte del padre, avvenuta quando il bambino aveva solo un anno e che lentamente comincia a riaffiorare sotto forma però di incubi terribili. Un giorno nella tranquilla vita di Alessandro e sua madre (Paola Cortellesi), insegnante di nuoto irrompe lo zio Claudio (Claudio Amendola) fratello del padre morto. Alessandro vive questa presenza come una vera e propria intrusione e comincia a sviluppare per lo zio, un po’ troppo affettuoso con la madre, un vero e proprio odio che si manifesta in dispetti sempre più pericolosi fino a sfociare in vero e proprio tentativo di omicidio. Sarà proprio questo tragico evento e le sue conseguenze che faranno emergere in modo definitivo la verità celata.
A dirigere questo ‘thriller psicologico’ è Felice Farina che dopo alcune commedie classiche come Sembra morto…ma è solo svenuto con Castellitto, Sposi film a episodi con Haber e la Piccolo, ha recentemente fondato una casa di produzione indipendente la NinaFilm con cui realizza documentari per la Rai, cosa che gli consente di continuare la sua sperimentazione dell’universo digitale. Proprio nella Fisica dell’acqua l’uso del digitale, la scelta di angolazioni di ripresa inconsuete e il ricorso ad effetti speciali creano una forte empatia con il profondo disagio vissuto dal piccolo protagonista, in relazione al quale Farina afferma: “Lorenzo regge su di sé tutte le dinamiche psicologiche intorno alle quali ruota il film. É stato straordinario, a soli sette anni”. Un film in cui la dinamica tra adulti e bambini è centrale, così come fondamentale è il tema della negazione della verità che si attua nella società: “La sottrazione sistematica della verità che caratterizza il mondo in cui viviamo comincia proprio tra le mura domestiche, quando siamo piccoli”, sostiene il regista. ”E la cosa più grave è che il sottrarre la verità ai bambini è un gesto totalmente inconsapevole, quasi scontato, che nemmeno ci rendiamo conto di mettere in atto. Con questo film ho deciso di lanciare una forte provocazione, mettendo lo spettatore di fronte ad un problema che si coltiva dall’infanzia, nell’educazione di ciascuno”. Accanto a Lorenzo Vavassori, nel ruolo della madre in equilibrio precario tra la menzogna e il bisogno di proteggere il figlio, Paola Cortellesi, Claudio Amendola oggetto dell’odio di Alessandro e Stefano Dionisi fantastica figura del commissario-padre che lo aiuta a recuperare la memoria del passato.
http://www.primissima.it/film/scheda/la_fisica_dellacqua/


La verità di un bambino, contenuta ne "La Fisica dell'acqua". Felice Farina (che ha co-sceneggiato e diretto) ambienta il suo giallo della memoria giustappunto sulle rive di un lago, luogo archetipicamente associato ad una dimensione stagnante e misteriosa. Il piccolo protagonista - che ha impiegato "1 anno per camminare, 3 per mangiare da solo, 5 per scrivere" - si porta dietro un problema con il vicino elemento liquido (che "contiene i ricordi" e, negli intermezzi onirici, emblematicamente riflette fantasmi e inonda la casa), in quanto è idrofobo e non sa stare a galla, nonostante la mamma insegni nuoto sincronizzato; inoltre, dopo la morte accidentale del padre avvenuta anni prima e l'improvviso ritorno dello zio, sviluppa gelosia verso di lui, che si intromette nel rapporto esclusivo madre-figlio. Non deve essere però solo questo il motivo, dato che il ragazzino comincia ad avere allucinazioni, scappa più di una volta, brucia i vestiti del parente già sistemati nell'armadio in cantina e in ultimo gli sabota i freni sia della motocicletta che dell'automobile ("non lo so, ma mi sembra giusto").
Con un difficile e lungo percorso realizzativo dovuto al fallimento della società di produzione, il fim elabora l'idea migliore nei colloqui con il commissario impegnato nelle indagini sull'incidente stradale, che sono anche una ricostruzione psicologica e alla fine risulteranno rivelatori. Ma Paola Cortellesi è l'unica attrice/adulta a sostenere l'opera e la storia soffre di una forzatura cognitiva di fondo, in quanto nell'episodio cruciale e traumatico del passato il bimbo ancora non sapeva parlare ("è successo che mi sono ricordato", rivela ad un certo punto), mentre il respiro cinematografico (il regista è stato anche autore, per la RAI, di film-TV e fiction) annaspa anch'esso nei flutti.
La frase: "Gli animali fanno qualsiasi cosa per sopravvivere, non sanno cos'è il bene e cos'è il male".
Federico Raponi
http://filmup.leonardo.it/lafisicadellacqua.htm

domingo, 26 de febrero de 2012

Sbatti il mostro in prima pagina - Marco Bellocchio (1972)


TÍTULO ORIGINAL Sbatti il mostro in prima pagina
AÑO 1972
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 88 min.
DIRECTOR Marco Bellocchio
GUIÓN Sergio Donati, Goffredo Fofi
MÚSICA Ennio Morricone, Nicola Piovani
FOTOGRAFÍA Luigi Kuveiller, Erico Menczer
REPARTO Gian Maria Volontè, Fabio Garriba, Carla Tatò, Jacques Herlin, John Steiner, Michel Bardinet, Jean Rougeul, Corrado Solari, Laura Betti, Enrico DiMarco, Silvia Kramar, Massimo Patrone
PRODUCTORA Jupiter Generale Cinematografica / UTI Produzioni Associate / Labrador Films
GÉNERO Drama

SINOPSIS 1972, Milán. Estamos a pocos días de las elecciones generales. La hija de un conocido profesor es encontrada muerta. El señor Bizanti, editor jefe de "Il Giornale", de acuerdo con el propietario Montelli, deciden encargar el seguimiento de la noticia el novato Roveda y al veterano Lauri. (FILMAFFINITY)


TRAMA
In un periodo politicamente caldo, l'8 marzo 1972, alla vigilia delle elezioni e quando la sede de "Il Giornale" ha subito un'aggressione da parte di gruppuscoli di sinistra, la quindicenne Maria Grazia, figlia del noto professor Italo Martini, viene trovata violentata e strozzata in un prato nella periferia di Milano. Il redattore-capo Bizanti, sentito il parere dell'ingegner Montelli, finanziatore de "Il Giornale", incarica di seguire il caso Roveda, un giornalista principiante, affiancandolo allo smaliziato e senza scrupoli Lauri. Dal canto suo Bizanti avvia indagini private: avvicina la professoressa Rita Zigai, amante di Mario Boni (della sinistra extraparlamentare) e in possesso del diario della defunta. Manipolando le notizie ottenute, Bizanti e Lauri presentano, per mezzo di Roveda, un colpevole alla polizia, alla magistratura e all'opinione pubblica. Mario Boni viene difeso inutilmente dai compagni di cellula. Solo Roveda, che nutre dubbi, avvicina il bidello della scuola di Maria Grazia scoprendo con orrore la mistificazione e l'autentico assassino. Il redattore-capo anziché denunciare l'assassino, licenzia Roveda, tenendo pronta la notizia per sfruttarla secondo l'esito delle elezioni, sempre d'accordo con Montelli.

CRITICA
"Questo film, che Bellocchio ha ereditato da un altro regista, fa pensare ad un affresco soltanto in piccola parte dipinto e per il resto appena abbozzato (...). Gian Maria Volonté, nella parte improbabile del direttore del giornale riesce tuttavia a creare un personaggio molto vivo, insieme corrotto e conscio della propria corruzione." (Alberto Moravia, "L'Espresso", 12 novembre 1972)
"La manipolazione della notizia da parte della grande stampa d'informazione è stigmatizzata quale offesa grave alla verità e al diritto dei cittadini all'autenticità dell'informazione. Situando però i responsabili di tale ignominia in un preciso contesto socio-politico, il film mira anche a dimostrare che il malcostume giornalistico ha una sola paternità. Un pronunciamento del genere, proprio in forza della sua erezione a principio di condanna, si infrange equivocamente contro il tema base avverso alla manipolazione delle notizie, poiché diviene a sua volta una comunicazione al pubblico di realtà etiche sì obiettive, ma distorte per intenti di parte." ("Segnalazioni cinematografiche", vol. 75, 1973)
"Cupo melodramma social-politico del fantasioso Marco Bellocchio che costruisce un'assurda, ma senza dubbio avvincente, storiaccia tra cronaca nera e poliziesco. I padroni, ecco i veri mostri, è la rabbiosa morale, Un'avvertenza, il film è del 1972, 'il Giornale', quello vero, è nato nel '74. Stavolta la sarcastica dicitura finale (ogni riferimento è puramente causale) non mente". (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 24 febbraio 2003).
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=11377&film=Sbatti-il-mostro-in-prima-pagina
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Il primo Fellini non è ancora “felliniano”, Una storia vera di Lynch non è “lynchano”. Allo stesso modo, il fatto che sotto la voce “regia” figuri Marco Bellocchio non implica necessariamente che Sbatti il mostro in prima pagina sia un film “bellocchiano”, al contrario. Come per il di poco successivo Matti da slegare, sarebbe sbagliato e fuorviante ricercare elementi autoriali in una pellicola nata da un'urgenza comunicativa più che artistica. Un'opera impossibile da apprezzare se prescindiamo dal contesto storico, politico, sociale.
Siamo nel 1972, a Milano, nel pieno degli anni di piombo, poco prima delle elezioni. Come dice Volonté, in una scena del film, “siamo in guerra”. Come tristemente noto, è proprio in clima pre-elettorale che gli organi informativi danno il peggio di sé, manipolando le notizie a proprio uso, al punto - come in questo caso - da inventarsi il colpevole di un reato (il mostro del titolo). In seguito allo stupro e all'uccisione di una liceale quattordicenne, il redattore capo de Il Giornale, quotidiano palesemente schierato su posizioni conservatrici, decide di prendere parte attiva alle indagini, incriminando pubblicamente e in assenza di prove un militante del PCI. Inevitabile il paragone, non foss'altro che per l'interpretazione magistralmente perfida di Gian Maria Volonté (qui in veste di redattore capo), con il coevo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Come nel capolavoro di Elio Petri, anche qui il sopruso è spinto fino al paradosso: lì un capo della Sezione Omicidi che non riesce a pagare per le sue colpe neanche confessandole a piena voce, qui un cinico redattore capo che persegue la sua feroce campagna contro “il capellone” (reso paradigmatico) anche in seguito alla confessione del reale assassino della ragazza. Portare gli eventi fino al paradosso (etimologicamente para doxa = contro l'opinione comune), sembra essere il minimo comun denominatore delle due pellicole, entrambe legate a un preciso hic et nunc, entrambe partorite all'interno di una società che di paradossi si nutre. Sbatti il mostro in prima pagina è un film scritto un giorno e girato il giorno dopo, un atto politico prima che artistico. Lo stesso Bellocchio lo disconoscerà, e non per questioni di merito, ma in quanto lavoro collettivo di una troupe assolutamente incurante delle velleità artistiche dei singoli membri. Plurale d'obbligo, perché oltre a Bellocchio qui abbiamo la crème de la crème del cinema italiano dell'epoca: Ennio Morricone, Ruggero Mastroianni, Sergio Donati, Goffredo Fofi, oltre ovviamente a Gian Maria Volonté, in una delle sue interpretazioni migliori, affiancato dall'ottima Laura Betti. Ed è proprio questo eclissarsi degli autori (in questo senso è da intendersi il disconoscimento postumo del regista) la cifra stilistica del film, la sua grandezza, la sua sincerità. Un film “di pancia”, per criticare il quale non è possibile affidarsi ai principi teorici della politique des auteurs. Al contrario, è necessario sviluppare un'analisi affrontando intenti polemici e risultati effettivi. A conti fatti, altro paradosso, questa pellicola passa alla storia come una delle migliori di Bellocchio, proprio perché scevra di certe elucubrazioni intellettuali che spesso, nella filmografia del regista piacentino, risultano appesantire il risultato (qui gli unici “vezzi” che il regista sembra concedersi sono il montaggio iniziale di filmati di repertorio ed il metaforico fiume finale che spazza via i detriti).
La critica diretta va a Il Giornale (da non confondersi con Il Giornale reale, che sarà fondato due anni dopo, anche se in questo caso confondersi è cosa buona e giusta) ed al suo partito di riferimento. Si tratta ovviamente della Democrazia Cristiana, verso la quale mancano riferimenti espliciti, ma certo non inequivocabili allusioni, come il funerale finale o l'equiparazione costante di fascismo e comunismo. Dall'altro lato, però, i comunisti non sono certo coccolati: atti incendiari, alibi costruiti a tavolino, possesso di armi, sono tutti elementi tutt'altro che rimossi. Il centro d'interesse, tuttavia, resta l'ingigantimento e la distorsione che certa carta stampata opera su tali elementi (vedi il caso delle due pistole, che nel titolo de Il Giornale diventano “un arsenale”): è su questo che gli autori (al plurale) intendono discutere, puntando il dito (medio) su certe testate editoriali e (indice) su certi meccanismi di demistificazione dei fatti. Geniale, a tal proposito, la scena in cui Volonté insegna al giovane collaboratore Roveda a sostituire “disoccupato” con “immigrato” e “licenziato” con “rimasto senza lavoro”.
È forse proprio in virtù della sua immanenza storica che questo film risulta attualissimo anche ora, in un paese al cinquantaduesimo posto nella classifica mondiale della libertà di informazione e in cui proprio Il Giornale (quello vero) si è recentemente rivelato quale uno degli organi informativi più influenti, spudorati e ricattatori. D'altronde il Volonté del film sembra avere molti punti in comune con il Vittorio Feltri di ora: arrogante ma con un certo aplomb, retoricamente inattaccabile e politicamente servile al punto da andare oltre le volontà esplicite del partito di riferimento (oggi il Pdl).
Spontaneo chiedersi se un film simile, oggi, sarebbe realizzabile, e amara la risposta: no. Perché gli anni settanta erano anni più politicizzati e, per quanto riguarda la settima arte, più permeabili a idee formalmente e contenutisticamente sovversive. Perché è cambiato il sistema di distribuzione delle pellicole. Perché, in un mondo sempre più individualista, quasi nessun regista emergente è disposto a mettere a repentaglio la propria carriera con un film simile. Perché le due principali case produttrici italiane fanno capo, in diversa misura, alla solita persona (inizia con la B...). Certo, di recente Moretti ha fatto uscire Il Caimano, ma si tratta appunto di un regista formatosi negli anni settanta, tutt'altro che emergente e fieramente autoprodotto. Il suo film fotografa la realtà cinematografica italiana contemporanea meglio di qualsiasi frase.
Raffaele Pavoni
https://sites.google.com/site/metacinema/articoli-critici/sbatti-il-mostro-in-prima-pagina


Milano, 1972: a seguito di un delitto a sfondo sessuale di cui è vittima una studentessa, il caporedattore di un quotidiano di destra monta una violenta campagna di stampa contro un militante comunista che aveva una relazione con la ragazza, accusandolo di essere l’assassino.
Quarto film di Marco Bellocchio, perfettamente inserito nel filone del dramma politico che all’inizio degli anni ’70 ottenne successo e onori in Italia e all’estero, grazie al suo approccio diretto (fino a risultare sgradevole) nell’affrontare la società contemporanea, con uno stile registico incalzante e appassionato anche dal punto di vista audio-visivo. Agli occhi di uno spettatore di fine 2011, “Sbatti il mostro in prima pagina” risulta in un certo senso familiare, e non solo per il nome della testata qui protagonista (“il Giornale” – un quotidiano milanese di area borghese ma piuttosto tendente a destra che, è bene precisarlo, fu fondato da Indro Montanelli solo nel 1974, dunque due anni dopo questo film), ma anche per l’atmosfera mefitica e amorale che regna sovrana dall’inizio alla fine, mettendo in scena, con i toni paranoidi tipici dell’epoca, la finzione del Potere a tutti i livelli. Se le forze dell’ordine reprimono e arrestano degli innocenti e se la magistratura si fa influenzare dall’opinione pubblica; se l’informazione infine non informa ma distorce, vellicando gli umori più bassi dei propri lettori di cui non ha alcuna stima, cosa rimane? Il punto di vista di Bellocchio, di cui sono storicamente ben note le simpatie radicali, è equidistante e non risparmia ironie né critiche agli ambienti della sinistra extra-parlamentare; ogni tanto eccede nella retorica ma ha la giusta aggressività e il tempismo di affrontare prima di altri un tema ancora di stringente attualità. Straordinario Volonté che affina ulteriormente il già complesso personaggio del caporedattore Bizanti (“Quando inizierai a capire la differenza tra quello che si pensa e quello che si dice?”). Nel prologo quasi documentaristico sul clima degli Anni di Piombo, spicca il veemente comizio di un giovane e barbutissimo Ignazio La Russa, ripreso durante una manifestazione di Maggioranza Silenziosa (un comitato anti-comunista che raggruppava liberali, monarchici, democristiani e fascisti).
http://cinemascope85.wordpress.com/2011/12/

sábado, 25 de febrero de 2012

Mare Matto - Renato Castellani (1963)


TÍTULO ORIGINAL Mare matto
AÑO 1963
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados) 
DURACIÓN 119 min. 
DIRECTOR Renato Castellani
GUIÓN Leonardo Benvenuti, Renato Castellani, Piero De Bernardi
MÚSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Antonio Secchi
REPARTO Gina Lollobrigida, Jean-Paul Belmondo, Tomas Milian, Odoardo Spadaro, Noël Roquevert
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Lux Film / Vides Cinematografica / Les Films Ariane
GÉNERO Comedia
 
SINOPSIS Ahonda en las relaciones personales de un grupo de marineros. Entre ellos está Efisio, que con la misión de transportar un cargamento de vino, se embarca en el barco de su amante Margtherita. Les acompaña un viejo lobo de mar llamado Drudo, que con su actitud provocará el caos durante una tormenta. (FILMAFFINITY)


Trama 
E' un quadro della vita della gente di mare, umile e coraggiosa, ed anche allegra e scanzonata. Il marinaio Efisio sbarca a Genova senza lavoro nè denaro e si rivolge a Margherita, proprietaria di una pensioncina. Presso di lei giunge pure un capitano livornese, un tipo brutale e simpatico, che presto ne diviene l'amante, soprattutto quando scopre che Margherita possiede molto denaro, anche se la rimprovera di speculare sui suoi pensionanti. Il livornese si imbarca su un peschereccio di proprietà della donna, e conduce con sè Drudo Parenti, un vecchio lupo di mare conosciuto a Livorno, il quale, rifiutando di andare in pensione, continua a mettersi in ogni tipo di guai, con grande inquietudine dei figli. Giunti a Messina, mentre un marinaio siciliano si trova alle prese coi fastidi creatigli dalle sorelle e dai rispettivi fidanzati, il Capitano del battello e il secondo vengono arrestati. Il livornese e il Parenti prendono in mano la situazione per portare a destinazione una partita di vino, ma durante una tempesta Parenti decide di buttare tutto il carico a mare. Il tribunale di Genova condanna il vecchio Drudo al risarcimento dei danni. Sarà l'occasione, per i suoi figli, per farlo ricoverare in una casa di riposo.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=20165&film=MARE-MATTO
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È dura la vita dei marinai. Spesso soli, in balìa della forza della natura. Delle acque gelide e agitate, uniche compagne dei lunghi viaggi. Un gruppo di uomini di mare si ritrova a Genova. Nell'accogliente pensione di Margherita. Per le ultime ore di baldoria e compagnia sulla terra ferma. Il prossimo viaggio li porterà nella calda terra di Sicilia, dove devono consegnare una partita di vino. Ma il viaggio non comincia nel migliore dei modi. A metà percorso il capitano viene infatti arrestato. Mentre i suoi uomini proseguono il viaggio. E vengono sorpresi da una tempesta. Per cercare di salvarsi, buttano in mare il prezioso carico...
Il film, diretto da Renato Castellani, prevedeva inizialmente quattordici episodi, drasticamente tagliati dal produttore.
Protagonista, un tenebroso Jean-Paul Belmondo al suo venticinquesimo ciak. Il suo debutto cinematografico risale al 1957 in A pied, a cheval et en voiture.
http://www.archivio.raiuno.rai.it/schede/9015/901500.htm


Renato Castellani (Varigotti, 4 settembre 1913 – Roma, 28 dicembre 1985) è stato un regista e sceneggiatore italiano, tra i più significativi del cinema del neorealismo.
Nato a Varigotti, frazione di Finale Ligure, dove la madre era rientrata dall'Argentina per far nascere il figlio in Italia, trascorse l'infanzia in Argentina a Rosario di Santa Fe. Dopo 12 anni, ritorna in Liguria e riprende gli studi a Genova. Si trasferisce a Milano, dove si laurea al Politecnico in Architettura e, quindi, a Roma.
Inizia a collaborare nel 1936 come "consulente militare" per Il grande appello, un film di Mario Camerini. Scrive critiche cinematografiche e lavora - come sceneggiatore o aiuto regista - con nomi importanti del cinema italiano del tempo, quali Augusto Genina, Mario Soldati, Alessandro Blasetti.
La sua prima regia è del 1941, Un colpo di pistola, tratto da un racconto di Aleksandr Puskin, alla sceneggiatura del quale partecipa anche Alberto Moravia, con Fosco Giachetti e Assia Noris, elegante storia che si iscrive nel filone "calligrafico", come pure il successivo Zazà (1944).
Con la trilogia costituita da Sotto il sole di Roma (1948), È primavera (1949) e Due soldi di speranza (1952), tutti girati in esterno e con attori non professionisti o esordienti, dette vita ad un nuovo genere, definito neorealismo rosa, malvisto dalla critica, ma destinato ad un vasto successo di pubblico.
Con Due soldi di speranza vinse il Grand Prix Ex aequo al Festival di Cannes nel 1952.
Con Giulietta e Romeo vinse il Leone d'Oro al Festival di Venezia nel 1954.
Dopo qualche altro film significativo come I sogni nel cassetto (1957) e Il brigante (1961), Castellani si dedicò soprattutto a biografie televisive a puntate, di largo seguito: Vita di Leonardo (1971) e Verdi (1982).
http://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Castellani

viernes, 24 de febrero de 2012

EXTRA: TV > Francesca e Nunziata - Lina Wertmüller (2001)


TÍTULO ORIGINAL Francesca e Nunziata
AÑO 2001
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados) 
DURACIÓN 125 min. 
DIRECTOR Lina Wertmüller
GUIÓN Lina Wertmüller, Elvio Porta (Novela: Maria Orsini Natale)
MÚSICA Italo Greco, Lucio Gregoretti
FOTOGRAFÍA Alfio Contini
REPARTO Sophia Loren, Giancarlo Giannini, Claudia Gerini, Raoul Bova, Carmen Femiano, Domenico Orsini, Vanessa Sabet, Moira Grassi, Luciano De Crescenzo, Armando Pugliese, Massimo Wertmüller, Paolo De Giorgio
PRODUCTORA Solaris Cinematografica / MediaTrade
GÉNERO Drama | Drama de época
 
SINOPSIS Francesca, la dueña de una fábrica de tallarines, está casada con el Príncipe Giordano Montorsi. A pesar de tener ya nueve hijos, adopta a Nunziata, una niña huérfana, para cumplir la promesa que hizo cuando una de sus hijas sobrevivió a una grave enfermedad. Nunziata será la única que se interese por el negocio familiar y terminará siendo el brazo derecho de Francesca en asuntos reconómicos; pero, cuando Federico, el hijo mayor, vuelva a casa, una vez terminados sus estudios en Londres, ambos se enamorarán y comenzarán una relación secreta. Ciertos problemas económicos y un embarazo inesperado harán que surja entre madre e hija adoptiva una gran rivalidad que pondrá en en peligro la familia y los negocios. (FILMAFFINITY)


Los hijos que nos da la vida
Francesca es el eje y motor de su familia. Lleva los negocios y maneja la vida de sus hijos, su marido y está rodeada de criados y empleados. Se ha casado con un noble y ha aportado a su familia no sólo el capital acumulado en dos generaciones de productores de pasta, sino una admirable habilidad en los negocios. Su esposo es el noble príncipe Montorsi (Giancarlo Giannini), encargado de hacer vida social, embriagarse y jugar con sus amigos. El drama inicia con la adopción de Nunziata, una niña del orfanato local que ha ganado el privilegio gracias a su belleza y a un voto hecho por Francesca con motivo de la enfermedad de una de sus hijas.
Desde su infancia es Nunziata la única de los hijos interesada en el desarrollo de la fábrica, las compras, la vida productiva.
Pasa el tiempo y Nunziata es una hermosa jovencita.
El amor entre los hermanos coincide con una crisis de pareja en el matrimonio Montorsi y con la crisis económica desencadenada por la irrupción del Príncipe Montorsi en los negocios.
La conservación del amor del marido, las conveniencias sociales, la salvaguarda del honor familiar llevarán a Francesca a tomar una serie de decisiones en contra de aquellos a quienes ama y a Nunziata y a Federico a renunciar a su amor en pos de mantener la unidad familiar.
Hermosa ambientación de la Italia de comienzos de siglo, fotografía con trozos magníficos en la fábrica de pasta, perfectas actuaciones de actores consagrados como la Loren, hacen de ésta una deliciosa pieza que vale la pena degustar, como a un buen plato de macarrones.
chemivar
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/403818.html
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Cuando conocimos la obra de Lina Wertmüller, en los años '70, sus películas abordaban temas que en aquel momento sonaban virulentos, provocadores. Mimì metalúrgico, Amor y anarquía, Pasqualino siete bellezas, Insólito destino -todas ellas protagonizadas por Giancarlo Giannini- constituían farsas o comedias negras en las que la directora italiana denunciaba la hipocresía de la sociedad italiana, los abusos del fascismo y de todo régimen represivo, las prebendas del patriarcado, la cuestión del honor masculino. Por otro lado, desplegaba una mirada de simpatía hacia toda forma de erotismo y liberación sexual, y también hacia la prostitución, dando un buen lugar a la fantasía, sin cuidarse de plasmar ninguna forma de moral políticamente correcta.
En épocas de represión y dolor, sus películas representaban un ámbito contestatario, por lo libres y desfachatadas, hasta revulsivas. Treinta años después, todo ha cambiado: el tiempo trajo cambios inexorables en las costumbres, liberándolas de ataduras y represiones, pero el cine de Wertmüller avanzó en sentido contrario. Su última película, realizada para la televisión, ha perdido aquella frescura de la rebeldía, si bien alcanza un nivel de serena madurez.
Francesca e Nunziata, tal su título original, cuenta la historia de dos mujeres que representan dos fases en la historia del siglo XX. Francesca (Sofia Loren, gloriosa e inmortal) es la hija de un fabricante de pastas y, aunque casada con el príncipe Giordano Montorsi (Giancarlo Giannini), esta mujer dominante y ejecutiva está a cargo de la fábrica familiar, que dirige con éxito al comenzar el siglo. Ante la enfermedad de la menor de sus 9 hijos, promete a la virgen que si ella se salva, adoptará una niña. Esta es Nunziata, quien crece junto a su madre adoptiva y es la única de sus hijos que aprende cómo manejar el negocio. Cuando los hijos han llegado a la edad adulta, ese mundo de armonía casi idílica, de personas que viven sin pesares en la elegante casa señorial junto al maravilloso mar de la bahía de Nápoles, comienza a resquebrajarse. Nunziata y Federico, el mayor de los Montorsi, se enamoran, y deben ocultar ese amor prohibido, casi incestuoso. El padre decide un buen día dejar de oficiar de príncipe consorte y convertirse en banquero. Esto trae su ruina, arrastrando a Francesca y su fábrica a la bancarrota. Para evitarla, la matriarca decide casar a Federico con una burguesa y rica heredera, tras lo cual Nunziata se separa de la familia y monta su propia fábrica de pastas. Se produce así el enfrentamiento entre ambas mujeres competidoras, en el que juega también el choque entre generaciones y entre señores y trabajadores, en un ejemplo de cómo el poder pasa de una clase a otra.
Loren y Giannini habían actuado juntos en otro film de Wertmüller: Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova - si sospettano moventi politici (1978). Si bien al principio del film ninguno de los dos da el physique du rol para ser padres de hijos tan pequeños, ambos parecen después actuar a sus anchas en roles a su medida. Sus interpretaciones son soberbias, empalideciendo a los actores más jóvenes, Claudia Gerini y Raoul Bova.
Basada en la novela de Maria Orsini Natale y suerte de “sub-Gatopardo”, poco queda en este film de época de los gestos provocadores de la otrora joven Wertmüller; en todo caso, sus temas recurrentes: el feminismo y la lucha de clases. Este conflicto social asume una variante muy a tono con los tiempos: si en su primer cine libraba sus batallas en la cama, ahora las combate en el terreno de la economía. Film de qualité, su recreación de época y lugar es impecable, y la directora se permite un homenaje al cine italiano con la proyección de Quo vadis. En la segunda mitad, algunos baches en la historia ponen en evidencia la transcripción literaria. Frente al cine moderno, su narración convencional puede resultar un tanto anticuada, pero Francesca e Nunziata constituye un melodrama familiar clásico y sólido que llega para beneplácito de los amantes del cine italiano. Y de Sofia, por supuesto.
Josefina Sartora
http://www.otroscines.com/criticas_detalle.php?idnota=1486


La storia di una famiglia di pastai com'è stata raccontata nel bel romanzo di Maria Orsini Natale. Una storia di fatica, di lavoro, di rivalità femminili, ma anche di generosità, di grandi sentimenti e di fortuna costruita a dispetto della subalternità femminile. La chiave del film è nel rapporto tra Francesca, Sophia Loren, e il bel nobile Giugliano Montorsi, visibilmente schiacciato dalla sua personalità forte e della sua straordinaria bellezza. Ma c'è un filo conduttore anche nel rapporto tra Francesca e Nunziatina, figlia adottiva che finisce per assomigliarle di più e per essere, naturalmente, erede e depositaria dei segreti del successo e dell'impresa.
Un intreccio appassionato nel quale spicca la storia della pasta. Ma anche una cucina affollata dalle donne. Quelle per esempio che donna Francesca supervisiona personalmente mentre preparano la cena per la festa del suo compleanno. Anche con la parmigiana alla napoletana. "Vanno infarinate e fritte una a una, quelle melanzane..."
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La Ricetta associata al Film : Melanzane alla parmigiana
Ingredienti:600 gr. di melanzane, 200 gr. di mozzarella, passata di pomodoro, basilico, olio, sale, farina, 300 gr. di parmigiano grattugiato.
Lavare, asciugare e tagliare a fettine sottili le melanzane nel senso della lunghezza. Incidere ogni fetta con un coltello e spolverare appena di sale. Stenderle in uno scolapasta e alternare ad ogni strato di melanzane carta assorbente fino a mettere sull'ultimo strato un peso. Lasciarle riposare finchè non sia del tutto eliminato il liquido scuro e amarognolo tipico delle melanzane. Sciacquarle in acqua corrente e asciugarle bene. Nella versione più dietetica friggerle senza dorarle troppo in olio bollente e lasciarle scolare bene. In quella tradizionale 'alla napoletana', passarle prima nella farina. Preparare nel frattempo un sugo ottenuto soffriggendo lievemente l'aglio nell'olio e utilizzando la passata (dev'essere ben denso). Fritte le melanzane preparare la mozzarella a fettine e 'montare' la parmigiana alternando, in una pirofila, uno strato di melanzane, fiocchi si mozzarella, una spolverata generosa di parmigiano, foglie di basilico e naturalmente il sugo di pomodoro. Sull'ultimo strato concludere con il parmigiano e con qualche foglia di basilico. Infornare a 180° finchè la copertura non sarà gratinata e la mozzarella ben sciolta e filante (circa 15').
Dal libro di: Laura Delli Colli - Il Gusto in 100 Ricette del Cinema Italiano
http://www.cinemagrivi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6&Itemid=17

Totò Sapore e la magica storia della pizza - Maurizio Forestieri (2003)


TÍTULO ORIGINAL Totò Sapore e la magica storia della pizza
AÑO 2003
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 78 min.
DIRECTOR Maurizio Forestieri
ARGUMENTO comedia teatral "Il cuoco prigioniero" de Roberto Piumini
GUIÓN Paolo Cananzi, Umberto Marino, Roberto Piumini
MÚSICA Edoardo Bennato, Eugenio Bennato
REPARTO Animación
PRODUCTORA Lanterna Magica / Medusa Produzione
PREMIOS 2003: Premios David di Donatello: Nominada Mejores efectos visuales
GÉNERO Animación. Infantil

SINOPSIS Napoli nel ‘700: Totò Sapore sogna di essere un grande chef, ma non ha di che riempire lo stomaco. L’allegria però non gli manca, e così se ne va in giro a intonare canzoni che narrano di pranzi principeschi e piatti faraonici, con l’amico Pulcinella al seguito. Accade una magia: Totò trova quattro vecchie pentole annerite – Marmittone, Sora Pasta, Tegamino e Pentolino – che trasformano qualsiasi schifezza in una prelibatezza. La fama di Totò arriva fino al Palazzo Reale, ma suscita anche la pericolosa invidia della strega Vesuvia e del perfido cuoco di corte Mestolon. Grandi investimenti per un film che vede anche l'intervento del dialoghista del trio Aldo, Giovanni e Giacomo e la supervisione al doppiaggio di Lello Arena. Italian cartoon al 100% il film è piacevole e avrà probabilmente più successo all'estero dove l'"italian pizza" (n on solo quella dei fast food) è molto apprezzata.(MyMovies)


CRITICA:
"C'erano una volta due creatori di film d'animazione, Enzo d'Alò e la Lanterna Magica, che lavoravano assieme. Poi si separarono e, questo Natale, si affrontano sugli schermi con due ambiziosi cartoon all'italiana. Curiose le analogie: le storie sono ambientate a Napoli, in entrambe c'è un cattivo non umano sadico e guastafeste, le voci dei personaggi sono affidate più ad attori noti che a doppiatori di professione. Totò è uno scugnizzo che, nella Napoli del '700, trova alcune pentole magiche, diventa un cuoco sopraffino ed entra al servizio culinario del re. (...) L'idea, molto bellina, prometteva un allegro apologo di fantastoria. Purtroppo, quest'anno il disegno animato nazionale (il rilievo vale anche per 'Opopomoz') lascia un po' delusi: ci vuol altro per affrontare la concorrenza di un Nemo e perfino di un Simbad. Simpatica guest star il Pulcinella disegnato da Lele Luzzati, che parla con la voce di Lello Arena mentre Mario Merola presta la sua a Vincenzone e Franceso Paolantoni si moltiplica per tre pentole magiche."
(Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 21 dicembre 2003)


"Il Pulcinella disegnato da Lele Luzzati; le pentole magiche capaci di trasformare ogni ingrediente anche pessimo in cibo squisito; il disegno animato vivace e veloce, le canzoni di Edoardo e Eugenio Bennato sono elementi di divertimento e fascino di 'Totò Sapore' di Maurizio Forestieri: a parte, si capisce, la sensazionale invenzione della pizza. Bella storia. (?) Nel film d'animazione molto riuscito, Napoli è povera, colorata, portata al divertimento, contenta e improbabile; re, regine, principi e principesse sono brutti, ingrugnati e scontenti; cuochi rivali e domestici sono presuntuosi, invidiosi, lividi. Totò Sapore è un ragazzo piuttosto vanesio ma simpatico e ingegnoso. Il cibo e in particolare la pizza mettono addosso l'allegria del desiderio e della vitalità. Le voci sono di Lello Arena (Pulcinella), Mario Merola (Vincenzone, assistente della strega), Pietra Montecorvino (la strega Vesuvia), Marco Vivio (Totò); a dare voce alle pentole magiche (un'idea magnifica che trasforma gli incubi delle massaie in doni preziosi) è il bravissimo Francesco Paolantoni."
(Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 18 dicembre 2003)

jueves, 23 de febrero de 2012

L'imperatore di Capri - Luigi Comencini (1949)


TÍTULO ORIGINAL L'imperatore di Capri
AÑO 1949
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS En español, italiano e inglés (Separados)
DURACIÓN 90 min. 
DIRECTOR Luigi Comencini
GUIÓN Gino De Santis, Teresa Ricci Bartoloni
MÚSICA Felice Montagnini
FOTOGRAFÍA Giuseppe Caracciolo (B&W)
REPARTO Totò, Mario Castellani, Yvonne Sanson, Pina Gallini, Laura Gore, Marisa Merlini, Alda Mangini, Nerio Bernardi, Galeazzo Benti, Lino Robi
PRODUCTORA Lux Film
GÉNERO Comedia
 
SINOPSIS Sonia, una cazafortunas, confunde a Antonio, un camarero de un hotel napolitano, con un príncipe árabe y queda con él en Capri. Antonio acude a la cita a espaldas de su mujer y suegra. Debido a una serie de casualidades, el camarero es confundido también por toda la isla. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)




Soggetto
Antonio cameriere napoletano viene scambiato dall'avventuriera Sonia per il Bey di Agapur ed invitato a Capri,dove per le sue stravaganze viene candidato al titolo di Imperatore di Capri.Ma arriva il vero Bey a cui Totò salva la vita ricevendo in premio un tesoro in gioielli.

Critica e curiosità
Le riprese iniziano a Capri il 25 luglio in piena stagione turistica e i " generici " dell'isola pretendono di essere assunti quali unici autorizzati a comparire in pellicole girate nell'isola , mentre la produzione avrebbe voluto utilizzare , gratis , i gruppi di villegianti .Nella scena dove Totò deve vedersela col serpente del vero Bey di Agapur viene utilizzato un serpente vero ma causa del forte calore emesso dai riflettori ne muoiono due e non avendone altri a disposizione utilizzano un pitone di gomma . Il film ottiene un grande successo ma la critica come al solito non e' benevola . Scriveva Lanocita sul Corriere " [..] il succo del film sta nella sghignazzata di Totò , con esposizione di lunghissimi denti .A me non piace quella sghignazzata ; sa di sconcio ". E Eduardo Bruno per non essere da meno : " Ma via , come si fa a fare lavori di questo genere ? Cosa centra l'umorismo con questa roba ? "
http://www.antoniodecurtis.com/capri.htm


Totò fece la fortuna della Lux e del produttore Carlo Ponti con questo film a basso costo che rese tanti milioni e pareggiò gli ammanchi causati da altre produzioni fallimentari. A dirigerlo un giovane alquanto promettente, Luigi Comencini.
Unico film diretto da Comencini (alla sua seconda prova, dopo "Proibito rubare" del 1948), si ricollega in modo vistoso al filone farsesco, tendente a valorizzare, senza alcuna operazione di cambiamento, la primitiva maschera di Totò, che qui infatti appare con il suo consueto costume di scena (frac e bombetta).
Del resto Comencini parlando del film comico, e trascurando gli esiti complessivi dell'interessante e realistico "Totò cerca casa", aveva dichiarato esplicitamente: "Il film comico è espressione pura del teatro di rivista, su cui il Neorealismo non ha influito".
Il film, che risente fortemente dell'influsso teatrale e della comicità surreale ed esagerata tipica di Metz e Marchesi, è limitato dalla ricerca ossessiva di sketches e di trovate per lo più banali, costruite intorno al protagonista, ancora una volta (come già in "Animali pazzi", "L'allegro fantasma", "I due orfanelli", "Fifa e arena" e "Totò le Mokò") scambiato per un altro. Qui è il povero cameriere Antonio De Fazio che viene scambiato per il bey di Agapur: il canovaccio è sempre lo stesso, ma evidentemente il meccanismo funziona e il pubblico si diverte.
Totò è dunque prigioniero del tessuto narrativo che lo vuole irrigidito nella "marionetta" e agisce solo per dar pretesto a doppi sensi e battute; l'Artista si muove da vero principe, senza risparmiarsi, in un'orgia di battute e di situazioni che gli derivavano dal teatro di rivista, e che richiamano con evidenza "Animali pazzi", come tutto l'episodio del serpente trovato nella doccia, il telefono e sul cappello, il seltz che schizza dall'altra parte del telefono, le strusciate dei piedi sul pavimento (due volte) e poi l'intera sequenza di humour nero con la baronessa von Krapfen, la banalissima corsa del motoscafo impazzito, il bagno in mare vestiti ecc.
Sul piano linguistico, oltre alla presenza, ormai irrinunciabile, delle solite espressioni come: a prescindere, aufwiedersehen, escusmi, esoso! , perbacco e anche perdinci, checche, fa d'uopo, ce ne sono altre di indubbio effetto, come sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo, che verrà ampiamente ripresa e sviluppata in "Totò a colori", o l' altra, molto più rilevante, Siamo uomini o caporali? , già presente in "Totò le Mokò" e qui pronunciata una prima volta nel corso del film e una seconda all'ultima inquadratura, quasi a dare significato all' apologo.
Altre battute sono sciatte e di origine rivistaiola come quella rivolta alla schiava: Come si chiama? -Elena di Troia -Troia... Troia... questo nome non mi è nuovo. Oppure, sempre chiedendo di due schiave: E queste chi sono? -Sono due persiane, accosta una all'altra e poi dice: ho accostato le persiane. O ancora, sbarcando nell'isola che appare deserta: Isolani... Isolisti, fermo con le mani (che ricorrerà spessissimo in molti film), ti devi futilizzare o l'altra, più intelligente, rivolta al maìtre dell'Hotel che lo chiama Altezza, Un metro e sessantacinque.
Tutta la "zona" costituita dagli snob capresi e Galeazzo Benti sono un'anticipazione incredibile di scene analoghe di "Totò a colori", che si svolgono sempre a Capri e che costituiscono un vero e proprio plagio sia nelle battute sia nelle situazioni e persino nell'intonazione della voce e nei nomi (Dodo/Poldo).
Tratto da "Totò principe clown" di Ennio Bìspuri per gentile concessione
http://www.antoniodecurtis.org/capri.htm

miércoles, 22 de febrero de 2012

Giù il sipario - Raffaello Matarazzo (1940)


TÍTULO ORIGINAL Giù il sipario
AÑO 1940
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS En italiano 
DURACIÓN 74 min. 
DIRECTOR Raffaello Matarazzo
GUIÓN Alessandro De Stefani, Raffaello Matarazzo (Obra: Franco Augusto Bon)
MÚSICA Alexandre Derevitsky
FOTOGRAFÍA Georges C. Stilly (B&W)
REPARTO Sergio Tofano, Lilia Silvi, Andrea Checchi, Rosetta Tofano, Armando Migliari
PRODUCTORA Astra Film
GÉNERO Comedia | Teatro
 
SINOPSIS Un joven de provincias, autor teatral, consigue que una compañía represente un trabajo suyo. Lo consigue tanto porque su tío es rico, como porque está enamorado de la hija del protagonista. Pero su tío, que quiere truncar sus aspiraciones cómicas, intentará arruinar la obra. (FILMAFFINITY)


Subtítulos (En italiano)
http://www.mediafire.com/?4zjn1lgaf1j1c3h

Raffaello Matarazzo (Roma, 17 agosto 1909 – Roma, 17 maggio 1966) è stato un regista italiano.
Orfano di padre, Matarazzo frequenta il liceo classico e si mantiene gli studi lavorando come fattorino. Si interessa di cinema sin da giovanissimo; nel 1929 entra nella redazione del quotidiano romano Il Tevere come critico cinematografico. Nel 1931 è revisore di soggetti cinematografici per la Cines.
Matarazzo esordisce nella regia di lungometraggi con la commedia dal ritmo serrato Treno popolare (1933), realizzato quasi completamente in esterni (fatto insolito per l'epoca) e ispirato alle opere di René Clair.
Passa poi a dirigere alcune commedie con Eduardo e Peppino De Filippo (Sono stato io!, 1937) e Vittorio De Sica (L'avventuriera del piano di sopra, 1941).
Dopo Lo sciopero dei milioni (1948), ancora di genere comico, il produttore Peppino Amato gli offre la regia di un melodramma a basso costo, Catene, con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Imprevedibilmente, il film diviene campione di incassi facendo la fortuna della Titanus. Sull'onda del successo, Matarazzo si specializza nel melodrammone strappalacrime (definito in seguito Neorealismo d'appendice), rivitalizzando un genere già molto amato dal pubblico ai tempi del muto. Escono quindi Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Vortice, L'angelo bianco (1955) e Malinconico autunno (1955). Nel 1953 Matarazzo dirige anche una biografia di Giuseppe Verdi in chiave sentimental-drammatica e nel 1954 un melodramma erotico in costume, La nave delle donne maledette (che ottiene gli elogi del gruppo surrealista della redazione del periodico francese Positif).
Alla fine degli anni cinquanta il favore del pubblico, fino ad ora straordinario, sembra abbandonare il filone melodrammatico, e Matarazzo, dopo un paio di altri film di genere melò, ritorna alla commedia: Cerasella, 1959, con Claudia Mori e Terence Hill, e Adultero lui, adultera lei, 1963, con Marilù Tolo e Gino Bramieri. Il suo ultimo film è Amore mio, del 1964.
Il cinema di Matarazzo è stato per molti anni tanto amato dal pubblico quanto denigrato dalla critica cinematografica italiana, che lo associava, più che al cinema, al fotoromanzo filmato. Negli anni settanta alcuni giovani critici (tra gli altri Adriano Aprà, Alberto Farassino, Tatti Sanguineti, Aldo Grasso e Carlo Freccero) iniziarono a rivalutare l'opera di Matarazzo e il filone melodrammatico italiano: un celebre convegno tenuto nel gennaio 1976 a Savona dedicato a questo regista tanto a lungo disprezzato divise la critica italiana sul "Caso Matarazzo".
http://it.wikipedia.org/wiki/Raffaello_Matarazzo


Pur nella cornice di un periodo di cinema non sempre felice, Matarazzo mette in scena un brillante film giocando sul ruolo degli attori e riuscendo a colpire giusto sulla tematica. Presa da un successo teatrale dell'epoca, il regista co-sceneggiando anche, riesce a costruire in maniera cinematograficamente valida la storia che arriva anche in odore di pochade. Certo la scelta del cast femminile, come sempre in questo momento storico del nostro cinema, non è delle migliori, sia figurativamente che come interpreti, ma quello maschile, pur non offrendo nomi di divi di primo piano, è decisamente efficace. L'ironia sui testi drammatici e sulle standardizzate interpretazioni degli attori teatrali è efficace ed divertente. Si capisce benissimo la critica che ci porta a rivalutare la commedia sempre considerata, anche al cinema, prodotto di serie B. Certo quello che salta agli occhi è la sottovalutazione di un regista come questo, che ha ripreso luce, posteriormente, solo nel suo secondo periodo e cioè nel cinema melodrammatico targato anni'50, che in che nel periodo precedente rimane schiacciato da nomi come Camerini e Blasetti, abbastanza inispiegabilmente.
emmepi8
http://www.film.tv.it/film/45050/giu-il-sipario/

martes, 21 de febrero de 2012

Nudo di donna - Nino Manfredi (1981)


TÍTULO ORIGINAL Nudo di donna
AÑO 1981
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Si (Separados) 
DURACIÓN 106 min. 
DIRECTOR Nino Manfredi, Alberto Lattuada
GUIÓN Silvana Buzzo, Agenore Incrocci, Ruggero Maccari, Nino Manfredi, Giuseppe Moccia, Furio Scarpelli (Historia: Paolo Levi, Nino Manfredi)
MÚSICA Roberto Gatto, Maurizio Giammarco
FOTOGRAFÍA Danilo Desideri
REPARTO Nino Manfredi, Eleonora Giorgi, Jean-Pierre Cassel, Georges Wilson, Carlo Bagno, Beatrice Ring, Donato Castellaneta, Toni Barpi, Giuseppe Maffioli, West Buchanan
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Les Films Marceau-Cocinor / Massfilm
GÉNERO Comedia | Erótico
 
SINOPSIS Sandro (Nino Manfredi) es el propietario de un taller de reparación de coches en Roma, que se ha trasladado a vivir a Venecia después de su matrimonio con Laura (Eleonora Giorgi), joven y bella veneciana que ha heredado de su padre una romántica librería de libros antiguos. La pareja se haya sumida en plena crisis matrimonial, cuando Sandro descubre en casa de un extravagante fotógrafo existencialista, un enigmático retrato de una mujer desnuda, tendida de espaldas sobre la cama. Y esa mujer, de la que no se ve el rostro, le resulta extrañamente muy parecida a su esposa, Laura. Buscando a la modelo, Sandro encontrará a Rirí. (FILMAFFINITY)



A Venezia, il matrimonio tra la colta e pacata Laura e l’imprevedibile Sandro pare essere entrato definitivamente in crisi dopo sedici anni di vita insieme, quando, dopo un litigio, lui esce di casa per andarsene e, in un’antica quanto fatiscente abitazione di un fotografo, scopre un enorme dipinto di donna nuda il quale, nonostante il soggetto sia di spalle, gli suggerisce d’istinto che il corpo ritratto sia quello della moglie. Sandro si imbatte in una fotomodella estroversa e disinibita di nome Rirì, che è la copia perfetta di sua moglie, una donna, al contrario, pudica e riservata. L’accaduto diventa un’ossessione per lui, che inizia a sospettare addirittura di una doppia vita di Laura…
Nino Manfredi da molti è conosciuto come attore di tante commedie ma, dall’alto della sua professionalità e carriera, si è dilettato in alcune occasioni, anche dietro alla macchina da presa. “Nudo di donna” è infatti la sua terza regia… un film questo che ebbe delle difficoltà nella lavorazione tanto che lo stesso Manfredi subentrò a Lattuada. Indubbiamente, Manfredi se l’è cavata bene nel doppio ruolo di regista ed attore ma che dire di Eleonora Giorgi che si è dovuta sdoppiare (se non triplicare, visto il finale del film…) in due personaggi uguali nelle fattezze ma con caratteri diversi? Questa è una buona commedia e vale la pena ricordare, come fa la Giorgi nell’intervista presente negli extra del dvd, che il film ottenne ottimi consensi di critica anche negli States. Sarà per l’ambientazione veneziana quantomai indovinata in un film con il tema delle doppie personalità e sarà per l’abilità dell’intero cast, fatto sta che, nonostante non sia forse il film più citato tra quelli diretti da Manfredi, “Nudo di donna” si presenta come una pellicola gradevole, enigmatica e, a tratti poetica. Il finale è aperto e non ci permette di far piena chiarezza su una duplice personalità che per alcuni potrebbe anche essere parto dell’immaginazione del protagonista.
Impossibile non notare il rapporto tra le maschere veneziane e la duplice identità di Laura-Rirì. Le forme ed il linguaggio ricco d’ ironia sono quelli della commedia eppure non mancano degli accenni drammatici in quella che è una storia ben sceneggiata ed ispirata da un soggetto di Paolo Levi. Dicevamo prima dell’importanza della location che rappresenta una Venezia cupa nonostante le maschere e la gente che la anima nelle varie feste, calli e piazze. Manfredi attore e regista tratta con umorismo del disagio cui può portare la gelosia e lo fa all’interno di una Venezia fine e carnevalesca.
Se non mancano quindi le indubbie qualità divertenti di Manfredi, che dire dell’esuberante sensualità che scaturisce da una Eleonora Giorgi quantomeno enigmatica? Ricordiamo che l’attrice è una delle poche che sa calarsi con maestria in ruoli sia comici che drammatici, ne sia l’esempio questa pellicola. Un film con i suoi meriti: dalla splendida atmosfera che riporta alla miglior commedia ‘italiana alla regolare, stupenda prova offerta dagli attori che vi recitano… Ricapitolando, “Nudo di donna” è un bel film, girato in luoghi storici ed artistici unici, Venezia vi è infatti ritratta molto bene, come solo i registi migliori hanno saputo fare. Convincenti la Giorgi e Manfredi, nei rispettivi ruoli. Un film che merita di essere recuperato.
Andrea Turetta
http://www.babylonbus.org/2010/07/25/nino-manfredi-%E2%80%93-nudo-di-donna/


Saturnino Manfredi, più noto come Nino (Castro dei Volsci, 22 marzo 1921 – Roma, 4 giugno 2004), è stato un attore, regista e sceneggiatore italiano. Con Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni fu uno dei "mostri" della commedia all'italiana.[1] Attore estremamente eclettico, si è cimentato in tutti i campi dell'arte recitativa: teatro, cinema, televisione, radio, doppiaggio e pubblicità. È inoltre stato regista, sceneggiatore, scrittore e cantante.
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Protagonista della commedia all'italiana
Nino Manfredi e Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), di Ettore Scola.Sull'onda del suo successo televisivo nello stesso anno venne chiamato nella parte del meccanico Piedeamaro in Audace colpo dei soliti ignoti, di Nanni Loy, sequel del fortunato I soliti ignoti dell'anno precedente, rispetto al quale in pratica si trovò a sostituire lo stesso Mastroianni nella parte del "tecnico" della sgangherata banda di ladri. Venne inoltre chiamato a prestare la sua voce, con la cadenza ciociara del "barista di Ceccano", come narratore fuori campo, nel 1960, nel film di Mario Mattòli Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi.
Sempre dal 1960, a partire dal ruolo da protagonista sostenuto nel film L'impiegato diretto da Gianni Puccini, diventa una delle colonne portanti della commedia all'italiana. Convince non soltanto in parti comiche o brillanti, ma anche come attore drammatico. I personaggi che interpreta sono uomini fondamentalmente ottimisti, in possesso di una loro dignità e moralità, destinati inevitabilmente alla sconfitta ma non umiliati; grazie alle loro doti di amara ironia, sono spesso in grado di sovrastare il prepotente e ipotetico vincitore.
Tra le oltre cento pellicole interpretate, vanno ricordati almeno i ruoli del rappresentante scambiato per gerarca fascista in Anni ruggenti di Luigi Zampa (1962), il cittadino distrutto da una burocrazia impietosa in Made in Italy di Nanni Loy (1965), il cognato di un editore, disilluso dalla civiltà consumistica e diventato stregone in Africa in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? di Ettore Scola (1968) con Alberto Sordi nel ruolo dell'editore, in compagnia di uno strepitoso Ugo Tognazzi nel film Straziami ma di baci saziami, diretto da Dino Risi, all'inizio del quale, in costume ciociaro, consegna alla storia della cinematografia italiana uno dei gruppi folkloristici più belli della sua terra d'origine (quello di Alatri), interpretò il calzolaio convivente more uxorio con una donna ebrea che si rivela alla fine essere Pasquino, l'autore di invettive in rima contro il Papa nel film Nell'anno del Signore di Luigi Magni (1969), a cui seguirà la indimenticabile amara interpretazione di un sacerdote in In nome del Papa Re (1977) dello stesso Magni, l'emigrante italiano in Svizzera costretto a tingersi i capelli di biondo in Pane e cioccolata di Franco Brusati (1974), il portantino d'ospedale Antonio in C'eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974), e il venditore abusivo di caffè sui treni Michele Abbagnano in Café Express di Nanni Loy (1980), a detta di molti la sua interpretazione più intensa e sofferta. In qualità di attore si aggiudicò 5 Nastri d'Argento e 5 David di Donatello.

Regista cinematografico e teatrale
Nel 1962 debuttò dietro la macchina da presa con un pregevole cortometraggio, L'avventura di un soldato, episodio del film L'amore difficile, tratto dall'omonima novella di Italo Calvino, delicata e notevole storia sullo sbocciare di un amore tra un soldato e una vedova nello scompartimento di un treno, tutto giocato sul silenzio e sulla mimica. La sua seconda regìa è lo stupendo e autobiografico Per grazia ricevuta (1971), pervaso da sincera commozione, col quale si aggiudica la Palma d'oro per la miglior opera prima al Festival di Cannes e un Nastro d'Argento per il miglior soggetto. Il film, oltre al successo di critica, è il film più visto nella stagione 1970-71 (già la stagione precedente, con Nell'anno del Signore, un film di Manfredi guidava la classifica degli incassi). Ne dirigerà un terzo nel 1981, Nudo di donna, ereditandone anche il tema da Alberto Lattuada che lo iniziò, sulla crisi d'identità di un uomo che scopre una sosia perfetta della moglie dal carattere allegro e disinibito, mentre la consorte è seria e posata. Sul palcoscenico rientrò alla fine degli anni ottanta da assoluto protagonista delle commedie, da lui anche scritte e dirette, Gente di facili costumi (1988) e Viva gli sposi! (1989, originariamente pensato per una trasposizione cinematografica), in seguito portati più volte in tournée anche nel decennio successivo.
...
http://it.wikipedia.org/wiki/Nino_Manfredi

lunes, 20 de febrero de 2012

Traviata 53 - Vittorio Cottafavi (1953)


TÍTULO ORIGINAL Traviata '53
AÑO 1953
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español, inglés y francés (Separados)
DURACIÓN 95 min. 
DIRECTOR Vittorio Cottafavi
GUIÓN Siro Angeli, Vittorio Cottafavi, Tullio Pinelli, Federico Zardi (Historia: Alexandre Dumas fils)
MÚSICA Giovanni Fusco
FOTOGRAFÍA Arturo Gallea (B&W)
MONTAJE Loris Bellero
ESCENOGRAFIA Giancarlo Bartolini Salimbeni
REPARTO Barbara Laage, Armando Francioli, Eduardo De Filippo, Marcello Giorda, Carlo Hinterman, Lina Acconci, Adolfo Geri, Gabrielle Dorziat
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Venturini Film / Synimex
GÉNERO Drama

SINOPSIS Adaptación de la Dama de las Camelias y la Traviata de Verdi, ambientada en el Milán de los años 50. (FILMAFFINITY)


Sinossi
«Giovane ingegnere provinciale, Carlo Rivelli sbarca a Milano come Rastignac a Parigi, lasciando nella sua cittadina natale amici e fidanzata. Fin dalla prima sera, passata in un cabaret alla moda, fa la conoscenza di Rita, cortigiana di gran classe che naviga nell’alta società milanese e sgrana dietro di sé una folla di amanti miliardari, pronti a morire o a uccidersi l’un l’altro per un suo sguardo. Facile indovinare il seguito: Rita trova in Carlo una freschezza, una sincerità a cui non è più abituata, e nasce l’Amore, con la maiuscola. Ahimé! Uno dei vecchi amanti di Rita architetta una macchinazione diabolica che farà rientrare soltanto se Rita accetta di liquidare il giovanotto. Se invece rifiuta, il malvagio si applicherà a rovinare Carlo e la sua famiglia. Rita, definitivamente convertita, si sacrifica; d’allora in poi condurrà una vita miserevole, vagando e tossendo per strade e viali, fino alla morte, in sanatorio. Il cattivo, divenuto buono, racconta a Carlo nei dettagli gli ulteriori episodi della vita di Rita. Ma Carlo è ormai felice, così ci si dice, ha sposato la fidanzata, e dunque Rita resterà l’unica vittima di questa romantica avventura» (F. Truffaut, “Arts”, n. 461, 1954).

Dichiarazioni
«Negli anni Cinquanta, Torino era diventata un po’ la legione straniera del cinema italiano. A capo di tutto c’era Venturini, che era stato messo da parte perché aveva lavorato con Mussolini. C’ero io, che non mi ero ancora del tutto ripreso dalle stroncature veneziane per La fiamma che non si spegne, e così via. Però si guardava al futuro, si facevano coproduzioni con la Francia, si faceva il lavoro al meglio. […] Ad esempio, mi interessava molto l’uso dei silenzi. Con il cinema sonoro si è avuta una degenerazione. Tutti parlano in fretta, non si zittiscono mai: quanta nostalgia per il silenzio! […] Ho cercato questo soprattutto in Traviata ’53. Cercavo l’interiorizzazione, e l’obiettivo entra nell’animo: con la macchina da presa arriviamo a una scoperta graduale del personaggio. All’atto di girare il film ci stupiamo noi stessi delle scoperte della macchina da presa. Pensiamo a Ordet di Dreyer: la natura umana, la vita, la morte sono estratte dall’interno dei personaggi ed esibite. Del cinema mi interessa soprattutto questo e non c’è differenza se il film è in panni moderni o in costume visto che si può ottenere lo stesso risultato, l’importante è avere chiaro il fine ultimo. Quando negli anni Cinquanta lavoravo a Torino, lo facevo con questo spirito»
(V. Cottafavi, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).

«A partire dal melodramma, io cercavo qualcosa d’interiore, qualcosa di vero. Cercavo di riprendere col cinema l’anima, i sentimenti segreti. Io credo che l’obiettivo della macchina da presa è più intelligente di noi che ce ne serviamo, e che, forse, può vedere, vede sicuramente all’interno dei personaggi più facilmente dell’occhio normale»
(V. Cottafavi, “Positif”, nn. 100/101, 1969).

«Il film più importante tra quelli che ho girato con Giorgio Venturini, resta Traviata 53. L'idea iniziale era nata proprio da Venturini che la propone a Tullio Pinelli. Per garantirsi un nome di richiamo avrebbe voluto coinvolgere nel film anche Giorgio Strehler come collabo­ratore, che tuttavia non era interessato al cinema. Così me lo feci da solo. Il film, pur ambientato a Milano viene girato in parte in una Torino "milanesizzata". Il film passa del tutto inosservato. Io avevo la critica contro perché ero considerato filofascista, anche da coloro con cui ave­vo fatto la sceneggiatura del Sole sorge ancora, dove è pur vero che avevo cercato di eliminare quelle che consideravo faziosità gratuite. Il neorealismo infatti, era spesso un "neofeticismo". Poi Antonioni aveva fatto poco prima di me Cronaca di un amo­re e quasi in contemporanea La signora senza camelie. Infine c'e­ra Venturini, se ero sospetto io, figuriamoci lui! […] In Traviata 53 intendevo far capire come la donna venisse usata come uno strumento, la bella amica, le pellicce, i gioielli, erano le etichette che l'industriale presenta ai suoi clienti e al suo pub­blico. Oggi potrei dire che si trattava di un film quasi "femmi­nista", del resto io ho sempre fatto film femministi. Il mio femminismo è legato ad una convinzione morale ma anche psicolo­gica: le donne mi interessano di più perché sono più armoniose, più utili, ma soffrono anche di più, e questo è stato forse anche causa dei disguidi col pubblico, perché tutta quella sofferenza dava noia, lo spettatore voleva divertirsi. Come scopo parallelo il film intendeva criticare la società del­l'epoca, non erano ancora gli anni del boom, ma tutti esibivano già la loro ricchezza. Volevo dare un ritratto veramente realisti­co, potremmo dire veristico per riallacciarci alla nostra tradizione letteraria, senza cercare di ingannare, ma mettendo nella rap­presentazione quella partecipazione, quella pietà, che è sempre stata scopo non ultimo dei buoni film. […] È la maledetta mentalità che spinge noi italiani a fare discorsi politici e pren­derli sempre troppo sul serio. Erano tutti così presi in questo genere di discorsi, che in quegli anni nessuno si accorse nemme­no dei piani-sequenza di Traviata 53. Per me, tra l'altro, non era un modo per intervenire artificialmente sui personaggi, ma era soltanto il cercare una continuità d'immagine, di fondamen­tale importanza perché sottolineava uno iato nel momento stes­so in cui quella continuità veniva meno e si apriva il discorso su un'altra continuità. Non ho mai considerato il piano-sequenza bello in sé, ma è come quando noi guardiamo un quadro, osser­viamo tutto quello che contiene la cornice, e poi ci diciamo: "pec­cato che non continui"! Il piano-sequenza è la continuazione di un quadro che fa procedere il suo discorso oltre la cornice. Ne discutevamo spesso con Antonioni in quegli anni, anche lui aveva il senso del piano-sequenza, che naturalmente non chiamavamo così»
(V. Cottafavi, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).

«Naturalmente il film più importante che ho fatto per Ventu­rini è stato Traviata 53. Film che in Italia ebbe una storia com­plicata, con difficoltà quasi inspiegabili. Basti pensare che quando lo vedemmo in visione privata con l'ENIC eravamo tutti commossi, convinti che sarebbe stato un grande successo. Al punto che l'E­NIC, nel mese di luglio, manda subito alle agenzie regionali una lettera che diceva: “Abbiamo avuto il piacere di visionare ieri completamente approntato questo film che ha risposto in pieno alla nostra aspettativa. Teniamo dirvi che si tratta di un lavoro non soltanto eccellente dal punto di vista commerciale, ma an­che realizzato con dignità e decoro veramente eccezionali. De­sideriamo farvi presente che, oltre naturalmente alla ottima in­terpretazione di Barbara Laage, in questo film risultano nel mo­do veramente sorprendente le doti artistiche di Armando Fran­cioli che nel suo delicato ed importantissimo ruolo ha saputo crea­re un personaggio che non verrà dimenticato. Infine, Traviata 53 possiede il pregio di avere un commento musicale di altissi­ma classe e che certamente verrà apprezzato dal pubblico”. L'ENIC decide insomma di mettere Traviata 53 come capo­gruppo di un listino di film che, per quell'anno, comprendeva all'ultimo posto I vitelloni di Fellini. Come sia andata lo sappia­mo... E le ragioni del fiasco possono forse spiegarsi con la scelta sbagliata di Eduardo De Filippo nella parte dell'industriale mi­lanese, con quel suo volto da napoletano, scavato da una fame atavica. Poi il film esce male, in agosto, al Barberini di Roma; Cottafavi aveva tutta la critica contro e anche Venturini non era affatto ben visto per il suo passato. In realtà, come produt­tore, Venturini aveva un grande difetto: prima di farlo si inna­morava del film, durante la lavorazione cercava di risparmiare facendo soffrire i poveri registi, e una volta finito lo abbando­nava passando subito ad un altro progetto. Così Traviata 53 è stato un insuccesso strepitoso. Io credevo di aver fatto chissà cosa, avevo anche una cointeressenza nel film, e non ho mai preso un soldo. Ma per Traviata 53 resta comunque scandaloso il fatto che addirittura la musica è stata mal criticata, mentre c'è un as­solo di Chet Baker durante i funerali che è stupendo, straor­dinario»
(A. Francioli, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).

1952: il produttore Venturini sbarca a Torino e nel breve giro di alcuni anni raggruppa intorno a sé uno studio system di stampo americano, vale a dire un complesso di collaboratori fissi, artistici e tecnici, raggruppati intorno a uno studio ben attrezzato in grado di permettere la realizzazione contemporanea di due o tre film di genere e di garantire una lavorazione a ciclo continuo. Tra i personaggi coinvolti da Venturini spicca Vittorio Cottafavi (che gira per lui Il cavaliere di Maison Rouge, Avanzi di galera) il quale nel 1953 realizza uno dei suoi migliori lavori con Traviata ’53, una trasposizione cinematografica di La signora dalle camelie di Dumas.
In Traviata ’53 Cottafavi riesce, nonostante il romanticismo del soggetto originario, a tracciare un ritratto veritiero e credibile della borghesia torinese (come l’Antonioni di Cronaca di un amore e Le amiche), aiutato in questo anche dalle buone interpretazioni dei protagonisti (Barbara Laage e Armando Francioli, bello e gentile, molto attivo in quegli anni a Torino) e dalla pregevole fotografia dell’“artigiano” torinese Arturo Gallea. Cottafavi innova anche il cinema di Venturini con un uso insistito del piano sequenza, impreziosendo i ritratti di personaggi femminili particolarmente amati e la leggerezza ironica (poco presente nell’originale dumasiano) che sottostà a tutti i suoi melodrammi.
L’apporto di Cottafavi «al filone del melodramma, molto amato dal pubblico del tempo, si realizza attraverso cinque titoli (Una donna ha ucciso, 1952, Traviata ’53, 1953, Una donna libera, 1954, Nel gorgo del peccato, 1954, In amore si pecca in due, 1954) nei quali analizza altrettante figure di donne rivelando grande sensibilità e attenzione verso la psicologia femminile. Di questa pentalogia sulla condizione femminile, l’opera certamente più significativa, che lo stesso Cottafavi considera la migliore e uno dei suoi film meno condizionati da fattori esterni, realizzati con maggiore libertà creativa, è senza dubbio Traviata ’53»
(G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980).

Sostanzialmente ignorato in Italia, il film è molto amato dalla critica francese: François Truffaut, dopo aver lodato l’umanità e la verità dei personaggi, accosta il film a Cronaca di un amore di Antonioni. «Il film è del genere di quelli che catturano l’interesse degli spettatori, ma di cui i critici, se pure li vedono, danno conto con la morte nel cuore. Fille d'amour, tuttavia, è l’eccezione che conferma la regola, visto che si tratta, in fin dei conti, di uno dei migliori film italiani apparsi quest’anno sugli schermi parigini. Gli autori, che gli hanno dato come sottotitolo Traviata 53, non si preoccupano minimamente di nascondere il fatto che il loro film costituisce un plagio di uno dei massimi esempi della nostra letteratura romantica: La Dame aux camélias. Ma questa storia, ai giorni nostri priva di senso, inverosimile e melodrammatica, Vittorio Cottafavi ha saputo renderla sensata, verosimile e realmente drammatica. Messa al servizio di una affabulazione di maggiori pretese, la messa in scena del film, ricercata e un po’ scolastica, richiederebbe qualche rilievo, ma in un contesto così melodrammatico la cura, l’applicazione, la ricerca di buon gusto costituiscono un’ambizione più che lodevole. Se il cinema italiano di qualità è infatti caratterizzato dall’originalità di soggetti guastati dalla mediocrità della tecnica, si capirà allora come questo film, che è l’esatto contrario, risulti mille volte più interessante da vedere di quelli di De Santis, Lattuada, Germi, Visconti e di tanti altri registi esageratamente lodati dagli intenditori. Imbroglio tecnico se mai ce ne fu, La Dame aux camélias, sorta di Fedra dei poveri, trova qui nei suoi minimi dettagli, una verità, un’umanità nuova, grazie alla continua invenzione nella recitazione degli attori, nei loro atteggiamenti, i loro gesti, i loro sguardi. La scelta degli esterni, degli interni dal vero, delle scenografie, si conferma infatti come il contrassegno del buon gusto degli attori. Barbara Laage trova qui la sua miglior parte, liberandosi delle eccessive riserve delle sue precedenti interpretazioni. Un’ombra sullo schermo: la musica, che pur essendo di qualità, resta tuttavia invadente e inadeguata. Perfetta invece la fotografia. La produzione italiana, come quella americana, si appresta dunque in futuro ad ammanirci simili sorprese? Non ci resta davvero che augurarcelo»
(F. Truffaut, Arts n. 461, 28.4.1954).

«Io mi situo tra coloro che rifiutano di credere all'esistenza del cinema italiano (eccettuati Rossellíni e Antonioni). E dun­que ancora maggiore, e letteralmente impressionante, è stata per me la sorpresa di Fille d'Amour, che invece gli specialisti in ita­lianerie. (anche ammettendo che se ne siano dati qualche pena), sembrano non tenere in alcun conto. Fille d'Amour, sottotitola­to, e non ne capisco proprio il motivo, Traviata 53, è esattamen­te un adattamento moderno di La Dame aux Camélias; e non mi resta che prendere atto:
1) che non c'è alcuna caduta di gusto, anzi semmai il contrario;
2) che il sordido e il miserabilismo non vi giocano alcun ruolo;
3) che per la prima volta Barbara Laage recita, cioè si muove, smuove, ride, piange e saltella;
4) che il regista Vittorio Cottafavi, di cui a Parigi si è avuto modo di vedere soltanto Milady et les mousquetaires (Il Boia di Lil­la), ha saputo cavarsela più che onorevolmente e che il suo Fille d'Amour mi ha fatto irresistibilmente pensare a Crona­ca di un amore»
(R. Lachenay, alias F. Truffaut, “Cahiers du Cinéma” n. 36, giugno 1954).


Barbara Laage e Armando Francioli costituiscono una coppia molto ben assortita : lei capace di reggere il peso fisico ed espressivo della “donna perduta”, lui passionale ma misurato ed elegante. Fuori ruolo appare invece il grande Eduardo De Filippo come il vecchio e ricco amante della protagonista: scelto per la sua popolarità, venne doppiato in quanto doveva interpretare un industriale lombardo, e con una voce diversa dalla sua non pare per nulla credibile. Ottimi gli altri attori ed i collaboratori tecnici, tra i quali ricordiamo il musicista Giovani Fusco, il quale «soprattutto a partire dal ’50 (Cronaca di un amore) a fianco di Antonioni andava sperimentando un modo tutto nuovo di pensare e comporre le colonne sonore. Dapprima abbandonando la proposta insistita di un tema conduttore e poi, con l’abolizione delle grandi orchestre e l’uso di pochi strumenti solisti, l’inizio di un lavoro raffinato di penetrazione delle storie e dei personaggi. […] Fusco riceve da Antonioni e Cottafavi dei segnali precisi. Siamo solo nei primi anni ’50, e le città del Nord non hanno ancora subito gli oltraggi architettonici e sociali degli anni ‘60 e ’70, ma per questi due autori le città sono già luoghi di solitudine, di incomunicabilità. […] La città di questi autori è fredda, se non ostile; vuota e lontana; quando la mdp vaga per quelle vie, si alza un suono straziato, talvolta persino lugubre; l’angoscia si insinua con sax, cornetta, pianoforte lasciati liberi di espandersi in volute gelide, c’è la lezione del cool forse, ma c’è soprattutto la nuova intuizione degli autori che chiedono ai suoni il naturale completamento del lavoro sulle immagini e sui loghi»
(L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito, Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).  

«[…] il produttore - l'intraprendente Gior­gio Venturini il quale ha già realizzato una mezza dozzina di film nei residui teatri di posa cittadini - senza peraltro far torto a Roma ha tutta l'aria di voler restituire a Torino un pezzetto al­meno di quell'industria cinematografica che in altri tempi (tem­pi beati direbbe il pioniere Arrigo Frusta) ebbe qui degnissima sede: e ciò francamente, oltre ad essere lusinghiero per la città che riconoscente ringrazia, è da segnalarsi per gli evidenti aspetti pratici. A questo poi s'aggiunge, nel caso specifico, quell'altro fatto che il giovane Vittorio Cottafavi cui è affidata la regia del­l'opera appar fermamente intenzionato a fare fuoco e fiamme per azzeccare qualcosa che esca dal limbo della mediocrità»
(G. Corsi, "Gazzetta del Popolo", 21.5.1953).

«Il traliccio della notissima vicenda è press'a poco conservato, ma soltanto come schema, tutt'al più come itinerario. Raggiun­gere un'emozione e un clima romantici in ambienti tipicamente dei giorni nostri non sarebbe certo stato facile; non si sostitui­sce impunemente la carrozza a cavalli con una fuori-serie, il sel­ciato di una via tortuosa con l'asfalto di un'autostrada. Troppe esigenze della vita d'oggi un po' soffocano e molto limitano slanci e abbandoni; li dànno come intenzionali, li svuotano di vibrazioni romantiche; e ne fanno un determinato caso, che non sempre appare di per sé convincente. Barbara Laage, la gio­vane attrice che si era affermata ne La p... respectueuse di Pagliero, affronta qui una prova assai complessa, e sia pure con lo svantaggio di essere sempre male fotografata, ha qualche accento vibrante»
(M. Gromo, “La Stampa”, 13.10.1953).

«Oggi ci troviamo di fronte a una Traviata 53 di Vittorio Cottafavi, cui non è evidentemen­te estraneo l'esempio di Clouzot e della sua Manon (1949). […] La Manon di Clouzot offriva una certa prospettiva modernamente acre, en­tro cui si inserivano i personaggi mutuati dall'abate Prevost; la Traviata di Cottafavi […] non è che un parziale ricalco, di origine deteriormente letteraria e dai risultati assai poco eloquenti. Ricalco duplice, ché se lo spunto primo per il travaso è dovuto a Clouzot, il clima entro cui la romantica vi­cenda è stata, con preteso disincantato realismo, trasferita, è quel­lo, né più né meno, di Antonioni e del suo Cronaca di un amore (1950). […] Traviata 53 nel ricalcare ambienti, situazioni, personaggi di An­tonioni, rimane su un piano di assai maggiore genericità. L'im­pasto di realismo di seconda mano e di romanticismo residuo, da cui risulta il film, non offre una giustificazione plausibile, interiore (quale poteva essere il cinismo di Clouzot) per un si­mile tentativo, sprovvisto, ormai, di una sostanziale originalità. […] Il fulcro della nuova interpretazione risiede nella trova­ta che ha sostituito quello che è il centro della commedia: la de­cisione del sacrificio, vale a dire il dialogo col vecchio genitore […]. Nel film nessun incontro, nessun dialogo col padre, ma una volon­taria rinuncia di Margherita, conseguente - udite, udite - alla circostanza che il suo amante ufficiale, potentissimo nel mondo degli affari, ha fatto, per vendetta contro la sua relazione col giovane, sospendere dalle banche i crediti all'azienda del padre di lui, crediti che vengono riaperti non appena la donna ha com­piuto il sacrificio. L'espediente è abbastanza puerile ed improbabile, questo magnate dell'industria e della finanza che sfoga sul piano degli affari i suoi livori sentimentali è troppo ridicolo per essere preso sul serio. Specie quando, dopo tanto averne in­teso parlare, lo si vede comparire con le sembianze di Eduardo De Filippo e la voce di Giulio Pancali»
(G.C. Castello, “Cinema” nuova serie, n. 119, 15.10.1953).
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=30