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jueves, 31 de mayo de 2012

Uova di garofano - Silvano Agosti (1991)


TITULO ORIGINAL Uova di garofano
AÑO 1991
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 102 min.
DIRECCION Silvano Agosti
ARGUMENTO Silvano Agosti
GUION Silvano Agosti
REPARTO Federico Zanola, Alain Cuny, Lou Castel, Roberto Brignani, Lorenzino Agosti, Paola Agosti, Luciano Salodini, Lucia Gafa', Michele Meggiolaro, Elisa Murolo, Severino Saltarelli, Camilla Serafini, Eva Serafini
FOTOGRAFIA Silvano Agosti
MONTAJE Silvano Agosti
MUSICA Daniele Iacono
PRODUCCION Silvano Agosti para 11 Marzo Cinematografica - Rai Due
GENERO Drama

SINOPSIS Silvano (Castel) ritorna col figlioletto nella sua casa natale, ormai diroccata, nella campagna bresciana e rievoca la sua infanzia tra il 1943 e il 1945. "Forse la memoria di chi è cresciuto nell'atmosfera della Repubblica di Salò può essere solo così: scabra, selettiva, scorticata" (A. Crespi). Nel difficile tentativo di recuperare il proprio sguardo di bambino Agosti (1938) oscilla tra il tono di favola vissuta e la durezza del giudizio sul mondo degli adulti "sinceri nell'obbligo quotidiano della menzogna". Ne è uscito un film diseguale, ora affascinante ora irritante, parzialmente riuscito nella 2ª parte, quella in cui i rumori della Storia si fanno più sentire, ma anche visitato da momenti di felicità espressiva. L'uovo di garofano si trova, secondo una voce popolare, nel fiore al tramonto e fa avverare i desideri. (Il Morandini)


TRAMA
Silvano, un cinquantenne, conduce il suo bambino a conoscere il casale in campagna dove è nato e dove ha trascorso l'infanzia durante la seconda guerra mondiale. Il casale è abbandonato ma vi sono ancora alcuni arredi e qualche fotografia ingiallita. L'uomo rivede se stesso bambino affetto da mutismo per un trauma causato dallo scoppio di un ordigno, i genitori, la bella zia Olga, i fratelli Giorgio e Piero, e le sorelle Elisa, Adriana e Renata. Tornano così alla memoria i ricordi: i giochi infantili, il teatrino delle suore, i rituali fascisti celebrati nella piazza del paese presso il busto del Duce ed orchestrati da un gerarca vicino di casa, i traumatici contatti con la morte seminata da sparatorie e bombardamenti, la visita alla giovane e disinibita zia Olga, guardarobiera in un grande albergo sede del comando tedesco. Altre figure risaltano: una è quella di Crimen, un vecchio che abita fuori dal paese e sul cui conto circolano strane dicerie secondo le quali egli avrebbe anni prima divorato la sua stessa moglie per amore, l'altra è quella di un anziano ebreo ucciso da un gruppo di squadristi ubriachi. Ad entrambi, i bambini si erano avvicinati con timore anche grazie alla suggestione delle immagini della lanterna magica e del cinema che essi mostravano agli stupefatti occhi dei bambini. I ricordi di certi eventi si susseguono: la guerra sta volgendo al termine ma non così la crudeltà e la sofferenza causate dalle disperate resistenze dei nazifascisti e dalle loro sanguinose rappresaglie nei confronti dei partigiani. Il pavido padre temendo per la propria sorte, a causa delle sue precedenti collusioni con il regime si fa cucire nel materasso dalla moglie per inscenare poi un farsesco ritorno a casa dall'ospedale. Nel frattempo Crimen, sentendo avvicinarsi la fine, decide di attenderla chiudendosi in una caverna accanto al cadavere della moglie che in realtà egli aveva mummificato dopo la sua morte, molto tempo prima. Alla notizia della scomparsa di Crimen, il piccolo Silvano fugge sulle colline per vederlo un'ultima volta: la sua corsa si sovrappone a quella di Silvano adulto che si arresta davanti alla caverna di Crimen. Qui lo raggiunge il figlio che, raccolto un piccolo uovo di uccello glielo mostra: in Silvano torna alla mente la leggenda dell'uovo di garofano che si narrava in tempo di guerra ai bambini. Si tratta di un uovo magico, piccolissimo, che è possibile trovare solo al tramonto: se lo si mette sotto il cuscino tutti i sogni diventano veri.

CRITICA
"E' sempre molto intenso, le sue tecniche sono fini e il clima in cui ci immerge, pur senza nessun intento didascalico, coinvolge e fa riflettere." (Gian Luigi Rondi, Il Tempo)"Uova di garofano", struggente sguardo autobiografico all'indietro, nella campagna lombarda durante la guerra, dedicato ai bambini senza sorrisi." (Maurizio Porro, Il Corriere della Sera)"E' il film di famiglia di un regista che ha aspettato per permettersi l'autobiografia, ed ha molto da dire; tanto che forse non riesce a metterlo in ordine."
(Paolo D'Agostini, La Repubblica)
fonte "RdC - Cinematografo.it"
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=37770&film=UOVA-DI-GAROFANO
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Fu proiettato a Venezia, qualche anno fa, questo piccolo bellissimo film di Silvano Agosti. Che è un regista strano, un vero appassionato di cinema, uno che ha realizzato un sogno, si è comprato un cinema, lo gestisce e lì proietta i film che più gli piacciono, che gli sembrano più importanti. Tra questi, giustamente, i suoi. E Agosti ne ha girati diversi, tra cui alcuni Cinegiornali del Movimento studentesco, una delle poche documentazioni reali di quella stagione, e un bellissimo film firmato con Bellocchio, Rulli e Petraglia dedicato ai Matti da slegare. [...]
Walter Veltroni

A ventiquattro anni dal suo esordio con Il giardino delle delizie, Silvano Agosti affronta l’autobiografia e ci propone se stesso a sei anni – o, comunque un bambino di nome Silvano – che, alla luce del ricordo, rivede gli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra in una casa della campagna lombarda, con un padre timido e impaurito, una madre, invece, decisa, e molti fratellini e sorelline. Un ricordo che, nonostante l’asprezza delle situazioni pubbliche, non è mai né polemico né ironico (com’era, invece, per la stessa epoca, l’Amarcord felliniano) e che tende soprattutto a costruirsi sulla poetica dell’adolescenza che guarda: dilatando tutto, rendendo misteriose anche le cose più evidenti, confondendo i sogni con la realtà, il razionalismo con la superstizione. [...]
Gian Luigi Rondi, Il Tempo 13 novembre 1991

Sinossi
Silvano torna, dopo molti anni, nella casa della sua infanzia insieme al figlio Lorenzo. Davanti all’abitazione, ormai in rovina, inizia a ricordare i primi anni della propria vita, vissuta insieme al padre, simpatizzante fascista, la madre e le sue sorelle maggiori. La mente torna così ai piccoli episodi che hanno costellato la sua infanzia, vissuta per lo più in silenzio ad osservare il mondo degli adulti e quello, diversissimo, dei suoi coetanei.
Il ricordo si volge allora alle recite teatrali, alle feste fasciste dove, davanti a gerarchi e a cardinali, i bambini posavano fiori sul busto del duce, all’incontro e all’amicizia con un vecchio soprannominato “l’orco” (perché si riteneva che avesse mangiato la moglie), alle prime sigarette, alla scoperta del cinematografo. Il ritorno alla memoria diventa un’occasione per ritrarre una nazione e tutte le sue contraddizioni, dal periodo fascista a quello della guerra, dalle torture e dalle esecuzioni naziste alle ritorsioni partigiane e americane, per rappresentare lo sguardo di un bambino, chiuso nel silenzio e per questo il solo capace di vedere l’extra sensoriale e di trovare le “uova di garofano”, magiche uova capaci di avverare i desideri.

Presentazione critica
“Questo film è dedicato ai bambini che volevano vivere e sono morti durante le guerre”, così recita la chiosa che conclude la pellicola. Il regista Silvano Agosti segnala allo spettatore una delle intenzioni iniziali, nonché uno dei maggiori meriti del film: dedicare la storia ai bambini, e quindi cercare di raccontare gli avvenimenti secondo un linguaggio che appartenga al loro mondo. Uova di garofano, infatti, non è un film “per ragazzi”, costruito cioè seguendo le regole classiche del cinema di genere, dalla costruzione dell’eroe in cui identificarsi alle prove da fargli superare e all’happy end finale, anzi proprio perché è un film con “lo sguardo e le contraddizioni dei ragazzi” ha il merito di allontanarsi da questo modello e di far propri i chiaroscuri dell’età. Grazie ad una narrazione sottovoce, sia nello stile, mai ridondante o eccessivo, sia nei dialoghi recitati in tono sommesso, come spesso capita ai piccoli per non farsi sentire dai grandi, la pellicola riesce a descrivere bene il mondo dell’infanzia, in continuo movimento tra la tragicità del reale e la necessità del sogno – richiamato dalle simboliche delle “uova di garofano” – tra la scoperta affascinante e crudele del mondo e la necessità di cercare un equilibrio tra le proprie esigenze e le richieste degli adulti.
La narrazione non segue così un filo logico che voglia portare lo spettatore ad una conclusione scontata – anche se ci sono elementi che ritornano nel corso del film, come il busto di Mussolini o la comparsa di alcuni personaggi (la zia, il prete) – ma segue inesorabile le vicende dell’Italia sempre con un certo distacco ed un’incomprensione storica di fondo comune a tutti i bambini. I toni pastello con cui Agosti tratteggia la storia permettono di tollerare, con minore fatica, alcune soluzioni prevedibili sia nell’impianto narrativo sia nella scelta degli episodi rappresentati: si pensi all’uso del flash back, inflazionato e troppo semplice pretesto per raccontare la storia della propria infanzia, al finale ciclico, con la simbolica fuga di Leonardo, figlio di Silvano, nei luoghi cari al padre, alle scene “già viste” sulle sigarette fumate di nascosto, alla voce fuori-campo del protagonista che rilegge gli avvenimenti con il senno di poi. Il ricorso ad alcune scene “consolidate”, come quella in cui i due fratelli spiano la famiglia dall’alto della scala, potrebbero in realtà essere un omaggio al film di Ingmar Bergman Fanny ed Alexander, da cui Agosti riprende la delicatezza del racconto e la spietatezza con cui viene denudata la miseria degli adulti.
Tra le poche parole pronunciate dal protagonista restano, infatti, quelle che Silvano rivolge senza alibi alla sua famiglia, odiata per la piccolezza delle sue azioni, per i pianti impotenti della madre e della sorella, per la fuga codarda del padre, una famiglia, proprio per questo, teneramente amata e commiserata. Questa è, infine, la visione inesorabile che il regista ci dà del mondo dei grandi. Rinunciarvi – il rifiuto di parlare da parte di Silvano va proprio in questa direzione – sembra un’azione irrimediabilmente persa. Il film, autobiografico, non è solo un piccolo omaggio alla propria infanzia, ma diventa, così, motivo per raccontare le paure e le contraddizioni degli uomini e dei bambini.
Marco Dalla Gassa
http://www.minori.it/uovadigarofano

miércoles, 30 de mayo de 2012

Dramma della gelosia - tutti i particolari in cronaca - Ettore Scola (1970)


TÍTULO ORIGINAL Dramma della gelosia - tutti i particolari in cronaca
AÑO 1970 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 107 min. 
DIRECTOR Ettore Scola
GUIÓN Ettore Scola, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli
MÚSICA Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA Carlo Di Palma
REPARTO Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Giancarlo Giannini, Manuel Zarzo, Marisa Merlini, Hércules Cortés, Fernando Sánchez Polack, Gioia Desideri, Juan Diego, Bruno Scipioni, Josefina Serratosa PRODUCTORA Coproducción Italia-España
PREMIOS 1970: Cannes: Mejor actor (Marcello Mastroianni)
GÉNERO Comedia. Drama 

SINOPSIS Oreste, un albañil casado y con hijos, militante del Partido Comunista Italiano, vive una existencia tranquila con su esposa, una mujer mayor que él y que incluso se parece a su madre. Sin embargo, el día en que conoce a Adelaida, una joven y atractiva florista del cementerio, empieza a cortejarla y, locamente enamorado, lo deja todo por ella. Pero, cuando aparece en escena Nello, un vendedor de pizzas, Adelaida no sabe por cuál de ellos decidirse, pues le gustan los dos. Oreste, que empieza a sentirse relegado, se vuelve loco de celos y pierde el control de sus actos. (FILMAFFINITY)



Sin dalle complicazioni dell'elaborato soggetto si capisce che Dramma della gelosia... segna un ulteriore salto di qualità nel cinema di Scola. Nell'affrontare l'universo proletario dei tre personaggi il regista colora la commedia di tinte melodrammatiche, coll'intento di sottolineare il carattere subculturale di una vicenda tante altre volte narrata e «vissuta»: narrata dal cinema, nella forma del film popolar-lacrimogeno alla Matarazzo; «vissuta» dal lettore/spettatore attraverso i puntuali (e spesso divertiti) resoconti giornalistici nelle pagine di cronaca. Sono poi gli stessi personaggi del film a nutrirsi di quelle letture e di quella "cultura": ne sono propriamente gli "attori", sia pure in un copione altrove concepito.
Questo primo film di Scola sui "poveri" (altri ne seguiranno, dal successivo Permettete? Rocco Papaleo, 1971, al più tardo Brutti, sporchi e cattivi, 1976) taglia corto con la politica: il fatto che Oreste militi nel PCI, che incontri Adelaide alla Festa dell'Unità e Nello durante una carica della polizia, non lo rende immune ai sentimenti, alle palpitazioni d'amore e poi agli effetti rovinosi della gelosia. Dramma della gelosia... non ha certo il provocatorio ardire de Il grido, con cui Antonioni, tredici anni prima, aveva mandato in soffitta gli eroi proletari del realismo socialista; il privato è già quasi politico nel 1970, quando gira questa sorta di Jules et Jim alla romana. Nondimeno, questa rappresentazione di una cultura popolare succube di modi di vedere
assorbiti dai mass media (televisione, cinema, fotoromanzi, giornali) manda in corto circuito certe utopiche (benché residue) schematizzazioni di classe ancora in voga da qualche parte a sinistra.
L'Adelaide di Monica Vitti s'illude veramente che la propria vita stia diventando un (foto)romanzo.
Ne è persino lusingata, intenta ad orientare, ora verso il maturo Oreste (Mastroianni) ora in direzione del focoso Nello (Giannini), il proprio "indivisibile" amore. «Pur nel tono grottesco della tragicommedia – osserva Lino Micciché, mai tenero in precedenza con i film di Scola – vi sono, sovente, penetranti notazioni di psicologia e di costume, sociale e individuale; e soprattutto c'è, portata sino in fondo, la felice idea di far parlare gli "eroi" di un "dramma" popolaresco, infiorato di patetiche espressioni da novelletta "rosa" e da "fumettone" a buon mercato. Il che finisce, in certo modo, per rendere plausibile e accettabile la svolta patetico-drammatica della seconda parte del film, dandole una venatura di non lacrimosa, ma pur percepibile malinconia»
(«Avanti!», 3 maggio 1970).

Su questo carattere morbidamente "metafilmico" di Dramma della gelosia... – il cui primo pregio consiste nel far aderire personaggi e situazioni alla proiezione semantica dei loro stereotipi – insistono parecchie altre note recensive, per la prima volta unanimi nel salutare con molti elogi e assai poche riserve un film di Scola. Unanimi o quasi, perché c'è anche chi (Giacomo Gambetti, su «Bianco e nero», n. 7/8, 1970) trova che il modello inimitabile resta pur sempre Lo sceicco bianco di Fellini: «Ciò che più sembrava nuovo in questo film... fu sperimentato e svolto con acume e fantasia ben maggiori quasi vent'anni fa». D'altra parte, quel che viene salutato con entusiasmo – ad esempio il riuscire «a condurre questa doppia scala di effetti (farsa e tragedia, sesso e sentimento, caricatura e verità, favola e vita di popolo) padroneggiandoli tutti, senza che mai l'azione si scolli, senza che questo fluido sottofondo problematico pregiudichi mai la marcia sicura dell'azione» (Filippo Sacchi, «Epoca», 17 maggio 1970) – è già ben in nuce nei lavori precedenti del regista e trova qui, più che l'incipienza della rivelazione, la conferma di un “metodo”.
Nuove, semmai, sono le incursioni oniriche, quel far sognare Oreste ad occhi aperti consentendo alla fantasia di entrare in scena, con un procedimento che sa di «realismo magico», come sostengono Pier Marco De Santi e Rossano Vittori (I film di Ettore Scola, op. cit.) e che rappresenta un segno di ulteriore affinamento stilistico. Se il gioco funziona (e, rivisto ad anni di distanza, non certo in chiave di «volgare fascismo e di razzismo antipopolare» come ebbe a sostenere Fofi sui «Quaderni piacentini», ora in Capire con il cinema, Milano, 1977) lo si deve naturalmente anche alla disponibilità degli interpreti, diciamo pure alla loro capacità di calarsi nei personaggi con versatile duttilità. Riso e pianto, lucidità e follia, tenerezza e ruvidità sono chiamati a mescolarsi continuamente, disegnando una varietà di stati d'animo che l'ispido Mastroianni, la sognante Monica Vitti, l'ansioso Giannini assecondano con azzeccata simpatia. La prova di
Mastroianni, in particolare, trova il massimo consenso a Cannes, dove la giuria del Festival gli attribuisce la Palma d'Oro per la migliore interpretazione. Trattandosi, inoltre, del primo film di Scola dove interagiscono diversi protagonisti, va segnalata l'accorta coesione dei ruoli, così importante in taluni successivi lavori, a cominciare da C'eravamo tanto amati (1974), le cui premesse sono in parte qui enunciate. (...)
Roberto Ellero, Ettore Scola, Il Castoro Cinema, 1995
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Questa cronaca romanesca puntuta e molto ben recitata potrebbe offrire uno sbocco abbastanza interessante al filone della commedia all'italiana, quello del film che assorbe nell'impianto farsesco spunti satirici e di costume e che non nasconde tra le buffonerie un risvolto amaro. Che, ad un certo momento, capovolge le carte e arriva al dramma « tout-court ».In apparenza, Dramma della gelosia fa tutto per ridere, ma a parte lo sbocco finale c'è qualcosa nella pellicola che non permette di abbandonarci del tutto all'allegria, come succede appunto negli esempi di quel «genere» complesso e difficile che si suole definire «grottesco».
Il fatto raccontato è quanto mai lineare: Adelaide (Monica Vitti) è una fioraia del Verano che s'innamora del muratore Oreste (Marcello Mastroianni) ma che non può impedirsi di amare «anche» il piazzaiolo Nello, toscano trapiantato nell'Urbe. Un triangolo proletario, insomma, che finirà soltanto in tragedia, di cui sarà vittima la povera Adelaide. Ma lo schema è vivificato dal particolare impianto in cui è calato. La partenza del film è infatti l'istruttoria per il processo a Oreste, l'uccisore, da cui si dipana l'esposizione della vicenda: tutti i personaggi ricostruiscono man mano i fatti davanti all'autorità inquirente, e mentre parlano e si giustificano o accusano fanno seguire le azioni alle parole, ripetendo cioè gli accadimenti, e mescolando talvolta in un'unica dimensione – nel quale caso i personaggi si sdoppiano nella stessa inquadratura, oppure sono contemporaneamente attivi come protagonisti e come testimoni – sia le loro deposizioni che gli accadimenti cui hanno partecipato. Un espediente non nuovissimo ma interessante, anche se talvolta un po' compiaciuto, che fa pensare ad una soluzione intellettualistica. Ma l'interesse del film è altrove, e cioè nel far agire e parlare i personaggi secondo una pseudo-cultura di massa fondata (o meglio orecchiata) sul consumo di un linguaggio diffuso da TV, rotocalchi, propaganda politica.
La «chiave» del racconto è nella lettura dei fumetti tipo «Sogno» da parte di Adelaide, illusa banderuola che si crede protagonista di strazianti passioni, e nel sogno di Oreste in cui lo sentiamo parlare con i versi di una canzonetta, e poi addirittura esprimersi cantando le frasi assurde dei rimatori di canzoni. Ambiziosetto, non tutto risolto, a volte fermo alla caricatura grossolana (vedi il personaggio del ricco commerciante di vacche e del suo improbabile aggiordomo-cugino), il film ha nella sceneggiatura di Age, Scarpelli e Scola e nella regia di quest'ultimo numerosi punti di forza. Anche perché il regista sa sfruttare nella maniera più schietta l'apporto recitativo degli attori, i quali fanno sfoggio di intelligenza non soltanto in una girandola di buffonerie assai godibili, ma anche e soprattutto nei fulminei trapassi da un «tono» all'altro del racconto.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 97-98, 11/12-1970
http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/0CEEA77CDABF50E7C125792600394767?opendocument
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...ci permette di puntare la lente d’ingrandimento sia su uno dei registi più importanti della settima arte nostrana a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 sia, ed è questo forse ciò che realmente conta, sullo stato del cinema popolare dell’epoca.
Il curriculum di Ettore Scola a cavallo tra i due decenni crediamo parli decisamente da solo: tra il 1960 e il 1965 si dimostra sublime sceneggiatore per Dino Risi (Il mattatore, Il sorpasso, La marcia su Roma, I mostri), Antonio Pietrangeli (Adua e le compagne, Fantasmi a Roma, La parmigiana, Io la conoscevo bene) e Luigi Zampa (Gli anni ruggenti), firmando alcuni degli script più ispirati e dimostrandosi acuto osservatore della realtà che lo circonda. Questa dote lo accompagna anche dopo il suo esordio dietro la macchina da presa con l’incompiuto ma ammaliante Se permettete parliamo di donne, anno domini 1964. Nel momento in cui si mette al lavoro per portare a termine Dramma della gelosia, Scola sta senza dubbio attraversando la fase migliore della sua carriera: ha da poco portato a termine la straordinaria commedia post-coloniale Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, vertice assoluto di quello che fin troppo presto prenderà le vesti di “cinema vacanziero” nonché meticolosa e al contempo irresistibile incursione nella grettezza involontariamente razzista dell’approccio europeo al continente africano, e da ancor meno tempo ha posto la firma in calce a Il commissario Pepe, scandaglio rigoroso ma anche qui estremamente bonario della provincia italiana, con tutti i suoi paradossi – considerate che il Pupi Avati dell’horror padano è ancora al di là da venire alla luce. Qualora non bastasse, nei dieci anni seguenti Scola dirigerà quello che non esitiamo a considerare uno dei migliori film della storia del cinema italiano ed europeo (C’eravamo tanto amati), accompagnandolo con contorni sempre di altissimo livello, a dimostrazione di una capacità di spaziare nel cinema che non ha avuto molti pari al suo livello (Una giornata particolare, Brutti sporchi e cattivi, Trevico-Torino (viaggio nel Fiat-nam), La terrazza).
L’ago della bilancia di questo percorso creativo è probabilmente proprio Dramma della gelosia: di partenza, se vogliamo, l’operazione tentata da Scola in compartecipazione con i sempre fedelissimi Age e Scarpelli, non è poi così dissimile dalla ripresa del melodramma popolare, espanso e deflagrante, che si era respirata a pieni polmoni appena due anni prima, nel 1968, in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi. Anche lì in fase di scrittura si era data da fare la coppia di sceneggiatori per eccellenza del nostro cinema, ma le analogie si fermano qui: laddove Risi aveva puntato l’accento sul fotoromanzo, massima aspirazione letteraria per gran parte della popolazione della penisola, spingendo il pedale dell’accelerazione su una deformazione grottesca del reale, Scola lavora di fino in direzione parallela ma mai convergente. Per quanto Dramma della gelosia non manchi di un sottofondo ironico, l’afflato poetico che lo sorregge dimostra una straziante ricongiunzione con la contemporaneità: se Risi porta a termine, come spesso e volentieri aveva fatto in passato e farà in futuro, un’operazione di stampo sanamente popolare, ci viene naturale definire Dramma della gelosia un prodotto popolano; non si tratta più di sollazzare il popolo, le classi meno abbienti, con una messa in scena sentita ma in fin dei conti edulcorata della loro condizione sociale, ma piuttosto di aprire gli occhi sulle pulsioni più profonde di quel popolo che si vorrebbe come principale spettatore – la critica di Scola a una determinata fumosità intellettuale attraversa, come un fil rouge, l’intera opera del cineasta irpino. In questo senso acquistano ancora più valore le scelte estetiche di Scola: l’universo romano sporco e degradato, in cui sboccia l’amore tra Oreste e Adelaide e successivamente esplode la passione tra la donna e Nello è il simbolo perfetto di un’esistenza ai margini, quel letame da cui nascono i fior che cantava Fabrizio De André. Perfette si dimostrano dunque le location selezionate per la bisogna: il sito dove si è svolta la Festa de L’Unità dominato dalla plastica e dai rottami, il Verano, le giostre, la fabbrica dismessa sono null’altro che emblemi di un intero mondo, quello che un tempo sarebbe stato chiamato proletariato e che proprio in quegli anni iniziava a far sentire la propria voce. Affidandosi alle musiche di Armando Trovajoli – e sarebbe ora che il suo nome rientrasse definitivamente di diritto tra i geni della composizione musicale italiana del secondo novecento – e alle immagini del compianto Carlo Di Palma, Scola mette al servizio della storia le sue folgoranti intuizioni visive, che torneranno con ancora maggior forza ed efficacia nel capolavoro C’eravamo tanto amati (attori che parlano in macchina, montaggio libero, costruzione notevolmente complessa della struttura narrativa).
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=66&art=3447

Ettore Scola e la commedia della delusione politico-esistenziale

Il travaso continuo dalla delusione politica a quella esistenziale e viceversa da quella esistenziale alla politica, con lo sfondo più o meno sfuocato dei grandi movimenti della storia, è uno degli elementi strutturali - vero e proprio leitmotiv - su cui Ettore Scola ha fondato buona parte della weltanschauung dei propri film e in particolare di quelli della maturità artistica. Dal nostalgico e struggente C’eravamo tanto amati (1974) - in cui, in termini di disinganno, a pagare lo scotto più cocente della fine del sogno della palingenesi sociale sono, non a caso, i due "intellettuali" del terzetto - a Mario, Maria e Mario (1993), cronistoria dell’autoffondamento del vecchio Partito Comunista Italiano (vissuto attraverso la crisi di tre militanti), la corrente alternata tra fallimento politico e disfatta esistenziale tende inevitabilmente a cortocircuitare, prima del "mesto" ritorno dei protagonisti a una più o meno bastante "normalità". Film paradigmatici, nel primo la fittizia rinascenza d’una amicizia e solidarietà verso il fine comune del grande sole rosso dell’avvenire, è destinata a chiudere per sempre un capitolo rimasto troppo a lungo "ambiguamente" in sospeso, con la scoperta da parte di Nicola (il professore "rivoluzionario", severo critico cinematografico) e Antonio (il portantino comunista) dello smodato arricchimento del "traditore" Gianni. Nel secondo la "fine dell’eccezionalità" coincide con il rientro degli adulteri nelle rispettive famiglie, dopo la misteriosa malattia di Maria e l’altrettanto misteriosa guarigione, ma con qualcosa di finito per sempre, proprio come canta Guccini in Stagioni, brano musicale in equilibrio tra disinganni del presente e speranza nel domani.
Entrambi segnati da mancate epifanie, i due film saldano passaggi cruciali della Storia contemporanea italiana, ma i temi di fondo (come nella gran parte della produzione "autoriale" e della "poetica" di Scola, sempre anche sceneggiatore, spessissimo soggettista) restano immutati: il tramonto della prospettiva rivoluzionaria, "l’imborghesimento" dei partiti della sinistra divenuti incapaci di contrapporre valide alternative alle "razionalizzazioni" del capitalismo avanzato; la fine degli ideali e le inevitabili compromissioni; il lento, fatale, erodersi dei sentimenti; l’insufficienza morale ad affrontare gl’imprevedibili accadimenti della vita; l’ineluttabile scorrere del tempo e il conseguente sopravvenire della vecchiaia e della morte. "Kantianamente"
dubbioso, nel senso di nutrire forti perplessità sulla marcia perpetua del progresso verso la "città ideale" di un’umanità sempre più smarrita, più vicino alla profetica distinzione pasoliniana tra "progresso" e "sviluppo", Scola mostra di non credere nell’immediato compimento della visione utopica marcusiana di "liberazione dalla società opulenta", irrimediabilmente corrotta dal denaro e dalla cupidigia, oggi invero scopertasi molto più fragile e meno fastosa di quel che si è voluto e fatto credere e tuttavia sempre incline allo spreco e all’ingiustizia programmata.
Laico insoddisfatto, politicamente schierato e impegnato, Scola (uomo e artista) non si sottrae alla convinzione "che l’ordine dell’essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico", ma con altrettanto distacco egli si pone sulla vexata questio del ruolo degli intellettuali e dell’auspicato avvento (più o meno messianico), per dirlo ancora con Marcuse, di quel "...tipo di uomo che rigetta il principio di prestazione che regge la società, un tipo di uomo che ha rigettato l’aggressività e la brutalità, cardini dell’organizzazione della nostra società, e rifiuta la sua moralità puritana e ipocrita; un tipo di uomo che è biologicamente incapace di fare le guerre e di creare la sofferenza; un tipo di uomo che sa rallegrarsi della gioia e del piacere e che opera, a livello individuale e collettivo, affinché si determini un ambiente naturale e sociale dove una tale esistenza divenga possibile". È Il sogno lungamente covato del "superuomo marcusiano", tappa estrema di quel processo di secolarizzazione e immantizzazione che partendo dalle speculazioni della filosofia classica arriva fino all’uomo positivista di Comte, a quello "nuovo" di Moro, alla società senza classi di Marx ed Engels... Un sogno di rinascenza rimasto ampiamente irrealizzato e che invece di avvicinarsi, a ogni tappa del "progresso" umano, alla secolare utopia del mondo nuovo, pare allontanarsene quasi con un senso di malcelata diffidenza. "Una delle colpe di cui devono farsi carico gli intellettuali - dice Scola - è che accanto alla sacrosanta lotta per la diminuzione delle ore di lavoro, non c’è stata l’altrettanto sacrosanta lotta per l’occupazione del tempo libero: anche qui l’intellettuale non ha saputo aiutare la massa, non è stato capace di riempire quel vuoto che si è creato. E ciò in tutti i campi: la televisione, il cinema, la politica, la letteratura".
Quanto a televisione e politica, oggi possiamo indicare per nome chi ha avuto la capacità di obnubilare il pensiero degli italiani imponendo un vero e proprio "sdoganamento dell’ignoranza, il cui strumento principale è stato in Italia la televisione, privata e di Stato, la peggiore del mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni 'politiche', quanto soprattutto nella pappa securitaria (fondata sulla propalazione della paura) e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso delle trasmissioni di intrattenimento...".
Il percorso di maturazione di Scola verso un soffuso disincanto, frutto non di aprioristici preconcetti bensì d’una acuta osservazione (quasi da entomologo) dei limiti e delle miserie della natura umana, tuttavia, non è immediato. "Più giovane d’una generazione, Ettore Scola, come gli apprendisti pittori medievali che per almeno sette anni avevano il compito di mescolare i colori, ha compiuto un lungo apprendistato scrivendo barzellette per i giornali umoristici, andando a bottega da Age e Scarpelli, lavorando come 'negro', ideatore di scenette in decine di film come soggettista e sceneggiatore (tra tutti, nel corso del tempo, gli ormai cult: Adua e le compagne, Il sorpasso, La parmigiana, Io la conoscevo bene, I mostri, quindici anni dopo "aggiornato" in una regia collettiva, n.d.a.) prima di compiere il grande salto". Dal 1952, poco più che ventenne, inizia a scrivere soggetti e sceneggiature (a oggi una sessantina), nel 1964 esordisce come regista in un film a episodi (Se permettete parliamo di donne, seguito due anni dopo da La congiuntura), dove la lezione di Pietrangeli e Risi comincia ad amalgamarsi dando vita alla sua originale cifra stilistica: "È qui che confluiscono due fra i principali 'modi di essere' della commedia, destinati a trovare un punto di equilibrio e di ipotetica sintesi proprio nel lavoro registico di Scola, che continuerà a indagare sui personaggi secondo la lezione di Pietrangeli ma accettando - come Risi - la sfida dell’abnorme che si cela dietro l’anonimato, e combinando la tendenza al rigore dell’uno con il generoso prolifico rischiare dell’altro... Le oscillazioni dei suoi film, ora verso la farsa, ora verso il dramma, hanno quale premessa l’itinerario della commedia nelle sue più variegate espressioni, nobili e meno nobili".
Mano a mano che la padronanza del mezzo tecnico cresce, lo sguardo di Scola si apre alla Storia – mai "in quanto tale", ma come grandioso fondale con il quale l’uomo interagisce e reagisce – in modo paradossalmente inversamente proporzionale allo spazio fisico, che tende invece a restringersi claustrofobicamente (Un giornata particolare, La famiglia, La terrazza...), in un microcosmo archetipico, mentre trasforma in una costante il vezzo di aggiungere piccole ma significative autocitazioni cinefile, da leggere nel segno di una continuità e riconoscibilità artistica piuttosto che in quello d’un manierato autocompiacimento. Apparentemente sfondo lontano, la grande Storia irrompe fragorosamente nel mondo e nella vita di personaggi crepuscolari, d’esistenze votate allo scacco, come nel "minimalista" Una giornata particolare (1977), casuale incontro di due vite alla deriva nel giorno della visita di Hitler a Roma nel maggio del 1938; o come nell’eterogeneo gruppo dei viaggiatori in carrozza di Il mondo nuovo (1982), colti on the road in piena Rivoluzione Francese (che ne conferma anche la passione per i film in costume, già manifestata con lo "storico-machiavellico" L’Arcidiavolo,1966, e replicata con Il viaggio di Capitan Fracassa,1990,
vero e proprio atto d’ossequio e d’amore al teatro); o ancora nell’anonima sala da ballo della periferia parigina di Ballando, ballando (1983), con gli sfondi inquietanti della Francia collaborazionista, della guerra d’Indocina e i fatti d’Algeria, del Sessantotto... Ma sebbene catturato dall’urgenza di relazionare sempre i personaggi al groviglio della storia, in Scola una mai disseccata vena ancor più intimista tende sempre a riemergere puntualmente. Ne sono testimonianze film come Passione d’amore (1981, dal romanzo Fosca di Igino Ugo Tarchetti), Maccheroni (1985), La famiglia (1987), Che ora è (1989), dove comunque a ben guardare il "minimalismo" conclamato più che destoricizzare incunea la storia nei dettagli, in quel senso malinconico del tempo che passa, annullando o alterando passioni, sentimenti e vicende esistenziali che spesso "il regista si limita a descrivere fenomenologicamente", sempre con un’indulgenza mai complice e una pietas frutto di "quell’umanesimo di fondo senza il quale i suoi film non avrebbero lasciato una traccia tanto profonda nell’immaginario collettivo e nella cultura italiana".
Riprendendo dalla letteratura (e dal cinema dei maestri) la lezione "manzoniana" (innesto della vicenda individuale nei grandi sommovimenti della storia), già all’indomani dell’esordio il cinema di Scola entra nel cono dell’interazione inscindibile tra storia e sentimenti, mantenendo quelle doti di perlustrazione sociale chiaramente già manifestate attraverso la momentanea fuga verso paradisi perduti di quel campione d’italianità che è l’editore, "progressista e democratico", Di Salvo (un sempre straordinario Alberto Sordi) nell’amaramente divertente Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) o nel fustigante Il commissario Pepe (1969), vero e proprio prontuario della corruzione e dei vizi "consustanziali" al nostro paese, oggi letteralmente esplosi e sciorinati nelle pubbliche arene televisive senza neppure il pudore di celare le proprie malefatte. Due estremi opposti: il canagliesco industriale Alfredo Rossi (ancora Sordi), "processato" dal kafkiano tribunale di La più bella serata della mia vita, 1972, è castigato da una sacrosanta punizione "divina" (l’incidente mortale...ma l’interrogativo se si potrà sperare
nella giustizia umana resta aperto); mentre l’idiota d’ascendenza dostoevskiana di Permette? Rocco dall’anarchico alcolizzato e comunque ancor più improbabilmente potrà essere proposto a modello di liberazione. La mutazione antropologica dell’italiano, denunciata dal compianto Pasolini, avanza a grandi passi (ma l’evoluzione in peggio doveva e forse deve ancora arrivare) e Scola ne interpreta a suo modo i passaggi allestendo ancora il feuilleton Dramma della gelosia (1970, grottesco triangolo popolaresco), giungendo già coraggiosamente negli anni Settanta alla sconvolgente estremizzazione della visione "poetica" del sottoproletariato pasoliniano con la crudele "sinfonia dell’orrore" di Brutti, sporchi e cattivi (1976), che lo stesso Pasolini, ormai "sconfitto", "avrebbe voluto (con) un finale ancora più amaro, convinto che 'gli abitanti delle baracche erano essi stessi, responsabili della loro evoluzione, essendosi voluti far colonizzare e distruggere'".
Radicalmente opposta, quattro anni prima, era stata la reazione del giovane operaio di Trevico-Torino... Viaggio nel Fiat-Nam (1973), "proletario senza rivoluzione" che prende coscienza nella fredda "città-fabbrica" Torino del suo sfruttamento, ma finisce col rifiutare ogni massimalismo ribellistico (scontentando la sinistra estrema) per abbracciare la linea riformista pro-Partito Comunista Italiano, da cui il film – scritto insieme a Diego Novelli, futuro sindaco comunista del capoluogo piemontese – è finanziato (Unitelefilm).
Parallelamente al binomio Storia-sentimento cresce, però, anche lo scetticismo laico e l’amaro disincanto del regista di Trevico, per quanto il suo ottimismo della ragione accompagnato da un greve pessimismo dell’intelligenza, non può e non dev’essere genericamente confuso con la perdita della fiducia nella funzione dell’intellettuale e dell’artista, di cui egli continua a mantenere chiara la "funzione decisiva di preparazione". Se gli intellettuali "non sono e non possono essere una classe rivoluzionaria, possono diventare peraltro un elemento catalizzatore e avere una funzione preparatoria: non l’avranno certo per la prima volta, e infatti tutte le rivoluzioni utilizzarono gli intellettuali come elemento catalizzatore; ma questa possibilità è forse più reale oggi che nel passato. È da questo gruppo...che saranno reclutati nel futuro più che oggigiorno i detentori del
potere del processo produttivo... Questo è dunque il raggruppamento sociale dal quale verranno estratte le persone che avranno ruoli decisivi nelle posizioni di comando: scienziati, ricercatori, tecnici, ingegneri, anche psicologi, perché la psicologia continuerà a essere uno strumento socialmente necessario sia nel senso della servitù che in quello della liberazione". Per un’impensabile eterogenesi dei fini, dopo la rovinosa caduta della cosiddetta Prima Repubblica, la profezia marcusiana si è pienamente realizzata in Italia, nel senso più aberrante della "servitù".
Tuttavia, il caso italiano non è isolato: "La tendenza universale della fase finale della mutazione neoliberista era stata anticipata da Michel Foucault...col modello antropologico dell’homo oeconomicus". Non a caso alla delusione seguita dalla (ri)scoperta di un paese intollerante, ignorante, razzista, dominato da una nuova borghesia arrogante e incolta e perfino separatista ("Il problema delle sub-culture...ha veementemente ripreso il sopravvento nell’Italia contemporanea, creando da nord a sud un avvitamento della Storia...") Scola, portando indietro le lancette del tempo - ma, more solito, chiaramente riferendosi all’Italia contemporanea - gira nel 2001
Concorrenza sleale, pacata ma risoluta denuncia delle leggi razziali introdotte nel belpaese degli italiani "brava gente" nel 1938.
Scetticismo di fondo nei confronti delle "magnifiche sorti e progressive" stabilendo "una concordanza tra la fuga di Luigi XVI e quella, ingloriosa, di Vittorio Emanuele III da Roma, dopo aver destituito Mussolini alla fine di luglio 1943", manifesta nuovamente Scola riportandoci al periodo della Rivoluzione Francese vissuta "in diretta", nel già citato Il mondo nuovo (1982) in cui la declinante figura di Giacomo Casanova (un superbo e umanissimo Marcello Mastroianni), ormai in disfacimento e ridotto in miseria - offeso dalla spocchia e l’arroganza con cui un giovane "cittadino" lo rimbrotta - più degli aristocratici compagni di viaggio, riassume la delusione del vecchio illuminista di fronte al terrore giacobino, rabbrividente nuovo che avanza mozzando teste. I paradigmatici e verbosi personaggi, ideologiche incarnazioni, ne fanno quasi un film a tesi di sapore "rosselliniano", dove tuttavia l’acutezza della descrizione psicologia e la sontuosa mise en scène (coadiuvata da cast e troupe di livello internazionale) restituiscono all’opera un fascino ancor oggi rimasto immutato.
E delusioni, frustrazioni, crisi di valori, impotenza intellettuale, rabbia repressa, velleitarismi parolai, per celare l’avvenuto il distacco dalla realtà da parte dei protagonisti, accompagnano la coralità della variopinta fauna umana di La terrazza (1980) e La cena, (1998, contrappuntata dalle esternazioni di un cuoco logorroico, visto come "coscienza politica negativa"), che in opposizione alla compressione claustrofobica dello spazio - una terrazza e la sala di un ristorante - spinge l’occhio indagatore su una più generale condizione d’incupimento del paese (esistenziale, intellettuale, politico), di deriva verso il nulla, con esiti forse non del tutto soddisfacenti, ma la cui disordinata commistione è anche qui sintomo della confusione individuale e dello stordimento generale. Entrambi radiografie impietose della complessità dell’esistenza (con qualche "inevitabile" stereotipo caratteriale) e marcati dai continui rimandi storici, i due film confermano la straordinaria capacità registica di Scola di dirigere gli attori utilizzati (soprattutto nel secondo) alla stregua di strumenti musicali, per ricavarne una specie di concerto dove ora prevale il solista, ora il duetto, il trio, il quartetto... Perfetto ed esteticamente efficacissimo l’assemblaggio dell’intera "orchestra"; assoluto il dominio dell’eterogenea e nel contempo unitaria materia trattata; da manuale l’organizzazione delle entrate e delle uscite dei molti avventori, che fanno di Scola il più "altmaniano" dei registi nazionali.
Un bisogno di narrare il fosco stato di malessere del paese spinge Scola (ormai onusto di premi nazionali ed europei) ad approdare perfino nel noir, con un attualizzato Romanzo di un giovane povero (1995, ispirato al celeberrimo romanzo popolare francese), clamoroso tonfo commerciale, che - contrariamente alle garrulanti sirene d’una critica narcotizzata e spesso prona al potere - mantiene una capacità di cogliere i mutamenti (in peggio) della realtà italiana (condensata, ad esempio, nella Roma dell’ultimo, ma meno graffiante, Gente di Roma, 2003) dove ormai la risata ha definitivamente lasciato il passo di fronte alla rovinosa distruzione della democrazia.
Dall’affollata galleria scoliana di sconfitti - in cui non è banalmente la condizione economica, l’arricchimento, il posto al sole e il raggiungimento delle mete culturali imposte da una società intimamente malata e corrotta, a escluderne l’appartenenza e legittimarne l’estromissione - nessuno sembra trovare via di scampo, riferendosi egli principalmente (oltre che a quella politica) a una condizione morale sciancata, a un’inveterata insufficienza spirituale. Dall’ampio spettro della stratificazione sociale rappresentata nei suoi film - dai politici agli imprenditori, dagli intellettuali al ceto medio, dagli operai al sottoproletariato, dai reietti agli emigrati - Scola non ha mai lasciato alcuno fuori dalla porta del palcoscenico della vita. Più in generale si può dire che mostrando, senza astioso sussiego, l’Italia e gli italiani dal dopoguerra agli anni del boom a quelli attuali della sconfitta dei sogni, Scola ha voluto ritrarre una condizione esistenziale pressoché atemporale, metastorica, archetipica e comune a larga parte degli gli esseri umani, goffi e penosi naufraghi da sempre incapaci perfino d’essere, l’uno per l’altro, relitto di salvataggio.
Franco La Magna
http://www.cinemavvenire.it/saggi/ettore-scola-e-la-commedia-della-delusione-politico-esistenziale

martes, 29 de mayo de 2012

Io speriamo che me la cavo - Lina Wertmüller (1992)


TÍTULO ORIGINAL Io speriamo che me la cavo
AÑO 1992
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACIÓN 100 min. 
DIRECTOR Lina Wertmüller
GUIÓN Alessandro Bencivenni, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Andrej Longo, Domenico Saverni, Lina Wertmüller (Novela: Marcello D'Orta)
MÚSICA Pino D'Angiò, Greco
FOTOGRAFÍA Carlo Tafani, Gianni Tafani
REPARTO Paolo Villaggio, Isa Danieli, Gigio Morra, Sergio Solli, Ester Carloni, Paolo Bonacelli
PRODUCTORA Penta Film / Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica / Eurolux Produzione S.r.l.
GÉNERO Comedia | Enseñanza. Infancia 

SINOPSIS A través de los ojos de un niño se nos narra la historia de su profesor a partir de su traslado a un pequeño pueblo de Nápoles. Al principio cae mal a los niños a causa de su exceso de peso y porque les obligaba a acudir a la escuela y a trabajar duramente. Ellos piensan que no tienen demasiado tiempo para perderlo yendo a la escuela, y le reprochan al profesor que se queje continuamente de lo sucio que está todo y de lo antipático que era todo el mundo. Había sido destinado allí por error y continuamente intentaba marcharse a otro lugar. Pero pronto, los niños comienzan a divertirse en sus clases y se dan cuenta de que aprendían mientras se reían. Cuando el profesor es obligado a trasladarse a otra escuela, los alumnos le han cogido tanto cariño que no quieren que se vaya, por lo que intentan reunirse para trazar un plan que impida que esto ocurra. (FILMAFFINITY)



Per un errore del computer, il maestro Marco Tullio Sperelli si vede trasferito d'autorità da una città ligure a Corzano, un paesino della provincia campana. Gli è toccata una classe della scuola elementare "De Amicis", una terza elementare, praticamente senza alunni. Di tutti quelli che dovrebbero frequentarla, infatti, il maestro Sperelli ne conta solo tre. Ben diciassette, per un motivo o per un altro (sfruttamento minorile, microcriminalità, ecc.), mancano all'appello. Deciso a non permettere una simile indecenza, un simile esproprio nei confronti dei minori, decide di andare a prenderseli persona, a recuperarli uno per uno. Alla fine, quando finalmente riesce nel suo intento e comincia a svolgere il suo ruolo, ad insegnare, ha modo anche di affezionarsi ai suoi ragazzi che, prima disinteressati e diffidenti, cominciano ad acquistare fiducia, a stimare il loro maestro al punto da mettersi di buzzo buono e fare un buon lavoro in classe. E' allora che arriva la comunicazione del trasferimento di Sperelli in una sede del nord. I ragazzi vanno a salutarlo alla stazione e, uno di loro, Raffaele, a mo’ di ringraziamento, gli consegna il compito che aveva faticosamente portato a termine in tempo. Il tema parla della fine del mondo, di disgrazie, di morti, tutte cose che nessuno meglio di un napoletano conosce a fondo, ma si conclude con una personale nota di speranza: "Io, speriamo che me la cavo".

<< (…) un’occasione per dare voce ai silenziosi protagonisti della vita napoletana. Sono i giovanissimi abitanti della periferia che tra mille difficoltà e grandi sofferenze mantengono intatta la loro fiducia nella vita e il loro buonumore, dimostrando un’insospettabile forza d’animo e una grande capacità di sopportazione. Il film restituisce con estremo realismo e un pizzico di folclore le atmosfere e le situazioni del libro anche se per alcuni critici la regista ha un po’ ecceduto nella caricatura dei personaggi senza approfondirne la psicologia.(..)>> (Network Telepiù, presentazione del film)

<< (...) il maestro genovese Sperelli si ritrova catapultato in una scuola del napoletano fra i bimbi più "sgarrupati" d'Italia, che preferiscono la strada ai banchi. Al maestro il compito di riportarli sulla retta via. - (...) Lo dirige una regista che (coi suoi film) ha contribuito non poco alla creazione di un certo immaginario sudista tanto caro al nostro cinema. Anche in "Io speriamo che me la cavo" le bravate dei ragazzini di Villaggio si svolgono in uno scenario degradato, in una scuola dove presidi, professori e persino il bidello sono indaffaratissimi a non fare il loro dovere. Al genovese e un po' stranito Sperelli il compito di mettere ordine per di raddrizzare le vite di quelli scugnizzi così simpatici, ma così esposte alle insidie della strada. Col tempo, fra una battuta e un vezzo, il maestro si affezionerà ai suoi ragazzi (...)(Gabriella Giannice, "Guida ai programmi di Tele+")>> .

<< Il tentativo era di fare un "Cuore" napoletano, trasformando Edmondo De Amicis, come fa’ la preside del film, in Deàmicis. Un anno di scuola di un maestrino dalla pancia grossa venuto dalla Liguria alle porte di Napoli, che ha qualcosa da insegnare e qualcosa da imparare. Un ideali incontro Nord-Sud fuori moda, ma troppo sul rosa, inficiato da una sceneggiatura balorda. Il tutto è inzuppato, per i bisogni del successo, da quintalate di parolacce "esotiche" messe probabilmente in bocca a bambini impudichi e gigiosissimi, in confronto ad un Villaggio che cerca astutamente simpatia con quattro miti sorrisi indefessamente ripetuti. Invece che a Luigi Comencini si finisce per somigliare a quel che si è, opportunisti sfruttatori d'infanzia, mangiafuoco travestiti da geppetti. (Goffredo Fofi, newsmagazine "Panorama").>>

<< (...) il libro da cui è tratto il film è solo una raccolta di temi scritti dai ragazzi di una scuola elementare, e poteva riassumersi col sottotitolo: "come fari divertire gli adulti alle spalle di bimbi ignoranti". A questo la Wertmüller ha aggiunto una storia, un personaggio principale e un finale edificante. E in più ha dato un nome alla scuola che è tutto un programma. Insomma, l'idea era di rifare "Cuore", ma un po' aggiornato. Progetto impossibile e destinato a fallire in partenza.(“Film TV”, settimanale specializzato). >>
http://www.cinemadonna.com/scheda-film.asp?fkey=692

lunes, 28 de mayo de 2012

Grazie, Zia - Salvatore Samperi (1968)


TÍTULO ORIGINAL Grazie, zia
AÑO 1968
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 94 min. 
DIRECTOR Salvatore Samperi
GUIÓN Salvatore Samperi, Sergio Bazzini, Pier Luigi Murgia
MÚSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA Aldo Scavarda
REPARTO Lisa Gastoni, Lou Castel, Gabriele Ferzetti, Luisa De Santis, Massimo Sarchielli, Anita
Dreyer, Nicoletta Rizzi
PRODUCTORA Doria Film
PREMIOS 1967: Premios David di Donatello: Plato dorado (Lisa Gastoni)
GÉNERO Comedia. Drama

SINOPSIS Alvise, es hijo de un rico industrial, que finge ser paralítico y se dedica a cortejar a su
tía Lea. Esta es una bella y provocativa doctora que seducida por su sobrino, abandona a su amante.
Lea enamorada de su sobrino, se deja involucrar en sus turbios juegos, a pesar de no encontrar
ninguna satisfacción. Finalmente Lea, convencida por el mismo Alvise, le mata suministrandole
veneno. (FILMAFFINITY)



Grazie zia è un film del 1968 diretto da Salvatore Samperi, all'esordio nella regia.
Generalmente associato al filone della commedia erotica all'italiana, tanto che il suo titolo è diventato sinonimo di erotismo pruriginoso, si tratta in realtà di un esempio del cinema arrabbiato della fine degli anni sessanta, un dramma psicologico incentrato su un rapporto incestuoso e autodistruttivo che rappresenta la radicale ribellione al sistema e alla famiglia borghese.
Il film riprende e aggiorna i temi di un'altra opera prima di quegli anni, I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio,[2] di cui ripropone il protagonista, l'enfant maudit Lou Castel, in un analogo ruolo di estremo contestatore. Nel ruolo della sensuale zia, Lisa Gastoni ottenne un grande successo, che rilanciò la sua carriera,imponendola come icona erotica del cinema d'autore.
Per una significativa coincidenza, Grazie zia faceva parte della selezione ufficiale del Festival di Cannes 1968, edizione interrotta dai moti studenteschi del Maggio francese.
Il giovane Alvise, figlio di un ricco industriale della provincia veneta, rifiuta di assumere il proprio ruolo prestabilito nella società, sulle orme del padre, fingendo una paralisi alle gambe che i medici credono essere di origine psicosomatica.
A causa di una lunga assenza dei genitori, in viaggio all'estero, viene affidato alle cure della zia materna Lea, medico di professione, con cui il ragazzo ha sempre avuto un buon rapporto, nella speranza che almeno lei riesca ad ottenere qualche miglioramento.
Durante la loro convivenza nella sua isolata villa di campagna, la donna non solo non viene esasperata come gli altri dai comportamenti nevrotici ed imprevedibili del nipote, ma ne viene progressivamente catturata e quello che all'inizio è un comprensibile sentimento protettivo materno scivola progressivamente, stimolato dalle provocazioni del ragazzo, verso un contorto sentimento di attrazione e dipendenza, a danno della relazione di lunga data con il giornalista di sinistra Stefano. Sopraffatta da questo rapporto morboso, Lea finisce per trascurare completamente la sua vita al di fuori di quella casa.
Alvise coinvolge irresistibilmente la zia in un crescendo di giochi sadomasochistici, che culminano, com'era nelle sue intenzioni, non nel sesso, ma nella morte: quando le chiede di ucciderlo, la donna accetta senza alcuna esitazione di iniettargli in vena una sostanza letale.
Per il ruolo di protagonista era stata inizialmente individuata l'attrice francese Annie Girardot che però rifiutò la parte, poi accettata da Lisa Gastoni.
« Io sono convinta che ciascuno di noi ha una sua età(...) Ci sono dei momenti fisici - perché nel cinema è soprattutto questione di momenti fisici - che ci sono più adatti, più giusti. In genere si chiamano "incontro col personaggio". In fondo il mio vero incontro col personaggio è avvenuto quando avevo ventinove anni, girando Grazie zia. All'età quindi di una donna nella sua pienezza, alla soglia della trentina. Non ero vecchia ma neppure giovane. Però ero fisicamente ed emotivamente giusta per il ruolo » (Lisa Gastoni)
Uno degli elementi più particolari del film è la beffarda colonna sonora realizzata da Ennio Morricone, che comprende l'impegnata Filastrocca vietnamita, cantata da Sergio Endrigo, e il cantilenante tema musicale Guerra e pace Pollo e brace che punteggia l'intero film.
Parallelamente a Grazie zia nel 1968 uscì un'altra opera prima debitrice dell'esempio di I pugni in tasca, Escalation di Roberto Faenza, che come il film di Samperi mette in scena il rapporto tra una donna, psicoterapeuta (Claudine Auger), e il giovane figlio di un industriale (Lino Capolicchio), che dovrebbe curare e con cui stringe invece un rapporto amoroso, in questo caso con esito tragico però per la donna.
http://it.wikipedia.org/wiki/Grazie_zia


«Grazie zia» , un Samperi dal rivalutare Eros e thanatos nel Veneto del 1968

Pochi l' hanno rivisto dal 1968, e il suo titolo è diventato sinonimo di erotismo pruriginoso. È un grave torto quello che è stato fatto al primo e miglior film di Samperi. Il suo modello, è evidente, è « I pugni in tasca » di Bellocchio, di cui riprende il protagonista Lou Castel, trasformandolo in un giovane borghese veneto, che si finge paralitico per non integrarsi. Segue rapporto autodistruttivo con la zia del titolo, all' insegna di eros e thanatos. A Lisa Gastoni il ruolo portò fortuna, e rilanciò la sua carriera: negli extra del dvd ( realizzati da Mario Sesti, e finalmente all' altezza di una collana spesso avara) parla con franchezza del suo rapporto con personaggi e registi. Samperi allora era un ventiquattrenne arrabbiato, ma non gratuito nelle provocazioni: un' altra intervista è un punto di partenza per riscoprire una carriera altalenante ma inspiegabilmente rimossa. ( Alberto Pezzotta )
http://archiviostorico.corriere.it/2005/giugno/17/Grazie_zia_Samperi_dal_rivalutare_co_7_050617012.s
html

lunes, 21 de mayo de 2012

HASTA SIEMPRE

Lamentablemente Mediafire suspendió todas las cuentas donde estaban alojados los enlaces.
Esta es la nota:

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For more information please read our Terms of Service.
Sincerely,
The MediaFire Team


Un fuerte abrazo a todos los seguidores y a aquellos que aman el cine italiano.
Hasta siempre.
Amarcord

domingo, 20 de mayo de 2012

Le ragazze di Piazza di Spagna - Luciano Emmer (1952)


TÍTULO ORIGINAL Le ragazze di Piazza di Spagna
AÑO 1952
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español, italiano e inglés (Separados) 
DURACIÓN 99 min. 
DIRECTOR Luciano Emmer
GUIÓN Sergio Amidei, Fausto Tozzi, Karin Valde (Historia: Sergio Amidei)
MÚSICA Carlo Innocenzi
FOTOGRAFÍA Rodolfo Lombardi (B&W)
REPARTO Lucia Bosé, Cosetta Greco, Liliana Bonfatti, Ave Ninchi, Leda Gloria, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni, Mario Silvani, Eduardo De Filippo
PRODUCTORA Cine Produzione Astoria
GÉNERO Drama. Romance 

SINOPSIS Tres amigas se proponen llegar a ganarse la vida como modelos, pero no es una tarea fácil, son demasiados los obstáculos que hay salvar; así que deciden unir sus fuerzas para alcanzar su meta e incluso para encontrar el amor de sus vidas. (FILMAFFINITY)


Luciano Emmer con il suo solito stile a mosaico intreccia sapientemente la storia di Maria, che rischia di mandare all’aria il suo matrimonio con Augusto, Elena, che tenta il suicidio per amore, Lucia, che cerca uomini alla sua “altezza”, e altre. A fare da contorno la solita voice over che contorna il neorealismo rosa con qualche punta di commedia che tocca questo periodo. La voce fuori campo è quella di un professore, Giorgio Bassani, che tenta di raccontare la storia di queste ragazze con il suo punto di vista pronto li a commentare ma sempre estraneo lasciando parlare poi i fatti.
La fotografia, come in ogni film di Emmer, è deliziosa e sembra quasi accompagnare una manierismo di “carineria” che segue tutta l’opera. I protagonisti sono giovani e frizzanti e sotto le loro azioni a volte, anzi quasi sempre, frenetiche si svolge la vita di una Roma che sembra essersi definitivamente rialzata dalla guerra che l’aveva distrutta.
Bello e impossibile è come al solito un giovane Marcello Mastroianni qui semplice tassista; memorabile e storico il “Sor” Vittorio un vedovo molto timido interpretato da un incommensurabile Eduardo De Filippo.
Piccola perla di un regista poco considerato ma che ha dato il via a tutto quel cinema a episodi e personaggi che ha fatto poi la storia della commedia all’italiana.
Matteo Fantozzi
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Le ragazze di Piazza di Spagna sono Marisa, Elena, Lucia, tre impiegate di una sartoria romana nei pressi della Trinità dei Monti. Maria è figlia di operai e vive alla Garbatella; Elena appartiene a una modesta famiglia impiegatizia e vive, con la madre vedova, in un appartamentino a Monteverde. Lucia ha casa alle Capannelle e suo padre governa una scuderia dell’ippodromo. L’aspirazione di tutte e tre è una sola: un marito e una casa. Lucia ama un giovane operaio, ma un giorno, messasi a far l’indossatrice, rischia di perderlo e solo alla fine, dopo molti bronci e difficoltà, riesce ad arrivare al matrimonio.
Gian Luigi Rondi (Il Tempo)

È passato poco tempo da quando facemmo gli elogi di Luciano Emmer a proposito del suo Parigi è sempre Parigi. Siamo lieti di replicarli ora che viene proiettato il suo ultimo lavoro: Le ragazze di piazza di Spagna. La personalità del regista infatti si va sempre meglio delineando, nei suoi limiti e nelle sue risorse. I suoi limiti sono segnati dall’esilità della sua vena crepuscolare, affabile del resto e maliziosa. Le sue risorse sono costituite dalla delicatezza del tocco, dalla levità dei suoi estri e dalla freschezza delle sue percezioni visive e psicologiche che col loro brio danno una specie di spuma.
Mario Luzi

LUCIANO EMMER Y LA VIEJA OLA

Mi amor por el Cine Italiano viene de años atrás, cuando me di cuenta de la libertad que destilaban esas imágenes, imágenes de la realidad que no encontraba en otras cinematografías...
Eran las vicisitudes de la gente corriente que el cineasta Luciano Emmery otros, plasmaron en sus películas de los años 50 y 60.
Aburrido, Emmer dejó el cine tras rodar "La Ragazza in Vetrina"(1960), porque cuando llegó el bienestar a Italia después de guerras y posguerras cruentas, la gente se volvió mediocre y no valía la pena rodar... Según Emmer, no quería plasmar la vida de esa nueva sociedad que había surgido de las cenizas de la posguerra.
Luciano Emmer empezó como documentalista y esto se nota en sus pocas películas... Debutó como director con "Domenica d'agosto"(1950) y a través de la década dirigió también "Camilla"y la más conocida "Le Ragazze di Piazza di Spagna", con una bellísima Lucía Boséy esa famosa escalera siendo testigo de historias de todo tipo.
Otra causa para el pesimismo de Emmer y razón importante para que dejara el cine fue la censura. El productor de "La Ragazza in Vetrina", asustado por su contenido y su posible no exhibición, recortó varias escenas que se perdieron... La película hablaba de la miserable vida de los inmigrantes italianos y de la prostitución en los Paises Bajos.
Emmer fue un gran observador. Minucioso y tomándole afecto a los personajes. Desde las clases más bajas a la alta sociedad, retrató la vida popular pequeño burguesa de los años 50.
Cuando el cineasta italiano dejó el cine, volvió a lo que más le gustaba: El Documental... y así entró en el mundo de la televisión y de la publicidad. Fueron 40 años de conocer a personas y acumular sus historias en su cabeza... Siempre con la idea de contarlas... y así, Emmer volvió porque quería ponerlas en imágenes.
Hace unos pocos años, el maestro italiano volvió a rodar otra pelicula: "Una lunga lunga lunga notte d'amore"(Años 90), seis historias de amor, encuentros, pasiones y abandonos... Energías renovadas del autor italiano menos conocido de la Edad de Oro del Cine Italiano. Emmer tiene ganas de contarnos historias, una racha creadora basada esencialmente en historias de mujeres... y por nuevos proyectos no será para el veterano cineasta.
Hace unos meses pude ver la versión íntegra de "La Ragazza in Vetrina" y fue emocionante comprobar la maestría en contar historias diarias y convertirlas en algo especial... Los Héroes de cada día... Emmer se apunta a eso de... El bienestar trae mediocridad... La realidad se ha vuelto plana y mediocre, pero los sueños de la gente normal no han desaparecido...
Muchas veces pensamos que el Séptimo Arte son explosiones y fuegos artificiales!!! El Gran Espectáculo!!! Vale... también lo acepto, pero Luciano Emmer me enseñó y me ayudó a comprender que Cinematografía es retratar las alegrías y las tristezas de la gente... esa gente con la que nos cruzamos todos los días por cualquier calle.
Paseando por las calles de Barcelona me siento un personaje de sus películas, tan marcados por el destino... Me llevé una alegría al ver los carteles de la Filmoteca... me traen recuerdos... Y la gente sale de ver una película de Luciano Emmer con el silencio y una sonrisa como compañeros... Me fijo en una foto de una chica; es Marie Trintignanty vuelvo a la realidad... Estoy seguro que detalles así le hubieran encantado al Maestro de la Vieja Ola...
Bajo la calle hasta la pensión y voy pensando en mañana...
Gracias Luciano... La Vieja Ola te quiere.
Este artículo fue escrito a través de los años... desde Barcelona y el sur de la isla de Tenerife 2001-2004
http://users1.jabry.com/ecosdesociedad/cine/emmer.asp

sábado, 19 de mayo de 2012

Si puo fare - Giulio Manfredonia (2008)


TÍTULO ORIGINAL Si può fare
AÑO 2008
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados) 
DURACIÓN 111 min. 
DIRECTOR Giulio Manfredonia
GUIÓN Giulio Manfredonia, Fabio Bonifacci
MÚSICA Aldo De Scalzi
FOTOGRAFÍA Roberto Forza
REPARTO Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Giorgio Colangeli, Andrea Bosca, Giovanni Calcagno, Michele De Virgilio, Carlo Giuseppe Gabardini, Andrea Gattinoni, Natascia Macchniz, Rosa Pianeta
PRODUCTORA Rizzoli Film / Warner Bros. Pictures
PREMIOS 2008: Premios David di Donatello: Premio David de la Juventud. 9 nominaciones
GÉNERO Comedia 

SINOPSIS Nello, un hombre de negocios milanés que ha perdido su trabajo, se ve obligado a gestionar una cooperativa de antiguos pacientes psiquiátricos que han sido trasladados tras el cierre por parte del Estado de los hospitales psiquiátricos. Nello anima a los miembros de la cooperativa a aprender un oficio para liberarse de su dependencia de las donaciones de las organizaciones benéficas, atribuyendo a cada uno un trabajo sorprendemente afín a sus habilidades. (FILMAFFINITY)


L'equilibrio tra il dramma e la comicità macchiettistica manifesta una solidità quasi miracolosa che rinnova il potere di una commedia all'italiana mai come in questo caso esplicitamente "umanistica". Con intelligenza metaforica ambientato nella Milano dei primi anni '80, contesto storico-geografico fondamentale per comprendere la deriva esistenzialistica e culturale dell'Italia contemporanea, il film di Manfredonia è forse l'esempio migliore di fiction sociale da molti anni a questa parte

Intelligentemente - quasi metaforicamente - ambientato nella Milano dei primi anni '80, contesto storico-geografico fondamentale per comprendere la deriva esistenzialistica e culturale dell'Italia contemporanea, Si può fare si ispira al fenomeno delle cooperative di ex pazienti di ospedali psichiatrici nate dopo l'entrata in vigore della legge Basaglia. Nello (Claudio Bisio) dopo alcuni dissidi nel sindacato viene incaricato di gestire la Cooperativa 180, composta da undici pazienti da poco dimessi da un istituto. Dopo iniziali incomprensioni l'uomo riuscirà, grazie anche al basagliano Dottor Furlan (Giuseppe Battiston), a diminuire l'assunzione di medicinali e coinvolgere i suoi  soci nella realizzazione di un'attività lavorativa che ben presto si rivelerà redditizia.
L'equilibrio tra il dramma e la comicità macchiettistica manifesta una solidità quasi miracolosa che rinnova il potere di una commedia all'italiana mai come in questo caso esplicitamente "umanistica". Manfredonia è un regista che alla sua terza pellicola - senza dubbio la più matura e riuscita - dimostra di avere tutte le carte in regola per rinnovare un discorso cinematografico e narrativo di grande spessore emotivo ed analitico: si veda la magnifica sequenza di raccordo con le scarpe rosse di Gigio a suggerire l'evento tragico o i primi concitati minuti sulle incomprensioni ideologiche subite dal sindacalista Nello, memorabili per sintesi ed efficacia. In Manfredonia, infatti, non c'è mai la tentazione di abbracciare il documentarismo, ma anzi Si può fare è forse l'esempio migliore di fiction sociale da molti anni a questa parte: un lavoro umile di artigianato e recitazione. Merito anche dei bravissimi interpreti professionisti che interpretano gli undici "malati", protagonisti di una immedesimazione ammirevole che ben si sposa alla naturalezza dei già quasi veterani Bisio, Caprioli e Battiston.
http://www.sentieriselvaggi.it/215/29552/Si_puo_fare,_di_Giulio_Manfredonia.htm

Ispirato a una storia vera, Si puo' fare e' diretto da Giulio Manfredonia, che, assieme a Fabio Bonifacci, firma anche la sceneggiatura.
Se all'inizio temevo che nel film Bisio fosse troppo 'Bisio' e invadesse con la sua presenza il film, mi sbagliavo, lui convince dall'inizio alla fine, e cosi' gli altri attori.
La storia comincia con una piccola introduzione affidata a una veloce voce di narratore sulle ragioni che portano nei primi anni ottanta il Partito (Comunista) ad affidare al protagonista la dirigenza di una cooperativa sociale; si tratta di piazzare da qualche parte un sindacalista 'a destra', scomodo, che crede troppo in una crescita del paese affidata anche al benessere procurato dalla produzione industriale.
Siamo negli anni ottanta, esattamente poco prima della morte di Berlinguer; chi conosce le dinamiche della vecchia e della nuova sinistra non fa fatica a inquadrare la vicenda nel conflitto perenne fra le forze rosse conservatrici e quelle moderate.
Non e' (certo) casuale la proposta di un film del genere nel clima politico-sociale dell'Italia di adesso, spaccata e indebolita da una vecchia sinistra lenta, povera di contenuti e di proposte, poco dinamica, e da una nuova destra priva di basi culturali
iperdinamica, euforica e occupata, soprattutto mentre governa, ad aumentare senza alcuna esitazione il divario fra ricchi e poveri senza dare attenzione al disagio sociale di qualsiasi tipo.
A un certo punto del film ci si chiede se puo' essere cosi' facile, coordinare un drappello di persone con problemi psichici anche gravi e farle lavorare insieme.
Il regista affronta di petto la questione Legge Basaglia e sue conseguenze nel concreto, mostrando problematiche tremende come la pericolosita' dell'affido ai familiari dei malati, ma anche la loro condizione di solitudine nel caso contrario; mette l'accento sulla questione delle dosi e degli effetti collaterali dei farmaci che assumono; sul problema rimosso della vita sessuale degli affetti da patologie psichiche; sui potenziali successi e limiti di una politica d'inserimento nella societa'.
Bisio, ex-sindacalista e quindi privo di griglie di pensiero legate al contesto psichiatrico, con uno sguardo nuovo ed eversivo, crea un modello di cooperativa che fara' storia, come si sa.
Tutto questo e' trattato con uno stile originale, con un ritmo veloce e vivace, come se chi propone questo film volesse mostrare tutto il lato umano della questione, visto che di dibattiti accademici e di saggi noiosi (e improduttivi nel concreto) sul tema se ne ha abbastanza.
Anche il teatro di ricerca ha sempre battuto queste strade per parlare delle problematiche della 180 e tentare di abbattere il muro reale e altissimo fra mondo 'dei matti' e mondo 'dei normali'.
Un film anche molto commovente, senza retorica, che ricorda per questo Le fate ignoranti.
http://testiappuntinote.blogs.it/2008/12/04/si-puo-fare-di-giulio-manfredonia-5160732/ 

viernes, 18 de mayo de 2012

EXTRA: Escultura > La vida privada de las obras maestras - El David (2001)


TITULO ORIGINAL The private life of a masterpiece
CAPITULO Michelangelo: David
AÑO 2001
IDIOMA Español (Sobre original inglés)
PRODUCTOR Y DIRECTOR Paul Islwyn Thomas
PRODUCCION BBC


Resumen
Las obras maestras más conocidas del mundo nos resultan familiares, pero a su vez profundamente misteriosas. ¿Qué ha llevado a estas imágenes a ser tan populares, y cómo fue que llegaron a existir? La Vida Privada de las Obras Maestras responde a estas cuestiones al develar los secretos de las obras de arte fundamentales de la historia. A partir de una profunda investigación y reuniendo toda la información disponible, esta serie examina cada trabajo desde su concepción hasta su forma final, relata los detalles de cómo fueron encargadas e ideadas, ahonda en la preparación del artista, el modo en el que el trabajo fue llevado a cabo, y analiza cómo fue recibida la obra terminada por el público de su época, y su influencia sobre otros artistas.
http://www.filmandarts.tv/Peliculas.aspx?Pelicula=qN7K9HLBG7QQI1
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“Como David ha defendido a su pueblo, así quien gobierna Florencia debe justamente defenderla y gobernarla con justicia “.

La intensa y penetrante mirada, la fuerza expresiva que emana del rostro del David es, junto con la escultura del Moisés, realizada posteriormente, el mejor ejemplo de la terribilitá. La escultura describe a David en el momento en que se prepara para lanzar la piedra para herir a Goliat en la frente.
El David es una de las obras más célebres del genio Miguel Angel, cumbre de la escultura renacentista y se puede visitar hoy en día en la Galería de la Accademia de Florencia. En su día se consideró símbolo de la grandeza de la república de Florencia.
Terminada en 1504 se situó durante varios siglos frente al Palazzo Vecchio hasta que en el siglo XIX fue retirada de la intemperie y sustituida por una copia que hoy todavía adorna la plaza de la Signoria.
La escultura representa al David bíblico a punto de enfrentarse a Goliat. Mide algo más de 5 metros de alto y es considerado por algunos críticos de arte como el objeto más bello creado por el hombre. Se trata de un estudio anatómico perfecto que representa la belleza masculina juvenil. Los especialistas consideran que esta escultura es perfecta en el sentido de las proporciones ideales del hombre, pues la cabeza representa un octavo del resto del cuerpo y el conjunto de la escultura mantiene el equilibrio total.
http://topenlacesblog.blogspot.com.ar/2010/05/la-vida-privada-de-una-obra-maestra-bbc.html


 

Fratello sole sorella luna - Franco Zeffirelli (1972)


TÍTULO ORIGINAL Fratello Sole, sorella Luna
AÑO 1972
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 121 min.
DIRECTOR Franco Zeffirelli
GUIÓN Suso Cecchi d'Amico, Kenneth Ross
MÚSICA Ken Thorne
FOTOGRAFÍA Ennio Guarnieri
REPARTO Graham Faulkner, Judi Bowker, Leigh Lawson, Kenneth Cranham, Lee Montague, Valentina Cortese, Alec Guinness, Michael Feast, Nicholas Willatt, John Sharp, Adolfo Celi, Francesco Guerrieri
PRODUCTORA Coproducción Italia-GB
PREMIOS 1973: Nominada al Oscar: Mejor dirección artística
GÉNERO Drama | Religión. Biográfico. Siglo XIII. Edad Media

SINOPSIS A pesar de ser hijo de unos ricos mercaderes, Francisco de Asís renuncia a todas sus posesiones y a su acomodada vida para dedicarla al servicio de Dios y de los más pobres. (FILMAFFINITY)


Quanto vi sia di storicamente plausibile nel fare di Francesco, vissuto in tempi tanto diversi dai nostri, un contestatore della società basata sul profitto e suoi piaceri terreni, e quanto questo derivi dai soprassalti d’un generico spiritualismo che propone esempi irripetibili, ogni spettatore giudicherà secondo le proprie sensibili antenne. Sta di fatto che il film, per la sua celebrazione di valori caduti in desuetudine e per di più resi sospetti dall’essere stati fatti propri da gruppi di hippies giudicati poco meno che sovversivi, è destinato a fertili dibattiti. Ad esempio, nella misura in cui, pur essendo un prodotto della ricca industria dello spettacolo, giova alla campagna ecologica è un utile strumento di propaganda. D’altronde merita grande attenzione anche per le eleganze figurative con cui Zeffirelli, reduce dai film scespiriani, si inventa un’immagine cattivante di Francesco, lo colloca in una suggestiva cornice ambientale, e cerca di esprimerne il travagliato trapasso dai gaudi mondani ai trionfi dell’anima. Fratello sole, sorella luna non è infatti una biografia del Santo, bensì un rapido ritratto del figlio del ricco mercante Bernardone, dai mesi ribaldi in cui il play-boy si dedicava alle armi e agli amori ai giorni in cui, schieratosi coi derelitti, si ribellò al padre e, per conquistare la vita eterna, andò a vivere in povertà.
Molto opportunamente Zeffirelli ha fatto risalire tale scelta a un trauma psico-fisico, conseguente a una guerra sfortunata fra Assisi e Perugia. Questo dà alla personalità di Francesco un colore di dolce follia, di rapimento nel sublime, che lo accompagna per tutti gli anni restanti, fin quando, dopo aver convertito con l’esempio i suoi compagni di bagordi, stupito dell’avversione mostratagli dal suo vescovo, Francesco va a Roma da Innocenzo III. L’udienza papale non è soltanto la scena in cui la sapienza scenografica di Zeffirelli esulta: è anche quella che riepiloga la morale del film. Per avere  predicato il Vangelo alla corte papale, Francesco viene infatti cacciato dalla sala del trono, e arrestato; subito dopo, però, è richiamato da Innocenzo, che quasi illuminato dallo Spirito Santo lo ringrazia e, fra lo scandalo dei dignitari, gli bacia i piedi. Quando un cardinale intuisce l’uso che la Chiesa può fare di lui («servirà a riportare a noi i poveri»), il suo destino è segnato: accolto nel sistema, Francesco sarà, come ogni contestatore che ha chiesto e ottenuto un certificato di buona condotta, un alibi del sistema. Anche una carica dinamitarda? È quanto appunto resta da sapere.
Giovanni Grazzini, Gli anni Settanta in cento film, Laterza, Bari 1976, pp. 148-149.
http://www.nelsegnodifrancesco.com/2011/07/fratello-sole-sorella-luna/

“Fratello Sole, sorella Luna”, è stato realizzato nel 1972 ad opera del regista cinematografico e teatrale Franco Zeffirelli, la cui grandezza è stata sottolineata da numerosi riconoscimenti, uno fra questi il David di Donatello come miglior regista per il medesimo film.
Nella pellicola, di genere drammatico, troviamo una poetica rievocazione della vita di Francesco, viziato figlio di un ricco mercante, che parte per una crociata con i suoi amici; torna dalla guerra e dalla sofferta prigionia di Perugia, gravemente malato.
Dopo la guarigione, scopre l’amore di Dio nella natura e nel prossimo, si spoglia dei suoi averi ed inizia a riedificare la piccola chiesetta di san Damiano.
Attorno a lui si riuniscono alcuni compagni della “vita precedente”, assieme alla giovane Chiara: nasce così una vivace comunità monastica.
I frati predicano la parola di Dio, vivendo in povertà, tuttavia non mancano contrasti da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche di Assisi che, non vedendo di buon occhio l’esperimento francescano, inviano le guardie a chiudere la chiesetta di san Damiano.
Francesco si reca quindi a Roma dal papa. Le sue semplici parole commuovono Innocenzo III che, compresa la profonda spiritualità del nuovo movimento religioso, concede infine la sua approvazione, e non solo: bacia i suoi piedi suscitando la sorpresa e la perplessità della comunità clericale.
Film molto valido, curato nel dettaglio, dal soggetto alla sceneggiatura, assistita dallo stesso Zeffirelli, dal trucco e dai costumi, perfettamente conformi all’epoca , alle scenografie, contraddistinte dai suggestivi panorami e dalla buona scelta del mobilio.
Un aspetto che subito colpisce nel contesto poetico e quasi fiabesco di alcune scene, è la colonna sonora, in particolare il testo omonimo al film, scritto da Ortolani e cantato da Baglioni.
Le sfaccettature di questo film edificante, sono molteplici, ma senza dubbio l’insegnamento più nobile e pregevole che può trasmettere allo spettatore è quello di educare alla pace, o perlomeno, di rievocare alla memoria quell’universo parallelo “popolato” da legami spirituali che provengono da virtù diverse tra loro, ma che possono accomunare tutti gli esseri viventi, facendoli sentire tutti Figli dello stesso Padre, anziché dividerli per conto della guerra.
La pace, infatti, non conosce confini e non si ferma davanti a credenti, come san Francesco e il suo ordine, e non credenti, come gli oppositori dei protagonisti, ma li può al contrario unire in uno stesso destino di convivenza e di rispetto pacifico e reciproco, lo stesso che san Francesco mostrava nei confronti dei suoi fratelli e delle sue sorelle.
http://win.donboscotaranto.it/public/donboscotaranto/default.asp?cont=wwwistituto/giornalino/giornalino_cineforum2.asp&menuup=&menusx=wwwistituto/istituto_menu_sx.asp&menudx=wwwistituto/giornalino/giornalino_menu_dx.asp