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miércoles, 31 de julio de 2013

A mosca cieca - Romano Scavolini (1966)


TITULO ORIGINAL A mosca cieca
AÑO 1966
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 63 min.
DIRECCION Romano Scavolini
GUION Romano Scavolini
MUSICA Vittorio Gelmetti
FOTOGRAFIA Cesare Ferzi, Mario Masini, Roberto Nasso, Romano Scavolini (B&W)
REPARTO Carlo Cecchi, Laura Troschel, Emiliano Tove, Remo Remotti, Giuseppe Valdembrini, Ciro Moglioni, Cleto Ceracchini, Paola Proctor
GENERO Drama | Cine experimental

SINOPSIS Guidato dal Caso, un individuo trova una rivoltella in una macchina in sosta e decide di utilizzarla per colpire - altrettanto aleatoriamente - un'ignara vittima scelta fra la folla in uscita dallo stadio. (Film Scoop)


Subtítulos (Inglés)

Lo Splattercontainer è lieto di presentarvi un documento più unico che raro: si tratta di un'intervista esclusiva rilasciataci dal leggendario filmmaker Romano Scavolini.
Con più di quarant'anni di carriera cinematografica alle spalle e almeno due capolavori assoluti all'attivo, lo ringraziamo per aver abbandonato il carattere schivo che lo ha sempre contraddistinto ed essersi prestato alle nostre domande. 
Buona visione.
Michael Guarneri

SC - In quanto autore di una delle pietre miliari del cinema sperimentale italiano [mi riferisco al film A mosca cieca (1966)], ritiene che lo sperimentalismo cinematografico – pur nella varietà pressoché infinita delle sue manifestazioni particolari – possa essere definito come un tentativo di espressione artistica al di fuori dell'industria dello spettacolo?

RS - Ho pensato spesso a come rispondere a questo tipo di domanda, se – appunto – il cinema sperimentale fosse o no una presa di posizione anti-estetica rispetto al cinema tradizionale. 
L’unica risposta che sono riuscito a trovare, cercando “dentro di me” ed evitando risposte che potessero suonare ipocrite e “scritte a posteriori”, è che allora non ne sapevo niente, ma proprio niente del cosiddetto “cinema sperimentale”. Sinceramente e con tutta l’onestà possibile, io ho solo pensato a “costruire” un film secondo le mie pulsioni estetiche, in maniera del tutto naturale, direi quasi, senza seguire una “strada” e senza avere un “sistema” al quale rifarmi.

Capisco che dal punto di vista storico è necessario sistematizzare ogni cosa, aprire e chiudere le parentesi, irretire un certo cinema all’interno di “etichette” affinché sia possibile, appunto, la storicizzazione. Ma io onestamente sono sempre sfuggito a questo tipo di categorie. Posso parlare di quanto ho lavorato sul montaggio, di quante volte ho ri-costruito e poi de-costruito A mosca cieca, di quanti interventi ho pensato di inserire nel film operando direttamente sui frames e, infine, di quante ore sono rimasto davanti al taglio di due fotogrammi perché uno solo era troppo poco e tre erano insopportabilmente troppi. Il cinema “sperimentale” aveva questo tipo di ricchezza, ma anche di libertà totale di fronte alla cosiddetta “realtà”. Il cinema tradizionale ha sempre inseguito ossessivamente “la storia”, lo sperimentalismo cinematografico come primo atto ha “distrutto” la storia per occuparsi solo dell’uomo.

SC - Quale è stata la modalità produttiva di A mosca cieca? Aveva dei finanziatori? Quale è stata la distribuzione del suo esperimento off-studios all'interno del circuito commerciale?

RS - Il film è stato prodotto – se così si può dire – da Enzo Nasso, ma in pratica è stato fatto interamente da me… Nasso mi ha solo dato una montagna di negativo in 16mm, scaduto e di vario taglio, avanzi, emulsioni diverse eccetera, garantendomi che lo avrebbe mandato allo sviluppo e alla stampa, e infine mi mise a disposizione una moviola. Ci ho messo quasi un anno a girare e montare A mosca cieca, mentre lui stava alla finestra a guardare che fine avrei fatto. 
Non gli permisi mai di venire in moviola per vedere cosa stavo facendo: in fondo non era il produttore ma solo un “mentore”, un “simpatizzante” che mi dava i pennelli per dipingere. 

Infatti, quando gli dissi che avevo finito il film e che durava sei ore, impallidì: era certo che avrei gettato la spugna, che non avrei mai finito il film, e invece, con sua enorme sorpresa, ero pronto a mostrarglielo. Dopo averlo visto con me, turbato, non disse niente per alcuni giorni. Poi una mattina, ancora commosso, venne a trovarmi e mi disse che aveva fatto vedere il film completo al suo amico [Giuseppe] Ungaretti, e che questi gli aveva detto che aveva in mano un autentico capolavoro. Mi disse che lo avrebbe iscritto regolarmente come film italiano al Ministero, ma che dovevo ridurlo almeno della metà, altrimenti non me lo avrebbe trasportato in 35 mm: non era disposto a spendere soldi per un blow up di sei ore…
Ritornai in moviola e de-strutturai il film: siccome era un film che si sviluppava su tre livelli, decisi di toglierne due e restare solo con una storia… Inutile dire che solo pochissime persone hanno visto A mosca cieca in versione integrale, perché quello che circola oggi è la seconda versione della mia “seconda versione”. 
Per quanto riguarda la distribuzione, A mosca cieca è un film “proibito” in Italia, censurato e messo al rogo metaforico da tre commissioni di censura e infine anche da un editto del Consiglio di Stato…

SC - A mosca cieca non può essere considerato un film dell'orrore. Tuttavia, grazie a scelte estetiche spiazzanti (“mutismo” del film, inserimento di found footage, ellissi, ripetizioni e proliferazione dei tempi morti), è riuscito a creare un clima allucinato di lenta discesa nella follia che pochi film di genere propriamente horror hanno eguagliato. Nelle sue intenzioni, la ricerca formale doveva andare di pari passo con l'indifferenza nei confronti del pubblico e delle leggi del mercato? C'era un “bacino di utenza” a cui mirava oppure si considerava un avanguardista d'élite?

RS - A mosca cieca è un film beckettiano. In fondo si tratta di un semplice omicidio con la variante – del tutto voluta – che nel protagonista è assente qualsiasi senso di colpa. L’inferno di Carlo o, se vogliamo, la discesa negli inferi della sua anima desertificata, è data dall’assenza totale di ogni senso di colpa.
Il cosiddetto “bacino d’utenza” c'è sempre stato per un film come A mosca cieca, tanto è vero che quel “plot” è ancora saccheggiato in decine di film, l’ultimo dei quali è A single man (2009).

Non mi sono mai considerato un autore d’élite. Neanche un autore, neanche un cineasta, non mi sono mai sentito bene dentro qualsiasi “etichetta”. Ho fatto film spinto da una coscienza esaltante che prendeva (che continua a prendere) il sopravvento sulla mia storia mondana. Questa è anche la ragione per cui non sono mai appartenuto a nessun gruppo, a nessuna scuola, a niente di codificabile, a niente di rintracciabile. In genere, tutti sanno che non partecipo ad alcuna manifestazione per il cinema e anche se conosco molti cineasti, preferisco starmene per conto mio.

SC - Come ci suggeriva un attimo fa, A mosca cieca introduce nel cinema italiano un topos immediatamente fatto proprio da altri suoi colleghi “impegnati” [si veda, ad esempio, il Ferreri di Dillinger è morto (1969)]: l'analisi del rapporto uomo-arma da fuoco come sintomo di psicopatologia della vita quotidiana.
Nel materiale che accompagna l'edizione VHS della Rarovideo, Bruno di Marino traccia un parallelo tra il suo film e Lo straniero di Camus. Personalmente, penso che l'atto di sparare a caso sulla folla sia riconducibile più alla rivolta estetica surrealista (Breton) che a quella etica dell'esistenzialismo. Il gesto di sparare a caso sulla folla che esce dallo stadio può essere considerato un suo atto di ribellione contro l'idea di spettacolo/entertainment tradizionale? Che tipo di malessere voleva esprimere? La metafora, infatti, è tanto potente quanto aperta alle interpretazioni più varie...

RS - Ho già detto molte volte, e anche a Bruno di Marino (il primo a parlare di A mosca cieca come una specie di rifacimento de Lo straniero di Camus) che questa interpretazione è falsa, ma sta dilagando nonostante le mie riserve. Ne Lo straniero, Meursault non uccide per caso – non uccide a occhi bendati come Carlo in A mosca cieca – uccide ben sapendo chi uccidere. Durante il processo Meursault è inviso al giudice, che vorrebbe vedere nell’accusato un sentimento di ravvedimento per l’omicidio commesso: il protagonista camusiano chiede di essere “straniero” all’interno di una macchina burocratica che non sa vedere “la vita”, “l’esistente”. In A mosca cieca, invece, non c’è neanche l’ombra di una storia giudiziaria. Non c’è neanche l’ombra di un’emozione, neppure l’amore tra Carlo e Laura è abbastanza forte da gettare un senso di umanità nel deserto interiore del protagonista. All’epoca la critica militante cattolica disse che A mosca cieca era il film più attuale che fosse mai apparso sulla scena cinematografica, perché il suo protagonista testimoniava in maniera evidente la mancanza di Dio nella società moderna: avevano colto nel segno.

Sinceramente non ho mai pensato che Carlo dovesse rappresentare la mia rabbia o la rabbia latente nella società... non ci ho mai pensato. All’inizio doveva essere un film quasi epico: il protagonista agiva mentre attorno a lui si aprivano squarci di altre esistenze, come per esempio quella della sua vittima. A mosca cieca doveva gravitare attorno a delle “sincronicità” a-casuali, a-temporali, a-spaziali. Le uniche parole che si poteva udire nella colonna sonora originale del film erano: “E' già l’alba” [“Si è fatto giorno” nell'edizione Rarovideo] e “Chi ha voluto ascoltare ascolterà sempre, sia che sappia di non sentire più niente, sia che lo ignori”, tratte da Samuel Beckett. 
Lo straniero di Camus non c’entra per niente. Nonostante Bruno di Marino sia un critico molto acuto e intelligente e abbia colto molti aspetti cruciali del film, il nocciolo duro non era Albert Camus. Quando dopo anni gliel’ho detto, Bruno mi ha chiesto come mai non l’avessi fermato. Io ho semplicemente risposto che ognuno si assume la responsabilità di “vedere” i miei film e pensare quello che crede. 
Il mio compito non è dire che quell'analisi è giusta oppure no. Io penso onestamente che ogni film, alla fine sia di proprietà dello spettatore.

SC - Il finale di A mosca cieca mi è parso quasi una parodia di quello di Ladri di biciclette (1948). In entrambi, infatti, la casualità e la massa anonima all'uscita dello stadio olimpico giocano un ruolo decisivo. Il collegamento era intenzionale?

RS - Oggi sembra facile poter fare dei parallelismi dal momento che viviamo in una società in cui i DVD si vendono per strada e i classici si possono scaricare da Internet a piacimento, ma all’epoca non c’erano i DVD e Ladri di biciclette era un film che avevo visto quando neppure pensavo al cinema. Niente parallelismi quindi.

SC - Nel 1965 Grifi e Baruchello avevano esordito con La verifica incerta, mentre nel 1968 Mario Schifano realizza Satellite. Esistevano contatti, una sorta di “rete” tra voi sperimentatori underground attivi a Roma (e in Italia in generale)?

RS - Grifi e Baruchello, raccogliendo gli avanzi di pellicola destinati al macero, fecero un’operazione dadaista (cioè anti-cinematografica, anti-estetica) e vennero applauditi dai dadaisti francesi, ma La verifica incerta si può considerare solo una specie di “video arte” dell’epoca perché poi Blob [il programma di Rai3] non ha fatto altro che saccheggiare l’idea moltiplicandola all’infinito. Raccogliere spezzoni di film, soprattutto di scene “proibite”, lo aveva già fatto la distribuzione cinematografica che faceva capo alle sale parrocchiali, e infine Peppuccio Tornatore usò quell’assemblaggio per il bellissimo finale di Nuovo Cinema Paradiso (1988).

Schifano non voleva fare cinema, ma solo cine-arte, come anche Baruchello, che in effetti non è un cineasta ma un artista che agisce nel panorama della pittura e, di tanto in tanto, utilizza il cinema come forma di video-arte. Per quanto riguarda l’esistenza di un “movimento”, io credo – e l’ho sempre pensato – che non sia mai esistito in Italia qualcosa di analogo alla Nouvelle Vague francese. C’è stato un momento in cui il cinema si era messo al servizio della contro-informazione, ma la vera contro-informazione doveva esprimersi attraverso la rottura del “linguaggio” cinematografico. 
In effetti, lo sperimentalismo italiano – quel poco che si è fatto nel cinema – è stato poi razionalizzato dall’industria della pubblicità: fine dei giochi!

SC Cosa pensa della modalità di auto-produzione per un cinema sperimentale in digitale di Giulio Questi [Cfr. l'antologia di corti By Giulio Questi (2008)]?

RS - Di Giulio Questi, per mia totale mancanza, conosco poco. Cercherò di rimediare, perché credo che meriti molta più attenzione di quanta ne abbia ricevuta fino ad oggi.

SC - Nel 1972 lei dirige Un bianco vestito per Marialé, film di genere, low budget e audience oriented: passa così da outsider a integrato. Come ha ottenuto la direzione del film? E' intervenuto molto sulla sceneggiatura originale?

RS - All’epoca avevo prodotto un film a mio fratello [Amore e morte nel giardino degli dèi] e mi ero indebitato. Avevo firmato una montagna di cambiali da pagare. Così accettai di farmi trascinare in quell'avventura per pagare i debiti. Presi in mano la sceneggiatura originale e la riscrissi rimettendo le mani su circa l’80%. Come ho detto, ho riscritto più della metà della sceneggiatura, ma non ho voluto firmarla. Ho firmato la direzione degli attori (il cast era già fatto) e la fotografia… e sono stato anche in macchina! 
Per dovere di cronaca, ricordo che anche Marialé – come A mosca cieca – andò incontro a vari attacchi da parte del Vaticano e alla fine i distributori lo ritirarono... fu invece venduto bene molto in U.S.A.

SC - Di Marialé trovo straordinaria l'incertezza in cui si rimane riguardo all'identità dell'assassino nel finale (a meno di voler credere alla poco convincente spiegazione fornita da uno dei personaggi e a un killer con il dono dell'ubiquità). 
Più in generale – vedendo il film – mi pare che lei sia uno dei registi che più hanno radicalizzato l'attitudine decostruzionista verso i topoi dell'entertainment “di genere”. E' un'eredità del suo periodo “terrorista” da sperimentale? Aveva dei modelli/idoli polemici?

RS - All’epoca, quando mi si chiedeva chi erano i miei punti di riferimento nel cinema, davo una risposta che praticamente spiazzava chiunque la udisse: amavo ed amo solo Kaneto Shindo [Cfr. Onibaba (1964)]! Un cinema puro, in cui lo spettatore è preso nell'infinita rete del “vuoto”. Un cinema pneumatico, in cui lo spettatore respira con le immagini... sentendo il proprio respiro.
Solo chi ama il cinema come lo amo io può essere considerato pericoloso, perché il cinema per me non è una “pausa pranzo”, ma sottoporsi ad un’operazione chirurgica. Il cinema deve fare male: lo spettatore deve essere tenuto sempre sveglio, e lo si può fare solo spiazzandolo. Il cinema è, per sua natura, una forma di intrattenimento che sfrutta uno stato ipnotico (ipnagogico) dello spettatore. Io combatto questo “stato alterato di coscienza” ogni volta che posso farlo, perché lo spettatore è come un cieco che cammina in cerca della luce: quello che vede sono solo ombre, ma lui deve lottare per andare oltre le ombre… oltre la macchina di proiezione, oltre lo schermo, perché il vero schermo è la coscienza dell'individuo.

SC - L'espediente della “soggettiva dell'assassino” non è certo una novità nel giallo all'italiana (L'uccello dalle piume di cristallo, per esempio, è del 1970). Tuttavia in Marialé lei ne fa un uso a dir poco massivo: si tratta, come in Reazione a catena (1971) di Mario Bava, di un modo rapido ed economico per girare una scena, oppure ci sono altre motivazioni che l'hanno spinta ad usarla?

RS - In tutta sincerità, io credo che sia un modo economico per girare una scena, ma se fatta bene produce anche suspense. Il fatto è che Marialé aveva molti personaggi e non potevo inquadrarli tutti escludendo l’assassino, altrimenti lo spettatore se ne sarebbe accorto. 
Quindi la “soggettiva” è un espediente per poter manipolare liberamente lo stato d’ansia che prova lo spettatore.

SC - In base alla sua esperienza personale su entrambi i fronti, cosa può dirci di un sistema economico-artistico in cui l'ipertrofia del cinema “di genere” era chiamata a sostenere un numero limitato di prove d'autore difficilmente classificabili come “prodotti spettacolari” (penso, per esempio, alle opere di Antonioni e Pasolini)?

RS - I produttori di Antonioni e Pasolini – ma anche di Rosi e tanti altri maestri del cinema italiano – sono stati sostenuti grazie agli introiti dei film di Totò e, comunque, dal quel cinema di “facile digestione”. Ogni produttore italiano di una certa classe, all’epoca, voleva avere il suo nome abbinato a dei “grandi film”, pur non capendo niente di cinema d’autore. Poi, ovviamente, si sarebbe rifatto delle perdite producendo la commedia all’italiana. 
Il primo film di Pasolini, cioè Accattone (1961), doveva essere prodotto da Federico Fellini, che però si ritirò – disse lui – perché non era così sicuro che Pasolini sapesse fare cinema!!! Anni dopo confessò senza ipocrisia questa sua mancanza di “visionarietà”, proprio lui che era considerato il padre dell’iper-realismo. In sostanza, Fellini disse di non sapere niente del cinema, eccetto di quello fatto da lui.

SC - All'inizio degli anni Ottanta lei gira Nightmare in a damaged brain, uno slasher finanziato da un produttore americano. Può dirmi di più sulla produzione? Il progetto era suo o le è stato offerto? Se non ricordo male, lei è accreditato esclusivamente come director. Ha svolto altre mansioni? La produzione è stata soddisfatta del risultato? Ha coperto i costi?

RS - Vivevo negli Stati Uniti già dal 1974. Avevo realizzato Savage hunt [1980] e sono stato sempre considerato dalla critica U.S.A. un regista italo-americano e non un italiano sbarcato a New York in cerca di un produttore americano. Le cose stanno così: avevo scritto un soggetto depositato già nel 1979 alla “Writers Guild of America” di cui sono membro, e sono stato contattato dalla Gold Mine per farne una sceneggiatura e dirigere il film. Il titolo vero è Nightmare, l’aggiunta di quel modesto “in a damaged brain” è opera di un distributore australiano di DVD.

Non sono accreditato solo come director, ma anche per la story, come screenwriter, e infine come produttore associato con Bill Paul, Bill Milling e Simon Nuchtern.
Il film ha incassato oltre 60 milioni di dollari nei primi 12 mesi di distribuzione negli U.S.A. ed è stato in testa alle classifiche in moltissimi paesi. Ancora oggi il DVD uncut è uno dei più venduti online.

SC - In quanto nasty movie, il film deve la sua fama principalmente al body count e agli effetti speciali. Lo ritiene comunque un'opera personale?

RS - Il cosiddetto “body count” è senza dubbio la principale prerogativa del film: prima di me, nessun regista aveva avuto il coraggio di realizzare un film in cui lo spettatore poteva assistere a un’azione violenta direttamente, senza tagli di montaggio, dal primo all'ultimo fotogramma. 
Grazie a questa scelta (oppure “per colpa di questa scelta”), il film uscì in 117 sale a New York accompagnato dal rating XXX, cioè film quasi pornografico. 
La seconda ragione per cui la ritengo un'opera personale è la struttura del film. C’erano due storie parallele che si muovevano su una unica traccia: la storia di C.J. che terrorizza le sorelle e la madre (ma alla fine il vero orrore arriva da fuori) e la storia di George Tatum che fugge dall’ospedale per ritornare a casa… Il film finisce per far convergere queste due storie solo alla fine, svelando che hanno entrambe origine da un unico trauma infantile.

SC - Quale è stato l'apporto di Tom Savini?

RS - La polemica montata da Tom Savini sul film ha dell'incredibile: morso dall'invidia e per questioni di soldi, ha detto in giro di non aver mai partecipato al film. L’ho dovuto sbugiardare facendo pubblicare le foto in cui è ritratto con l’ascia in mano, mentre insegna al ragazzino come decapitare la madre. 
Per il resto, Tom è un ottimo professionista ma la rabbia, la frustrazione per essere stato solo uno dei tanti “special effects makers” lo ha reso cieco… e infine... ridicolo!

SC - I bloodbaths barocchi di Nightmare stridono con la mancanza assoluta di sangue negli assassinii del suo “poliziottesco” (in senso molto lato) Servo suo (1973). Fu una scelta consapevole, in quest'ultimo film, l'eliminazione di dettagli gore e ammiccamenti stilistici?

RS - Servo suo è un film di dieci anni anteriore a Nightmare e non aveva quelle particolari caratteristiche da “bloodbath”. Era una storia che aveva il suo nucleo centrale in una vendetta di mafia e il sangue non c’entrava per nulla.

SC - I suoi film finora citati sono gli unici che sono riuscito a reperire e visionare (insieme a La prova generale [1968], che però esula dal campo di competenza di questo sito). Dove posso trovare gli altri?

RS - Non ho idea. Ho fatto film – mi sembra di aver capito – di cui non avete neppure idea, ma non so come aiutarvi perché mi interesso molto poco al destino delle cose che faccio…

SC - Ha fatto, intende fare o farà altre incursioni nell'horror (in senso ampio)?

RS - Sto finendo di montare la mia trilogia L'apocalisse delle scimmie, che ho iniziato a girare nel lontano 2004. Sono passati 6 anni. Credo che questa trilogia possa rispondere a molte delle sue domande.


Era ora che – dopo tanti anni di inspiegabile oblio – si cominciasse a rivalutare e a sottrarre dalla rimozione il cinema di Romano Scavolini, autore davvero singolare del panorama italiano, a metà strada tra underground e cinema ufficiale, fiction e non-fiction, con alle spalle decine e decine di corti, molti dei quali appaiono oggi di una sconvolgente modernità linguistica (da Alle tua spalle senza rumore a Ecce Homo, da Gli inviati speciali ad Alzate l’architrave carpentieri), spesso basati semplicemente su immagini fisse, siano esse disegni o fotografie, accompagnate da un commento molto incisivo (parlo de La quieta febbre o L.S.D.).
Ma Scavolini è autore anche di svariati lungometraggi, due dei quali – A mosca cieca (1966) e La prova generale (1968) – sono legati a vicende produttive e censoree, ancora tutte da raccontare. 
Ispirato a Lo straniero di Camus A mosca cieca – che resta l’opera più significativa di Scavolini – racconta di un uomo (Carlo Cecchi) che trova per caso una pistola dentro una vettura in sosta, se ne impadronisce e finisce con l’usarla altrettanto “casualmente”, uccidendo un uomo che esce dallo stadio la Domenica pomeriggio.
Il film racconta questa lucida attesa, la vita quotidiana dell’uomo, la relazione con una serie di persone (la sua compagna, un amico, il padre...) ma soprattutto il suo rapporto con questo oggetto, così “significante” da spingerlo a commettere un atto estremo per dare un senso non tanto alla propria esistenza, quanto a quella della pistola, che vive appunto di vita propria. Questo gesto radicale, in linea con l’estetica surrealista che istigava a sparare a caso tra la folla, rientra dal punto di vista tematico nel cinema della rivolta precedente o successivo di Bellocchio (I pugni in tasca, 1962), Bertolucci (Partner, 1968), Ferreri (Dillinger è morto, 1969), ma con modalità di rappresentazione ben più rivoluzionarie: la narrazione seppure ancora rintracciabile è continuamente stravolta e sabotata innanzitutto dalla soppressione del dialogo, poi da inversioni nella successione temporale, reiterazioni ossessive di gesti (il furto della pistola, il gettarsi sfinito sul letto), da inserimenti di segni, parole o formule matematiche, in modo da saturare di significanti l’immagine, ridestare continuamente l’attenzione dello spettatore, svelandogli l’artificio della messa in scena ma anche frustrando le sue aspettative: come quando una freccia in sovrimpressione indica la futura vittima.
A mosca cieca di Scavolini è diventato, suo malgrado, un film “maudit”, a causa di interminabili peripezie giudiziarie, conclusesi all’epoca con il sequestro della copia originale, tuttora custodita negli scantinati dell’ex Ministero dello Spettacolo. L’accusa fu quella di “pornografia” per il seno di Laura Troschel fugacemente mostrato. L’autore e il produttore Nasso si rifiutarono di tagliare i fotogrammi incriminati e fecero appello al Consiglio di Stato: il risultato fu che A mosca cieca venne bocciato da ben tre commissioni censoree. Malgrado ciò il film fu presentato a Pesaro nel 1966 e fu apprezzato tra l’altro da Joris Ivens e Jean-Luc Godard, per poi essere visto – sotto altro titolo, per eludere la censura – a Berlino, Carlovy Vary, San Francisco, New York, Mosca, ecc.  
Prima ancora dello scottante tema - che preannuncia la futura stagione dell’eversione terroristica - ciò che fece impaurire i censori fu lo scardinamento dei canoni cinematografici, il fatto che non solo l’omicidio rappresentato restava senza motivazione ma la stessa rappresentazione si presentava come “libera” da ogni logica. Al gesto liberatorio del protagonista che finalmente può usare un oggetto costruito per sparare o contro se stesso o contro gli altri, si affianca il gesto liberatorio di Scavolini che può usare per gran parte del film la camera a mano, adottando uno sguardo voyeuristico e “selvaggio” che esprimesse il vuoto esistenziale di quegli anni. Oltre a Camus l’altro riferimento letterario che informa A mosca cieca è a Beckett, di cui alla fine viene riportata la frase: “Chi ha voluto ascoltare ascolterà sempre, sia che sappia di non sentire più niente, sia che lo ignori”. 
Anche al successivo film di Romano, La prova generale, toccò l’“onore” della censura, su di esso gravano ancora oggi cinque ipotesi di reato: 1) istigazione alla violenza; 2) oltraggio alla Patria; 3) oltraggio al Milite Ignoto (una sequenza fu infatti girata sull’Altare della Patria); 4) oltraggio alla Religione; 5) Blasfemia.
In La prova generale la riflessione ideologica diventa evidente, concreta e non più rimandabile. Rispetto ad A mosca cieca, questo secondo film appare opposto e complementare: il primo è filmato in 16mm bianco e nero, con una prevalenza di camera a mano, senza copione e senza dialoghi, con un protagonista principale; il secondo è girato in 35mm colore, soprattutto con camera fissa, con una sceneggiatura e una forte predominanza di dialoghi e senza un personaggio principale. Inoltre se A mosca cieca è la storia della tormentata ricerca di un uomo che sfocia nel compimento di un gesto risolutivo, La prova generale - come suggerisce il titolo stesso - racconta di un gruppo di uomini e donne che provano la loro vita e vivono la loro recita, senza poter mai debuttare veramente. Non vedranno mai la loro “prima”, come per il Cecchi di " mosca cieca: per questa ragione si ha l’impressione che ogni sequenza sia una scena-madre, in sé conclusa e in qualche modo determinante per capire il senso di tutto il film. Appaiono perciò illuminanti le parole dette da Margherita Lozano nella sequenza della sala di doppiaggio: “Basta separare un solo elemento se tutti gli elementi sono importanti, perché il mosaico si apra e distrugga l’unità di una parete liscia. Allora i gesti, le parole, i fatti della vita, i sentimenti, tutto ritorna nel suo isolamento: Il tempo, questo elemento che abbiamo scelto come unità della nostra esistenza, mi sfugge ogni volta che credo di averlo fermato, così rientro ogni giorno senza speranza nel mio disordine quotidiano come in un letto vuoto, al buio, sconfitta senza alternative”.
Se A mosca cieca, per la povertà e la voluta primitività dello stile, appare più esplicitamente “sperimentale” se non a tratti underground, La prova generale per la qualità di immagine e per la cura nella costruzione delle sequenze, sembra allontanarsi dall’area della ricerca, se non fosse per la varietà di soluzioni formali decisamente innovative per un lungometraggio del genere: ralenti, salti di montaggio, ripetizioni dell’immagine, confessioni in macchina dei protagonisti, ecc. Inoltre quel po’ di narrazione di A mosca cieca scompare definitivamente ne La prova generale, esplicita “truffa” di Scavolini, simulazione di un tradizionale film a soggetto, fin dai titoli di testa iniziali che scorrono sulla musica di Egisto Macchi e che lasciano allo spettatore l’illusione di assistere a un normale film narrativo. 
Il film si presenta come un puzzle polidimensionale che potrebbe essere, invano, smontato e ricomposto dallo spettatore alla ricerca di una sequenza. Anche per questo Scavolini crea continui spiazzamenti tra immagine e parola, come quando mette in scena il dialogo sulla maternità in un villaggio western abbandonato, o quando in generale le espressioni dei personaggi non corrispondono a ciò che dicono. All’interno di una struttura molto complessa e articolata, il discorso politico si intreccia a quello privato, la felicità piccolo-borghese viene contrastata dalle statistiche sulla fame nel mondo, la figura femminile funziona sia da elemento della dinamica di coppia, che da fattore di seduzione, che da vittima della violenza maschile, allo stesso livello del nero che subisce l’intolleranza razziale. 
A parte che le sequenze finali di A mosca cieca vengono letteralmente inglobate ne La prova generale e scorrono sullo schermo della sala di doppiaggio, del film precedente ritornano molte altre situazioni - ma, se possibile, più raffreddate -, come l’immobilità dei sentimenti rappresentata dal corpo a corpo di una coppia, abbracciata contro il fondo bianco di una parete. Lo stesso Cecchi reinterpreta più o meno lo stesso personaggio con la pistola, anche se il rapporto con questo oggetto e con la sua funzione viene trattato in modo più tecnico, mostrando le immagini di un poligono di tiro con, in voice over, dettagliate informazioni di carattere balistico. E’ semmai il personaggio di Castel - suicida che gioca con la pistola per colmare il vuoto che precede la sua morte o per sublimarla in performance - a essere più prossimo al protgonista di A mosca cieca. La poetica surrealista dell’oggetto ne La prova generale diventa insomma astratta teoria. Gli stessi colpi di pistola vengono associati ai colpi di stecca del biliardo, si trasformano cioè in metafore, ipotesi di fatti e non gesti realizzati. Nell’immagine della partita di biliardo che ritorna in tutto il film, possiamo leggere un’allusione alla continua aggregazione e disgregazione dei personaggi, come tante bocce che si riuniscono, si confrontano, per poi disperdersi nel vuoto delle loro esistenze e delle domande senza risposta. Persiste ancora ne La prova generale la sospensione beckettiana di A mosca cieca, lì orchestrata attraverso il silenzio, qui materializzata mediante la parola se non addirittura l’affabulazione. Parola che diventa menzogna, a ricordarci per l’ennesima volta che il cinema è finzione: in questo senso è significativa la sequenza del finto cieco che intrattiene con il suo doloroso show di ricordi sul fronte russo, una serie di avventori al bar, suscitando il loro riso o la loro indifferenza. Allo stesso modo il suicidio di Castel - che resta “fuori campo” -, nello stesso momento che ci viene raccontato è anche travisato, caricato - grazie alle parole - di significati politici.
Un personaggio del film si domanda a un tratto: “che cosa aspettiamo a debuttare. Sono 10.000 anni che facciamo la stessa prova generale, continuamente interrotta soltanto perché qualcuno di noi muore”. La prova generale è quella della rivoluzione imminente, una rivoluzione scritta sui muri ma non ancora consumata dai personaggi del film; prova che richiama incessantemente lo spazio della rappresentazione: da quella arcaica, teatrale e stilizzata della via crucis ridotta a una serie di tableaux vivants sulla spiaggia, a quella realistica in stile “cinema-verità” con l’attore per strada nei panni di un barbone che permette alla macchina da presa di “rubare” le reazioni autentiche dei passanti.
Ancora un beckettiano “finale di partita”: la gara di biliardo è terminata, esattamente come in A mosca cieca termina l’incontro di calcio. Il capannello di amici si scioglie per l’ennesima volta. La prova generale è conclusa. Ma - come nel film precedente - si ha l’impressione che tutto possa ricominciare da un momento all’altro.

Romano Scavolini

Nato a Fiume il 18 giugno 1940, nel 1958 si trasferisce in Germania dove lavorerà come scaricatore di porto. Qui tra l’altro realizza insieme al fotografo Arthur Kidalla, un lungometraggio in l6mm mai sonorizzato. Ritornato in Italia, inizia la sua carriera di filmmaker, girando una lunghissima serie di cortometraggi tra il documentaristico e lo sperimentale, molti dei quali - a cominciare dal primo - La quieta febbre - ottengono una serie di riconoscimenti. Nel 1966 realizza il suo vero primo lungometraggio, A mosca cieca che, pur proi-bito dalla censura, viene presentato in diversi festival sia in Italia che all’estero. Le cronache del cinema indipendente italiano sono caratterizzate dalla singolarità dei cortometraggi e poi dei lungometraggi di Romanoi Scavolini, da A mosca cieca (1966) e La Prova Generale (1968). La peculiarità di questi films risiede nel fatto che, pur trattandosi di opere girate in 35mm, con una troupe regolare (vi lavorano operatori come Blasco Giurato, Giulio Albonico, Mario Masini e lo stesso Scavolini), basate quindi su un’accurata qualità dell’immagine e con un’impostazione totalmente diversa rispetto alle pratiche “povere” e solitarie dei filmmaker underground, sono film che hanno una fortissima componente avanguardistica (mancanza di una storia. azzeramento del dialogo, ricerca linguistica, utilizzo costante di musica elettronica e concreta, ecc.) La “scoperta” di queste opere, che all’epoca non riuscirono a essere regolarmente distribuite, spiazza totalmente lo studioso e lo costringe a ripensare il concetto classico di sperimentazione filmica.
Della vastissima produzione di documentari e cortometraggi - realizzata da Scavolini tra il 1964 e il 1969 circa, poco visti se non in qualche festival, ma quasi mai usciti in sala - tra i più significativi e “sperimentali”, ricordiamo: Alle tue spalle senza rumore (1964), 1962, 12’, 35mm, col., son.. Re.: Vittorio Armentano - prod.: Enzo Nasso - fot.: Enzo De Mitri - mo.: Renato May - mu.: Egisto Macchi
Il film rappresenta da un punto di vista fenomenologico l’esecuzione di un pignoramento in un quartiere popolare di Roma. Basandosi solo su elementi figurativi e formali senza alcun commento parlato.
Un muro con le mani al tuo passaggio (1965), Alzate l’architrave carpentieri! (1967), Gli inviati speciali (1967) e L.S.D. (1970). In tutti questi lavori circolano una serie di temi e ossessioni, che confluiranno in maniera più organica nei lungometraggi. Per esempio il ricordo doloroso della guerra, trasposto in un rituale solitario di violenza: il ragazzino di Alle tue spalle... che gioca in un condominio deserto eccetera. Due anni dopo gira il suo secondo lungometraggio anche questo caratterizzato da una ancor più accentuata ricerca di sabotare il linguaggio del cinema tradizionale: La prova generale. Se in A mosca cieca il clima politico rimane sottotraccia, o meglio affiora e si manifesta attraverso sfumature, umori e suggestioni, in La prova generale la riflessione ideologica emerge con evidenza. I due film sono opposti e complementari: il primo, filmato in l6mm bianco e nero, con una prevalenza di camera a mano, senza copione e senza dialoghi, con un protagonista principale; il secondo, girato in 35mm colore, perlopiù con camera fissa, con una sceneggiatura e una forte predominanza di dialoghi e senza un personaggio principale (nel cast, oltre a Carlo Cecchi e Joseph Valdam-brini, figurano Lou Castel, Alessandro Haber, Frank Wolf, Maria Monti, Anik Mourisse). Inoltre se A mosca cieca è la storia di un uomo e della sua tormentata ricerca che sfocia nel compimento di un gesto risolutivo, La prova generale - come suggerisce il titolo stesso - racconta di un gruppo di uomini e donne che provano la loro vita e vivono la loro recita, senza poter mai debuttare veramente. Non vedranno mai la loro “prima” come per il protagonista di A mosca cieca, per questa ragione si ha l’impressione che ogni sequenza sia una scena-madre, in sé conclusa e in qualche modo determinante per capire il significato di tutto il film. Segue poi un altro singolare progetto, Entonce, che resterà incompiuto e il cui girato andrà perduto, anni dopo, durante un’alluvione.
Nel 1970 Scavolini parte per il Vietnam come fotografo di guerra freelance. Al suo ritorno fonda una casa di produzione (Lido cinematografica) e si dedica al cinema di consumo con una serie di lungometraggi tra cui Servo Suo e Cuore. Dal ‘72 al ‘74 viaggia tra l’America Centrale e l’America Latina, lavorando come giornalista, sceneggiatore e produttore. Nel ‘76 decide di trasferirsi negli Usa, insegnando alla New York University of Visual Arts e tenendo stage anche alla Columbia. Nel 1981 dirige l’horror Nightmare, che diventa uno dei campioni d’incasso della stagione e darà il via alla serie Nightmare diretta da Craven. Dopo aver realizzato nel 1990 Dogtags, ispirato all’esperienza del Vietnam, Scavolini ritorna a Roma, dove risiede attualmente.
Bruno di Marino

martes, 30 de julio de 2013

L'amore difficile - Sergio Sollima, Luciano Lucignani, Nino Manfredi, Alberto Bonucci (1963)



TITULO ORIGINAL 
L'amore difficile
AÑO  
1962
IDIOMA  
Italiano
SUBTITULOS 
Español (Separados)
DURACION  
105 min.
DIRECCION  
Sergio Sollima, Luciano Lucignani, Nino Manfredi, Alberto Bonucci
ARGUMENTO  
El episodio "Le donne" cuento de Ercole Patti, "L'avaro" cuento de Alberto Moravia, "Avventura di un soldato" cuento de Italo Calvino y "Il serpente" cuento de Mario Soldati
GUION  
Sandro Continenza, Ettore Scola, Giuseppe Orlandini, Fabio Carpi, Nino Manfredi, Guglielmo Santangelo, Renato Mainardi
REPARTO  
Enrico Maria Salerno, Claudia Mori, Catherine Spaak, Vittorio Gassman, Nadja Tiller, Lilla Brignone, Adriano Rimoldi, Nino Manfredi, Fulvia Franco, Bernhard Wicki, Lilli Palmer, Gastone Moschin
FOTOGRAFIA  
Carlo Carlini, Erico Menczer
MONTAJE  
Eraldo Da Roma
MUSICA  
Piero Umiliani
PRODUCCION  
SPA Cinematografica, Eichberg Film, München
GENERO  
Comedia /  Film a episodios

Sinópsis
Quattro episodi per descrivere i mutamenti di costume nell'Italia degli anni Sessanta. Un giornalista potrebbe sposare la figlia di un magnate, ma preferisce la relazione con una donna sposata. Un avvocato rinuncia all'amante per avarizia, mentre un soldato cerca l'approccio in treno con una vedova. Infine, una coppia tedesca in cerca di avventure fallisce l'obiettivo, ma ritrova l'amore.  (Filmtv.it)
 
1 
2
Sub 


“Ci si va prima con gli altri, che cambia se ti sposi? 
Anzi, non devi neppure stare attenta ai figli."
C. Spaak parla dell’amore extraconiugale ne L’amore difficile


TRAMA: 
"Le donne" - Una prostituta che sta per sposarsi e dare un taglio definitivo alla sua precedente vita, decide di recarsi un'ultima volta a casa di un abituale cliente. E questi si trova a dover sceglier tra la sua compagnia e una gita al mare con una ninfetta."L'avaro" - Un avvocato scapolo, dopo aver conquistato la moglie di un ricco decaduto abituato a saldare i suoi debiti grazie alle belle forme della consorte, rinuncia a lei per avarizia."Avventura di un soldato" - Un soldato, che sta tornando a casa in licenza, incontra su un treno una vedova. Senza una parola i due cominciano un approccio che li porterà, probabilmente, l'uno nelle braccia dell'altro."Il serpente" - Due coniugi tedeschi in viaggio in Sicilia: la moglie spera in un'avventura con due camionisti e ne rimane delusa, ma ritrova l'affetto del marito.

CRITICA: 
"(...) Il più piacevole è quello di Sollima, divertente aneddoto sull'intraprendenza delle ragazze 1963 (...). Sciupata appare la bravura di Gassman, alle prese con un personaggio per lui abbastanza inedito (...). La sorpresa (...) è l'episodio diretto da Manfredi (...) (che) sa conferire alla vicenduola il piglio e la sobrietà di un brano cinematografico di classe (...). Il più scontato è quello diretto da Bonucci (...)". 
(Vittorio Spinazzola, "Cinemanuovo" 162, marzo/aprile 1963).

"Da quattro racconti, quattro sketch pruriginosi e per l'epoca oltremodo osè, diretti da altrettanti esordienti, che hanno per tema l'amore e le corna. Il migliore è di gran lunga il terzo (Manfredi che dirige un bravissimo se stesso) in una scenettta senza parole divertente e maliziosa."
(Massimo Bertarelli, "Il Giornale", 15 luglio 2003)
 

...
Ritroviamo Nino Manfredi, nella doppia veste di protagonista e regista (al proprio felice esordio) ne L’amore difficile (dic. 1962; 120 min.), una serie di quattro episodi ispirati a racconti letterari.
In quello diretto dall’attore ciociaro - L’avventura di un soldato (da un racconto di Italo Calvino) - si mette in scena il lungo, silenzioso e fortunato corteggiamento di un soldato nei confronti di una vedova (Fulvia Franco) in un vagone ferroviario. Quano lo scompartimento si svuota, l’uomo potrà amoreggiare con la donna senza che i due si siano scambiati una sola parola. 
Riuscito appare anche l’episodio Le donne (da un raccono di Ercole Patti) in cui sergio Sollima descrive una domenica di un intellettuale (Enrico maria Salerno) molto fortunato con l’altro sesso: dapprimasi ritrova in casa una ex amante (Caludia Mori), neomaritata, che gli si offre lo stesso; poi va al mare con una giovane amica (Catherine Spaak) che, a sua volta, vorrebbe far l’amore con lui ma l’uomo, di fatto già “sazio”, rifiuta allorché la scopre vergine. 
Più prevedibile e monocorde è invece L’avaro (da un racconto di Moravia) , diretto da Lucignani, in cui uno strepitoso Gassman, seduce la bella moglie (Nadja Tiller) di un conoscente, ma quando quest’ultima gli si propone, l’uom, intimorito dalle numerose spese in cui l’avventura amorosa lo precipiterà (la donna è fuggita dal marito ed è senza soldi), la rifiuta. 
Originale e complesso appare invece Il serpente (da un racconto di Mario Soldati), diretto da Alberto Bonucci, in cui una moglie (Lilli Palmer) avanti con gli anni, stanca del marito professore, cerca nei dintonrni di Segesta l’occasione per sentirsi ancora giovane e deisderabile. Quando due impetuosi siciliani le danno un passaggio, lei spera che succeda qualcosa; indispettita dall’indifferenza dei due, li denuncia per violenza carnale. Nella stazione dei carabinieri il comandante (Gastone Moschin) però intuisce la verità e, interpellato il marito, cestina il fantasioso racconto della donna. 
Quattro registi, tutti esordienti, raccontano il nuovo pianeta femminile disinibito e intraprendente, mettendo in scena le fantasie “progressiste” di quattro scrittori. L’intellettuale, il soldato e il professore sono oggetto delle attenzioni di donne che sanno ottenere, senza troppa fatica, quello che desiderano dai loro partner, spesso indecisi o smarriti. Solo Nadja Tiller fallisce poiché si scontra con un uomo che ama più il denaro delle donne, vive in un appartamento grigio con la madre e considera l’altro sesso come foriero di pericolose dilapidazioni pecuniarie.
La regia di Sollima è abile e sicura, quelle di Lucignani e Bonucci sono piuttosto statiche mentre lo stile di Manfredi, il quale gira un film semimuto, pieno di piccoli dettagli descrittivi indovinati e originali, è la vera sorpresa del film. L’attore ebbe addirittura problemi con unos cettico e impaurito produttore il quale non comprendeva l’intento dell’esordiente di cimentars con una scelta tanto stravagante, insolita e poco comemrciale, non lontana dal cinema neorealista più radicale.
Il film ebbe notevole successo e generò una sorta di ironica imitazione con L’amore facile (Puccini, 1963).
...


Curiosità
L'episodio, quasi senza parole, girato da Nino Manfredi è la scena ricordata da Erica Jong nel suo best seller Paura di volare come il prototipo perfetto della scopata senza cerniera. (Wikipedia)

4 episodi per raccontare come è tutto dannatamente complicato e semplice tra uomo e donna. nel primo episodio l'uomo si ritrova ad avere due donne nello stesso giorno e viene "scandalizzato" dalla naturalezza con cui claudia mori gli si conceda nonostante le prossime nozze e soprattutto dalla ninfetta catherine spaak, disinibita e cinica ragazzetta che vorrebbe usarlo per scrollarsi di dosso l'ingombrante marchio della verginità. nel secondo, il più deboluccio, un insolito gassman avaro che vive con la madre, si ritrova inorridito a scaricare una probabilissima amante solo per il terrore di doverla mantenere ai lussi cui era abituata prima. nel terzo invece, il migliore, si svolge tutto su un vagone di un caldissimo treno in viaggio nel sud dell'italia. una procace vedova si siede proprio nello scompartimento di un arrapatissimo nino manfredi. il gioco della seduzione, non di certo leggero, avviene tra i due "amanti" nella perfetta non partecipazione da parte della donna. il soldato s'appoggia, sfiora, tocca, annusa, guarda e fissa in un'atmosfera che diventa tanto più bollente quanto anche assurda. l'avventura termina su un incandescente binario simile a quello dove era cominciato. a me è piaciuto anche il quarto, intitolato il serpente con protagonisti due turisti stranieri non più giovani in viaggio di piacere in sicilia. lui professore distante coi piedi ben piantati per terra e nelle realtà della storia documentata, lei una moglie disillusa che si rintana nelle sue fantasie. nel prendere una scorciatoia non asfaltata, l'auto si rompe e sono costretti a chiedere un passaggio a due cammionisti che però possono caricare solo una persona. il viaggio della donna tra i due giovani guerrieri di questa sconosciuta tribù, si trasforma in una meravigliosa avventura se(n)(s)suale affascinata da una storiella raccontata dai due su di una fantomatica fontana dell'amore. la fantasia della donna parte in quarta e quando invece si accorge che i due ragazzi la depositano davanti ai carabinieri "sana e salva" scatta in lei la delusione della frustrazione. certo niente di epocale, ma il segmento di manfredi diventa man mano anche misterico, con questa matrona vestita di nero che sembra una dea o una sacerdotessa dei sensi che può essere fatale corteggiare e che invece fa solo mancare la propria stazione. mentre il quarto, IL SERPENTE, affascina per come sono riusciti a rendere viva la personalità di questa donna del nord, non più giovane, che freme di arrivare al tempio di afrodite per ritrovare quell'amore smarrito e che invece gioiosa per un istante crede di ritrovare tra le braccia dei giovani che le stanno facendo un piacere.
zombi

lunes, 29 de julio de 2013

Io sono Li - Andrea Segre (2011)


TITULO ORIGINAL Io sono Li
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 96 min.
DIRECCION Andrea Segre
GUION Marco Pettenello, Andrea Segre
MUSICA Sara Zavarise
FOTOGRAFIA Luca Bigazzi
REPARTO Tao Zhao, Rade Serbedzija, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Jolefilm / Aeternam Films / Rai Cinema / France Cinéma / ARTE
PREMIOS
2011: Premios David di Donatello: Mejor actriz (Tao Zhao). 4 Nominaciones
2011: Festival de Sevilla: Premio Eurimages
2012: Premios del Cine Europeo: Nominada a Mejor música
GENERO Drama | Inmigración

SINOPSIS Shun Li, una inmigrante china que trabaja en una fábrica textil de las afueras de Roma, intenta legalizar su situación para poder llevar a Italia a su hijo de ocho años. Inesperadamente, la mandan a Chioggia, una población situada en una isla de la laguna veneciana, a trabajar como camarera en un bar. Allí conoce a Bepi, un pescador eslavo apodado ‘El Poeta’. La relación que se establece entre ellos es una especie de huida poética de la soledad, un diálogo silencioso entre dos culturas distintas, pero no muy distantes. Lo malo es que ni los chinos ni los lugareños ven bien su relación y tratan de obstaculizarla. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


Ambientada en Chioggia, un pequeño pueblo sustentado en parte gracias a su actividad pesquera, La pequeña Venecia nos introduce en una de esas historias sencillas a la par que sensibles donde ese encantador lugar se comporta como un personaje más. Para que así sea, Segre deja estampas que logran encandilar más que por su belleza por lo particular de las mismas, pues Choggia flota, como Venecia, sobre las aguas y de ello se aprovecha el realizador transalpino para juguetear con la romántica idea de una ciudad que convive con las inundaciones como si no existiese mañana.
Lejos de esa visión romántica, sin embargo, Segre nos traslada a un relato de contenido social tocando una de esas temáticas que más de actualidad no podría estar. En ella, Shun Li, una mujer china con un hijo que ha llegado sola a Italia gracias al poder de la mafia de su país, será enviada a Chioggia para encargarse de regentar un bar y así poder pagar todas sus deudas, para lograr de este modo que la mafia le reuna de nuevo con su pequeño. En el pueblecito costero conocerá a Bepi, un italiano jubilado apodado «el poeta» que todavía continúa con sus quehaceres relacionados con la pesca, con quien llegará a establecer una cálida relación de amistad.
Sorprendentemente, y pese a tener visos para ello, La pequeña Venecia no empieza a hacer gala de su componente social hasta bien avanzada la película, y es que aunque nos encontramos ante un retrato que nos habla en parte sobre el funcionamiento de esas mafias, el cineasta italiano prefiere centrar sus esfuerzos en construir esa relación entre Shun Li y Bepi, que terminará siendo el principal motor de una cinta a la que en ese sentido se podría tildar, en parte, de previsible por repetir esquemas y ofrecer soluciones ya vistas pero, sinceramente, sería injusto dado la honestidad y candor de una obra que en todo momento se siente más cerca de lo que cualquier espectador ya acostumbrado a este tipo de cintas podría esperar.
A través de esa relación, se nos habla acerca de las raíces de ambos protagonistas como parte realmente significativa de sus vidas pero, más importante todavía, como nexo entre dos personajes que no se podrían sentir tan próximos el uno del otro de no ser por ese factor. Con ese vínculo afectivo de por medio, que los acerca, se entreteje una amistad donde los orígenes de cada uno entran en escena ya sea a través de diálogos, fotos o una nostalgia que nunca se torna lo suficientemente compasiva como para tomar una senda sensiblera que Segre evita en todo momento.
Aun así, los únicos méritos de La pequeña Venecia no quedan tras una historia de comprensión y apoyo, también se encuentran en la descripción de una situación verdaderamente delicada huyendo en todo momento de un planteamiento maniqueo que hubiese enterrado, en buena parte, las posibilidades de una propuesta que incluso hace bien intentando no contextualizar (más allá de los detalles debe obtener el espectador para establecer el pacto ficcional) ni posicionar al espectador; el relato se muestra de este modo cristalino y pocos achaques se le pueden realizar a un film en el que se siente algo que hoy en día los realizadores reivindican en exceso acerca de sus creaciones, pero aquí parece existir sin más: el cariño.
A resumidas cuentas, el debut en largo de ficción de Andrea Segre es una de esas pequeñas delicias que merece la pena no perderse, tanto por lo cálido de la propuesta, como por distintos aspectos que nos llevan desde el magnífico trabajo de sus actores (entre los que se encuentra, en el rol de Bepi, al internacional Rade Serbedzija) hasta la proximidad de una historia que, pese a poder resultar lejana (ya sea por la no-vivencia de una experiencia de esas características o por los distintos elementos sociales que en él se encuentran, y que estamos más acostumbrados a ver de modo frío y distante —a través de la televisión—), en manos de Segre logra insuflar vida a un celuloide que parece tocado por la varita de un auténtico artesano. Habrá que seguir viendo si le queda grande la etiqueta al italiano, o si en posteriores trabajos da fe de lo demostrado en este.
Ruben Collazos

Notas del Director

Fueron dos las necesidades que me condujeron hacia la idea de este film: por un lado, la necesidad de encontrar en una historia, de un modo que fuera tan realista como metafórico, una manera de hablar sobre la relación entre el individuo y la identidad cultural en un mundo que tiende, cada vez más, a la contaminación y las crisis de identidad. Por el otro, el deseo de hablar de dos lugares en mi vida que son muy emblemáticos de la Italia de hoy: la periferia multiétnica de Roma y la del Veneto, una región que atravesó un rápido crecimiento económico, que hizo que esa tierra de emigrantes se convirtiera en muy poco tiempo en receptora de inmigrantes. 
Chioggia es una pequeña ciudad al lado de una gran laguna, que tiene una importante identidad social y territorial; era el lugar perfecto para narrar este proceso aun con más énfasis. Todavía recuerdo mi encuentro con una mujer que podría haber sido Shun Li: fue en un típico pub del Veneto, lugar de reunión de pescadores durante varias generaciones. 
El recuerdo de la cara de esta mujer, tan extraña y extranjera respecto a estos lugares ya envejecidos por el tiempo y por el hábito, nunca me abandonó. Había algo hasta onírico en su presencia. Su pasado, su historia, la inspiración para el rgumento, todo vino a mí con solo mirarla. ¿Qué tipo de vínculos podría construir ella en una región como la mía, tan poco acostumbrada al cambio? Esta pregunta fue el puntapié inicial para tratar de imaginar su vida. 
"Io sono Li" también es una síntesis de mi trabajo como director de documentales, en los que trabajé fuertemente sobre dos temas en particular: la migración a Europa (A metà, A sud di Lampedusa, Come un uomo sulla terra, Il sangue verde) y el territorio social y geográfico del Veneto (Marghera Canale Nord, Pescatori a Chioggia y La mal'ombra). 
Mis diversas experiencias en la dirección de documentales me han permitido apreciar no solo la historia de qué es lo real, sino también indagar en qué es real, ayudándome a entender cómo es posible descubrir la íntima y profundamente humana dimensión de la realidad, sobre todo de los actuales y urgentes temas en la sociedad de hoy. 
En "Io sono Li" quise respetar los métodos y estilos del cine documental trabajando con actores no profesionales y eligiendo siempre locaciones del mundo real. Al mismo tiempo, la precisión y la sutileza del lenguaje del cine oriental han sido referentes importantes para poder narrar las atmósferas y los lugares que elegí para este film. 

Notas de Producción

Colaboré con Andrea Serge en su documental La mal'ombra y luego en Il Sangue Verde. Cuando lo conocí entablamos una relación de respeto mutuo. Lograr con éxito realizar una película que narrara el presente y las urgencias de nuestra tierra y que fusionara el lenguaje del documental con una visión más cinematográfica, fue un desafío que me pareció muy cercano al camino que estamos siguiendo como sociedad. La fuerza de la historia, su protagonista y su visión onírica, pero que al mismo tiempo se encuentra enraizada en el mundo real; la conjunción de los elementos locales con la apertura hacia Asia y la belleza y el 
poder narrativo de los lugares que tan bien conocía, me convenció de que era una aventura en la que había que embarcarse sin ninguna duda. 
La historia de la producción de "Io Sono Li" empezó en julio de 2008 cuando decidimos presentar el proyecto en el Festival Internacional de cine de Roma, en la sección Fabbrica dei Progetti - New Cinema Network. "Io Sono Li" (con el título temporario de Shun Li y el Poeta) fue seleccionado y premiado como "Mejor Proyecto Europeo" por su "abordaje original, poético y profundamente humano sobre el tema de la inmigración". 
En esa ocasión nos encontramos con Francesca Feder de la productora francesa Æternam Films, quien decidió co-producir el film y que fue parte de nuestro viaje desde entonces. En las semanas que le siguieron, Andrea Segre trabajó con el guionista Marco Pettenello en el primer borrador del guión, que fue terminado a tiempo para participar en el Atelier del 62º Cannes Film Festival, donde "Io Sono Li" fue el único proyecto italiano entre los dieciséis trabajos seleccionados. 
Mientras tanto, se definió y consolidó un equipo de trabajo altamente profesional, en el nivel técnico y artístico. Con mucho entusiasmo, los participantes se unieron y apoyaron el proyecto, en primer lugar el director de fotografía Luca Bigazzi, quien ya había colaborado con Andrea en los documentales Magari le cose cambiano y en Il sangue verde. 
El interés de la actriz china Zhao Tao enseguida le hizo ganarse el papel de Shun Li, y la elección del actor Rade Sherbedgia en el rol de Bepi, fue inmediata y fundamental. Con la participación de Marco Paolini en el proyecto contamos desde el comienzo. 
La colaboración con Roberto Citran en el rol del abogado y de Giuseppe Battiston en el papel de Devis permitió completar el elenco que, en su forma final, reunió a actores reconocidos junto a actores no profesionales de la zona de Chioggia, en línea con un abordaje de estilo documental. 
Francesco Bonsembiante 

Sobre el Director

Andrea Serge es director de películas y documentales de cine y de televisión. También es investigador de Sociología de la Comunicación. Durante diez años ha estado particularmente dedicado al tema de la migración y ha fundado la asociación ZaLab, en la que se desarrollan proyectos de producción y talleres de realización. 
Ha dirigido documentales como "Marghera Canale Nord" (2003, 60º Venice International Film Festival; mención especial en el RomaDocFestival); "Dio era un Musicista" (2004, 62º Venice International Film Festival); "PIP49" (2006, episodio para "Checosamanca", Eskimosa-Gruppo Feltrinelli y RaiCinema); "A Sud di Lampedusa" (2006, MedFest award en el 10º Mediterraneo Video Festival, finalista en el 13º Ilaria Alpi Award). En colaboración con Jolefilm realizó "La mal'ombra" (2007, 25º Turin Film Festival, 26º Uruguay Film Festival). 

Entre sus trabajos más recientes se encuentran: 
"Come un uomo sulla terra" (2008), ganador de varios premios en festivales, incluyendo 2.SalinaDocFest, mención especial en el Vittorio De Seta Award y Gran Prix TeleFrance CMCA, presentado en diversos festivales en Italia y el exterior (Milan Film Festival, Visioni Italiane, Bologna, CinemAfrica, Stockholm, Sao Paulo Film Festival) y fue nominado al David di Donatello en la categoría Documental. "Magari le cose cambiano" (2009), Premio "Avanti!" en el 27º Turin Film Festival. "Il Sangue Verde" (2010),l premio CinemaDoc en Venice Days - 67º Venice International Film Festival.

PREMIOS

David di Donatello 2012 
Premio Mejor Actriz Tao Zhao 
Nominado Mejor Nuevo Director - Andrea Segre 
Nominado Mejor Actor de Reparto - Giuseppe Battiston 

Festival de Venecia 2011 
Premio FEDIC - Andrea Segre 
Premio Laterna Magica - Andrea Segre 
Premio Lina Mangiacapre - Andrea Segre 

LondonFilm Festival 2011 
Premio Satyajit Ray Mejor Opera Prima 

Reykjavik International Film Festival 2011 
Mención Especial - Andrea Segre 

Festival Internacional de Tetouan -Marruecos 
Premio Mejor Opera Prima 
Premio Mejor Actor - Rade Sherbedgia 


Hablar del estado actual de deplorable decadencia en el que se encuentra la cinematografía italiana es casi como hablar, y perdón por la frivolidad, del drama de la inmigración. Parece que a estas alturas ya se haya comentado todo lo que se tiene que analizar, produciéndose en ambos casos el temido efecto del disco rayado. ¿Puede aportarse algo nuevo a la discusión de por qué una de las industrias cinematográficas históricamente más potentes del mundo está, bien entrado el siglo XXI, casi en ruinas? En la misma línea establecida ahora mismo, ¿qué puede añadirse a la paupérrima situación por la que cada año pasan tantos millones de personas, forzadas todas ellas a abandonar sus raíces bajo la -endeble- promesa de asentarse en un lugar mejor tanto para ellas como para sus seres queridos?
La verdad es que poco o nada puede aportarse que no haya sido mencionado en algún otro momento. No es un problema de creatividad; es un asunto de tener claro cuál es el contexto de una(s) temática(s) que tiene(n) sus marcos muy delimitados. No todo cabe en ellos, con lo que llega un punto en que ya no se acepta la entrada a nada o nadie más. Entonces, ¿por qué esforzarse en abordarlos cuando la batalla está perdida incluso antes de empezar a librarse? Mejor probar suerte en otros terrenos menos inexplorados; donde todavía haya recursos para explotar. O ya que estamos, y ya que hablamos más o menos de lo mismo, ¿por qué no traer la imagen virtual de estos nuevos territorios a los que en un principio pretendíamos tratar? En otras palabras, ¿por qué no hablamos sobre lo mismo, pero desde una perspectiva diferente?
O por lo menos desde una que se aleje mínimamente de los códigos aparentemente inamovibles sobre los que se ha asentado un dogma que cansa por pura repetición. Bajo esta coyuntura se nos presenta 'La pequeña Venecia (Shun li y el poeta)', interpretación libre -un clásico en nuestro país- del título original 'Io sono Li' (en cristiano, algo parecido a ''Yo soy Li''), esperado primer largometraje de ficción de Andrea Segre, quien sorprendiera hará ya cuatro años con el aclamado documental 'Come un uomo sulla terra', y que pretende dar esperanzadora respuesta a las dos preguntas planteadas al principio. Resumiendo, ¿puede un producto presentado bajo la desgastada bandera italiana ofrecernos un enfoque interesante (con ''aceptable'' nos conformamos) sobre la inmigración? Puede.
A pesar de que 'La pequeña Venecia (Shun li y el poeta)' no ofrezca nada estrictamente nuevo dentro del (sub)género, no menos cierto es que son muy de agradecer los esfuerzos -recompensados- por parte del director y guionista por desmarcarse de los dictados de ''Cavalierescos'' que parecen regirlo todo en su país, para brindarnos un producto cuyo principal mérito radica en saber esquivar siempre a tiempo los principales lugares que lastran cualquier producto de estas características. De acuerdo, el dibujo de algunos personajes es de brocha tan gorda que su evolución es más predecible que el derrumbe de los socialistas en los próximos comicios, los que sean. Este tropiezo condiciona a la vez el desarrollo de una historia que a veces hace el amago de acomodarse en la cansina seguridad de lo consensuado.
Por suerte, lo importante aquí es que Andrea Segre decide buscar la inspiración en fuentes más ''exóticas'' (teniendo en cuenta lo que en un principio cabía esperar) para tratar temas de los que nos habían hablado ya miles de veces antes. Así, y sin previo aviso, la ciudad de los canales se transforma en un personaje más, adquiriendo un carácter fantasmagórico y trazando un precioso escenario semi-onírico ideal para reflexionar desde una posición diferente a la que estamos acostumbrados a mirar al conferenciante. Más que rudo y duro realismo social -que también- es poesía (sombría pero a través de la cual se filtran tenues rayos de luz) sustentada por un cuidado apartado visual y por unas sólidas interpretaciones (especialmente la de la pareja protagonista compuesta por Tao Zhao y Rade Serbedzija, que dan credibilidad a la historia de amor imposible, motor principal de la historia). Sí, a fin de cuentas, las fichas de siempre (las mafias, los cuchitriles, las tensiones inter-culturales...) se repiten, pero su disposición en el tablero hace que el dolor e incluso la ternura de su mensaje huyan de la digestión molesta con la que a priori amenazaba el producto. Se agradece.
reporter - Barcelona (España)

domingo, 28 de julio de 2013

La Sconosciuta - Giuseppe Tornatore (2006)


TITULO ORIGINAL La sconosciuta 
AÑO 2006
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 118 min.
DIRECCION Giuseppe Tornatore
GUION Giuseppe Tornatore, Massimo De Rita
MUSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFIA Fabio Zamarion
REPARTO Kseniya Rappoport, Michele Placido, Claudia Gerini, Margherita Buy, Piera Degli Esposti, Pierfrancesco Favino, Clara Dossena, Alessandro Haber, Ángela Molina, Pino Calabrese, Nicola Di Pinto
PREMIOS
2006: Premios David di Donatello: 5 premios, incluyendo mejor película. 13 nominaciones
2007: Premios del Cine Europeo: Premio del Público
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Medusa Film / Manigolda Film
GENERO Drama. Intriga

SINOPSIS Irena, una inmigrante ucraniana asentada en Italia hace muchos años, combina la vida cotidiana con los fantasmas del pasado, lo que da lugar a un inquietante rompecabezas. Tras sobrevivir a un viaje dramático, Irena fue víctima de hombres brutales y sin escrúpulos. Las humillaciones y malos tratos sufridos vuelven constantemente a su memoria y no le permiten vivir en paz. Sólo permanece en su memoria un recuerdo hermoso: el de un melancólico y desgarrador amor perdido. (FILMAFFINITY)

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Meno enigmatico, più chabroliano nel suo inserire la protagonista come un detonatore d’esplosivo all’interno di una famiglia borghese, il film ha il grande pregio di presentarsi più secco e nudo degli altri, spoglio d’enfasi espressive e non costruttive. Un cast di attori noti –Favino, Gerini, Degli Esposti, Buy, Molina- vortica senza protagonismi attorno alla “sconosciuta” Xenia Rappoport, interprete russa di scuola teatrale, cuore e corpo del film, che sulla sua figura si regge senza barcollare. La schiavitù sessuale delle ragazze che entrano nel nostro paese dalla frontiera orientale non è qui materia da denuncia sociale ma sfondo di un incalzante thriller psicologico macchiato di orrore che ci aggancia fino agli ultimi minuti, quando fa capolino qualche inquadratura troppo lunga, sussulti di sentimentalismo che, in coda, non inquinano ormai più. L’emozione nasce dalla centralità di Irena, dalla forza di un personaggio femminile che cerca di riconquistare un pezzo della sua vita e della sua femminilità che le è stato rubato con il ricatto e la violenza. Nell’inquadrarla, nel seguirla, nel calibrare il proprio ritmo sul suo respiro sospeso dalla paura, Tornatore dà prova di riuscire a nascondere, per una volta, i virtuosismi della macchina da presa e a farli sparire dentro la storia che racconta, a tutto vantaggio del godimento dello spettatore.
Marianna Cappi

Irena, una ragazza ucraina che vive già da molti anni in Italia, arriva in una città del Nord per cercare lavoro come cameriera. Tornatore ha una notevole fluidità di racconto: solo qualche sbavatura, qualche minuto di troppo. Si entra nel film in pochissimi istanti, scaraventati da una forza centripeta che con afflizioni e pene (e un cinema forte e compatto, sicuro e spavaldo) ti accompagna in un regno di morti viventi e di mostri. E la russa Kseniya Rappoport, assai nota in patria, per noi è una rivelazione.
Film TV

(…) un film, scritto da Massimo De Rita, imperniato sulla suspense che è anche un melodramma e un thriller. Il 9° film di Tornatore ha disorientato il pubblico e spaccato in 2 i critici anche perché, distratti dai soliti eccessi (dovuti alla sua bêtise di narratore di razza) e da qualche inverosimiglianza, i più ne hanno trascurato l’attualità: “raccontare l’arrivo, nella parte più intima e privata della borghesia italiana, di estranei, badanti, baby-sitter o colf che ci si sforza di non percepire ma che ormai costituiscono l’ossatura del quotidiano” (Emiliano Morreale). Non a caso gli scontenti/dissenzienti hanno sorvolato o ignorato la straordinaria interpretazione in presa diretta della Rappoport (premiata con un David di Donatello) che fa da architrave alla storia, trascurando il distacco critico verso i personaggi di contorno e l’incisiva energia con cui disegna quelli negativi: il rapato, infame Muffa di M. Placido e il torvo, servile portiere di A. Haber.
Morandini

Un thriller al femminile, prigioniero di uno sguardo che opprime la narrazione e impedisce ai sentimenti di rivelarsi con la libertà necessaria. Resta soltanto un ibrido, sin troppo chiarificatore della situazione in cui versa il nostro cinema. Ripubblichiamo la recensione al film vincitore del David di Donatello.

Giuseppe Tornatore torna al genere (nel caso specifico il thriller), dal quale peraltro non si era mai distaccato del tutto, stante la tendenza del suo cinema a elaborare sempre storie che partono da meccanismi codificati. E' dunque con un certo nervosismo che ogni volta ci si accosta a un modo di concepire la narrazione che è familiare eppure stranamente distante da quella tensione che normalmente richiederemmo (e ci aspetteremmo) da questi film. Il nuovo La sconosciuta è in realtà un thriller iscritto nel cuore di una città italiana del Nord Est, laddove i redditi sono alti e i contrasti con realtà meno felici appaiono maggiormente incisivi: in quest'angolo di mondo giunge Irena, una ragazza ucraina, ex prostituta, vessata da un passato infelice, in cerca di qualcosa. Il meccanismo thriller scatta allorquando lo spettatore comprende che Irena è fuggita da una situazione molto dura ed è braccata da qualcuno che conosce il suo passato, fatto di violenze, ma anche di un unico amore infelice, la cui eredità costituisce l'obiettivo della ricerca che la ragazza conduce nella città italiana.
Più che al giallo all'italiana e a Dario Argento bisognerebbe pensare al Cuore Sacro di Ozpetek o al sottogenere del gotico italiano per come il film cerca di trarre la sua componente più manifestamente misteriosa dall'austerità di un contesto alto-borghese, fatto di arredamenti dal sapore antico e quasi nobiliare, nel quale si iscrivono famiglie percorse da nevrosi, e gli ambienti si caricano di una pesantezza labirintica che opprime le figure.Il resto sono puri artifici di tensione, giocati attraverso la presenza di un pericolo incombente e di situazioni rischiose nelle quali la protagonista viene spesso a trovarsi. Con il prosieguo della narrazione, comunque, la componente gotica si ridimensiona progressivamente, lasciando spazio a un dramma femminile che sottolinea ogni cedimento psicologico con un'enfasi assordante, mescolando il passato e il presente della protagonista con una nonchalanche che vorrebbe testimoniare un'idea di cinema fluida e capace di amalgamare gli estremi, implementando l'aspetto drammatico: ma è in realtà il sintomo di uno sguardo che ritiene l'eccesso come unico elemento caratterizzante della messinscena, dove la musica di Morricone enfatizza ogni passaggio in maniera didascalica e l'amalgama di stili (mistery, gotico, dramma) nasconde un deficit di fiducia nei confronti dello spettatore.
Non è uno sguardo generoso quello di Tornatore, piuttosto sembra nascondere il timore di non essere compreso, di dover offrire al pubblico continue "scene madri", camei illustri e situazioni forti (tensione, splatter, dolore, erotismo). E' un peccato poiché l'idea di affrontare il genere del thriller in chiave femminile avrebbe potuto rappresentare un'interessante prospettiva per un genere di norma poco incline all'indagine dei sentimenti: maggior pudore, maggiore capacità di porsi all'altezza dei protagonisti e non al di sopra degli stessi, avrebbe certamente sortito un risultato significativo. Non è un caso se gli elementi più convincenti sono tutti da ascrivere alla performance dei singoli attori, dalla brava protagonista Ksenia Rappoport, alla veterana Piera Degli Esposti. Tornatore finisce suo malgrado per essere non soltanto vittima del suo narcisismo, ma anche per assumere il proprio cinema a paradigma della situazione italiana, dove farsi notare alzando il tono della discussione è ritenuta l'unica ipotesi perseguibile, dove l'autorialità esibita pare essere l'unica direttrice di molti cineasti. Un cinema "muscolare", dunque, che pretende però di essere intimo; ma anche un cinema "di genere" che però ancora una volta non ha il coraggio di essere tale, ma non ha neppure la sincerità per poter offrire un'ipotesi differente.

Giuseppe Tornatore ya no es más tierno o erótico, su último filme titulado La Desconocida (La Sconosciuta) no tiene de él más que su cinematografía y su firma. El lado desconocido de Tornatore resulta ser una maravilla, no todo lo distinto es malo.
Como en un rompecabezas, sin un final posible en la mente del espectador, esta Desconocida se siente eternamente larga, aunque su metraje es de apenas 118 minutos, la manera como se cuenta somete la imaginación del que la vea sin darle ni un segundo de respiro, ni alguna pista de cómo pueda llegar a feliz termino, de hecho, en principio hay una escena de prostitución muy similar a la orgia de la película de Stanley Kubrick Ojos Bien Cerrados aunque las escenas siguientes no tienen nada de erótico ni enigmático, raya en lo asquiento a tal punto que hay escenas en las que hay que voltear la mirada, aun ahora, cuando ya en cine casi nada impacta o golpea la sensibilidad, algunas escenas de trata de blancas y de sexo descomunal resultan mas agresivas e implacables que la recordada violación de Monica Belucci en la película de el director argentino Gaspar Noé, Irreversible.
Cambiada totalmente de apariencia, Irena, la actriz rusa Ksenya Rappaport, desconocida tal y como la quería el director, interpreta el papel de una domestica de un apartamento que se gana la confianza y el favor de una mucama y de su familia, a tal punto de involucrarse de forma tal, que pasada la primera hora ya el espectador tiene que haberse enterado cuales eran las intenciones de esta mujer proveniente de Ucrania para con esta familia y el porque de su cariño desmesurado con la hija de su jefa.
Un thriller inquietante, una película que proporciona emociones contradictorias y fuertes al espectador.
Calificación: Extraordinaria.
Ivan Dario Hernandez Jaramillo 

Giunta anni prima dall'Ucraina, Irena si muove in una grigia città nordica portando con sé una pena segreta. La sua vita trascorsa assomiglia irresistibilmente a quella d'altre ragazze provenienti dai paesi dell'Est: violenze e umiliazioni in serie, lo sfruttamento, le giornate sempre uguali. Solo ricordo positivo, quello di un amore intenso, troncato in modo brusco. Divenuta adesso una bella donna sulla trentina, ella s'aggira in cerca di lavoro, a tutti chiedendo d'aiutarla: si sistema infine presso un'agiata famiglia d'orafi, gli Adacher, diventando ben presto un'importante presenza per la loro figlioletta Tea. Purtroppo, l'apparente equilibrio raggiunto è destinato ad infrangersi: dal passato non s'affacciano più solamente incubi e visioni, si materializza anche il proprio aguzzino d'un tempo, noto come "Muffa", che la trascina in una catena di nuovi orrori. Ma Irena è vicina a raggiungere il proprio obiettivo, e non vuole fermarsi... Erano più di cinque anni ("Malèna" porta la data del 2000) che Giuseppe Tornatore non dava segnali di vita artistica: oltre un lustro speso a inseguir un progetto ambizioso - il kolossal su Leningrado concepito da Sergio Leone - e che, per ora, figlia questo "La sconosciuta", difficile da ascrivere a un qualunque genere. Se le atmosfere iniziali, infatti, rimandano al cinema di Hitchcock (e la colonna di Ennio Morricone fa palesemente il verso a quelle di Bernard Herrmann), poi il film pare collocarsi nei territori del mélo di tradizione indigena: Matarazzo, certo, ma ancor più certi drammi a sfondo erotico tipici degli anni '70 (si pensa - absit iniuria verbis - al Brunello Rondi di "Valeria dentro e fuori" o, meglio, di "Ingrid sulla strada"). La differenza rispetto a quei lontani - e all'epoca disprezzati dalla critica - prodotti sta nel fatto che è diventato oggi impossibile fare film per adulti, grazie alla dittatura dei diritti d'antenna: la pellicola appare così assai sbilanciata, violenta in taluni passaggi ma inspiegabilmente castigata e priva di morbosità sessuale. ll risultato è un'operina di convincente atmosfera, con momenti efficaci (la brutale educazione della bambina, ad esempio) e personaggi azzeccati (la protagonista, tratteggiata con finezza da Xenia Rappoport, e Valeria, un'intensa prova di Claudia Gerini), ma pure gravata da una scrittura debole, figure risibili (il grottesco Muffa, al quale Placido soccombe incolpevole) ed uno scioglimento finale che è un autentico infortunio narrativo.
Francesco Troiano


Intervista a Giuseppe Tornatore

Com'è nata La sconosciuta?
La storia nasce da un fatto di cronaca che avevo letto molti anni fa: una donna che, d'accordo con il marito, aveva partorito dei figli su ordinazione. Poi ho raccontato una storia diversa, ma mi sono documentato su questa realtà. Ho scelto il mistero come chiave del racconto perché penso che oggi non abbia molto senso fare dei film di denuncia. Non è un film di giudizi, gli elementi di sociale e di denuncia che ci sono non erano importanti per me, ma necessariamente mi sono dovuto documentare sulla drammaticità dei fatti. 

Il film è ambientato a Trieste, ma la città non è riconoscibile, perché?
La città doveva essere immaginaria per evitare il rischio di dare ai personaggi uan connotazione precisa. Trieste mi sembrava la città giusta ma mi sono divertito a trasfigurare il palcoscenico realistico della vicenda.

Ha pensato alle eroine russe del grande romanzo popolare ottocentesco nel costruire il personaggio di Irena?
L'elemento legato alla tradizione russa delle eroine ottocentesche non è stato determinante nella costruzione del personaggio, anzi quando mi rendevo conto di subire quella suggestione cambiavo tutto. La presenza scenica di Xenia, il suo volto ricordano quelle eroine, il suo carattere, così forte e determinato, la volontà di riconquistare una parte della sua vita che le era sfuggita appartiene a quel filone, ma ho lavorato più " a togliere" rispetto a questo elemento.

Come ha scelto i protagonisti?
Scegliere il cast è stato semplice, volevo che rispecchiasse il cuore della storia: avevo bisogno di uan sconosciuta e di un coro di volti noti che facessero risaltare questo elemento. Sono stati tutti generosi, hanno accettato ruooli anche scomodi e difficili.

A chi si è ispirato per un film così violento e cruento?
Il mio primo film era molto duro e violento, non è un elemento che mi è estraneo, anzi mi piace. La storia era molto semplice e si è sviluppata da sola. Non mi sono ispirato consapevolmente a nessun modello per lo stile del racconto, poi è chiaro che i film che facciamo risentono del nostro percorso di formazione. Anche prima di Tarantino nel cinema ci sono state scene di violenza e di sangue. 

Com'è nato il finale?
Uno dei temi del film è che oggi deleghiamo tutto agli altri, anche la gestione degli affetti. Mi piaceva far vedere cosa succede a chi viene investito della gestione degli affetti da parte degli altri. La protagonista fa un grosso investimento affettivo e mi sembrava giusto che le servisse a qualcosa, al di là della drammaticità della storia.

Qual è stato il lavoro più difficile durante le riprese?
La cosa più difficile è stata lavorare con la bambina, e io sono un esperto...questa volta mi tremavano i polsi...sono stato fortunato a trovare una bambina così piccola eppure così intelligente e dei genitori così generosi che mi hanno aiutato a lavorare con lei.