ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS



Si alguién piensa o cree que algún material vulnera los derechos de autor y es el propietario o el gestor de esos derechos, póngase en contacto a través del correo electrónico y procederé a su retiro.




sábado, 1 de junio de 2013

Il primo uomo - Gianni Amelio (2011)


TITULO ORIGINAL Il primo uomo / Le premier homme
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 100 min.
DIRECCION Gianni Amelio
GUION Gianni Amelio (Novela: Albert Camus)
FOTOGRAFIA Luca Bigazzi
REPARTO Jacques Gamblin, Maya Sansa, Denis Podalydès, Régis Romele, Christophe Dimitri Réveille
GENERO Drama | Años 50. África

SINOPSIS Producción franco-italiana rodada en francés y dirigida por el italiano Amelio, basada en la última novela de Albert Camus, “El primer hombre”, obra inconclusa publicada en 1994. El protagonista es Jacques Cormery (alter ego de Camus), que regresa a Argelia para rememorar su infancia. (FILMAFFINITY)




L'Algeria secondo Camus, tradotta da Amelio

È il momento dei grandi promemoria dell'Algeria. Mezzo secolo fa, esattamente il 3 agosto del 1962 il Paese conseguiva l'indipendenza. I primi segnali importanti di insofferenza coloniale, chiamiamola così, si ebbero in Algeria nel 1911 con la nascita del partito dei Giovani Algerini. La traiettoria indipendentista prosegue con la fondazione a Parigi, da parte degli emigrati algerini, del movimento Stella Nordafricana, 1923. Nel '42 in Algeri – la Francia è occupata dai nazisti - si costituisce il governo provvisorio della Francia libera. Molti algerini si uniscono alla resistenza. Recentemente, Edgar Morin, il grande intellettuale francese ospite a Milano, ha ricordato quell'episodio: " Gli algerini si unirono ai francesi, molti morirono, e alla fine della guerra, invece di essere loro riconoscenti, continuavamo a trattarli come una colonia." Il novantunenne Morin ha parlato con cognizione di causa, era là. Nel '43 Ferhat Abbas che identifica insieme a Ben Bella, e ad altri, la lotta algerina, pubblica il "Manifesto del popolo algerino" e proclama la fine del regime colonialista. Seguiranno rivolte e repressioni, anche durissime, morirà un milione di algerini, su dieci milioni di popolazione, ci sarà, nel '57 la famosa battaglia di Algeri, prima di arrivare, nel 1962, alla firma di un armistizio con la Francia e all'indipendenza.

Premessa
Questa è la premessa storica opportuna per assumere la vicenda narrata ne Il primo uomo, firmato da Gianni Amelio. Il film si rifà al romanzo postumo di Albert Camus. Si racconta la vicenda di Jean Cormery che alla fine degli anni Cinquanta ritorna in Algeria dov'è nato, alla ricerca del suo passato. Jean Cormery è semplicemente Albert Camus. Le loro storie sono identiche. Camus nacque nel 1913 in Algeria. Studiò là in condizioni non certo facili. Si trasferì a Parigi, partecipò alla resistenza, nel '42 scrisse un libro importante, Lo straniero, che sarebbe diventato un film di Visconti nel '67. Nel '47 firmò uno dei romanzi fondamentali del Novecento, "La peste". Dieci anni dopo si vide assegnare il premio Nobel. Morì nel 1960 per un incidente automobilistico. Stava lavorando al "Primo uomo", appunto. Il codice della narrativa di Camus è l'insoddisfazione, l'incapacità, da parte dell'umano di trovare una giustificazione al vivere, e la coscienza dell'assurdo. E dunque, visto che il nodo non lo si può sciogliere, tanto vale dedicarsi a un compito, a un'azione, una qualunque purché sia un impegno profondo. Per lo scrittore, quell'azione era il suo Paese. "Assurdo" può significare la sua condizione di intellettuale francese ma che sempre rivendicò la sua radice nordafricana. Il protagonista Jean ritrova sua madre, sempre analfabeta ma positiva e saggia com'era da giovane. E corrono i ricordi, soprattutto della nonna, dura e basica, ma certo importante in quel contesto così difficile. Durante la sua visita Cornery-Camus assiste a un paese in apnea, certo non felice, non ancora libero. Il centro del ricordo sono gli anni Venti, quando Jean è alle medie, il tempo della formazione. È intelligente, più di tutti. E questo gli assegna di fatto, non cercato, un privilegio, una borsa di studio che gli permetterà di continuare, approfondire, diventare in giorno... Camus. Fra flash e presente Jean cerca anche di approfondire se stesso, di capire se il germoglio si è poi sviluppato secondo speranza e destino. Ma c'è davvero poco di felice intorno a lui e dentro di lui. E poi l'incontro più importante, col professor Bernard, ormai vecchio, al quale Jean deve quasi tutto, per cominciare la cultura dell'Algeria, la coscienza della condizione di colonia. E poi i grandi principi che da uomo, Jean svilupperà: la libertà e l'azione.

Finale
Camus, purtroppo, mancherà per due anni il grande momento finale. Non vedrà realizzati compiutamente il Paese e se stesso. Magnifica storia, romanzo in sonno (cinematografico) che Gianni Amelio ha affrontato e assunto, scrivendo la sceneggiatura. Ottimi gli attori con uno Jacques Gamblin che riesce ad assomigliare all'"originale" Camus. Amelio presenta il suo stile scarno e rigoroso, non ci sono impennate, invenzioni e accelerazioni. È il solito Amelio di sempre, esegue bene il compito che si prefigge. Ma con questa operazione si accredita di una grande benemerenza, in un momento, italiano, dove il cinema tocca argomenti diversi dalla cultura e da un respiro che non sia autoctono. Amelio sapeva in partenza che il film sarebbe stato apprezzato da pochi, e così è stato. Ma quei "pochi" sono quelli buoni.
Pino Farinotti
http://www.mymovies.it/film/2011/lepremierhomme/news/lalgeriasecondocamustradottadaamelio/

“Il primo uomo”, di Gianni Amelio, è un film dalle mille sfaccettature.
La fonte, come è noto, è problematica e molto discussa: si tratta di poco meno di 150 pagine di appunti e manoscritti che lo scrittore Premio Nobel Albert Camus aveva con sé in una sacca il giorno che morì in un incidente d’auto.
Se si prende l’edizione di “Il primo uomo” di Bompiani, all’interno sono riportate alcune fotografie delle pagine originali di quello che doveva essere (si pensa) un nuovo romanzo autobiografico (e di memorie) che necessitava però ancora di numerosi rimaneggiamenti.
Il regista ha quindi dovuto basare la sua opera su un trama forzatamente frammentata. E ciò si nota nei continui flashback e nella sovrapposizione tra passato, presente e ricordi.
Il cuore del film è il ricordo. Il ricordo che si cerca di rinfrescare andando a cercare qualcosa (o qualcuno) nei luoghi d’origine senza timore di rivivere situazioni di dolore, e che serve per far capire, allo scrittore, il perché è diventato un uomo così, con idee e convinzioni che sono eredità, sempre, dei germi della giovinezza.
Lo sfondo politico è critico: siamo in Algeria, in un momento di forti tensioni politiche tra due popolazioni, quella di origine francese e quella di fede musulmana, che si trovano a dover convivere in uno stesso territorio e ad affrontare attentati, proteste ed esecuzioni simboliche.
Il protagonista del film, uno scrittore diventato celebre in Francia, torna in Algeria per recuperare, innanzitutto, il ricordo del padre, morto a 25 anni nella prima battaglia della Marna durante la Prima Guerra Mondiale.
La scena iniziale è bellissima, ambientata in un cimitero che presenta tante croci, e tante tombe, tutte uguali e in serie. Qui lo scrittore comincia a porsi i primi problemi di coscienza anche correlati al suo mestiere:
“colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore”.
La scena va poi a descrivere la situazione politica diventata ormai critica. Si passa, insomma, dal tormento interiore a quello esteriore, l’idea (o la paura?) di una nuova Algeria dopo il colonialismo francese, la stanchezza dei compromessi e degli assassinii politici. Lo stesso scrittore viene accusato di non essere più algerino, e viene aggredito durante una conferenza all’università.
L’ambientazione e la fotografia sono suggestive e splendide. Viene raffigurata una terra negata, dimenticata, lontana, disprezzata, il mistero degli arabi e l’esotismo dei francesi. A volte una terra che sembra non essere né Francia né Algeria, alla ricerca di una sua identità.
Il protagonista si domanda continuamente se solo il sangue possa muovere la storia, se il dovere di uno scrittore sia quello di aiutare coloro che subiscono la storia, se la sua convinzione che vi possa essere una giusta coesistenza tra arabi e francesi sia giusta o sbagliata (meglio: impossibile), se ci possano essere persone libere e uguali in Algeria.
C’è moltissimo del miglior Gianni Amelio, in questo film.
I bambini, rappresentati con una delicatezza e un sentimento che non ha eguali. Nel loro rapporto con la legge e i divieti, nelle loro relazioni tormentate con nonne dispotiche e violente, con compagni di classe che pagano l’appartenenza a un’etnia diversa, con maestri che diventeranno riferimenti per tutta la vita, con il cinema muto e le storie d’amore.
Come dicevo, l’incompiutezza dell’opera di Camus è evidenziata con l’alternarsi di ricordi e con momenti, invece, di attualità.
Un tema molto forte è il rapporto con le persone, soprattutto con la madre, con il vecchio maestro che convinse la sua famiglia a farlo studiare e con un anziano compagno di scuola che si trova, ora, dall’altra parte, e che deve gestire la spinosa questione di un figlio diciottenne condannato a morte.
Vi è spazio anche per una breve parentesi legal: un processo indiziario, una condanna alla ghigliottina senza prove al fine di dare un esempio e per punire in maniera cruenta chi partecipa a moti di liberazione  e ad attentati.
Amelio ha compiuto, a mio avviso, un piccolo miracolo.
Aveva un materiale di partenza complesso (vista la statura letteraria di Camus), ma anche incompleto e controverso. Ha però unito tanti aspetti sino a rasentare la perfezione: la fotografia, l’attenzione ai volti delle persone e al loro dolore, i sentimenti e anche l’incantato mondo dell’infanzia proprio mentre la politica, tutto attorno, sta esplodendo in tensioni, e ne ha fatto un film davvero bello, emozionante e idoneo a far riflettere, alla fine, sulla condizione dell’uomo (anche) nella società attuale.
Percorso di approfondimento:
Viene naturale, dopo aver visto il bel film di Gianni Amelio, cercare il libro alla base della rappresentazione cinematografica, Il primo uomo di Albert Camus.
Noi abbiamo acquistato, a pochi Euro (4,90) la versione in e-book di Bompiani, che contiene anche alcuni contenuti interessanti (soprattutto fotografie e repliche degli appunti che erano nella sacca dell’autore al momento dell’incidente che gli tolse la vita.
Fu la figlia Catherine a recuperare dai rottami dell’automobile i fogli e a cercare di dare un’organicità a un lavoro che era in embrione. Il lavoro è apparso subito come un romanzo di formazione a ritroso, un ritorno all’infanzia e alle terre d’origine per cercare persone che avevano conosciuto il padre morto in guerra.La povertà, l’Algeria dilaniata da odio razziale, colonialismo e guerra ma, soprattutto, un’atmosfera che non vede il proprio passato ma non riesce neppure a scorgere il proprio futuro.
Camus nacque in Algeria nel 1913. Il Premio Nobel per la letteratura, che consacrò la sua carriera, gli fu conferito nel 1957. Morirà tre anni dopo nell’incidente che abbiamo citato poco sopra, il 4 gennaio 1960.
Giovanni Ziccardi
http://www.domenicale.org/?p=808

Questo Camus sono anche io: Gianni Amelio presenta Il primo uomo
Sono passati sei anni da La stella che non c’è, e solo ora Gianni Amelio si prepara a fare il suo ritorno nelle sale italiane con un film in realtà pronto da quasi un anno e al centro di alcune peripezie distributive.
Il primo uomo è la trasposizione cinematografica del romanzo postumo, incompiuto e autobiografico, di Albert Camus, nel quale lo scrittore e filosofo francese premio Nobel ripercorre la sua infanzia e i momenti immediatamente precedenti allo scoppio della Rivoluzione Algerina.
Il film, presentato al festival di Toronto del 2011, dove ha vinto il Premio FIPRESCI, debutterà venerdì 20 aprile nelle sale italiane.
Pur raccontando della storia e della vita di Camus, Il primo uomo è per Amelio un film molto personale, complici molte analogie biografiche tra lui e il francese: “Ho quasi il sospetto di essere stato scelto di questo film proprio per il mio passato,” ha infatti dichiarato il regista. “Forse qualcuno sapeva della mia infanzia povera, come quella di Albert Camus, del fatto che ho conosciuto mio padre solo in tarda età e quindi sono rimasto virtualmente orfano per molti anni, che come lui sono stato cresciuto solo da una mamma e una nonna molto energica, che ho lavorato da bambino d’estate e sono stato aiutato nel passaggio dalle scuole elementari alle medie grazie all’intervento di un insegnante. Senza osare spingermi troppo oltre, vorrei solo dire che Camus mi ha dato modo di raccontare fatti autobiografici che altrimenti non avrei avuto il coraggio di esprimere da protagonista. E vorrei ricordare che, da autore della sceneggiatura, ho scritto i dialoghi del film non basandomi su quelli del romanzo ma ritagliandoli dalle vere vicende della mia famiglia.”
A proposito di famiglia, Amelio ha voluto sottolineare come la figlia di Camus, Catherine [che ha anche curato la pubblicazione del romanzo postumo del padre, n.d.R.] ha voluto avere un controllo ferreo su tutta l’operazione, riservandosi tramite un contratto di ferro di ritirare titolo e nome di suo padre dal film se nella sua versione definitiva non ne fosse rimasta soddisfatta. “E invece,” ha detto il regista, “è stata più che contenta del film. È anche rimasta incantata dalla scelta del protagonista, nonostante inizialmente ne avesse indicato uno diverso. Non era inquieta per il ritratto pubblico e politico di suo padre, perché tanto gli ne hanno già dette di cotte e di crude: a Catherine Camus interessava l’aspetto privato e familiare, la rappresentazione di un padre o una nonna. È stata anche molto collaborativa nel corso delle riprese, e in un’occasione mi ha inviato via fax delle carte di Camus che avevo visto una volta a casa sua e che erano inerenti ad una scena che volevo girare con attenzione.”
Al di la dei dati personali e biografici, Il primo uomo ha anche un forte aspetto politico, trattando di una questione, quella della Rivoluzione Algerina, che ha numerosi punti di contatto col presente. “La battaglia di Algeri è un film fatto a caldo, che il governo algerino ha voluto subito dopo la rivoluzione per celebrare giustamente la vittoria,” ha commentato Amelio, rispondendo a chi gli chiedeva un parallelo con il celebre titolo di Gillo Pontervo. “È un film che nasce dalla cronaca e la sua forza sta nella tempestività con cui la cronaca è stato riprodotto sullo schermo. Infatti molti credevano fosse una specie di documentario, un cinegiornale. Io, invece, non ho fatto un film sulla guerra d’Algeria, ma su una guerra che può dividere le etnie. Ho cercato l’attualità della guerra d’Algeria oggi, paralleli con realtà ovvie dei nostri tempi. Le difficoltà di convivenza di etnie diverse nello stesso territorio rappresentano una questione centrali nei nostri tempi. Il primo uomo non è un film sulla scia di quello di Pontecorvo ma è tutt’altra cosa. È un film storico, come dicono alcuni giornalisti algerini: hanno detto che forse è il primo film che storicizza in modo preciso le due posizioni diverse, quelle dell’Algeria francese e quelle dei militanti arabi. Posizioni mediate dal pensiero di Camus, un pensiero che dice ‘sì alla rivoluzione  ma no al terrorismo’. Oggi si capisce meglio questo pensiero, allora considerato più di destra di quello di un Sartre che diceva solo ‘l’Algeria agli algerini’, in modo semplicistico.”
Amelio , però, sottolinea come molti dei temi e delle riflessioni del film non siano figli di una volontà precostituita: “Credo che le riflessioni sull’oggi emergano chiare, ma devo confessare che quando faccio un film non mi metto a calcolare le dosi, non cerco di mettere un tanto di passato e un tanto di presente. Faccio film con la pancia dopo averci riflettuto molto sopra. Tutto quello che arriva allo spettatore c’è, ma non è detto che io ce lo abbia messo dentro coscientemente. Sono contro i film a tesi, contro i film freddi e calcolati. Sono per i film che emozionino: quindi la Storia deve passare attraverso la storia di un protagonista. E Il primo uomo siamo noi, siamo tutti noi.”
Il regista, che non è tipo da avere peli sulla lingua, è poi tornato sulle traversie distributive del film, sottolineando come Il primo uomo uscirà in un numero di copie (una sessantina) che si auspica possano aumentare tramite il passaparola, e su quelle festivaliere.
Amelio ha infatti detto esplicitamente che il suo film non è andato a Venezia perché “non è stato voluto. Anzi, prima è stato voluto e poi, dopo due giorni, Muller ha cambiato idea,” che glielo chiese allora il Festival di Roma ma il regista rifiutò “per rabbia” e che a Toronto non accompagnò il film per via di dissidi con i produttori francesi “volevo che il film andasse a Berlino, per vicinanza col lo spirito del festival e con quella della data d’uscita. Un festival non serve come traino, se l’uscita del film non è poi immediata.”
E portarlo nella “sua” Torino, ha suggerito qualcuno con una battuta? “Non sarebbe stato elegante,” è stata la risposta.
In Francia, invece, Il primo uomo uscirà solo in ottobre. “Fin dai tempi della presentazione a Toronto nessun giornalista francese ha parlato del mio film,” ha chiuso Amelio. “Ho il sospetto che lo ritengano troppo filo-algerino.”
Federico Gironi
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=13121


Il primo uomo centra in pieno il punto della complessa riflessione camusiana apparendo storicamente e filosoficamente ineccepibile, ma perde troppo in afflato epico ed emozionale per tutta la lunga prima parte. È solo nell’ultima mezzora che Amelio riesce a liberarsi da una narrazione lievemente agiografica scavalcando in un sol colpo l’ultima fase della sua carriera (da Le chiavi di Casa a La stella che non c’è) per donarsi alla pura gioia di filmare un viaggio a ritroso verso il momento stesso della nascita.

Certo il compito era arduo. Adattare l’ultimo romanzo autobiografico di uno dei filosofi centrali del Novecento per scontrarsi con una ferita lontana – sono passati più di 50 anni dalla guerra d’Algeria – ma ancora vivissima nella coscienza francese, coprendo due epoche storiche del Paese nordafricano: gli anni ‘20 e gli “esplosivi” anni ‘50. Gianni Amelio cerca di scalare questa montagna, come un novello Sisifo di camusiana memoria che si approccia ad un gigante passato per misurare sul campo le proprie forze. Ma, a pensarci bene, il cinema di Amelio (almeno da Il ladro di Bambini in poi) è sempre stato cinema di viaggio, cinema di mo(vi)menti rubati alla consapevolezza intima di un cambiamento. E allora appena dietro questo primo uomo Camus, ne intravediamo un altro, il secondo uomo Amelio che racconta la sua origine (molti dei dialoghi tra il bambino e la madre, a detta dello stesso regista/sceneggiatore, sono dei suoi veri ricordi nella Calabria degli anni ‘50), il suo rapporto con il mondo adulto, con il bene e con il male. La parte dedicata all’infanzia dello scrittore Jean Cormery (alter ego di Albert Camus) è il film “alla Gianni Amelio”, pieno di piccoli momenti di vita e atti che segnano una crescita. Mentre la parte dedicata a Cormery adulto che torna in Algeria in piena lotta di liberazione è il film dedicato alla figura storica, all’uomo in rivolta.
Amelio tenta di rendere (giustamente) complesso un discorso che troppo spesso è stato ridotto a una schematica lotta ideologica: chi per il colonialismo e per il governo francese, chi per gli algerini e per la liberazione delle terre africane dal giogo europeo. E la posizione di Camus (mai semplice per definizione e per questo spesso mal interpretata) viene piazzata al centro della riflessione concettuale del film: contrarietà al colonialismo e adesione ai valori della resistenza, ma non a scopo di una lotta armata, non a scopo di far sgombrare i coloni (tra cui, ovviamente la sua stessa famiglia) tantomeno con la violenza. È questo il senso profondo della famosa frase: “tra la giustizia e mia madre, io scelgo mia madre!”. Utopia camusiana – consapevolezza dell’assurdo, dell’impossibilità di fondere desiderio e vita – che lo rende di per sé un sublime straniero. Ecco: se il film di Amelio centra in pieno il punto del ragionamento di Camus apparendo storicamente e filosoficamente ineccepibile, perde però in afflato epico ed emozionale almeno per tutta la lunga prima parte. È come se il regista avvertisse una sorta di timore reverenziale per il testo di partenza, nei confronti di un ingombrante retroterra che prende il sopravvento sulle inquadrature e le svuota di passione filmica. È solo nella seconda parte (dal bellissimoincontro in carcere tra un padre algerino e un figlio terrorista) che il film riesce a scacciare la narrazione lievemente agiografica facendosi improvvisamente “cinema”: campo e controcampo senza respiro, diviso da inferriate, un primo piano insistito e astrattivo che riconsegna vibrante tensione umana.
E poi il piccolo Jaques che cammina verso il mare come l'Antoine Doinel di Truffaut, osservando sua madre innamorata o sua nonna sospettosa, capendo tutto, ma andando avanti trascinando la macchina da presa con sè in un lungo e baziniano piano sequenza…è una scena che vale l’intero film. Amelio, nei minuti finali, scavalca in un sol colpo tutta l'ultima fase della sua carriera (da Le chiavi di Casa a La stella che non c’è) rinchiusa un po’ troppo in un calcolato formalismo minimalista e si dona alla pura gioia del filmare l'intimità di un uomo, il suo struggente sguardo d'amore verso la madre. Ecco che il film dalla valenza biografica (per Camus) e autobiografica (per Amelio) raddoppia il percorso interno di Cormery muovendosi verso un'ostinata ricerca di purezza nella genesi (il primo uomo…), del momento stesso della nascita da contrapporre alla complessità delle sovrastrutture politico/sociali. Perché se il problema filosofico di Camus è sempre stato il capire se la vita valga o no la pena di essere vissuta, allora bisogna ritornare alle origini, alla purezza del qui e ora, al chiedersi semplicemente se quest’inverno “staccheranno o meno la luce in casa nostra”...
Pietro Masciullo
http://www.sentieriselvaggi.it/307/46289/Il_primo_uomo,_di_Gianni_Amelio.htm

L’inizio dell’epilogo della pellicola è qui parto per quella consequenzialità di scene, commovente, carica di simbologia intrinseca non solo di questa fase del racconto ma complessiva nel suo significato: si susseguono la nascita del bambino - l’essere cullato per la prima volta tra le braccia del padre bagnato mentre era "notte e pioveva" – e un agnello allattato dal suo contadino, che stringe anch’esso l’animale tra le braccia, proprio come un neonato, nella cascina che probabilmente fu luogo della venuta al mondo di Jacques.
Il film inizia però con una natura che sembra ricordare la pittura pointillisme, capace di restituire artisticamente il fuori fuoco. Poi, l’ingresso di un anziano e la voce fuori campo del protagonista che – anticipazione di quanto poi sarà ordinato dal maestro in classe: "adesso raccontiamo un'altra storia: ciascuno mi deve una parola sul proprio padre" - fornisce le informazioni per identificare suo padre, uno dei temi della storia. Subito dopo, tutt’altro che fuori fuoco, una spianata di croci cimiteriali su una melodia di suono di archi, evocativa d'angoscia, e il padre, lì.
Il film è iniziato ma la storia inizia davvero nell’istante in cui, dallo stesso letto in cui ora Jacques adulto riposa supino su invito dell'anziana mamma, da bambino si alzò, sul suono ruvido del russare della vecchia nonna appesantita, per uscire a guardare la sua Algeria: il caldo fermo, gli anziani arabi borbottanti e gli asinelli a traino dei carretti, fino a finire di salire su uno di questi, "imprigionato" come Pinocchio da Mangiafuoco. Qui si apre un’inquadratura pittorica, poetica e drammatica: la panoramica dell'Atlantico, le rocce rosa aranciato e questa gabbietta per cani, di un celeste simile al mare, al centro di tutto e di cui cuore è il bambino "punito" per un giocoso errore.
Il film, che impone una lentezza meditativa, riflessiva, intellettuale e necessaria a non disperdere i dettagli degli animi, è un racconto che appare lontano eppure in cui non è così difficile identificarsi, in qualche dettaglio, in qualche nonna, in qualche sogno: il rapporto passato-presente è nel rapporto tra generazioni. Il confronto del bambino con la nonna e del figlio con la mamma è diretto, non filtrato, non accarezzato dall'affetto ma determinato dal dover vivere, anzitutto.
E qui viene in soccorso anche il cinema, canale di comunicazione tra le generazioni: il bambino Jacques è nella sala di un cinema con la nonna, lui sa leggere e recita così il ruolo dell’adulto leggendo a lei i cartelli, tipici del muto, sullo scorrere di un film d'amore interpretato da una degli astri di quella cinematografia. Ma la memoria, il rapporto tra i tempi, sono anche i sandali perduti, per cui Jacques resterà scalzo tutta l'estate, o la mamma vedova e succube di una nonna capace di vergare il nipote come punizione.
Il bambino torna soggetto nel cinema di Amelio: il bambino come saggezza, compresa quella espressiva, pari a quella delle parole che gli sono messe in bocca dalla sceneggiatura, del piccolo Nino Jouglet, infantile corpo d’attore in fase di esordio che impartisce una vera lezione d’interpretazione: la raffinatezza estetica dei tratti ne restituisce la cristallinità d'animo dell'infanzia e la serietà dell'adulto che si intuisce vivere sin da lì e riproporsi poi nel protagonista adulto, Jacques Gamblin, sguardo vitreo, di un azzurro febbrile, e incarnato vivo, pallido ma epidermicamente vibrante. Queste note “di pelle” sembrano avere la stessa compatibilità e lo stesso contrasto che sussiste tra musulmani e francesi e tra lui e la sua terra d'origine.
La fotografia di Yves Cape restituisce l’affascinante decadenza sabbiosa del Maghreb e illumina i primi piani, uno per tutti quello del bambino.
Il romanzo di Albert Camus, da cui la versione di Amelio è tratta, è un’opera autobiografica da cui si evince anche il destino: il destino era la scrittura e, poiché il primo uomo di questa storia non è Jacques Cormery ma Albert Camus, l'opportunità di lavorare bambino in una tipografia, sollevando pesantissime risme di fogli o ordinando dadini di piombo con lettere tridimensionali da timbro, è quella che si chiama destino-scritto, e la cosa non può passare inosservata.
Il futuro di Jacques è innervato nel bambino. Il futuro è bambino e lo è soprattutto nella sublime interpretazione del piccolo Nino che con naturale talento è - e non interpreta - il bambino Camus: un bambino francese di oggi che ha metabolizzato l'Algeria del periodo, una nonna tradizionale e di metodi rigorosi, una mamma vedova, un maestro troppo saggio in cui ha intravisto un padre, uno zio analfabeta e operaio che gli ha fatto assaggiare la prima sigaretta.
E’ questo talento a garantire la convivenza armonica dei piani di presente e passato, tracciando la linea di confine della temporalità - "un bambino e' il germoglio dell'uomo che diventerà", recita il maestro Denis Podalydès - non facendola avvertire come una fessura troppo netta, bensì come due momenti di uno stesso uomo che era quello che è.
Nicole Bianchi
http://www.paperstreet.it/cs/leggi/1626-Il_primo_uomo_-_Gianni_Amelio_(Anteprima).html

1 comentario:

  1. Gracias por este nuevo Gianni Amelio, que siempre es muy difícil de conseguir

    Tu blog solo mejora, Amarcord

    Gran abrazo

    ResponderEliminar