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martes, 31 de diciembre de 2013

Arrivederci e grazie - Giorgio Capitani (1988)


TITULO ORIGINAL Arrivederci e grazie
AÑO 1988
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 92 min.
DIRECCION Giorgio Capitani
GUION Graziano Diana, Simona Izzo
REPARTO Ugo Tognazzi, Ricky Tognazzi, Gian Marco Tognazzi, Catherine Alric, Milly Carlucci, Anouk Aimée, Giuppy Izzo, Alessandro Haber, Marina Tagliaferri, Antonella Fattori
FOTOGRAFIA Roberto Gerardi
MONTAJE Antonio Siciliano
MUSICA Gianni Ferrio
PRODUCCION Giovanni Bertolucci para San Francisco Film, Reteitalia, Cinecittà
GENERO Comedia

SINOPSIS Un padre di famiglia stufo della famiglia e del lavoro, se ne va di casa. Ma nell'appartamento da scapolo dove va a vivere, s'installano per una serie di equivoci anche gli altri due figli maschi (uno è stato lasciato dalla moglie, l'altro aspetta un figlio dalla compagna). Il padre viene a sapere che ha un cancro. Prima di morire, avrà però la forza di mettere a posto tutti i pasticci della sua strampalata famiglia. (My Movies)

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TRAMA: 
Insofferente della moglie e del lavoro, il sessantenne Carlo lascia la ditta alla consorte, donna sofisticata ma intelligente ed efficiente, e se ne va di casa, prendendo in affitto un bell'alloggio nel cuore della vecchia Roma. Tanto esuberante è lui, quanto depresso e malinconico suo figlio Paolo, autore teatrale di scarsa fortuna, che è stato improvvisamente lasciato dalla moglie Sandra, ed è precipitato nello scoramento totale. Anche lui cerca casa e, per un equivoco dell'agenzia padre e figlio si trovano inquilini dello stesso appartamento. Restano insieme, ma i battibecchi sono frequenti tra l'uno, ancora molto vitale e gastronomo maniacale, e l'altro introverso, dispeptico, sempre innamorato di sua moglie Sandra e con vena teatrale inaridita. A complicare le cose Giacomo, il secondo figlio di Carlo, insieme a Francesca, la compagna, che è incinta, si installa nell'appartamento. L'insolito ménage va avanti, mentre Carlo conosciuta Benedetta, una seducente e solitaria attrice, fa presto a goderne i favori. Intanto Paolo ha scritto una nuova commedia (gli eventi di cui è partecipe e spettatore sono stimolanti); il figlio di Giacomo nasce e Benedetta frequenta la famiglia con grande disinvoltura. Quando a Carlo viene diagnosticato un cancro e gli comunicano che gli restano al massimo pochi mesi di vita, lungi dall'essere terrorizzato - la sua filosofia di vita non lo renderebbe plausibile - chiede a Benedetta un ultimo incontro d'amore, fa riconciliare Paolo con Sandra, fa sposare Giacomo con Francesca e battezzare il bambino; poi offre alla moglie (lei dice di sì) di partire con lui per andare in Oriente per un lungo viaggio: evidentemente l'ultima vacanza della sua vita. Ancora una volta, niente tenerezze e lacrime tra padre e figlio (che pur si vogliono bene): solo rispettive parolacce augurali.


CRITICA: 
 "Gli occhi di Ricky Tognazzi, a sostegno di quella che è, a tutt'oggi, la sua interpretazione più sentita. Accigliata, brusca, realistica, ma anche sfumata con sapienza, prodiga di toni a sommessi, in bilico costante fra il sofferto e il faceto, con una gamma ricchissima di accenti caldi. Di fronte, come padre, il suo papà Ugo, arrivato ormai a un tale dominio dello schermo che sembra solo vivere, senza aver neanche più bisogno di recitare: con gesti concreti, mimica immediata, una spontaneità quasi in diretta. Il grande attore come uomo della strada. Sorpreso da una candid camera. Gli dà la replica con affetto l'altro figlio, Gianmarco. Pronto a seguire ormai le orme del fratello. Le donne sono Catherine Alric, Milly Carlucci, Giuppy Izzo e, nelle vesti di Laura, moglie e madre, la sempre bella Anouk Aimée. Sta un po' in disparte, ma quando appare si prende da sola lo schermo. Con un carisma che non conosce tramonto."
 (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 14 Maggio 1988)

"Certi film italiani sono così palesemente ideati per la tv, che quasi stupisce incontrarli sullo schermo grande: ma alcuni esperti sostengono che senza il prestigio, l'attenzione critica e l'eco giornalistico dell'uscita nei cinema, richiamo e audience televisivi sarebbero assai minori. Qui la commedia familiare segue la strana coppia di conviventi formata da padre e figlio, tutt'e due separati dalle rispettive mogli con le quali, si capisce, torneranno a stare dopo litigi, equivoci burri, piccole avventure amorose: il conclusivo tocco drammatico è proprio un di più, però Ricky Tognazzi diventa sempre più bravo come faccia esemplare dei trentenni contemporanei." 
('Panorama', 24 Maggio 1988)

lunes, 30 de diciembre de 2013

Exit: una storia personale - Massimiliano Amato (2010)


TÍTULO ORIGINAL Exit: Una storia personale 
AÑO 2009 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 75 min.  
DIRECTOR Massimiliano Amato  
GUIÓN Massimiliano Amato 
MÚSICA Francesco Perri
FOTOGRAFÍA Massimiliano Amato 
REPARTO Luca Guastini, Nicola Garofalo, Marcella Braga, Paolo Di Gialluca, Antonio Calamonici 
PRODUCTORA A Film Productions 
GÉNERO Drama  

SINOPSIS Dopo il suicidio del suo compagno di stanza, Marco, un giovane disagiato, inizia a pensare che la sua esistenza sia molto simile a quella del suo amico, se non peggiore. La mancanza di prospettive, un forte senso di inadeguatezza non fanno che peggiorare il suo stato d’animo. In piena crisi, il ragazzo chiede al fratello Davide di accompagnarlo in Olanda per fare quello che il suo amico Maurizio aveva programmato lucidamente: un suicidio assistito. Confessa che vuole farla finita con la sua vita di emarginazione e malessere. Davide, abituato a convivere con le crisi e i deliri del fratello, non prende nemmeno in considerazione la richiesta. Non sa, e non può sapere che quello che Marco afferma ha una sua plausibilità. Infatti il protocollo olandese sull'eutanasia contempla anche la sofferenza psichica. (Cineclandestino) 

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È spesso difficile inquadrare le opere prime prodotte nel nostro mercato, vuoi per una scarsità di mezzi economici che spesso le rende vittime delle loro ambizioni, vuoi per una difficile collocazione in un mercato invaso da cinepanettoni e commedie scollacciate per un pubblico della domenica. Se a questo aggiungiamo la dozzinalità della distribuzione nostrana, si comprendono appieno le difficoltà da chi, aspirante regista, si lancia nella carriera dietro la macchina da presa con un carico di passione che va a cozzare con la realtà delle cose. Un input che possa risvegliare i giovani talenti emergenti del Belpaese è senza dubbio arrivato grazie alle nuove tecnologie, e non è difficile al giorno d'oggi realizzare pellicole interessanti con un budget abbordabile. È questo il caso dell'esordiente Massimiliano Amato: ha girato il film con una videocamera ad alta definizione che gli ha permesso di sviluppare anche delle sequenze impegnative dal punto di vista logistico e sperimentare sulla materia Cinema. Lo stesso Amato è anche sceneggiatore e produttore, in una sorta di progetto personale che, più di una ricerca autoriale, pare un'espressione vibrante e genuina motivata dal desiderio di voler raccontare un evento difficile e ricco di significati, ispirato da un incontro avuto nella vita reale.

Marco Serrano (Luca Guastini) soffre di problemi mentali che lo portano alla paranoia. È convinto di sentire voci che lo inducono al suicidio e di esser vittima di un complotto da parte del mondo intero. Neanche il centro dove si reca ogni giorno e che ospita gente reduce da dipendenze riesce a curare la sua psicosi. L'unico appiglio alla realtà sembra essere il fratello Davide (Nicola Garofalo), la cui vita però è messa inesorabilmente a soqquadro dalle sue continue richieste e stranezze. Marco decide così di optare per una scelta estrema: dopo aver letto su un giornale che in Olanda vi sono dei centri dove si pratica l'eutanasia assistita per problemi psichiatrici, decide di partire e abbandonare tutto.

Dolce e malinconico ritratto di una crisi, sia questa mentale nella testa della sfortunato protagonista, che familiare nel rapporto contrastato col fratello, ancorato ad una vita normale ma tenace e strenuo protettore di un'unità mai così solida. Exit - Una sfida personale non è un film semplice, è un'opera che va inquadrata nelle sue diverse sfaccettature che si incrociano e si diluiscono in un incipit narrativo apparentemente semplice ma in realtà ricco di spunti di riflessione. Il merito di Amato è - a differenza di suoi tanti colleghi - di non risultare sfacciatamente presuntuoso e di credersi un nuovo maestro rimasto sino ad ora nell'ombra: al contrario - e questo senza sminuirne le qualità - riesce a convincere proprio perché si limita all'essenziale. La raffinatezza della messa in scena, che gioca nel sottile bilico tra il cinema verità e guizzi più autoriali, riesce a rendere le due città protagoniste della vicenda, Roma e Amsterdam, compagne pulsanti dei personaggi: la prima fa da sfondo alle assolate giornate di confusione e solitudine di Marco, la seconda, luogo quasi magico, risulta Anfitrione involontario ma benevolente di un abbraccio, di un ritorno sospirato e forse chiarificatore per il futuro. L'acqua infine, nella sua incarnazione più poetica, rappresenta una sorta di catarsi interiore, ripulita dai demoni verso un domani difficile ma da affrontare con la certezza di non essere soli. Per nulla accessoria, ma anzi preponderante nel suo co-protagonismo, la presenza di Marcella Braga nei panni di Nina, la ragazza di Davide: la sua figura, agente estraneo di questo profondo legame familiare, serve a collegare i sentimenti e le passioni a un mondo reale fatto di carne, pensieri e amore. 


Correndo verso la fine

Per commisurare il valore di certi film, specialmente quelli che riflettono un doloroso passato magari realmente vissuto, è forse necessario adottare altri criteri di giudizio che non siano quelli "classici" usati ad esempio per scrivere di un qualunque blockbuster hollywoodiano. Se poi l'opera in questione è anche italiana, la faccenda va esaminata con ancora maggiore cura. In Exit - Una storia personale (opera che già dal sottotitolo lascia trasparire la propria ragion d'essere), esordio alla regia di Massimiliano Amato, c'è tanto, forse troppo e nemmeno ben amalgamato. Però è un film che nasce da un'urgenza, quella di raccontare un dramma umano sia per renderne noti gli esatti contorni che forse per metabolizzarlo definitivamente. Due aspetti che si  percepiscono con chiarezza in ogni singola sequenza, quasi sempre animata da un ritmo convulso - accentuato dalle continue e nervose riprese a mano in digitale - come se l'opera stessa non potesse fare a meno di identificarsi in toto con la vicenda ed i personaggi che mette in scena, soprattutto con quello principale del giovane disturbato in disperata ricerca di un modo attraverso il quale porre fine alle proprie sofferenze.
Exit - selezionato in competizione al Festival del Cinema Italiano di Annecy, in svolgimento proprio in questi giorni nella località francese - è in fondo una storia di libertà assoluta che è possibile leggere a più livelli. Ci sono quelli strettamente diegetici del desiderio di morire da parte di chi sente di non aver difese nei confronti delle terribili asperità della vita (Marco Serrano, il giovane protagonista) ma anche di colui che, comprensibilmente, vorrebbe a tutti i costi trattenere il proprio consanguineo accanto a sé, in nome dell'affetto e forse di quel pizzico di egoismo che ci porta sempre e comunque tutti a temere il rischio della solitudine affettiva (il fratello di Marco, Davide). E c'è poi quello, esclusivamente simbolico, del fare cinema per seguire un percorso di ricerca personale, allo scopo di superare paure e dolori che probabilmente si ha il coraggio di affrontare solo davanti - o dietro - una macchina da presa. Il caso di Exit sembra esattamente questo, ovvero il trascinarsi dietro dalla vita vissuta un fardello assai pesante che non può essere solo frutto di un'idea di sceneggiatura, sia pur meditata. Di conseguenza, pregi e difetti del film finiscono con l'avere la medesima origine, mescolandosi in un flusso magmatico nel quale non solo può diventare difficile distinguere gli uni dagli altri, ma anche un apparente difetto può non rivelarsi tale e viceversa. 
Balza subito agli occhi, ad esempio, la frenesia registica - uso ripetuto della macchina a mano, montaggi alternati forse con superfluo significato narrativo - attraverso i quali Amato cerca di drammatizzare la storia che racconta allo scopo nobile di condividerla empaticamente con il pubblico; uno stile sussultorio che mira evidentemente a riflettere, come si accennava poc'anzi, la psiche dilaniata del personaggio principale, fino a fare entrare chi guarda dentro di essa, a percepire quasi fisicamente il grido di dolore emesso da una persona sofferente. Un procedimento comunque coraggioso anche se tendenzialmente debordante rispetto ad una nuda trama invece piuttosto semplice e lineare, che forse avrebbe preteso un tono più distaccato, pacato e intimista. Tuttavia Exit è pur sempre un'opera prima, volutamente lavorata su materiali narrativi grezzi in cui appunto si confondono finzione e trascorsi esistenziali; cosa che rende il film quantomeno interessante anche nel caso non riesca a concludere con un pieno successo - secondo l'interpretazione soggettiva dello spettatore - l'intento di partenza di rendere universali le vicende umane che ne costituiscono il cuore pulsante. 
Ma proprio per questa ragione non si può certo negare che Exit abbia una sua febbrile e vitale autenticità, un coraggio di esporsi troppo spesso assente in un cinema italiano costretto a mirare verso il basso non tanto per incapacità creativa quanto per insicurezza congenita, dovuta a ragioni - anche di vile “mercato” - che sarebbe eccessivamente lungo spiegare in questa sede.
Che piaccia o meno, al di là delle recitazioni disomogenee nel cast o della ovvietà di alcune soluzioni formali, Exit - Una storia personale è comunque un'esperienza di cinema e di vita. Aspetto che dovrebbe essergli sufficiente per meritare una visione, purtroppo tutt'altro che garantita, nelle sale.
Daniele De Angelis

domingo, 29 de diciembre de 2013

Educazione Siberiana - Gabriele Salvatores (2013)


TITULO ORIGINAL Educazione siberiana 
AÑO 2013
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DIRECCION Gabriele Salvatores
GUION Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Gabriele Salvatores (Libro: Nicolai Lillin)
MUSICA Mauro Pagani
FOTOGRAFIA Italo Petriccione
REPARTO John Malkovich, Peter Stormare, Eleanor Tomlinson, Andrius Paulavicius, Giedrius Nagys, Arnas Fedaravicius
PREMIOS 2012: Premios David di Donatello: 11 nominaciones (incluyendo Mejor película)
PRODUCTORA Cattleya
GENERO Drama | Años 80

SINOPSIS Rodada en inglés y basada en un libro de Nicolai Lilin, narra su adolescencia y formación dentro de la comunidad de los Urka, irreductibles criminales siberianos, que fueron deportados a Transnitria (entre Moldavia y Ucrania) por Stalin en los años 30. La historia se desarrolla poco antes de la caída de la Unión Soviética. (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)


A pesar de hablar de clanes, de mafias o de criminales, no es "Educazione siberiana" una película épica al estilo grandes sagas de mafiosos a las que nos tiene acostumbrado el cine norteamericano. Aquí se nota la mano del director europeo a quien le importa bien poco el honor o el funcionamiento de estos clanes, aquí todos es mas simple, con reglas simples y no lo entienden como un acto criminal sino como una manera mas de vivir. La lucha del protagonista por huir de su destino solo se entiende al final, como un acto de amor alejado de cuanto hemos visto durante la película, como si toda la trama criminal no fuese mas que una excusa para hablarnos del amor y la amistad. "Educazione Siberiana" está bien interpretada, con ritmo, excelentemente ambientada y con ese estilo que el bueno de Salvatores sabe imprimir a todas sus películas entre infantil y espectacular. En el fondo Gabriele Salvatore utiliza la excusa de la novela de Nicolai Lilin para contarnos una historia de amor ambientada en los clanes criminales siberianos, no hay mas, esto no es "El Padrino" ni "Los Soprano" e incluso a diferencia de "Una historia de violencia", Salvatore escoge el camino de contarnos una historia desde su comienzo a su final, obviando las partes mas salvajes y ofeciendo una buena historia sobre el honor, una historia clásica y bien estructurada sobre el amor y la amistad. Sin ser un tipo de cine que me apasiona por demasiado académico (no deja espacio a la sorpresa o a la novedad) hay que reconocer que me ha gustado mucho. Totalmente recomendable.
rirocbel,   Barcelona (España)
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Y esta semana seguimos en el campo del séptimo arte. Os dejo la nueva peli de Gabriele Salvatores, personalísimo director italiano al cual recordareis por obras notables (o al menos originales) como pueden ser "Mediterraneo" (1991), "Nirvana" (1997) o "Amnesia" (2002). "Educazione Siberiana" es su último film y en el nos retrotrae a la historia de los clanes mafiosos siberianos nacidos a la sombra de las comunidades Urcas y su devenir en la extinta URSS y la moderna Rusia. Para ello se basa en las experiencias personales de Nikolai Lilin recogidas en el libro bautizado con el mismo nombre que el film. 
Los urcas eran  una insólita comunidad de bandidos siberianos enfrentada a Stalin que fueron deportados desde Siberia (en lugar de hacia Siberia) a la Transnistria, una larga franja entre Moldavia y Ucrania asolada por la corrupción, el crimen organizado y el contrabando. Inmerso en este caldo de cultivo, Kolyma (alter ego de Nikolái Lilin) crecio en el seno de una gran familia que  no reconoce otra autoridad que la de sus ancianos y que obliga a sus miembros a respetar un estricto código de conducta que les permita definirse a sí mismos como «criminales honestos». Con un profundo sentido de libertad y justicia, y exaltando valores como la lealtad, la humildad y la generosidad pero sin dejar de lado una crueldad mas que exasperante, los urcas no sólo prohíben las drogas, la violación y el desprecio hacia los débiles, sino que incluso castigan estos delitos con la muerte. Y como símbolo tangible de una ética tan peculiar, los tatuajes se presentan como un libro misterioso cuyas páginas custodian un lenguaje que nunca debe pronunciarse. "Educazione Siberiana" cuenta esto y mucho mas. A partir de sus casi dos horas de metraje y de forma paralela a la narración de la vida de kolyma desde una marcada perspectiva poética y una fotografía envidiable, "Educazione Siberiana" nos muestra como cambia el mundo (sobre todo comunista) desde los 80 hasta el conflicto checheno pasando por la caida del telón de acero. De destacar el papelazo de John Malkovich, se le echaba de menos que se marcase un papel memorable como los que nos tenia acostumbrados. Chapeau por su recreación de "Vito Corleone" siberiano. Peter Stormare tambien lo clava. Incluso la banda sonora es buena: Ese "Absolute begginers" de Bowie como fondo para la secuencia del tio-vivo y algun petardazo peregrino post-punk ruso que no conozco son buenos ejemplos. En resumen os dejo una película mas que recomendable que desgraciadamente, y como suele ser habitual, no alcanzó gran difusion y en algunos casos incluso no logro entrar en los circuitos comerciales. Se puede decir que lo que fue "Once upon a time in America" de Leone para la comunidad/mafia judia en USA  tiene ahora un digno reflejo en la comunidad/mafia Siberiana de la Rusia de "Educazione Siberiana"....poco mas queda por decir pero mucho por ver. Ya me direis.
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Gabriele Salvatores porta sul grande schermo il libro di Nicolai Lilin Educazione siberiana. Dopo Sorrentino e Tornatore un altro grande autore del nostro cinema trova spazio e sostanze produttive in un più ampio contesto europeo, girando in lingua inglese e ricreando in Lituania la Transnistria, regione contesa tra Russia e Moldavia dove il governo sovietico deportò intere comunità criminali nel corso del secondo dopoguerra. Lì crescono Kolima e Gagarin, a fine anni Ottanta giovanissimi “onesti criminali” Siberiani, educati all’ancestrale codice guerriero da Nonno Kuzja (John Malkovich), ultimo portavoce di un mondo antico e in sparizione, religioso e puramente antagonista, comunitario, rigidamente codificato, anticapitalista e malinconicamente legato alla natura materna e lontana delle gelide steppe siberiane. Ma con il vecchio mondo travolto dal crollo del Comunismo i due protagonisti si ritroveranno cresciuti e separati come un Aljosha e un Ivan Karamazov, Kolima ancora legato al codice dei padri e Gagarin alfiere del nichilismo (capitalista) del “tutto è permesso” di dostoevskijana memoria. Salvatores parte dall’autobiografia di un immaginario e vi aderisce portando il suo amore per la grande letteratura e il grande cinema russo, conducendo lo spettatore con talento visivo indiscusso, aiutato da un lavoro di scenografia notevole, ad assaporare l’atmosfera di rivolgimento in cui i giovani e i vecchi si trovano in rapporto critico verso un mondo che non è più il loro e sempre meno lo sarà. Si assapora il respiro epico delle grandi storie grazie a una scrittura mai banale, affidata a sceneggiatori di livello indiscusso come Rulli e Petraglia, in piena consonanza con le profonde tematiche del testo di partenza. La struttura narrativa piega la cronologia in maniera creativa, alternando tre distinti piani spazio-temporali: l’infanzia e l’educazione dei giovani nel villaggio ancora sotto il regime sovietico; la vita dei protagonisti adolescenti quando intorno a loro si fa strada un Occidente carico di promesse – qui si colloca il nucleo emotivo e simbolico del film, la meravigliosa sequenza della giostra che in una gelida piazza di anonima architettura sovietica porta la musica di David Bowie (Absolute Beginners) come il miraggio di una felicità possibile –; la drammatica, e splendidamente girata in un altrove violento, resa dei conti finale tra i due “fratelli”. Il casting scova due giovani esordienti lituani come protagonisti, cavandone interpretazioni ineccepibili, e affida al carisma indiscusso di John Malkovich il ruolo chiave del vecchio maestro, la cui importanza, ricorda Salvatores, è quella di dare la possibilità ai giovani di scegliere, o di costruirsi, una visione del mondo, perché è sempre «meglio un cattivo maestro che nessun maestro». 
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Gabriele Salvatores torna al cinema. Se ne va all'est, tra neve, freddo e tatuaggi, e dimostra coraggio da vendere. Con Educazione siberiana (dal 28 febbraio nelle sale) decide di trasporre un romanzo spigoloso come quello di Nicolai Lilin e si rimette in gioco.
Se si pensa che il suo ultimo film, Happy family (2010), era una sorta di rimpatriata tra amici (Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, l'adattamento di un'opera del suo amato teatro Elfo...), ambientata nella sua città d'adozione Milano, e tanto colorata e giocosa, si capisce l'alta portata di questo suo nuovo lavoro, girato in terra lituana, in inglese e con un cast a lui del tutto nuovo, per lo più del posto. Tra volti sconosciuti spiccano però due presenze arcinote, lo svedese di Hollywood Peter Stormare (che interpreta il tatuatore Ink) e John Malcovich, che non ha bisogno di presentazioni e che segna la prima collaborazione con il regista di origini partenopee.
Malcovich è nonno Kuzya, il capo di una comunità di "criminali onesti", un clan di discendenti dei guerrieri Urca, originari abitanti della grandi foreste siberiane, deportati nel sud della Russia da Stalin e residenti in Transnistria, una regione dell'attuale Moldavia. Si tratta di gangster, ma con regole e un codice d'onore ben precisi, in cui a volte ci si sorprende di riconoscersi: "un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore può amare". E quindi furti sì, droga no. Uccisioni se capita sì, soldi da tenere in casa no. E poi abbasso polizia, banchieri, usurai...
In questo contesto di violenza indottrinata crescono due bambini amici per la pelle, Kolima e Gagarin, tanto uniti quanto così prossimi a perdersi. Sin da subito è evidente nei due un'indole diversa. In una storia che abbraccia l'arco di tempo dal 1985 al 1995 li vedremo crescere passando attraverso cambiamenti epocali attorno a loro, dalla caduta del muro di Berlino al disfacimento dell'Unione sovietica. Ormai quasi uomini e alle prese con le loro responsabilità, il primo avrà il corpo fiero, atletico e quasi aristocratico di Arnas Fedaravicius, l'altro il fare selvaggio e irrequieto di Vilius Tumalavicius.
Ne esce un film che ha sicuramente grande fascino e riesce a coinvolgere dall'inizio alla fine, anche grazie ai salti temporali e a un'ambientazione e a una cultura completamente diverse da quelle a noi note. La violenza trabocca e a volte lo sguardo fa fatica, ma non sembra così gratuita, quanto un'ineffabile esplosione di dna. La fotografia del solito socio di Salvatores, Italo Petriccione, è glaciale e livida, di un'asciuttezza seducente. A non avere il pregio dell'asciuttezza è invece la narrazione, a volte troppo ricca di dettagli e di parole. Ecco così che gli insegnamenti di nonno Kuzya ricorrono e ricorrono, in maniera un po' didascalica e con un'epicità a cui è data troppa enfasi.

La scena migliore?
Di certo è quella in cui i quattro amici, Kolima, Gagarin, Mel (Jonas Trukanas) e Xenya (Eleanor Tomlinson), corrono per salire sulla giostra, con Mel entusiasta perché si sente musica occidentale. Sul calcinculo ridono, si danno spinte, coccolano Xenya, bellissima ragazza intellettivamente disabile. In quel momento i sogni non toccano per terra e volano, senza peso specifico, leggeri.

L'insegnamento più bello.
Dalla bocca del saggio Kuzya o nella memoria del Kolima, tante sono le massime affascinanti della cultura criminale siberiana. Ma una, su tutte, conservo: i pazzi sono i "voluti da Dio", per questo li dobbiamo proteggere.
Salvatores, al suo quindicesimo film, passato dal successo da Oscar di Mediterraneo a opere surreali come Nirvana, ha ancora ardore da sperimentatore. Ora ha lanciato la sua picca (coltello). Non ha fatto centro. Ha colpito comunque il bersaglio, che era lontano e difficile. Per questo il suo è comunque più un punto guadagnato che uno perso.
Simona Santoni


Oltre il fiume Nistro' vive una comunità singolare che educa i propri figli al crimine. Onesti con i più deboli e feroci con esercito e polizia, i siberiani pregano dio e impugnano armi, predicando una violenza regolata da prescrizioni. Il crollo del Muro e del regime sovietico altera gli equilibri del loro mondo, corrotto rapidamente dall'aria dell'Ovest. Nel passaggio epocale che confronta e poi scontra la Tradizione col cambiamento nascono e crescono Kolima e Gagarin, amici per la pelle e amici nel sangue. Ispirati e armati di picca da nonno Kuzja, vengono iniziati alle rapine e alla condivisione 'comunitaria' della refurtiva. Perché i siberiani non rubano per arricchirsi ma per sostenere la loro piccola società, premurosa con gli anziani e coi 'voluti da Dio' come Xenja, giovane donna affetta da demenza. Figlia del medico locale, la ragazza è protetta da Kolima che ne è profondamente innamorato. Finito in carcere, ha sublimato quel sentimento in un tatuaggio, una tecnica di decorazione corporale che impara e affina sulla pelle dei galeotti. Diversi tatuaggi dopo, nonno Kuzja provvede alla sua scarcerazione per affidargli una missione importante, trovare l'uomo che ha abusato e picchiato la sua Xenja. Sarà l'inizio di una lunga caccia che lo costringerà ad arruolarsi nell'esercito, infrangendo codici e tradizioni.Autore cult degli anni Ottanta e Novanta, a partire dal 2000 Gabriele Salvatores si lascia alle spalle la 'sindrome da Peter Pan', che caratterizzava quasi tutto il suo cinema precedente, per tentare la strada più ardua del film non generazionale ma teso a raccontare l'incontro fra generazioni. Sperimentatore di nuove tecniche e nuovi possibili modelli di rappresentazione, negli anni zero infila la strada della trasposizione, traducendo con esiti oscillanti (e qualche volta discutibili) due romanzi di Niccolò Ammaniti (Io non ho paura, Come Dio Comanda), il noir di Grazia Verasani (Quo Vadis, Baby?) e la pièce teatrale di Alessandro Genovesi (Happy Family).
Educazione siberiana non fa eccezione e va a ingrossare le fila degli adattamenti. Dopo una commedia felice, che recupera e ricongiunge Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio, il regista milanese adatta "Educazione siberiana" di Nicolai Lilin, autore russo che scrive in lingua italiana. Con la partecipazione di Rulli e Petraglia, Salvatores toglie al romanzo tutto quello che non asseconda la sua intuizione originale, abusando di un testo densissimo e perdendo l'alterità narrata da Lilin. Legittimo per quanto autoritario, l'intervento dei celebri sceneggiatori normalizza, meglio spersonalizza una comunità criminale siberiana radicata nella Tradizione e impattata dalla modernizzazione globale.
Mischiando, scambiando, omettendo o esaltando personaggi, Rulli e Petraglia decontestualizzano i protagonisti riorganizzandoli dentro una storia altra e prossima alla 'gioventù' già ampiamente trattata al suo 'meglio' (La meglio gioventù) e al suo 'peggio' (Romanzo criminale). I 'bravi ragazzi' di Lilin finiscono per galleggiare su una superficie fragile come il ghiaccio che inframezza le sequenze, in cui si contrappongono due bad guy e due modi diversi di stare nel mondo, l'uno vorrebbe conservarlo e trasmetterlo, l'altro rubarne un pezzetto con la smania di chi vuole tutto subito.
Semplificato e stravolto, Educazione siberiana si incanala verso un disegno di virtuosismi che non affondano mai, ritirandosi dal confronto con le pagine di Lilin e sclerotizzando lo sguardo su corpi privi di carne e di sangue. Personaggi mai attraversati dalle passioni e il cui destino ci risulta indifferente. Nemmeno la furia finale di Kolima, tesa a ristabilire verità e giustizia (criminale), risarcendo l'innocente, ci può emozionare. Gli attori, un cast giovanissimo e puntuale governato da un John Malkovich di ieratica grandezza, soffrono una narrazione resistente all'onore, al culto della violenza e alla formazione (criminale). La tentazione di un affresco storico-sociale della Russia attraverso la figura del criminale rimane un tentativo interessante che elude tuttavia il senso più profondo della forza e della sopraffazione, della sorte degli innocenti e dei predestinati, dell'incisione dell' 'io' sui corpi raffigurati da Lilin come fossero libri. Corpi coperti di tatuaggi e arabeschi del passato che individuano le persone, le inquadrano e le rappresentano in una gerarchia criminale.

sábado, 28 de diciembre de 2013

Italian Movies - Matteo Pellegrini (2012)


TITULO ORIGINAL Italian Movies
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 100 min.
DIRECCION Matteo Pellegrini
GUION Giovanna Mori, Matteo Pellegrini, Paolo Rossi
MUSICA Mario Mariani
FOTOGRAFIA Umberto Manente
REPARTO Filippo Timi, Aleksey Guskov, Neil D'Souza, Michele Venitucci, Eriq Ebouaney, Melanie Gerren, Anita Kravos, Michele Di Mauro
PRODUCTORA Indiana Production Company / Lumiq Studios / Trikita Entertainment / Merenda Film / Effetti Digitali Italiani (EDI)
GENERO Comedia | Inmigración

SINOPSIS Empleados de la limpieza, emigrantes de todo el mundo, trabajan durante el turno de noche en los escenarios de un estudio de sonido donde las telenovelas italianas son filmadas. En cierta ocasión, hallan abierta una de las puertas que conducen a los cuartos donde las cámaras y el equipo de rodaje son almacenados. Y el indio Dilip da con una idea: filmar la boda de su amigo como regalo de ésta. Muy pronto esta idea se convierte en la segunda fuente de ingresos para todo el equipo de limpiadores del turno de noche, cambiando sus vidas para siempre. Tras muchas ceremonias y noches de invitados, deciden usar los escenarios de sonido vacíos durante las noches para filmar historias reales sobre gente real. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Inglés)


“Italian Movies” è una deliziosa commedia corale e multietnica che riesce a trattare con leggerezza e originalità temi come l’immigrazione e il lavoro, esplorandone a fondo il lato umano. Il film, diretto da Matteo Pellegrini, racconta le avventure di gruppo di addetti alla pulizia di uno studio televisivo torinese che decide di utilizzare la struttura durante la notte per avviare una casa di produzione “low cost”.
Ottima la sceneggiatura di Giovanna Mori, Matteo Pellegrino e Paolo Rossi, l’alchimia tra gli attori e la scelta di distanziarsi anche a livello visivo dal “look and feel” standardizzato delle commedie nazionali. Inoltre, uno degli aspetti più interessanti di questo film è che, a differenza di gran parte della nostra produzione cine-televisiva, propone un ritratto della nuova Italia e dei nuovi italiani estremamente attuale.
In tempo di crisi, molti si sentono costretti a compiere scelte che non avrebbero compiuto altrimenti. L’asprezza delle circostanze può spingere le persone più diverse ad accettare supinamente il ruolo di ultimo anello della catena alimentare, sia che siano nati in Italia, sia che vi siano arrivati da lontano pieni di sogni e di speranze. Potrebbe accadere di peggio, quindi, tanto vale non tentare e sopportare il male conosciuto: questo senso di de-valorizzazione – che genera solo schiavitù e sfruttamento – può essere sconfitto nel momento in cui si riesce a intravedere una via d’uscita. Non importa quanto questa sia folle, l’importante è trovare il coraggio di volerla raggiungere anche quando alle difficoltà materiali si aggiungono ostacoli di natura psicologica. Nel superamento di questo ostacolo è fondamentale il ruolo del gruppo ed è in questo particolare che il “sogno italiano” proposto da Pellegrini si differenzia da quello americano, vissuto più in solitudine.
Al Festival del Film di Roma, l’attrice Anita Kravos mi ha parlato del suo ruolo in “Italian Movies” e del personaggio che interpreta in “E la chiamano estate” di Paolo Franchi. Guarda il video per scoprire che ha detto…
Laura Nuti
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Evidente metafora del modo di fare cinema in Italia: diventato notturno e clandestino per sfuggire all’ufficialità di uno sguardo tragicamente unidimesionale. Al netto di qualche ingenuità di scrittura o di recitazione, questo è un piccolo film che assumendo un tono favolistico rivendica la possibilità di comunicare con le nuove immagini (i video degli immigrati postati su You Tube) associate al racconto tradizionale

Il lavoro. Sia in toni drammatici che farseschi/ironici il tema del lavoro, guarda caso, torna dopo gli anni ’70 ad essere assoluto protagonista del cinema italiano invadendo coattamente vari generi. Perché la crisi che stiamo vivendo non deve essere solo rappresentata, filmata o presa in giro. Ha bisogno soprattutto di essere esorcizzata.
Matteo Pellegrini - regista dalla ampia gavetta alle spalle, qui al suo primo lungometraggio - assume istantaneamente uno sguardo partecipe e affabile sul microcosmo relazionale che crea (i protagonisti lavorano in una imprese di pulizie), ma anche sul mondo della “produzione” di immagini in Italia (il luogo di lavoro è una casa di produzione, lo Studio 61, di una famosa soap opera). Questo multietnico e colorato gruppo dalla provenienza slava, africana, indiana, italiana, deve affrontare la crisi inventandosi un lavoro come qualcuno ripete troppo spesso di fare…e allora sfruttare l’occasione di prendere “in prestito” una telecamera dallo studio per fare filmini ai matrimoni di conoscenti sembra una buona idea. O utilizzare i set della soap per riprendere i videomessaggi degli immigrati da inserire in rete, sembra una idea ancora migliore. Nasce così l’Italian Movies…
Ecco: se nel fenomeno televisivo/cinematografico di Boris si oltrepassa la macchina da presa per rovesciare causticamente miti e sogni facili, qui si effettua un’operazione diversa ma parallela: si piegano le immagini della finzione televisiva alla realtà del Paese, ossia all’immigrazione, alla mancanza di lavoro o alla difficoltà dei sentimenti. Il tono di Pellegrini non è mai graffiante, virando sul favolistico anche nelle scelte compositive, in una progressione che disegna il destino tragico dei suoi personaggi come costantemente ribaltato nel controcampo del possibile: l’amore raggiunto, il lavoro “inventato”, la crisi (forse) superata. Italian Movies è un’evidente metafora del modo di fare cinema in Italia: diventato notturno e clandestino per sfuggire all’ufficialità di uno sguardo (quello interpretato nel film dal sempre vulcanico Filippo Timi, il boss di Studio 61) tragicamente unidimesionale.
E allora, al netto di qualche ingenuità di scrittura o di recitazione, questo è un piccolo film che rivendica la possibilità di comunicare con le nuove immagini (i video degli immigrati postati su You Tube) associate al racconto tradizionale (la storia d’amore coronata tra il giovane squattrinato italiano e la bella immigrata). Niente di nuovo per carità…ma la rinascita di un cinema “medio” italiano che possa avere appel in sala passa anche da questa sincerità naif di fondo. Una sincerità che Pellegrini manifesta e difende.


Pero, para nuestra desgracia, no todas las películas de la cuarta jornada del Festival de Cine Italiano nos gustaron tanto como L'Arbitro. La última película del día fue Italian movies una especie de comedia dramática que no funciona en ninguna de las vertientes. Una pena para el primer largometraje de Matteo Pellegrini, quien acudió a los cines Verdi a presentarla. Su intención era mezclar ambos géneros para "hacer llorar y reír al espectador a la vez" pero le ha quedado una obra nada arriesgada y, en su parte final, demasiado meloso para un público medianamente exigente.
Italian Movies trata sobre un grupo de inmigrantes que trabajan en el servicio de limpieza nocturno de un estudio de televisión en Italia. El grupo está compuesto por gente de muchas nacionalidades lo cual le dará pie al director a explotar algunos tópicos de esos países: la jamaicana que prepara un buen café, el indio que recita proverbios pretenciosamente intelectuales a todas horas, el ruso chanchullero... Un día, de estrangis, cogen una cámara del estudio y se les ocurre grabar bodas y celebraciones familiares para sacarse un dinero extra porque, oh pobrecitos, no llegan a final de mes. Vamos, que Pellegrini nos vende una película sobre integración en la sociedad presentando a su personajes como ladrones y como unos vagos que van al dinero fácil o a la consecución de la nacionalidad a través de un matrimonio de convenciencia. No sabemos, tampoco, qué tendrá en contra de los peruanos quienes retrata con desprecio.
Estos personajes son seres inertes rellenos de recursos triviales dentro de una trama en sí muy inverosímil y nada probable. Un ejemplo es que al principio no tienen ni idea de encender una cámara, sin embargo, al poco ya saben manejar un equipo profesional de grabación y el estudio entero de televisión. ¿Harían un curso exprés e intensivo de CEAC y nos lo perdimos? Además, no podría faltar una cursi e insustancial historia de amor o el compañero que está en contra de ellos y no quiere colaborar y al final acabará cediendo.  
Todos estos defectos se van sumando y sumando hacen que como espectadores nos sintamos ofendidos y sus elevadas dosis de buen rollismo nos causan el efecto contrario. El resultado final es de poco calado, más cercano a las telenovelas que intenta ridiculizar que al cine. Muy mal el debut de Pellegrini, a ver si a la próxima depura sus fallos.
Elisabet Pereira
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C’erano un russo, un indiano e un italiano… no, non è una barzelletta, è la storia di un gruppo di colleghi/amici, tra cui molti extracomunitari, che, sfruttando il loro lavoro sottopagato come addetti alle pulizie in uno studio televisivo, mettono su una piccola casa di produzione video "clandestina" per realizzare filmati di eventi (matrimoni, funerali, confessioni, ecc.) all'interno delle comunità straniere. Lo straordinario successo li spinge a ingrandire l'impresa utilizzando gli spazi dello studio televisivo in orario notturno, per realizzare video e filmati per chiunque abbia un talento da esprimere o un messaggio da inviare a casa. Gli studi vengono letteralmente presi d'assalto da personaggi di vari colori e varie nazionalità.
Matteo Pellegrini, dopo vari corti e varie realizzazioni di video musicali, si cimenta in una commedia riuscitissima, colorata e frizzante, dove il cast è ottimamente assortito e ben diretto; le colonne portanti sono un ottimo Michele Venitucci (già visto, tra gli altri, in “Il seme della discordia”) e l’imponente Aleksei Guskov (il direttore d’orchestra nello splendido e pluripremiato “The Concert”).
La voglia di andare oltre la precarietà e di cercare di dare un futuro a se stessi, oltre che alla famiglia, è al centro del racconto, dove un gruppo di extra-comunitari, sempre alle prese con problemi di sopravvivenza o di permesso di soggiorno, si riunisce e dà luogo ad un’impresa davvero speciale, dimostrando che l’unione fa la forza e che le semplici idee prodotte da semplici uomini sono sempre le migliori.
L’idea del film è davvero originale e la sceneggiatura risulta davvero molto vivace, alternando dignità, amarezza e tanta ironia; per certi versi, vista l’ambientazione (il set di una fiction), sembra ricordare la serie italiana di successo ‘Boris’.
Nel cast anche la partecipazione di Filippo Timi, sempre più istrionico e polivalente, da non perdere e spassosissimo nella danza del ventre sui titoli di coda.
Salvatore Cusimano

viernes, 27 de diciembre de 2013

A.C.A.B. All Cops Are Bastards - Stefano Sollima (2012)


TITULO ORIGINAL A.C.A.B.: All Cops Are Bastards
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 110 min.
DIRECCION Stefano Sollima
GUION Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Valenti (Libro: Carlo Bonini)
MUSICA Mokadelic
FOTOGRAFIA Paolo Carnera
PREMIOS 6 Nominaciones David di Donatello, incluyendo mejor ópera prima
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Cattleya / Babe Film / Rai Cinema
GENERO Drama | Crimen

SINOPSIS Cobra, Negro y Mazinga, son tres policías en contacto diario con la violencia. Violentos, fanfarrones, solidarios entre sí, reservados, con un sentido ético difícilmente descifrable. Así son los policías antidisturbios de ACAB - All Cops Are Bastards. (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


Lo prometido es deuda y comenzamos fuerte agosto con este film que utiliza como título un viejo eslogan inglés, de los años 60, que por desgracia ha atravesado medio siglo con un éxito si no creciente al menos estable. La frase anuncia el color: no se trata de una comedia romántica y aunque haya parejas, incluso tríos y cuartetos, no son relaciones de amor sino de orden público, porra, escudo y casco antidisturbios.
Primer excelente, excesivo y espectacular trabajo del italiano Stefano Sollima. A algunos de vosotros os sonará este apellido de la historia del cine por su padre, Sergio, especialista del género del spaghetti western de los 60 y 70 pero, sobre todo, por la genial serie de televisión, Sandokán (que, por una vez, superó la novela original de Emilio Salgari) y convirtió al corsario negro en unos de los mitos de mediados de los 70.
El director adapta la novela de Carlo Bonini, sobre los excesos de tres históricos miembros de esta policía tan especial, Cobra, Negro y Mazinga, y la adaptación a su particular mundo de violencia, exceso e ira del recién llegado al cuerpo, Adriano. La película cuenta con tres de los mejores actores italianos actuales (Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro y Marco Giallini) impresionantes, en unos papeles que sabían que desde el primer minuto iban a ser odiados por la totalidad de los espectadores.
Hace falta mucho, pero que mucho valor, para rodar una película que podría rozar la defensa del fascismo, la apología de la violencia, la defensa del “final justifica los medios” y la comprensión de los excesos de las fuerzas de seguridad del estado italiano. Y además se necesita mucha inteligencia para conseguir que el espectador disfrute de una película en la que detesta a todos sus protagonistas. Stefano Sollima lo consigue (como ya lo hizo en la serie de televisión Romanzo Criminale) y encima se ha llevado varios premios nacionales e internacionales.
El secreto radica en que esta película, que se recibe como un golpe en la boca del estómago, es al mismo tiempo una de las radiografías más lúcidas, frías e inteligentes de la, por suerte, finalizada época Berlusconi, y también una sobria reflexión sobre uno de los males que afecta a muchos de los detentores del poder (para encontrar ejemplos no hace falta mirar muy lejos) el de creerse por encima de todo y de todos. O la mutación de un poder, legítimo y otorgado por el pueblo, que se convierte en ilegítimo, por sobrepasar los límites y transformarse en una dictadura que actúa contra el propio pueblo.
Carlos Loureda
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Explosiva película de género sobre unos policías que se exceden en sus funciones en una Italia inaudita en el cine.

Violentos, fanfarrones, solidarios entre sí, reservados, con un sentido ético difícilmente descifrable. Así son los policías antidisturbios de A.C.A.B (All Cops Are Bastards) [+], esperadísimo debut en la gran pantalla de Stefano Sollima. Una película de género que, a partir de la novela homónima del periodista Carlo Bonini, basada en hechos reales, adopta el punto de vista de este controvertido grupo de agentes. Odiados por los ultras y los manifestantes más exaltados y observados con desconfianza por los ciudadanos de a pie a causa del uso desinhibido de la violencia.
Es precisamente en la delgada línea que separa la legítima defensa de la violencia gratuita donde se concentra la película, evitando, al menos en apariencia, tomar una posición determinada. La cámara sigue a los tres protagonistas, Cobra, Negro y Mazinga, encarnados por Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro y Marco Giallini, entre enfrentamientos en el estadio de fútbol, desalojos de asentamientos gitanos y casas ocupadas y ajustes de cuentas, pero también en momentos más íntimos y asuntos privados a veces dramáticos. La impresión final es que la agresividad es una simple respuesta a una agresividad igualmente fuerte, siguiendo una lógica de compresión-explosión. Aunque la realidad, ya se sabe, es bastante más compleja.
"Una historia de hombres y del odio que impregna la sociedad en que vivimos" es la declaración de intenciones de Sollima, director de la popular serie de televisión Romanzo criminale, muy a gusto en la representación pop de la violencia, acompañada constantemente por música rock y un estilo visual muy realista, con intensos primeros planos y bruscos movimientos de cámara, con una dimensión física muy acentuada. Una película que, como Diaz [+], de Daniele Vicari, está destinada a promover un debate encendido ya que los protagonistas son los mismos del trágico G8 de Génova, del cual parecen admitir su culpa. Se suceden en la pantalla algunos de los más graves episodios de la historia reciente italiana, desde el asesinato del inspector Filippo Raciti hasta el del hincha Gabriele Sandri.
A.C.A.B (All Cops Are Bastards), una producción de Cattleya con Rai Cinema y la francesa Babe Films, fue distribuida en Italia por 01 y ha ganado este año los premios Nastro de plata al mejor actor (Pierfrancesco Favino) y al mejor actor de reparto (Marco Giallini).
Vittoria Scarpa
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‘A.C.A.B.’ (All Cops Are Bastards) es un film sobre el poder y, principalmente -como el título insinúa-, sobre el abuso de autoridad. Sin embargo, esta película italiana tiene como gran acierto su capacidad de no simplificar las cosas cayendo solamente en un juicio moralista, en el blanco o negro. La crudeza del retrato que hace el film sobre ciertos aspectos de la sociedad italiana es impactante y con una sensación de realismo asombrosa. El espectador argentino, culturalmente similar en muchos sentidos, seguramente se sentirá bastante identificado.
Otro acierto del film es que complejiza más el relato con, al menos, dos puntos de vista bien diferenciados, que al principio se acercan para luego ir separándose cada vez más. Por un lado “Cobra”, el “Negro”, Carletto y Mazinga, y por otro el recién ingresado a la fuerza, Adriano. El contrapunto que propone la película y las interacciones entre estos enfoques es una interesante reflexión sobre la imposibilidad de recambio cuando ciertos valores están bien arraigados, independientemente de lo correcto o incorrecto, es una cuestión de comportamiento humano, de comportamiento de grupos. La mirada del afuera, la mirada social del policía, es otro de los puntos fuertes de la película, así como el tema de la discriminación, la inmigración ilegal, la justicia social y la actuación del estado.
Si bien la violencia de sus imágenes parecen críticas en sí mismas, ‘A.C.A.B.’ contextualiza el comportamiento de este grupo de policías. No utiliza el contexto como excusa, ni como justificación, pero sí como atenuante. El bajo sueldo por el que arriesgan sus vidas, el ambiente de violencia constante en el que desarrollan su actividad y la poca popularidad social, en parte bien ganada, en parte generada por el Estado, en parte heredada de otros tiempos y en parte traspasada de otros sectores culturales (el caso del futbol es el más claro ejemplo). Además, se encarga de dejar en claro que los policías también son humanos, con problemas familiares que, incluso, se agravan por la permanente ausencia en el hogar.
‘A.C.A.B.’ perturba. Incomoda al espectador al empatarlo con un grupo de personajes, de policías, que no son los típicos policías corruptos del cine, aquellos que asesinan por dinero o están involucrados con el narcotráfico. Estos “bastardos” hacen justicia por mano propia, se cubren unos a otros sin importar lo que hayan hecho y abusan de su autoridad, es verdad, pero sus “rivales” no son bebés de pecho.
Gonzalo Dujmovic


Tal vez pueda parecer oportunista el hacer una reseña sobre una película como esta, teniendo en cuenta la(s) reciente(s) polémica(s) sobre la actuación de la policía, concretamente los antidisturbios, en diversas manifestaciones que han ocurrido últimamente en nuestro país. Pero también se puede considerar como una forma excelente de entender el porqué y el cómo se han producido dichas actuaciones. No importa que la película sea de origen italiano, la esencia de la historia se puede (y debe) aplicar a cualquier país, no solo europeo. El director, Stefano Sollima, junto con el equipo de guionistas han dado un paso adelante, arriesgado y muy controvertido, para contarnos el origen y el trasfondo de las imágenes que últimamente aparecen en nuestras pantallas: policías cargando contra todo aquello que se mueve, el uso injustificable (¿o no?) de la violencia contra manifestantes pacíficos (¿o no?) y, sobre todo, quiénes son los miembros de esos cuerpos y qué les ha llevado a dedicar su vida a una tarea tan dudosa como ingrata.
“Todos los Policías son Unos Bastardos”, por utilizar una traducción políticamente correcta, es una expresión que se remonta a los años 60 como parte de un eslogan acuñado por los mineros británicos para protestar contra las fuerzas del orden. Más adelante ha ido siendo aprovechada por todo tipo de movimientos urbanos, generalmente de izquierdas, y grupos musicales como parte de sus discursos políticos. Y uno de los países en los que esta expresión ha sido más utilizada es Italia, donde transcurre la película, y donde se han producido algunos de los enfrentamientos más virulentos y trágicos de los últimos años: recordemos las protestas en la reunión del G-20 en Génova que acabaron con la muerte del joven Carlo Guliani y el posterior asalto a la Escuela Díaz por parte de los antidisturbios, los continuos enfrentamientos entre los hinchas radicales de fútbol (en este caso ha habido bajas en ambos bandos) con los citados
policías….

ARGUMENTO

Cobra, Negro, Mazinga, y Carletto son algunos de los nombres de la mítica Unidad de Antidisturbios protagonista de la historia. Una Unidad en la que, desde los primeros planos, comprobamos que están unidos como hermanos de sangre, no solo por ideales políticos o sociales (aquí no hay ambages: todos se declaran orgullosos de ser de extrema derecha, xenófobos y partidarios de pegar primero y preguntar después) sino especialmente porque forman parte de un Equipo, de un Grupo unido hasta las últimas consecuencias. La película nos muestra su día a día en una Roma oscura y caótica en la que nuestros protagonistas ejecutan su trabajo con una eficacia más cerca de las doctrinas militares que la aburrida rutina policial a la que nos tienen acostumbradas las películas y/o series sobre policías. Al grupo se incorpora Adriano, que se convierte en el eje sobre el que gira la historia; un joven agobiado por las deudas y con una familia rota y arruinada, que actúa como contrapeso a las ideas del resto del grupo. Un joven con ganas de hacer lo correcto, de hacer su trabajo, pero que no sabe si lo que busca es hacer justicia o utilizar la justicia como vía de escape a sus propios problemas. Este también hará que los miembros más veteranos se vean reflejados en él, en alguien que les recuerda de forma dolorosa sus inicios, sus ambiciones, y la decadencia exponencial de los mismos.

REPARTO

Uno de los puntos fuertes de la película son, sin ninguna duda, los actores: Pierfrancesco Favino, Filipo Nigro y, muy especialmente, Marco Giallini afrontan con valentía, y unas tablas admirables, los papeles de 3 personajes que vas a odiar desde el minuto uno. No en vano nos encontramos ante tres de los mejores actores italianos del momento, y se nota en cada gesto y en cada matiz. El debutante Domenico Diele se defiende igual de bien en el rol del novato, al igual que el resto de los actores secundarios (mención especial para Roberta Spagnuolo en el papel de mujer del jefe del grupo).

LA PELÍCULA

Estos son los mimbres con los que el equipo de guionistas y el director de ACAB: All Cops Are Bastards (muy conocido por la estupenda serie Romanzo Criminale), y apoyado en el libro de Carlo Bonini que denuncia y recoge estos, y otros, hechos, para trasladar a la gran pantalla una parte de nuestra realidad cotidiana; una realidad que no nos gusta, una realidad fea, pero sobre todo una realidad que no comprendemos. Dichos hechos están presentes en la película, narrados de forma tangencial, así como otros que no conocíamos y que nos enseñan una parte de la historia reciente de nuestro (desconocido) vecino, Italia. Pero la película no se limita a mostrarnos el trabajo de este grupo, sus misiones y el resultado de ellas. De forma hábil, y muy bien secuenciada, establece una serie de paralelismo entre sus (caóticas) vidas privadas y sus actuaciones en la calle. Hijos que se alistan en movimientos neonazis, situaciones de pareja insostenibles, problemas familiares y económicos, problemas que al no poder lidiar con ellos y ser conscientes de que sólo van a ir a peor acaban explicando ese porqué de la excesiva violencia que utilizan para establecer el orden.

CONCLUSIÓN

Al igual que la reciente, e imprescindible, Polisse, ACAB: All Cops Are Bastards se nos revela como un documento necesario y casi obligatorio para entender una parte de lo que acontece día a día en nuestra sociedad. No toma partido, deja que la historia hable por si sola. No es demagógica, es ilustrativa. No es sólo una película, es una lección de honestidad y veracidad. Si no fuera por la estética cuidadísima (a veces parece un videoclip) y una banda sonora potente como pocas (Kasabian, White Stripes, The Clash…), podríamos estar hablando de un documental extremadamente bien hecho. Y ese es el verdadero mérito del director, conseguir que la realidad se transforme en ficción, o al revés, que lo que en un principio parece que no puede ser verdad, que es el producto de una declaración de intenciones políticas se convierte en un retrato crudo y veraz de la sociedad que nos ha tocado vivir.
Elniniodecristal

jueves, 26 de diciembre de 2013

Viaggio segreto - Roberto Andò (2006)


TITULO ORIGINAL Viaggio segreto
AÑO 2006
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 107 min.
DIRECCION Roberto Andò
GUION Roberto Andò, Salvatore Marcarelli (Novela: Josephine Hart)
MUSICA Marco Betta
FOTOGRAFIA Maurizio Calvesi
REPARTO Alessio Boni, Donatella Finocchiaro, Valeria Solarino, Claudia Gerini, Marco Baliani, Emir Kusturica, Roberto Herlitzka, Giselda Volodi, Fausto Russo Alesi
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Rodeo Drive / Medusa Film / Manigolda Film
GENERO Drama

SINOPSIS Tras ser testigos del asesinato de su madre hace treinta años, un hombre y su hermana luchan en el día a día de los desafíos de la vida adulta. (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)


Si potrebbe anche fare un gioco di parole con un altro bel film e dire che si tratta di un "Viaggio segreto, nelle Vite degli altri" e per continuare il gioco con il film di Sorrentino, un "Viaggio segreto, nelle Vite degli altri, attraverso Le conseguenze dell’amore".
Dice lo stesso Roberto Andò: "Mi interessava la storia di un uomo che ritrova la capacità di emozionarsi. Il "VIAGGIO" è un ritorno alle emozioni".
E’ un film che dichiaratamente cerca di dare rappresentazione alle emozioni, di dar loro nomi e immagini, coinvolgendoci nel Viaggio dei protagonisti dentro di esse, cercando anche di indurci ad empatizzare, a commuoverci, a turbarci, per quello che lui stesso descrive come uno struggente tentativo di sopravvivere ad un dolore mentale.
"Le intense passioni ci distruggono la vita nello stesso tempo in cui ce ne svelano la plenitudine e la bellezza. (Yeats)…. Questa frase che uno dei personaggi dirà ad un certo punto del film, mi ricorda molto una frase di Meltzer: "La mente umana nasce impreparata a viere emozioni, passioni e sentimenti e occorre un’intera vita per imparare a non farsi travolgere"
Il protagonista del film, uno psicoanalista, non è certo immune da questa fatica. 
Lo vediamo all’inizio che si muove nella sua collezione di acquari e questa immagine è da subito la descrizione del suo rapporto con il suo mondo interno: un mondo muto, "sbacqueo", dove le emozioni, rese innoque come pesci multicolori, vengono nutrite quel tanto che basta per muoversi dentro un piccolo spazio contenibile.
Il VIAGGIO appunto che si troverà a compiere, sarà un viaggio non solo di RICOSTRUZIONI, come dice il titolo del romanzo di Josephine Hart da cui è tratto (la stessa de "Il Danno" da cui Louis Malle ha tratto a sua volta un film), e di recupero dei ricodi di un trauma, ma sarà un viaggio di "alfabettizzazione" delle emozioni, di recupero di un contatto con esse, attraverso anche la scoperta di un legame emotivo nuovo, che permetterà alle passioni che travolgono e uccidono, di venire convertite in sentimenti che arrichiscono di possibilità la vita.
E’ come se l’acquario si rompesse e tutti i personaggi potessero riprendere a muoversi verso nuove traiettorie e nuove storie, in quel mare aperto in cui alla fine potrà nuovamente tuffarsi.
Attraverso il film, soprattutto attraverso le sue immagini e l’atmosfera sospesa e non risolta, anche noi entriamo in contatto con immagini, parole, situazioni, atmosfere, che prendono vita e ci parlano di una storia passata che è anche e soprattutto una storia presente, di parti uccise che tornano pian piano a prendere vita. Quello che crea Andò con la costruzione del ritmo e dell’atmosfera del film è il racconto per immagini, di una trasformazione interiore. 
Il film si apre su una casa abbandonata, non più abitata, vedremo che è ferma su un’immagine, una scena, l’immagine di una coppia che non sappiamo ben decifrare. Tutto è lento all’inizio, come è lento e pesante il tempo della depressione, il protagonista, attraverso i cui ricordi anche noi vediamo i frammenti del suo mondo interno, è quasi catatonico, come se una parte di lui fosse emotivamente altrove. Un po’ alla volta, frammento dopo frammento, quella scena iniziale e i suoi personaggi, cominciano ad avere un senso, ad arricchirsi di particolari, ad avere una storia. Contemporaneamente il protagonista cambia espressione, cambia i suoi gesti, comportamenti, si arricchisce lui stesso di emozioni e di storia. Questo "eterno ritorno" sulla scena del trauma è accompagnato e sottolineato da una musica che comincia, prepara la melodia e poi si interrompe ogni volta, come un’overture, un’inizio, che non riesce mai a trovare le note per continuare.
Non c’è nel film un passato che meccanicamente deve essere recuperato, c’è invece un’interazione continua tra passato e presente, tra personaggi del passato (oggetti interni) e personaggi del presente (relazioni attuali). Questa sovrapposizione continua, questa assenza di separazione netta, questa mancanza di giudizio, inteso come atto conclusivo, questa lenta assunzione di responsabilità del protagonista, sono secondo me la cosa più bella e più commovente che Andò riesce a restituirci. 
Sarà l’artista Kusturiza (rappresentante in questo caso del regista stesso) ad avere questa funzione "visualizzante", "rappresentativa" che mostrerà (con la Mostra conclusiva) attraverso il suo sguardo, che è comunque uno sguardo amoroso e non morboso, il difficile lavoro di rappresentazione e distanziamento da una storia che non tiene più in ostaggio i suoi personaggi, ma li libera verso altre storie.
Andò ci mostra un’altra alternaza: quella tra oblio e memoria, illustrata anche dalle diverse figure dei due fratelli profondamente e necessariamente legati tra loro. Quando Leo torna in Sicilia e gira da solo per la casa della sua infanzia, ancora tutto è fermo, morto, impolverato come il suo mondo interno. Un po’ alla volta entrano in scena i personaggi e non c’è distinzione tra passato e presente. In una scena che ben rappresenta il materializzarsi dei ricordi,vediamo Leo aggirarsi per le stanze e sua madre passargli accanto come se lo stesse facendo ora. Questo riaffiorare emotivo è troppo per il Leo che vuole dimenticare. Gli manca il respiro, è uscito dalla placenta protettiva, dall’acquario dentro cui stava e come il neonato che viene alla luce, deve trovare il ritmo del proprio respiro. Leo non vuole che tutto torni vivo, non vuole che tutto si rianimi di emozione per dover poi ri-sentire il dolore e la perdita, i suoi attacchi d’asma e di panico sono un’improvviso eccesso di Emozione che toglie il respiro.
Accanto alla coppia di adulti che vediamo nudi nella prima scena, compare subito un’altra coppia: due bambini seduti accanto, in una spiaggia, a loro volta "guardati" da qualcuno. Una foto importante che sarà come un simbolo per tutto il film e che passerà di mano in mano, di sguardo in sguardo.
Una foto usata dal regista come traccia di qualcosa di vivo, un po’ come la foto in cui scruta il replicante di Blade runner. 
Quei bambini sono stati guardati dai genitori che, un giorno lontano e ancora presente, hanno scattato la foto. (Ce lo mostra Andò rovesciando, come il cinema può fare, il punto di vista della foto).
Quegli stessi bambini fermati insieme da quello scatto lontano, riusciranno a "rianimarsi" e ad allontanarsi piano piano… (Di nuovo ce lo mostra il regista in uno dei momenti più poetici del film)..
A quella e alle altre foto, così come alle belle immagini del film "è affidata la speciale missione di essere reperti di una materia singolare in cui posso specchiandomi riconoscere il mondo" (Andò), un po’ come fa appunto il cinema. 
Che rapporto c’è allora tra quelle due coppie?
L’amore degli uni e quello degli altri è separato da un pesante velo che ne impedisce uno sguardo chiaro.
E’ sempre così l’amore dei genitori per i figli, o l’odio naturalmente, o è così sempre l’amore e l’odio di per sé?
Andò fa un trattato mitico sull’amore tra fratelli, sull’amore genitoriale e sul rapporto edipico. 
Quello tra i due fratelli è un legame intimo e complesso tra due persone che sono rimaste sole, che si danno la mano e camminano insieme come pollicino e i suoi fratelli sperduti nel bosco. Il VIAGGIO SEGRETO, è indubbiamente anche il loro viaggio. Chi ha condiviso un grande dolore, una grande paura, può capire il legame che li unisce e che li porterà, alla fine del film, ad un dolcissimo congedo che restituirà ad entrambi nuove possibilità di vita. La loro speciale DANZA, è un poetico segno di questo appoggiarsi reciprogo, di un accordare i passi l’uno con l’altro, di un cercare un ritmo protettivo e un legame armonioso che tenga lontana la rottura e la perdita. E’ la loro forma speciale per ricreare un legame e una bellezza che hanno conosciuto un tempo e che sono andati improvvisamente in pezzi.
Memoria (Leo) e oblio (Ale) servono l’uno all’altra, si susseguono incessantemente come il ritmo del cuore, per permettere di sopravvivere e per fondare strati di conoscenza possibile su cui costruire la propria biografia.

("Com’erano i bambini" "Innocenti come lo sono sempre i bambini"….)

Andò, parlando del suo film, esclude a priori l’incesto tra i due fratelli, non è questo che gli interessa raccontare. Proporrei lo stesso criterio per la "scena primaria", lasciando da parte quindi l’idea che l’OSCENITA’ sia nella sessualità o nell’atto concreto della scena primaria. Penso sia altro che rimane "fuori scena" e quindi "osceno". 
In questo il film di Andò rivisita appunto in termini nuovi e creativi il tema della sessualità e della scena primaria in particolare.
Da un punto di vista strettamente mentale, come potremo anche leggere la scena primaria? La scena primaria è un pensiero, un’idea, un’emozione che cercano di essere accolte e contenute da una Mente.
Cos’è quella scena per i due bambini nel film? La rappresentazione di qualcosa di grande e di indecifrabile, di ambiguo, che li spaventa che li fa sentire piccoli davanti ad un processo mentale non elaborabile.
E’ una scena CALDA che la bambina letteralmente FREDDA con un colpo di fucile. Quella scena calda si ripropone tale e quale molte volte durante il film, in cerca di elaborazione, anche per noi spettattori, sicuramente turbati dalla forza cruda delle immagini che Andò ha voluto significativamente e poeticamente mostrare, in cerca di rappresentazione mentale, anche per noi, in cerca di una nuova, possibile, "scena primaria" che si compia e giunga a conclusione, fornendoci il modello di qualcosa di fecondo e vitale.
La possibilità di rivivere in modo digeribile quell’esperienza, è il lavoro successivo che spetta ai bambini-adulti. Poter uscire in un certo senso dalla condizione di "bambini" che non capiscono o subiscono per diventare SOGGETTI dell’esperienza.
Il dolore più struggente è il loro SMARRIMENTO di fronte a qualcosa che non sanno leggere e che non sono aiutati a leggere.
Attendono su quelle due sedie di poter raccontare la loro storia, attendono che la loro storia venga ascoltata, ma solo dopo tanto tempo potranno raccontare, non ciò che gli è stato detto di dire, ma il proprio racconto.
Per quanto il padre, che si assume la responsabilità degli eventi, volesse proteggerli, per quanto il suo sacrificio sia un grande gesto d’amore verso i figli, non è stato comunque un aiuto a comprendere.
L’omertà, forse dice Andò, non aiuta a crescere.
Il film di Andò ci lascia con una scena solare di speranza che la propria vita, la propria storia, si possa comunque faticosamente ri-sognare.
Antonella Faganello
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Nel film del regista palermitano, liberamente tratto dal romanzo Ricostruzioni di Josephine Hart, vengono sviluppati molti dei temi affrontati dai film in programma in questa prima edizione di Cinema. Festa internazionale di Roma. Troviamo infatti il rapporto tra padre e figlio (Aria Salata di Angelini, Dopo il matrimonio di Bier, Bes Vakit di Erdem, Fu zi di Tam), l’essere costretti a fare i conti con i fantasmi di un passato doloroso (La sconosciuta di Tornatore, Nacido y criado di Trapero) e un viaggio nella propria terra di origine (Le voyage en Arménie di Guédiguian, Salvatore - questa è la vita di Cugno).
Il viaggio segreto è quello che compie Leonardo Ferri (Alessio Boni), psicanalista quarantenne, nel suo paese di origine in Sicilia. Lì quando aveva 13 anni, assieme alla sorella minore, è stato protagonista di un dramma che ha per sempre traumatizzato la sua vita: i due bambini hanno assistito all’uccisione della madre (Claudia Gerini) nella loro villa nella campagna siracusana, ad opera, stando ai fatti, del loro padre (Marco Baliani). A spingerlo a ritornare in Sicilia è la lettera inviatagli dal parroco del paese (Roberto Herlitzka) che lo informa che qualcuno è interessato a comprare la casa della sua infanzia. Il possibile acquirente non è altro che un artista serbo (Emir Kusturica), fidanzato della sorella di Leonardo, Ale (Valeria Solarino), modella e aspirante attrice che vive a Roma nello stesso palazzo del fratello. Il legame che si è instaurato tra il fratello e la sorella, in seguito all’abbandono della loro terra d’origine dopo la tragedia familiare, è un legame intimo, ambiguo, ai limiti dell’incestuoso. Leonardo intraprende quindi il viaggio per evitare che il doloroso passato possa tornare ad insidiare la vita della sorella. Il padre, incolpato e accusato dell’omicidio infatti, prima di lasciare i figli, ha chiesto loro di dimenticare per sempre (ma solo la ragazza pare esserci riuscita) e ha stretto con il figlio un patto segreto per proteggere la sorella per tutta la vita.
Il viaggio dell’uomo è l’occasione per immergersi dentro se stesso e nel segreto e nell’intimità della sua famiglia. Attraverso i flashback degli incubi di Leonardo, lo spettatore ricostruisce il delitto ed il movente che lo ha generato. In una Sicilia fatta di contraddizioni, dove si respira allo stesso tempo la bellezza per la vita e la natura e un’aria di morte, orrore civile e decadenza, il protagonista può innescare un processo di ricostruzione interiore per guarire e riappropriarsi della propria vita. Elemento fondamentale per questo processo di rinascita è l’incontro con Anna (Donatella Finocchiaro), responsabile della vendita della villa, donna solare e generosa, che riuscirà ad aiutare quello psicanalista incapace di parlare dei propri problemi.
Dopo la resa dei conti con il proprio passato, dopo essersi tolto dalle spalle il peso enorme che il padre gli aveva addossato, Leonardo potrà andare avanti nella sua vita attraverso una separazione dalla sorella, dolorosa quanto necessaria per un’effettiva ricostruzione. Non prima però di un ultimo ballo straziante con lei, sui passi della danza erotica dei genitori, “scena primaria” freudiana stampata per sempre nella mente dei due bambini.
Per raccontare le diverse strade possibili della memoria e della rimozione, e per riflettere su coscienza e inconscio e sull’alterata ricostruzione personale di un passato altrimenti insostenibile, Andò mette in scena un doloroso noir psicologico, ricco di mistero e allusione, con una pomposità forse eccessiva e uno sguardo un po’ troppo voyeuristico, e dove lo scavare nella psiche dei protagonisti passa però in secondo piano rispetto ad un simbolismo che non aiuta lo spettatore a farsi coinvolgere dalla vicenda.
Giovanni Santoro


"Viaggio segreto" sembra vittima dello stesso male che immobilizza i suoi personaggi. Una storia 'lontana', in potenza, può fare più male del proprio vissuto personale. Ma questo non avviene e resta solo, come nella storia stessa, una coltre reiterata di silenzio

Non sa bene che direzione prendere il Viaggio segreto di Andò. Eternamente sospeso tra più strade - scavo psicologico, mistero giallo a indizi, dramma familiare - non ne imbocca nessuna. Perché i personaggi sono senza spessore: non per mancanza di capacità interpretative ma per scelta o necessità narrativa. Perché la rivelazione finale è inequivocabilmente anticipata. Perché eventi tragici non lasciano segni. Appesantito e senza angoscia, il film percorre case senz'anima, insiste sul gelo dei volti ma anche sull'ostentazione della nudità. Alcuni spunti sono interessanti e regalano un sussulto minimo - l'angoscia palpabile nel viaggio in treno di Leonardo (Alessio Boni), la vegetazione silenziosa a sfondo dei luoghi della memoria, la fissità dello sguardo che tutto cela. Viaggio segreto sembra vittima dello stesso male che immobilizza i suoi personaggi. Forse questa poteva essere la chiave della sua grandezza. Ma diventa un gap tra il film e lo spettatore, vuoto di empatia e muto di emozioni. Vero che la storia è stra-ordinaria. Vero anche, però, che bisogna rivestirsi di strati di lastre di ghiaccio per annullare completamente la possibile partecipazione a certi totalizzanti dolori. E in effetti, così sono i due fratelli: Leo con i suoi pesci e i suoi acquari, Ale con una voce che protegge sia lei che gli altri da se stessa. Se Andò voleva giocare su oblìo, chiusura, indicibilità, non si capisce allora il continuo, morboso mostrare i rapporti tra i genitori; se il tema di fondo era (anche) l'incesto, la cosa si complica di più. Infatti, sarebbe degna di nota la soluzione che lascia a parte il rapporto tra i due fratelli, scegliendo di non mostrare: perché quello che si vede può essere vero o falso, e nessuno, nessuno può andare oltre la superficie visibile in questi casi. Sacrosanto, coerente, giusto. Ma se per tutto l'arco del film ogni segno è polisemico (quindi, in definitiva, tende a non significare), il finale è talmente 'aperto' alle interpretazioni da risultare appiccicato di forza al resto dell'opera, quasi immotivato. Un senso doveva essere almeno sospeso; mancando le condizioni minime, il tutto - purtroppo - si disperde. Il filo della memoria emerge a inserti, puntuale, congiungendo segmenti ordinati e sequenziali, fin troppo classicamente. Il resto si perde spesso in inquadrature e profondità televisive. Una storia 'lontana', in potenza, può fare più male del proprio vissuto personale. Questo qui non avviene, e resta solo, come nella storia stessa, una coltre reiterata di silenzio.
Annarita Guidi