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viernes, 30 de noviembre de 2012

Le avventure di Pinocchio - Luigi Comencini (1972)


TÍTULO ORIGINAL Le avventure di Pinocchio
AÑO 1972
IDIOMA Italiano e Inglés (Pistas separadas)
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN 134 min.
DIRECTOR Luigi Comencini
GUIÓN Luigi Comencini, Suso Cecchi D'Amico (Novela: Carlo Collodi)
MÚSICA Fiorenzo Carpi
FOTOGRAFÍA Armando Nannuzzi
REPARTO Nino Manfredi, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Andrea Balestri, Mario Adorf, Ugo D'Alessio, Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-Alemania del Oeste; Bavaria Film TV / International Film Company / ORTF / Radiotelevisione Italiana / San Paolo Films
GÉNERO Fantástico. Aventuras. Infantil | Familia. Miniserie de TV

SINOPSIS Adaptación televisiva del cuento de Pinocho. En un pueblo de la Toscana en el siglo XIX, un pobre carpintero llamado Geppetto construye un títere al que llama Pinocho. Pronto ésta empieza a moverse y hablar por su cuenta. La noche siguiente, un hada se aparece a Pinocho y le promete que algún día podrá ser un niño de carne y hueso. Para su estreno en cines se redujo el montaje a 134 minutos. (FILMAFFINITY)




Trama
Il falegname Geppetto costruisce un burattino di legno, Pinocchio, che una Fata tramuta subito in bambino, promettendogli che tale rimarrà se si manterrà buono. Ma Pinocchio ha un carattere vivace e ribelle: dopo averne combinate di tutti i colori, per punirlo, la Fata lo fa tornare di legno. Le trasformazioni si susseguono sul ritmo delle birichinate compiute da Pinocchio che alla fine viene ingoiato dal Pescecane. Qui trova Geppetto e insieme fuggono da quella insolita prigione per tornare alla vita normale.

Curiosita
Il burattino Pinocchio è stato ideato e realizzato, per la parte meccanica, da un'equipe di tecnici dell'officina 'Latina Sud' specializzata in apparecchiature areonautiche di precisione. Il burattino ha un metro e venti di altezza, 30 fili di acciaio per un totale di 240 metri e 210 pezzi meccanici (pulegge, leve, staffe, tiranti, bielle, molle di richiamo e un telaio di ottone). E' guidato a distanza da quattro animatori che ne provocano i movimenti attraverso un sistema di leve e fili direttamente collegati ai meccanismi interni del burattino.
La maggiore difficoltà incontrata, avendo preso come modello il Pinocchio delle illustrazioni del Chiostri (burattino con gambe e braccia particolarmente esili), è stata la parte dei meccanismi miniaturizzati da inserire negli arti di dimensioni estremamente ridotti, meno di tre centimetri di diametro. La sola parte della meccanica ha richiesto sei mesi di studio e progetti.
Il costo del burattino ha superato i centomila euro di oggi.
Mentre tutto il film, oltre 100.000 metri di pellicola, è costato più di un miliardo di lire, ben oltre gli otto milioni di euro attuali. E' stato visto praticamente in tutto il mondo, Cina, Corea e Cuba comprese.
http://dduniverse.net/ita/viewtopic.php?f=99&t=3588205
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ROMA - Un eroe della libertà, disponibile ad ogni richiamo della fantasia e dell'avventura, in barba alle lezioni dei moralisti. E soprattutto, un bambino in carne ed ossa. E' questa differenza fondamentale, rispetto all'originale letterario, che fa de Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini un caso a parte nella storia delle trasposizioni del romanzo di Collodi. E uno sceneggiato indimenticabile.
Le avventure di Pinocchio torna in tv (su RaiTre, dal 24 al 28 dicembre, alle 10.55) a trent'anni di distanza dal debutto: la prima puntata fu trasmessa l'8 aprile del 1972, e sembra quasi un tributo nei confronti di un pezzo importante della storia della tv. E anche di un cast che resta memorabile: Nino Manfredi nei panni di Geppetto, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia in quelli del Gatto e la Volpe, Gina Lollobrigida Fata Turchina e un cameo di Vittorio De Sica nelle vesti del giudice. E poi, naturalmente, il piccolo Andrea Balestri nel ruolo di Pinocchio.
La vicenda, è quella arcinota. Il poverissimo falegname Geppetto che vive in una stamberga, tanto povero che il fuoco per riscaldarsi ce l'ha disegnato su una parete. E un bel giorno chiede al vicino Mastro Ciliegia un pezzo di legno per costruire un burattino che gli tenga compagnia ("per sentirmi meno solo / mi son fatto un burattino / per avere l'illusione d'esser padre d'un bambino" canta Nino Manfredi in una delle canzoni del film). Grande è la sua meraviglia quando al termine dell'opera, la scultura inizia a parlare. E ancor più grande la sorpresa quando, al suo risveglio, Mastro Geppetto si ritrova davanti non più il burattino ma un bambino in carne ed ossa.
La trasposizione televisiva si discosta solo in questo aspetto dall'opera letteraria. Nel libro, il burattino diventa bambino solo alla fine della storia, mentre nello sceneggiato è il bambino a recitare il ruolo principale. Solo in tre momenti Pinocchio diventa burattino. In virtù di un "principio repressivo", visto che si trasforma ogni volta che non si comporta a modo.
Per il resto, grande fedeltà alle atmosfere e ai personaggi descritti da Collodi. Niente a che fare, ad esempio, con l'ambientazione di stampo nordeuropeo del film d'animazione di Walt Disney, piuttosto immagini suggestive del paesino in cui è ambientata la prima puntata, della casetta di Geppetto, del Paese dei Balocchi, della principesca dimora della Fata Turchina sul lago. Il tutto accompagnato dalle musiche di Fiorenzo Carpi, ancora vive nella testa di un'intera generazione.
Ma la presenza di un bimbo in carne ed ossa rappresentò anche una piccola rivoluzione, oltre che una felice soluzione, per chi scrisse lo sceneggiato. Lo racconta, con una certa nostalgia, Suso Cecchi D'Amico, che con lo stesso Comencini firmò la sceneggiatura de Le avventure.
"L'intenzione era quella di fare un film esclusivamente con il burattino - dice Suso Cecchi D'Amico -, la nostra idea di Pinocchio, all'epoca, non concepiva una rappresentazione alternativa del protagonista. Facemmo vari provini con il pupazzo, ma alla fine ci rendemmo conto che non era possibile girare con lui. Abbiamo sbagliato, ci dicemmo, non ne facciamo niente. E accantonammo il progetto".
"Ma una mattina - continua la sceneggiatrice - Comencini venne a trovarmi e disse: ho una grande idea, lo facciamo con un bambino. Io fui un po' perplessa, poi ci pensai, cercammo il protagonista, e trovammo Balestri, delizioso. E ci sembrò una grande libertà poter girare un film su un burattino usando un bambino vero. Sono ancora molto legata a quel film, forse proprio perché ebbe una realizzazione così travagliata. Ma anche perché decidemmo di privilegiare la figura di Geppetto, a differenza, ad esempio, del Pinocchio di Benigni, dove il burattino è protagonista assoluto. Noi volevamo evidenziare il rapporto padre-figlio, e Nino Manfredi centrò in pieno quell'esigenza, un vecchio padre iroso e rassegnato, ma che vive un amore sconfinato per il su' figliolo".
Lo sceneggiato, all'epoca della messa in onda, riscosse un enorme successo: ciascuna delle cinque puntate fu seguita, in media, da 16 milioni e mezzo di telespettatori. Oggi, sarà più difficile, intanto perché la fascia scelta da RaiTre, le 10.50, non è particolarmente felice. E poi perché il film viaggia su ritmi completamente diversi rispetto a trent'anni fa.
"Il rischio - osserva Suso Cecchi D'Amico - è che al pubblico di oggi appaia un po' lento. Siamo abituati a film che hanno i ritmi d'azione anche senza esserlo, è tutto velocizzato, perfino i telegiornali, e alcune scelte di stile fatte all'epoca potrebbero essere fraintese. Basta pensare, ad esempio, alle corse di Pinocchio lungo le strade di campagna: oggi si taglierebbe la scena, nel film invece la si seguiva tutta, con compiacimento. Comunque, ha tanti pregi, è stato realizzato come per il cinema: grande qualità, moltissimi esterni, dettagli ricercati. Non può non affascinare".
Alessandra Vitali
(23 dicembre 2002)
http://www.repubblica.it/online/spettacoli_e_cultura/benigni/comencini/comencini.html
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Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1880 - 83) di Carlo Collodi è uno dei romanzi per ragazzi più famosi di tutti i tempi.  Merito del cartone animato Disney, certo, che modifica la storia originale, introduce una balena al posto del pescecane ma rende la storia universale. Merito anche dello sceneggiato televisivo di Luigi Comencini, un vero esperto del cinema per ragazzi, 280’ di narrazione per immagini divise in cinque puntate (320’ nell’edizione francese), ridotte a poco meno di 120’ nella versione cinematografica. Un lavoro ben fotografato da Armando Nannuzzi, che gode di una colonna sonora indimenticabile scritta da Fiorenzo Carpi, di una scenografia curata nei minimi particolari da Piero Gherardi e di alcune marionette d’epoca ideate dai fratelli Colla.
Il Pinocchio di Luigi Comencini e Suso Cecchi d’Amico è una rilettura cinematografica dell’opera di Collodi che cade in alcune contraddizioni, ma resta un lavoro di fondamentale importanza per la conoscenza di un’opera letteraria immortale. Pinocchio viene subito trasformato in ragazzino dalla Fata Turchina - che sarebbe la moglie morta di Geppetto - ma torna burattino ogni volta che commette una marachella. Il Gatto e La Volpe sono due loschi figuri che lavorano per Mangiafoco, ma cercano di truffare Pinocchio solo dopo aver perso il lavoro.  Pinocchio viene sequestrato da Mangiafoco con il suo carrozzone reo di aver interrotto la recita. La sequenza dei medici è completamente diversa dal libro: sono soltanto due e disquisiscono sulla possibilità di far ritornare Pinocchio nei panni di un bambino. L’incontro con Lucignolo e il furto delle frittelle da un bancone sono aggiunte di sceneggiatura, così come non è scritta nel libro la parte (ottima!) in cui Geppetto cuoce una povera schiacciata fatta d rosmarino, acqua e briciole di pane. Il Paese della Cuccagna è rappresentato come un grande Luna Park ed è ben diverso dalla storia pensata da Collodi. Il pescecane e il tonno sono due pupazzi di gomma e va rilevato un dialogo di Geppetto: “Pescecane o balena, fa lo stesso. Questo mostro non so cosa sia”, che tende a salvare il cartone di Disney.
Il film conserva tutta la poesia del romanzo di Collodi, è girato in maniera realistica, tra le nevi e il vento dell’Appennino e il mare del litorale tirrenico. Pinocchio è un paladino della libertà, che si lascia affascinare dal richiamo dell’avventura e rifiuta le lezioni dei moralisti. Resta un film fantastico che vede Pinocchio passare da burattino a ragazzo, subire le punizioni ogni volta che sgarra dalla morale ordinaria e finire in mezzo ai guai per la sua dabbenaggine. Andrea Balestri è un eccellente interprete, naturale e spontaneo, un ragazzino pisano che non farà altro nel mondo del cinema, recitando il ruolo della sua vita. La sua interpretazione mette a fuoco il conflitto tra libertà e repressione, ma anche l’amor filiale e il valore dell’amicizia. Nino Manfredi è un credibile Geppetto, Gina Lollobrigida non piace a Morandini come Fata Turchina, ma in realtà la sua recitazione è buona, così come sono memorabili Il Gatto e La Volpe di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. I due comici aprono il film come imbonitori di Mangiafoco e ritornano in scena come assassini alla caccia di Pinocchio, suscitando le ire del pubblico più giovane che scrive lettere di protesta alla Rai. I beniamini dei bambini non possono volere la morte di Pinocchio, né tanto meno truffarlo! In realtà, Franco e Ciccio sono una perfetta coppia di imbroglioni, il primo sfoggia una risata sardonica, il secondo è un maneggione truffatore che convince Pinocchio a sotterrare le monete. Tutti e due molto bravi, senza eccedere in smorfie, costretti da una sceneggiatura precisa che non permette improvvisazioni. Tra gli altri interpreti ricordiamo un abile Lionel Stander nella parte di Mangiafoco, Mario Adorf come domatore del circo, Luigi Leoni è il maestro di Pinocchio, Zoe Incrocci nei panni di una divertente lumaca, il vecchio Riccardo Billi è il conducente del carro per il Paese della Cuccagna, Ugo D’Alessio è un perfetto Mastro Ciliegia. Pino Farinotti apprezza il film: “Comencini ha sempre guardato con intelligenza al mondo infantile, dedicandogli film e inchieste televisive: anche con questa versione del libro di Collodi, trasmessa prima a puntate dalla televisione italiana, ha avuto la mano molto felice”. Morando Morandini conferma: “Pinocchio è un eroe della libertà, anche se viene mantenuto il principio repressivo, forse ancora più forte che in Collodi. Libera lettura che comunque fa centro anche per merito degli attori, a parte Gina Lollobrigida come improbabile Fata Turchina”. Un lavoro importante, da vedere e rivedere in compagnia dei vostri figli.
http://cinetecadicaino.blogspot.com.ar/2012/04/le-avventure-di-pinocchio.html

COMENCINI RACCONTA TRE ANNI DI LAVORO (Prima Parte)
Inizio della sceneggiatura: luglio 1969. Si fanno innumerevoli sorprendenti constatazioni quando ci si pone di fronte al problema di trasformare un racconto scritto in un racconto visivo. Per esempio: quanti anni ha Pinocchio? Che altezza gli dobbiamo attribuire? Quando va a scuola sarà sempre alto almeno un metro? Ma Alidoro, il cane mastino, lo porta tra i denti e il pescatore verde lo sta per buttare in padella, che dimensioni ha? E' chiaro che il Pinocchio di Collodi cambia statura a seconda delle avventure che gli capitano. Comunque Susi Cecchi d'Amico ed io pensiamo sempre a un burattino. E così nasce il primo copione, mentre Gherardi inizia i primi sopralluoghi. Maggio 1970: prima crisi. Il burattino, ricavato da un disegno del Chiostri (l'illustratore di Pinocchio che ci sarà da guida per tutta l'ambientazione) è bellissimo quando è fermo. Non appena si muove, rivela i suoi limiti. Non riesce neppure a lanciare un martello, nè a bere un bicchiere d'acqua. Solo un bambino può fare quello che un burattino dovrebbe fare. "Le avventure di Pinocchio" è un libro scritto apparentemente per inculcare nei ragazzi il senso dell'ubbidienza e della sottomissione agli adulti, padri, fate, maestri e carabinieri. Ma la bellezza del racconto sta nelle ribellioni di Pinocchio, nella sua inestinguibile smania di vivere in prima persona. Solo un bambino, e un bambino che sia Pinocchio può dare questo senso vitale al racconto. Deve essere ciarliero e impertinente, agile e instancabile, magro e sempre affamato, rapido nell'addormentarsi, svelto nel risveglio, con una istintiva diffidenza verso ciò che gli viene insegnato e molta voglia di apprendere a proprie spese, pronto a commuoversi, e pronto a dimenticare la commozione. Lo troverò? Ad ogni modo nasce un secondo copione. La condizione di Pinocchio è la stessa, ma capovolta. Nel libro la Fata promette che, se sarà buono ed ubbidiente, un giorno diventerà bambino; nel copione la Fata lo trasforma subito in bambino ma gli promette che, se non sarà buono ed ubbidiente, lo farà tornare burattino. Inizio delle riprese: 1° aprile 1971. Località: le stalle di Farnese. Siamo nel Lazio, ma a tre chilometri c'è il vecchio edificio della dogana pontificia e inizia la Toscana. Sono di scena Geppetto e Mastro Ciliegia, Manfredi e d'Alessio. Geppetto sta dicendo: " Stamani m'è piovuta nel cervello un'idea... Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno... "Ecco che questa frase tante volte riletta prende corpo e Geppetto assume un aspetto definitivo. Così inizia la trasposizione cinematografica di un libro : come una cristallizzazione di un certo modo di vederlo. Le stalle di Farnese sono cubi di tufo a schiera, degradanti lungo una strada in discesa: forme geometriche perfette. "Nessun edificio abiðtato dall'uomo - mi ha detto Gherardi - avrebbe questa drammaticit…, questa purezza di linee". "Pinocchio" è un film drammatico. A Farnese l'aria è tersa, soffia spesso la tramontana. La nostra neve è sale industriale. Con l'acqua si scioglie e si impasta col fango. L'effetto è perfetto. Restiamo a Farnese tutto aprile. Spero sempre che il tempo sia grigio; la fotografia è più morbida, più discreta. Eppoi Geppetto deve avere sempre freddo, s'è venduto la casacca; non ha la legna per scaldarsi. Gli alberi sono ancora spogli, la campagna è bellissima. Giriamo la fuga di Pinocchio, l'arresto di Geppetto, il suo interrogatorio, la ricerca di cibo da parte di Pinocchio, la catinellata d'acqua in testa. Ogni giorno sono più soddisfatto della scelta di Andrea Balestri come interprete di Pinocchio. E' proprio Pinocchio. Infatti sento dire da molti della " troupe " che è un diavolo scatenato, che non sta mai fermo, che è maleducato, che non si comporta da bambino per bene. In realtà è molto intelligente, è molto vivace: come doveva essere. E' anche molto orgoglioso. Non piange mai nemmeno quando suo padre gli da un ceffone. Dobbiamo esaurire il primo turno delle riprese con Manfredi, che poi ha altri impegni e potrà girare solo a settembre le scene della balena; gli ultimi giorni di aprile sono dedicati all'imbarco di Geppetto per le lontane Americhe e al suo naufragio, visto da Pinocchio, arrivato troppo tardi. Località: Civitavecchia, attorno al vecchio faro. Facciamo un sopralluogo: il villaggio dei pescatori è pronto ma il mare è una tavola e splende il sole. L'indomani dobbiamo girare.

COMENCINI RACCONTA TRE ANNI DI LAVORO (Seconda Parte)
L'indomani il cielo è nuvoloso e le onde, spinte dal libeccio, scavalcano il molo. Qualcuno è stato fortunato, non so se sono io, o Manfredi (che deve partire) o la produzione. Il mare grosso dura tre giorni, il tempo delle riprese. Ai primi di maggio ci fermiamo una settimana: dobbiamo definire altri luoghi, altri interpreti per ruoli minori. Si tratta di fare una serie di sopralluoghi e di provini. Ci rimettiamo in macchina con Gherardi. Gherardi non sta mai fermo; per ogni film, benchè‚ conosca a memoria il Lazio, la Toscana e forse mezza Italia e buona parte del resto del mondo, va a rivedere i posti, a controllarli, in funzione del copione. Ci manca in particolare il "paese delle api industriose", un piccolo paese che deve essere in riva al mare e non soffocato dalle nuove costruzioni. Gherardi si ricorda improvvisamente le saline di Tarquinia. I piccoli edifici (la zona è demaniale), le abitazioni dei funzionari, il caffè sono ancora come li hanno costruiti gli ergastolani nel 1888. Perfetto. Ma Gherardi non scende più dalla macchina. Dice che fa fatica a camminare, pensa di aver contratto una malattia tropicale. Così rientriamo a Roma ed egli mi lascia completare il giro da solo, in base a vaghe indicazioni. Entra nella clinica dalla quale non uscirà più. Dal letto continua a chiedere di vedere fotografie. Vuol vedere come è riuscita la casa della Fata; gli porto le fotografie di certi cubi grigi, capannoni per asciugare il tabacco, trovati vicino a Guidonia, dove penso di fare il paese dei balocchi. Gli attori vanno in clinica a vestirsi; in una camera abbiamo allestito la sartoria. Le riprese sono ricominciate. Per quasi tre settimane mi diverto ad inventare a sviluppare un rapporto tra Pinocchio e Lucignolo, il timido e lo spregiudicato, il piccolo ed il grande, un rapporto sul quale si potrebbe costruire un intero film e che nel libro è appena adombrato. Primi di giugno: ormai il caldo e la natura rigogliosa rendono difficile la continuazione di quel clima scarno e invernale nel quale avevamo incominciato. Sono di scena la Fata (Lollobrigida), Gatto e Volpe (Franco e Ciccio), Mangiafuoco (Lionel Stander). Ogni due giorni cambiamo scena, ambiente e personaggi. La casa della Fata cambia luogo. Era stata montata a Tarquinia, ora deve apparire sulla riva del lago di Martignano, poi, scomparire di nuovo per far posto alla tomba della Fatina. Mi rendo conto solo mentre giro di quanti siano numerosi gli interventi miracolosi, le trasformazioni fiabesche. Per me Pinocchio è sempre stato un racconto realistico. E anche ora, quando c'è da far sparire una casa o trasformare un bambino in burattino rinuncio a qualsiasi trucco o effetto speciale: accadono fatti irreali che debbono essere per lo spettatore credibili come fatti normali. Ormai Andrea è diventato un vero professionista: sa tutto di come avvengono le riprese; che il sonoro è su banda magnetica, che la pellicola va sviluppata, s'accorge quando non è stato bene attento ai segni e quindi la scena va rifatta. Appena finita un'inquadratura scappa, o nel lago a fare un bagno, o su un albero o a giocare con qualche animale. E studia anche un poco, col maestro che lo accompagna. Una sera lo porto in proiezione : è la prima volta. Penso che gli faccia un grande effetto vedersi sullo schermo. Quando si riaccendono le luci lo trovo addormentato. Però dice che ne ha visto abbastanza per accorgersi che i suoi capelli sono davvero troppo lunghi e che se li deve tagliare. (L'avevo portato in proiezione un po' anche per questo: era una lotta ogni volta che i capelli gli erano cresciuti farglieli accorciare). E' un bambino perfetto. Scatenato tutto il giorno, appena fa buio, si addormenta come un animaletto. Difficilissimo girare con lui di notte. Se, tra una inquadratura e l'altra si addormenta, sono guai. Il padre manda sempre me a svegliarlo. Prima mi accoglie con qualche parolaccia, poi si stropiccia gli occhi e mi segue. E' molto amico di Franco e Ciccio. La notte che giriamo l'incontro con gli assassini è molto stanco. Appena ho finito un'inquadratura, Franco e Ciccio lo distraggono con giochetti vari, lo fanno ridere, per tenerlo sveglio sino alla prossima. E lui ci sta finchè‚ scopre il trucco. Capito l'inganno si arrabbia e va a dormire. Deve girare ancora una sola inquadratura: quella dell'oste che lo viene a svegliare. Lo posiamo così com'è, addormentato, sul tavolo dell'osteria, e giriamo un risveglio vero: l'effetto è perfetto.


jueves, 29 de noviembre de 2012

Gelosia - Pietro Germi (1953)


TÍTULO ORIGINAL Gelosia
AÑO 1953
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN 86 min.
DIRECTOR Pietro Germi
ARGUMENTO De la novela "Il Marchese Roccaverdina" de Luigi Capuana (1901)
GUIÓN Sergio Amidei, Giuseppe Berto, Pietro Germi, Giuseppe Mangione
MÚSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Leonida Barboni (B&W)
REPARTO Marisa Belli, Erno Crisa, Alessandro Fersen, Liliana Gerace, Vincenzo Musolino, Grazia Spadaro, Maresa Gallo, Gustavo De Nardo, Amedeo Trilli, Loriana Varoli, Gustavo Serena, Giovanni Martella, Assunta Radico, Pasquale Martino, Paola Borboni
PRODUCTORA Excelsa Film
GÉNERO Drama | Melodrama

SINOPSIS Rocco y Agrippina acaban de casarse. Cuando se dirigen a su casa en el campo, suena un disparo y él cae muerto. Un inocente es condenado por este crimen. El verdadero asesino, el Marqués de Roccaverdina, se confiesa al padre Silvio: los celos le habían enloquecido. (FILMAFFINITY)




Trama
Il marchese di Roccaverdina, invaghitosi di una contadinella, Agrippina Solmi, l'accoglie nel suo palazzo e ne fa la sua amante. Punto dalle critiche dei nobili, egli tenta d'educare la sua amante, facendole assumere modi signorili; ma ben presto s'accorge della vanità del tentativo. Poiché egli è sempre follemente innamorato d'Agrippina, decide di farle sposare, pro forma, il suo fattore Rocco: il matrimonio però non dovrà essere consumato. Ma il giorno delle nozze, il sospetto che Rocco non tenga fede ai patti, l'induce ad ucciderlo proditoriamente. Quando un innocente, Neli Casaccio, viene condannato per il suo delitto, il marchese, tormentato dal rimorso, cerca sollievo nella confessione; ma poiché lo sciagurato non è disposto ad assumere la propria responsabilità, il sacerdote non può assolverlo. Oppresso dal rimorso, il marchese si ammala: lo cura con devozione Zosima, la bionda cugina, che i parenti vorrebbero fargli sposare. Rimessosi in salute, egli la sposa; ma poco dopo riallaccia la relazione con Agrippina. Intanto Neli Casaccio evade dal carcere e, per il mancato intervento del marchese, viene ucciso dai carabinieri. Il marchese impazzisce e muore, confortato da Agrippina.
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=4418
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Fenomenale esperimento di Germi tra i meno noti.
Nella fase dei film di genere, dunque prima di Il Ferroviere (punto di svolta per la sua carriera per l'evoluzione artistica) si situa questo curiosissimo western-noir ambientato nel sud Italia.
E' una storia di genere non dissimile nei tratti e nello stile da La Città Si Difende o In Nome Della Legge (con cui condivide ambientazione e alcuni temi ma non il genere), asciutta popolare e molto secca a livello di intreccio ma complicatissima dal punto di vista della resa.
La matrice fondamentale è di tipo noir, poichè le figura coinvolte sono al limite della legalità e la molla di tutto è una passione carnale e violenta che porta un uomo retto e nobile verso la follia e la disperazione nonchè l'omicidio, ma poi la messa in scena e la scelte estetiche ricordano tantissimo il western classico di stampo messicano (data la geografia dei luoghi, gli abbigliamenti e la natura coinvolta).
Non mancano certamente gli accenni ai temi più cari a Germi (su tutti l'ottusità meridionale, l'arretratezza morale e la vita al limite della legalità come regola) che poi saranno ripresi nei film più famosi con anche più ironia. Qui invece di ironia non c'è traccia, Gelosia è un dramma della passione che non si vergogna in alcuni punti di mirare ad una messa in scena un po' barocca (le parti con il crocefisso) per premere sull'acceleratore e riesce a traslare le figure fondamentali del noir come la femme fatale, tipiche della modernità e del vivere urbano in un contesto lontanissimo dalla modernità.
Un bellissimo esempio di racconto semplice ed esile in apparenza ma complesso e stratificato nell'essenza.
Gabriele Niola
http://pellicolerovinate.blogosfere.it/2007/09/gelosia-1953-di-pietro-germi.html

Tra i film di Pietro Germi Gelosia è stato sicuramente uno dei titoli più bistrattati, vittima all’epoca di un feroce attacco da parte della critica militante, incapace di uscire dai limiti dell’impostazione ideologica e dalla cieca esaltazione di un neorealismo che tutto poteva essere fuorché un facile marchio di appartenenza. Certo, poteva sembrare una provocazione. Il marchese di Roccaverdina, il romanzo di Luigi Capuana, da cui già era stato tratto nel 1942 Gelosia di Ferdinando Maria Poggioli, poteva benissimo prestarsi a una lettura ideologica e realista. La Sicilia rurale, i rapporti tra l’aristocrazia terriera e i contadini, prepotenza e vessazione da una parte, condiscendenza e servilismo dall’altra, la patologia come cifra della decadenza del ceto dominante. Un bel drammone a sfondo sociale e via...senza tener conto del fatto che già Capuana aveva in qualche modo preso le distanze dal verismo di cui era stato strenuo sostenitore e ideologo. Germi l’“americano”, invece, insegue la sua personale idea di cinema e la sua intuizione, ben sapendo che la follia e l’allucinazione del racconto, la percezione distorta della realtà, siano in realtà elementi chiave del noir. Perché, quindi, non provare a rileggere Capuana secondo le strutture del cinema di genere? Così se la storia conserva tutte le sue valenze melodrammatiche nella passione morbosa tra il marchese (Erno Crisa) e la serva Agrippina Solmo (la magnifica Marisa Belli), il discorso segue altre strade, a partire dall’uso di uno dei più tipici stilemi noir, che tradisce in parte la struttura narrativa del romanzo: un flashback che, sebbene invisibilmente legato ai ricordi del marchese, ridefinisce le coordinate del racconto secondo prospettive più ambigue e inquiete. E ancora, quelle luci e quelle ombre alla Lang, a creare un contrasto di simboli, di pulsioni e forze in tensione. E poi, con un altro scarto rispetto al romanzo, un conflitto a fuoco fatale, che dà la morte a un uomo vittima di un destino che non può dominare. Una sfida all’O.K. Corral, nodo cruciale, punto di convergenza in cui confluisce l’altro sentiero nascosto del film, quel western degli spazi aperti (caos) di una Sicilia bruciata dal sole e impazzita di luce...Tutti sintomi di una modernità stilistica, nervosa forse, ma comunque necessaria per un film che altrimenti sarebbe morto di stereotipi già da tempo.   
http://www.sentieriselvaggi.it/articolo.asp?sez0=2&sez1=16&art=25484

miércoles, 28 de noviembre de 2012

Cesare deve morire - Paolo e Vittorio Taviani (2012)


TÍTULO ORIGINAL Cesare deve morire (Caesar Must Die)
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN 76 min. 
DIRECTOR Paolo Taviani, Vittorio Taviani
GUIÓN Paolo Taviani, Vittorio Taviani (Historia: William Shakespeare)
MÚSICA Giuliano Taviani, Carmelo Travia
FOTOGRAFÍA Simone Zampagni
REPARTO Fabio Cavalli, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vincenzo Gallo, Rosario Majorana, Francesco De Masi, Gennaro Solito, Vittorio Parrella, Pasquale Crapetti, Francesco Carusone, Fabio Rizzuto, Fabio Cavalli, Maurilio Giaffreda
PRODUCTORA Kaos Cinematografica / Rai Cinema / Stemal Entertainment / Le Talee
PREMIOS
2012: Festival de Berlín: Oso de Oro mejor película
2011: 5 Premios David di Donatello, incluyendo mejor película y director. 8 Nominaciones
GÉNERO Drama | Teatro. Drama carcelario 

SINOPSIS Cesare deve morire es una docuficción sobre talleres teatrales que lleva a cabo en la cárcel de Rebibbia, en Roma, el director Fabio Cavalli, autor de versiones de clásicos de Shakespeare interpretados por los reclusos. La película da cuenta tanto de los ensayos y de la representación final de Julio César como de las vidas de los prisioneros. “Plantearemos el contraste entre la libertad absoluta del actor y las ataduras de quien vive en una celda”, declaró Paolo Taviani poco antes de iniciar el rodaje. (FILMAFFINITY)




Paolo y Victorio Taviani: El cine como acto de pureza (pdf)

Critica
"La coppia di registi pisani, è stato notato, pareva adagiata da decenni, su un cinema piuttosto accademico, mentre 'Cesare deve morire' (...) è indubbiamente uno dei loro lavori più sperimentali e curiosi. I due fratelli ultraottantenni si sono imbarcati in un film piccolo e agile. Non hanno solo ripreso le prove e la messa in scena di un 'Giulio Cesare' di Shakespeare con i detenuti di Rebibbia, ma hanno contaminato realtà e finzione, rielaborando le reazioni degli «attori» davanti all'arte, sfruttando l'energia e il transfert di queste vite nel dramma. Il successo di critica (italiana) e la vittoria a Berlino ci dicono forse un paio di cose, sul cinema italiano e non solo. La prima riguarda la possibilità e la necessità di un cinema «leggero». I Taviani hanno intuito che una delle poche vie praticabili, oggi in Italia, sono le produzioni poco ingombranti, che permettano un confronto con la vita senza subire i contraccolpi di una realtà produttiva sempre più in crisi. (...) Che, nel film dei Taviani, le battute di Shakespeare in bocca a condannati per associazione mafiosa o spaccio suonino credibili, ci conferma che le tragedie moderne sembrano stare di casa più tra sottoproletarie marginali che in ambienti piccolo o alto-borghesi (...). Dopo tutto, in un altro carcere, a Volterra, un grande teatrante visionario come Armando Punzo crea da oltre vent'anni spettacoli belli e importanti mettendo in scena proprio questo dualismo. Una realtà che contraddice Aristotele quando sosteneva che la tragedia, diversamente dalla commedia, deve raccontare persone 'migliori di noi'." (Emiliano Morreale, 'Venerdì di Repubblica', 2 marzo 2012)

"I Taviani e il teatro di Shakespeare. Trasformato in cinema - in un grande cinema - con la trovata geniale di far rappresentare uno dei suoi drammi più celebri, il 'Giulio Cesare', da detenuti di un carcere romano, quello di Rebibbia. Si comincia a colori. Con la ricerca fra i detenuti di quelli che potrebbero recitare in uno spettacolo che dovrà svolgersi tra le mura del carcere. Poi, in uno splendido bianco e nero esaltato dal digitale, inizia il dramma. Con i suoi interpreti che, scortati, lasciano le loro celle per partecipare alle prime prove in un palcoscenico improvvisato: le parti imparate a memoria, le battute dei primi atti, con un'altra splendida trovata, quella di lasciare che i singoli 'attori' si esprimano nei loro dialetti d'origine, in maggioranza meridionali, non solo non sminuendo quel testo quasi sacro ma, anzi, dotandolo di una vitalità e di sapori di cronaca dal vero di cui doveva far sfoggio quasi soltanto quando si recitava al Globe Theatre nell'inglese del Seicento. Allo snodarsi di fronte a noi della vicenda raccontata da Shakespeare, Paolo e Vittorio Taviani hanno qua e là accompagnato l'enunciato di piccoli casi privati di questo o quel detenuto coronati, a un certo momento, dalla constatazione che alcuni di loro fanno sulla contemporaneità di situazioni, per qualcuno anche personali, incontrate in un testo pur distante secoli da loro: quasi a testimoniare dell'eternità dell'arte. Si segue con il fiato sospeso. Certo, grazie a Shakespeare, ma anche per quella interpretazione diretta, anzi, addirittura nuda che, nonostante queste o forse proprio per questo, ad ogni svolta, ad ogni battuta è di una intensità sempre lacerante. Specie quando, per rappresentarci il coro dei Romani prima e dopo l'uccisione di Cesare, non si muovono masse in scena, ma si fanno ascoltare le invettive e le grida di altri detenuti affacciati numerosi da finestre con le sbarre. (...) L'ultimo 'Giulio Cesare' che ho visto al cinema è stato quello di Mankiewicz, nel '53, con Marlon Brando. Da oggi ricorderò con altrettanta ammirazione quello dei fratelli Taviani, con Antonio Frasca." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo Roma', 2 marzo 2012)

"Dopo i trionfi berlinesi (Orso d'oro, meritatissimo) arriva per 'Cesare deve morire' il momento della verità: l'incontro con il pubblico. La palla passa a voi, cari spettatori: abbiate coraggio, non fidatevi dei luoghi comuni e dei cattivi consiglieri. Vi sussurreranno: Shakespeare, girato in carcere, in bianco e nero, sai che palle! Niente di più falso!!! Innanzi tutto la durata del film (76 minuti compresi i titoli di coda, poco più di un'ora) è già garanzia di capolavoro. Inoltre, ai fratelli Taviani riesce un miracolo calare i versi del Giulio Cesare nella quotidianità dei reclusi di Rebibbia, come fossero i loro pensieri, il loro inconscio, la loro vita." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 2 marzo 2012)

"Si svolge in un reparto di sicurezza del carcere romano di Rebibbia e racconta la messa in scena di una tragedia scespiriana recitata da un gruppo di detenuti, sotto la guida del regista Fabio Cavalli da dieci anni impegnato in questa attività, ma non è un documentario, e non è neppure teatro adattato per lo schermo: è un puro distillato del cinema e delle tematiche dei Taviani. (...) Ottimo il sintetico taglio drammaturgico del meraviglioso testo, felice l'idea (di Cavalli) di far parlare gli attori nei loro dialetti; indovinata squadra di interpreti (fra cui straordinari Striano e Vega), la cui vita spericolata alimenta di lacrime e sangue il gioco recitativo; emozione colma di quando si toccano corde umane profonde." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 2 marzo 2012)

"Piacerà a chi ama farsi intrigare dal cinema nel cinema. La giuria del Festival di Berlino evidentemente s'è lasciata coinvolgere assegnando al film un Orso d'oro non demeritato, ma neppure meritatissimo." (Giorgio Carbone, 'Libero', 2 marzo 2012)

"Shakespeare a Rebibbia, interpretato dai detenuti della sezione alta sicurezza. Il 'Giulio Cesare' sembra scritto per loro, che conoscono la violenza. Che conoscono il potere. Orso d'Oro a Berlino, il film dei fratelli Taviani sembra il punto zero di molti gangster movies che raccontano l'avvicendamento delle cupole, l'eliminazione di capi scomodi, i tradimenti. 'Cesare non deve morire' è (anche) la scarnificazione del cinema di genere, riportato su un palcoscenico assoluto, quello di una galera. Il luogo più estremo, dove la libertà è preclusa e restano solo le pulsioni essenziali. La forza del film è nell'aver messo in scena il dramma inglese senza soluzione di continuità: gli attori lo declamano nella loro cella, durante l'ora d'aria, sul palco. Non c'è confine tra la loro vita e la 'finzione', perché la rappresentazione è la prima forma di analisi e l'autocoscienza è tutto ciò che può ridare fiato all'esistenza. Girato in digitale, in un bianco e nero su cui irrompe a tratti un teatralissimo colore, 'Cesare deve morire' è costellato di immagini potenti. Specie quando la macchina da presa scruta le grate del carcere, o distaccata lo osserva dall'esterno, come se Rebibbia fosse un'astronave atterrata per caso sulla terra. In quella astronave ci sono gli elementi primari della vita. In ogni vita c'è la lotta, in ogni vita c'è una galera. Splendida colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, preziosa nel sottolineare la forza dello sguardo." (Eleonora Battocletti, 'Il Fatto Quotidiano', 1 marzo 2012)
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=54471
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Cesare deve morire, incontro con i fratelli Taviani
Appassionata, commossa e fluviale conferenza stampa, al cinema Nuovo Sacher di Roma, per Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani vincitore dell'Orso d'Oro all'ultimo festival di Berlino. E' il padrone di casa e distributore Nanni Moretti a introdurre i fratelli di San Miniato (in gran forma e giovanissimi, nonostante gli 80 anni di Paolo e gli 82 di Vittorio), coi quali lo lega un vecchio rapporto di stima e amicizia. Come dice Vittorio Taviani: “lui ci faceva vedere i suoi filmini, da giovane, è stato interprete per noi in Padre Padrone, ed è grazie a lui che il nostro film ha avuto la possibilità di uscire, visto che lo avevamo proposto ad altri distributori e non l'avevano voluto”.
Ma come nasce questo film così particolare e toccante, interamente girato nel carcere di Rebibbia di Roma e interpretato da detenuti? “E' stata Daniela Bendoni, press agent di tanti amici, che ci ha detto di andare a Rebibbia a vedere gli spettacoli recitati dai detenuti. Noi eravamo diffidenti, pensavamo che fossero al livello di filodrammatica, ma non conoscevamo ancora il regista Fabio Cavalli, che lavora con loro da dieci anni. Siamo rimasti fulminati ed emozionatissimi, quando siamo andati c'era uno dei detenuti che leggeva l'Inferno di Dante, Paolo e Francesca, e prima di farlo si rivolse al pubblico dicendo: "noi lo comprendiamo fino in fondo perché questo amore impossibile, questa impossibilità di amare la viviamo da tanti anni. Le nostre donne le vediamo una volta ogni tanto attraverso un vetro, alcune non ci aspettano più e siamo disperati, altre sì e in questo caso siamo forse ancora più disperati”. Lo lesse modificando la lingua di Dante, in napoletano, e ci è arrivato un Dante con dei suoni nuovi, strani, che ce lo ha fatto riscoprire. Tutti i nostri film sono sempre nati da un'emozione, e abbiamo deciso di raccontare questa emozione con un'opera cinematografica”.
E perché la scelta del Giulio Cesare di Shakespeare? “Lo abbiamo scelto, dice Vittorio, perché è una storia molto italiana, che contiene pulsioni, sentimenti, congiura, sangue e tradimento, tutte cose che per molti degli attori hanno rappresentato la vita quotidiana, e dunque non sono estranei a questo tipo di sentimenti. Certe cose dette da loro hanno davvero un altro significato, come “perché Bruto è un uomo d'onore”: là dentro sono quasi tutti uomini d'onore. E' un rispecchiamento che è venuto naturale, e abbiamo riscoperto le parole di Shakespeare, che ognuno ha fatto sue nel suo dialetto”.
Cosa ha significato per due paludati registi come loro ricevere l'Orso d'Oro per questo film? Che differenza con la Palma d'Oro di Padre padrone? “Siamo tornati a Berlino quando ci hanno chiamato, pensando di aver vinto il premio speciale della giuria, e osservavamo con crescente stupore gli orsetti che man mano se ne andavano finché ne è rimasto uno solo. E' stato un grande piacere e una grande sorpresa. La prima cosa a cui abbiamo pensato sono stati gli attori e i detenuti che hanno lavorato al film, speriamo che chi li vedrà possa ricordarsi che alcuni di loro possono aver commesso colpe anche orrende, ma sono e restano uomini. L'emozione era rivolta soprattutto a loro, in questo senso è stato diverso dalla Palma d'Oro a Cannes. Moltissimi ci fermano e ci dicono “grazie” per l'Italia, in generale. Questo è un momento in cui c'è il sogno di un cambiamento e questo premio a un film anomalo come il nostro forse asseconda i desideri della gente. Uno ci ha detto – addirittura – di aver messo la bandiera alla finestra. Il ministro della cultura ci ha telefonato e ci ha detto che questo film aiuta chi cerca di dare un'immagine diversa di questo paese. Noi speriamo che questo governo riesca a dare un cambio di rotta, una svolta”.
Moretti di nuovo in veste di intervistatore: vi rivolgo una domanda frivola, che faccio agli esordienti nelle rassegne estive. Prima di questo film avevate un altro progetto? In che momento eravate? Ed è la prima volta che vi cimentate con una troupe minuscola e col digitale. Risponde Vittorio: “Noi facciamo dei film per i nostri incubi notturni. Quando a livello personale vivi i drammi tuoi e degli altri, c'è un momento in cui diventano una domanda angosciante: da quell'humus arriva lo spirito del racconto, arriva una cosa magica, che ti piacerebbe raccontare o vedere anche raccontata da altri. Se non arriva un'emozione forte, chiara, violenta, noi non facciamo film. Prima di questa emozione avevamo progetti molto vaghi. Pirandello diceva che un autore è come una rosa, deve stare molto aperta e rivolta verso il cielo. Bisogna avere la pazienza di aspettare.
E Paolo: “abbiamo girato in digitale con 2 macchine perché non c'erano soldi e all'inizio eravamo molto spaventati e diffidenti. Noi siamo abituati a risparmiare moltissimo con la pellicola, da San Michele aveva un gallo, dove era miseria totale e abbiamo girato 14.000 metri, ad altri film che in media erano di 40/50.000 metri. Qua è stata una pacchia, senza ciak, si continuava a girare. E' il dopo che è stato una condanna perché abbiamo avuto un materiale enorme da montare, è stata una scelta lunga e complicata”.
Avete mai pensato, in quest'amicizia che si è creata coi detenuti, alle vittime dei loro crimini? Vittorio: “E' una domanda giusta. Quando si gira un film si diventa tutti amici, anche degli attori, anche di questi attori. Una guardia carceraria vedendo questa nostra confidenza ci disse “anche a me capita di provare pietà e amicizia per questi carcerati, ma arrivo fino a un certo punto e mi fermo, perché la pietà deve andare alle vittime e ai loro famigliari”. Questa cosa ci ha colpito moltissimo, i sentimenti erano contraddittori, ma sentivamo anche che attraverso lo spettacolo, attraverso Shakespeare, riuscivamo a tirar fuori da loro delle emozioni che purificavano quello che avevano fatto. Quando recitavano momenti drammatici e tragici la loro forza veniva non solo dal semplice talento, ma dal fatto che avevano la coscienza di quello che dicevano, c'era un passato drammatico che usciva dalla loro espressione, una verità, e in quel momento sentivi che erano esseri umani che tutti dobbiamo rispettare”. Alla conferenza stampa sono presenti anche il protagonista Salvatore “Zazà” Striano (Bruto) e Fabio Rizzuto (Stratone), due ex detenuti che nel teatro hanno trovato una seconda vita personale e professionale. E' bello ascoltarli parlare, così come è bello quello che racconta Cavalli sulla frase che chiude il film, del detenuto che la pronuncia, Cosimo Rega (autore di poesie, da 20 anni in carcere) e che può far pensare che la scoperta dell'arte possa rendere ancora più insopportabile il mondo dietro le sbarre: “I napoletani dicono 'chi canosce patisce. In carcere c'è chi pensa di vivere in una dimensione che gli si aggrada, il fatto di finire in prigione è considerato l'incerto del mestiere per persone che nascono in ambienti delinquenziali di tipo associativo. Fino a quando non incontrano una dimensione di sé che è loro sconosciuta, allora subiscono uno shock, scoprono di essere dei potenziali artisti e rimpiangono tutto ciò che hanno perduto. Ma questa consapevolezza dà il messaggio che non è ancora finita, dice a chi sta ancora sbagliando che ha ancora una chance”. In conclusione ci sentiamo di aggiungere che in nome dell'arte, del cinema e dell'umanità, mai Orso d'Oro ebbe un destinatario migliore.
Daniela Catelli
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=12082

Lo último de los Taviani viene a demostrar que la más viva y juvenil creación nada tiene que ver con la edad del creador. César debe morir no es sólo una de las mejores películas de estos octogenarios cineastas sino, también, una reflexión sobre las posibilidades del relato menos efectista y mucho más sobria y compleja que la que realizó François Ozon en En la Casa.
Y es que, aunque los dos proyectos se parecen, las diferencias se hacen patentes incluso en sus semejanzas. Por ejemplo, sendos trabajos toman de base la literatura pero mientras la producción francesa usa un texto inventado para la ocasión, la italiana se sustenta en el clásico escrito por Shakespeare sobre la traición al célebre emperador.
Así es, César debe morir es la representación teatral filmada de la obra del genio británico a cargo de una serie de presos de la cárcel romana de Rebibbia donde habitan peligrosos convictos que encuentran en el arte una vía de liberación. Como curiosidad, decir que es ahí donde reside el protagonista de Reality condenado por asesinato.
Se trata de un film poderoso y elocuente que nos introduce en su mundo desde una primera secuencia que deja bien claras sus pretensiones: tomando como punto de partida la recreación del final de la tragedia, la ficción dialoga con el teatro para, a continuación, abrazar el documental a través de la filmación del aplauso del público. A partir de ahí, la cinta retrocederá en el tiempo (con un uso demasiado obvio del blanco y negro) para mostrar cómo preparan estos peculiares actores su papel.
La lucha entre personaje y persona se dispara. Los protagonistas discuten y no sabemos con certeza si lo que vemos es la realidad o su rutina colándose por el interior de sus interpretaciones pero la cámara ni se lo pregunta ni se impone límites: el uso del jump-cut, el montaje ágil, la superposición de voces (algunas en off) y de capas de relato se dan cita en el metraje de un modo tan natural que la realización casi deja a Ozon por un impostor.
Y del documento carcelario al testimonio personal de cada preso que surge a raíz del uso de la música diegética para, seguidamente, convertirnos en espectadores de lujo de la puesta en escena del texto aunque desde su preparación, no desde su acabado. Al igual que en la estupenda Ne change rien de Pedro Costa no importa tanto el resultado como el viaje. Documentar el trayecto es hoy más importante que visionar una obra mil veces representada.
Así, y como ocurre en muchas de las grandes películas de la actualidad, los espacios sufren una brutal abstracción. Ya no es necesario que el fondo ilustre un paisaje determinado, lo que importa realmente es el gesto. En él podemos atisbar algo de la personalidad y del pasado de los sujetos mientras Shakespeare se yergue como un autor sin fecha de caducidad. Es decir, el periplo nos ha llevado, finalmente, del testimonio hasta el ensayo sobre la creación (que pivota sobre la figura del director de la producción teatral) trasgredido en última instancia por la dolorosa realidad de cada hombre encarcelado.
César debe morir es, pues, una singular mezcla de tragedias (la histórica y la actual, las personales y la global) capaz de levantar acta sobre las posibilidades de la reinvención fílmica al tomar por sustrato la Historia y los logros de otras disciplinas artísticas. Que en un instante del metraje la trama desemboque en una elocuente rebelión ficticia dentro de la cárcel nos advierte de su poder liberador (subrayado inútilmente en la conclusión) pero, también, de su juventud y su vigencia humanística.
Alberto Varet Pascual
http://www.eldestiladorcultural.es/cine/critica/cesar-debe-morir-paolo-taviani-vittorio-taviani/
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I grandi classici avevano incontrato la camorra dieci anni prima che i fratelli Taviani portassero Shakespeare nel braccio Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia, dove di camorra se ne respira parecchia.
Si trattava dell’Orestea di Eschilo (già tradotta da Pier Paolo Pasolini per Vittorio Gassman - XVI ciclo delle Rappresentazioni Classiche, 1960) e Antonio Capuano usava il testo classico per raccontare la tragedia, ascesa e soprattutto caduta, della famiglia dei Cammarano in epoca contemporanea. Un film dove Oreste parlava napoletano, Clitemnestra aveva il volto di Licia Maglietta, Agamennone quello di Toni Servillo ed Egisto quello di un immenso Antonino Iurio.
Riuscito o meno che fosse, il film era potente, duro come quasi tutto il cinema di Antonio Capuano. E Luna Rossa non faceva eccezione: deflagrava e turbava.
Questo Shakespeare dei fratelli Taviani ha la stessa forza deflagrante, al di là qualche limite, primo fra tutti quello di far rimpiangere la “cattiveria” di Capuano.
Fabio Cavalli, nobile regista teatrale che opera nelle carceri con uno spirito necessariamente missionario, allestisce un nuovo corso di teatro che deve portare all’allestimento del Giulio Cesare, opera shakespeariana datata 1599. Vediamo un folto gruppo di detenuti che più o meno timidamente partecipa alla presentazione dell’evento. Già lì, tutti ammassati che ascoltano Cavalli raccontare un’idea, fanno uno strano effetto, corpi sgraziati, segnati, duri, cupi, guardinghi, tutti attenti e quasi intimiditi. Si ha da subito l’impressione di guardare un’umanità altra, lontana.
Fanno seguito dei provini per la scelta degli interpreti principali: sequenza di volti che vuole essere – ed inizialmente ci riesce – forte come uno schiaffo che non ti aspetti, ma che per eccesso di lunghezza scivola un po’ nella noia. Il bianco e nero sgrana i volti segnati come carte geografiche di territori sconosciuti, le voci tuonano echeggiando nelle stanze di cemento.
Subito dopo il gruppo è scelto, gli attori principali selezionati: Cesare, Bruto e Cassio sorridono timidi in camera, con la vergogna di un entusiasmo che faticano a mostrare.
Quasi come un monito ad affezionarsi ma non troppo, didascalie veloci ci raccontano, senza violarne troppo il privato, perché questi uomini sono lì e per quanto ancora dovranno starci. Cassio è un “fine pena mai”, per omicidio, evidentemente plurimo o con aggravanti. Informazione che si fatica a mettere da parte per tutto il film e che traspare con l’evidenza della colpa sul suo volto dolente, triste eppure intenso e brillante, di un’intelligenza talmente pura che in ogni singolo momento in cui calca la scena si soffre di una partecipazione e di un conflitto emotivo che, già di per sé, fanno di questo film un’esperienza interattiva rara.
Cassio, alias Cosimo Rega, e Bruto, alias Sasà Striano, sono l’anima e il corpo di questo film.
I fratelli Taviani non hanno dovuto fare molto, il più l’hanno fatto avendo l’idea. Il resto è un meccanismo innescato che ha dalla sua una potenza senza cedimenti: il braccio di Alta Sicurezza di Rebibbia, Shakespeare e i carcerati, i colpevoli, gli assassini, i traditori, gli uomini reietti e rifiutati che nessuno vuole vedere, che nessuno vuole amare o tantomeno capire. Una miscela fatale che può mettere alla prova qualsiasi resistenza, un incontro perfetto perché il Giulio Cesare è più di altre l’opera dell’amicizia tradita, del potere, della libertà, dei rapporti umani spezzati. Chi meglio di un uomo che si porta sulle spalle il tradimento, la vita interrotta, la libertà perduta, che ha nel proprio passato vissuto un potere che lo ha traviato e destinato a rendersi colpevole, può incontrare nella congiura delle idi di marzo il proprio testo d’elezione?
I Taviani mettono in scena una catarsi e lo fanno nel modo cinematograficamente più classico: apertura e chiusura sulla stessa scena, uso didascalico ma funzionale del colore e di un bellissimo bianco e nero, che ci salva dal rischio neorealista televisivo delle riprese in interno carcerario, e ambientazione dell’opera nei luoghi del carcere. Non c’è confine né soluzione di continuità tra l’opera e la vita: si fondono, sono la stessa cosa e l’opera prende vita nei corridoi, nel cortile durante l’ora d’aria, nella cella mentre si guarda il soffitto, nella biblioteca del carcere o mentre si lava un pavimento.
I carcerati parlano Shakespeare e Shakespeare parla per loro, tant’è che si sceglie di lasciarlo declamare nel dialetto di origine, in modo che ognuno possa farlo proprio e non sentirlo distante.
E qui s’insinua il vero limite del film, che pecca di retorica in due scelte stonate. La prima è quella di inserire il privato degli attori carcerati, scelta che allontana, distrae e non è necessaria: l’opera parla per loro molto più di quanto loro stessi riescano a fare. La seconda è quella di mettere in bocca a Cassio una frase dalla retorica a dir poco disturbante: “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. Eccesso di enfasi inutile per un film che nei suoi essenziali 76 minuti il concetto l’aveva espresso molto bene e in termini già ridondanti. La sottolineatura per lo spettatore che non se la merita davvero stona e infastidisce.
Un po’ di ruvidezza e di coraggiosa sgradevolezza sarebbe stata più apprezzata.
Resta la potenza delle immagini, delle parole, dei volti e dei corpi. Resta la forza di un’idea nobile e non priva di coraggio. Resta un gran bel film, meritevole e nobile, ma certamente non il capolavoro strombazzato da una stampa faziosa con l’unico scopo di glorificare un intero cinema nazionale.
Margherita Chiti
http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/paolo-e-vittorio-taviani-cesare-deve-morire

martes, 27 de noviembre de 2012

E ridendo l'uccise - Florestano Vancini (2004)

TITULO ORIGINAL 
E ridendo l'uccise
AÑO 
2005
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
No
DURACION 
100 min.
DIRECCION 
Florestano Vancini
GUION 
Florestano Vancini, Massimo Felisatti
REPARTO 
Manlio Dovi', Sabrina Colle, Ruben Rigillo, Marianna De Micheli, Giorgio Lupano, Carlo Caprioli, Vincenzo Bocciarelli, Fausto Russo Alesi, Mariano Rigillo, Fabio Sartor, Vladimir Iori, Victoria Larchenko, Marko Petrovic
FOTOGRAFIA 
Maurizio Calvesi
MONTAJE 
Enzo Meniconi
MUSICA 
Ennio Morricone
PRODUCCION 
RENATA RAINIERI PER ITALGEST VIDEO - I.P.E.
GENERO 
Drama

Sinópsis
Ferrara, inizi del 1500, Corte Estense, una delle più illustri del Rinascimento. Pochi mesi dopo la morte del duca Ercole I, si scatenano le gelosie e i rancori sopiti tra i quattro figli: Alfonso erede del ducato e sposo di Lucrezia Borgia, Ippolito, Giulio nato al di fuori del matrimonio, e Ferrante. La vita di corte procede tra festini, lussi e cortigiane. Durante una festa Ippolito si vede rifiutato dalla bella Angiola a favore di Giulio. Ippolito ordina di sfigurare il fratello che insieme a Ferrante covano vendetta e decidono di congiurare contro Ippolito ed Alfonso. Benemerito tentativo di uscire dai binari convenzionali del cinema italiano. (Adriano De Carlo - My Movies)
 
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TRAMA DEL FILM E RIDENDO L'UCCISE:
Siamo all'inizio del 1500. La Corte Estense è in subbuglio per la morte di Ercole I. I suoi quattro figli - Alfonso, Ippolito, Giulio e Ferrante - sfoderano gelosie e rancori sopiti, mentre indugiano tra festini e cortigiane. L'emotività si scatena in occasione di una festa. Ippolito, futuro cardinale, rifiutato dalla bella Angiola che gli preferisce Giulio, ordina di sfigurare il fratello, complice a sua volta di Ferrante nel tentativo, subito smascherato, di uccidere Alfonso. I colpevoli sono condannati a morte con esecuzione sulla pubblica piazza ma, in quanto fratelli, vengono graziati all'ultimo momento e vengono condannati al carcere a vita. Sullo sfondo Moschino - un povero giullare prima al servizio di Giulio, poi di Alfonso - si trova coinvolto nelle vicende di corte. Solo due persone avranno a cuore il suo destino: Ludovico Ariosto, intellettuale di corte, e la prostituta Martina.

CRITICA:
"In definitiva il film si risolve in un saggio - per niente pedante - sui prodromi di una lotta di classe che troverà i suoi strumenti e le sue espressioni molti secoli più tardi. Coadiuvato da collaboratori di pregio (fotografia di Maurizio Calvesi, musica di Morricone, scenografia e costumi di Burchiellaro e Lia Morandini) il regista ci restituisce una ricostruzione d'ambiente non sfarzosa ma ricercata esprimendo la volontà di rispondere, da intellettuale oltre che da artista, a un bisogno. Rianimare lo scenario di un paese-museo che il mondo ci ammira e il nostro cinema non valorizza abbastanza per farne spettacolo: intelligente, colto, raffinato, come questo è, ma spettacolo." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 15 aprile 2005)

"Ben tornato a Florestano Vancini, classe '26, l'autore della 'Lunga notte del '43', qui con una nuova storia ferrarese rinascimentale, una feroce rivalità dinastica alla corte degli Estensi, dove una nidiata di figlioli si spartisce il regno di Alfonso, succeduto a Ercole, mentre messer Ariosto compone versi in onore del duca Ippolito. Tutto il bene e tutto il male di quel mondo è visto con gli occhi del buffone di corte, il bravissimo fool Manlio Dovì. Fosco Rinascimento, prodigo di atrocità verso il popolo. Un ritratto sociale tradizionalmente ben fatto, il tassello mancante ma essenziale alla lunga storia di ingiustizie raccontata da Vancini col suo cinema civile che va da Bronte al delitto Matteotti." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 23 aprile 2005)

NOTE:
 

Il ruolo della sua vita
Alla corte degli Este dame e gentiluomini si avvelenano a vicenda con fastosa ferocia. La maschera della menzogna ricopre tutti i volti (l’insabbiato agguato ai danni di Giulio, la farisaica cerimonia di pace, l’infido giudizio di Paride), solo il buffone di corte la indossa non per avvilire ma per salvare il suo prossimo: gli sarà fatale l’eccessivo attaccamento alla parte affidatagli dalla fortuna. Vancini firma una tragicommedia in costume in cui evidenti sono gli echi di Shakespeare (la crudeltà tutta elisabettiana del supplizio di Giulio) e di un Victor Hugo filtrato dal melodramma ottocentesco (e se Lucrezia Borgia è una figura secondaria, il giullare Moschino presenta varie affinità con Rigoletto, dai problemi fisici alla vocazione per gli attentati fallimentari), senza dimenticare le reminiscenze ariostesche (del resto il buon Ludovico compare in persona ogni sette inquadrature circa) e le tracce della grottesca e agghiacciante epopea contadina del Ruzante.
Tante, dunque, le illustri fonti d’ispirazione: anzi, troppe. Appesantito da dialoghi polverosamente teatrali, fiaccato da riferimenti stucchevolmente didascalici (la lezioncina sull’Orlando furioso, l’apparizione-cartolina di Tiziano) non meno che dalla storia d’amore/amicizia/stima fra Moschino e la working girl Martina, affossato dalle incessanti musiche di Morricone, abbandonato al proprio destino da una regia votata al calligrafismo più trito, E RIDENDO L’UCCISE risulta, nonostante la discreta prova del cast, l’indubbia sapienza iconografica e almeno una sequenza riuscita (quella finale), slabbrato e poco interessante, acerbo e insieme prematuramente invecchiato. Intendiamoci: nulla di tremendo, ma, viste le premesse, era lecito attendersi qualcosa di meno imbalsamato.
Stefano Selleri
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=991
 
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Il film intende rivolgersi alle più diverse fasce di spettatori, perché si offre sicuramente ad una duplice lettura: quella di un pubblico colto, attento ai significati storici e culturali e quella di un pubblico popolare, che coglierà la forte emotività e la spettacolarità delle vicende comiche sentimentali e drammatiche narrate. La chiave del meccanismo drammaturgico alla base del film è quella che da sempre consente di catturare il favore del pubblico: la riconoscibilità dei personaggi e delle vicende e quindi la conseguente immedesimazione dello spettatore con essi, ma offrendo allo spettatore anche l'evasione dalla propria quotidianità. In definitiva, fare spettacolo (che non è sinonimo di bassa qualità). Il Rinascimento ha lasciato al nostro paese un patrimonio unico al mondo, visibile e concreto- pittura, scultura, architettura, urbanistica- sparso per gran parte della penisola. Gli italiani con questa realtà storico-artistica ci convivono, forse senza grande partecipazione, ma con la consapevolezza di possedere qualcosa che gli altri paesi non hanno. Milioni di stranieri visitano o sognano di visitare l'Italia per l'immagine, magari confusa e superficiale, ma che comunque hanno, di un paese dalle tante civiltà cariche di tesori. Con questo film è come se quegli scenari si rianimassero attraverso personaggi che vivono passioni e sentimenti uguali ai nostri, ma in una realtà tanto diversa dalla nostra. Tutte le cinematografie più importanti del mondo attingono alla storia dei loro paesi. Resta inspiegabile che l'Italia non attinga, o in misura così scarsa, alla propria. (Florestano Vancini)
http://www.cinemamignon.com/archivio/2005/04/florestano_vanc.php

 
L’ultima fatica del veterano Florestano Vancini, uscita al cinema nella primavera del 2005, ha avuto in realtà una distribuzione debole, come capita a molte delle opere italiane più valide. Ne suggeriamo, dunque, il recupero in dvd.
Ma di cosa parla "E ridendo l’uccise"? Esso narra vicende che si svolgono nella corte di Ferrara tra il 1505 ed il 1506, con un epilogo ambientato qualche anno dopo. Vi è una congiura, determinata dagli odi e dallo scontro di interessi tra i membri della famiglia degli Este. Ed emerge crudamente la violenza che subiva la popolazione più umile. Insomma, nel suo svolgersi "E ridendo l’uccise" rende l’idea di quale fosse l’”infamia da cui nasceva il sublime”, per introdurre nel discorso una citazione, quasi letterale, dall’Ariosto. O meglio da un dialogo immaginario tra il poeta, qui rappresentato come un osservatore disincantato delle vicende degli Este, ed il protagonista del film: Moschino, il buffone di corte. All’intento ambizioso corrisponde una grande cura complessiva. Di certo vi è stato un notevole lavoro di documentazione, sia sul piano storico che su quello della lingua parlata nella Ferrara del tempo. Il punto è che il film non manca di una finalità didattica che lo può apparentare alle opere per la tv di Rossellini ("La prise du pouvoir par Louis XIV", "Socrate" ecc.), pur presentando un elemento affabulatorio più marcato.
Ma quando parliamo di un’opera “curata”, alludiamo anche al dato propriamente formale. C’è stato sicuramente un grande lavoro sui costumi e sul piano scenografico. Ed è sorprendente la resa di una Ferrara che – a quanto ci dicono i titoli di coda – è stata in buona parte ricostruita in Serbia. Ma l’aspetto prevalente è il lavoro sull’immagine, senza il quale – ovviamente – scenografia e ricostruzioni ambientali risulterebbero inefficaci. I movimenti di macchina colpiscono per la loro fluidità e concorrono con le angolazioni volta a volta assunte dalla macchina da presa, a lavorare proprio sul rapporto tra i personaggi e l’ambiente. Ne risulta una bellezza visiva che non è mai estetismo, ma che sta sempre dentro la vicenda raccontata, sempre dentro il contenuto del film. Una bellezza visiva che è tutt’uno, quindi, con la rappresentazione dei riti, dei giochi, dei vizi di corte, nonché della miseria di chi vive nella campagna o nella Ferrara più misera. Un altro elemento che spicca è la presenza, molto diffusa, del commento musicale: la sua composizione si deve ad Ennio Morricone, che si è evidentemente basato sull’attento studio e sulla rielaborazione delle sonorità dell’epoca. Dunque anche la musica è coessenziale al tutto, ma si poteva forse raggiungere un risultato migliore riducendone qua e là la presenza. Ora, questo è un problema minore, così come si può dire che non pesa eccessivamente una certa fragilità della sceneggiatura, dovuta allo stesso Vancini ed a Massimo Felisatti. Si può dire che finché si dipana la vicenda della congiura, la narrazione segue un andamento unitario. Poi, tolti di mezzo gli Este cospiratori (graziati, ma condannati all’ergastolo), la scena viene presa totalmente dal buffone Moschino e ci sembra di assistere ad una serie di episodi volti ad illustrare la figura del protagonista ed a mettere in sempre maggiore risalto le ombre del dominio degli Este. Va detto, però, che, per quanto in quest’ultima parte si perda in coerenza narrativa, ogni episodio, preso per sé, ha effettivamente carattere rivelatore. Ed il legame di ciascuno di essi con il senso complessivo del film non viene mai meno.
Il merito di ciò va in parte all’attore protagonista, un Manlio Dovì che può risultare sorprendente per chi ne conosce le caratterizzazioni nei tristi spettacoli del Bagaglino. Egli restituisce egregiamente la figura di Moschino, buffone che conduce una sommessa e personale battaglia, basata sull’ironia, sullo scherzo, contro una realtà fatta di sopraffazione. Il fatto è che Dovì non confonde l’istrionismo del suo personaggio con quello dell’attore, riuscendo ad essere sopra le righe senza esagerare.
Nella figura di Moschino, così come nelle carrellate sui poveri, vestiti di stracci, che assistono passivamente alle esecuzioni (come chi osserva lo svolgersi di una Storia che lo pone ai margini), sta in fondo l’originalità del film. E ridendo l’uccise scava nell’oppressione sui cui si fondava lo splendore delle Corti italiane, confermandoci in Vancini (già autore di film come "La lunga notte del ’43", "Il delitto Matteotti", "Bronte") il regista della ”altra Storia”. Un regista militante che sa fare il cinema, riuscendo a trasformare l’impulso critico in alimento del film, così da conferire vigore ad un intento didattico che, infatti, non ci viene mai a noia.
Stefano Macera
http://www.distopia.it/gli-speciali/unopera-da-scoprire-e-ridendo-luccise.html

***

Morto Ercole I d'Este (1431-1503), duca di Ferrara, Modena e Reggio, gli succede il primogenito Alfonso (1476-1534), marito di Lucrezia Borgia. Presto s'accende la lotta per il potere. Guidata dal fratello Ferrante e dal fratellastro Giulio, una congiura è scoperta grazie alla spiata del musico Giancantore e alla confessione, sotto tortura, di Moschino, giullare di Giulio. Due dei nobili complici sono decapitati in piazza, mentre la pena per i fratelli è commutata in carcere a vita. Moschino passa al servizio di Alfonso. Una sua bizzarra burla fa infuriare il duca che lo condanna a morte. L'esecuzione è finta, ma Moschino muore di paura. Scritto da Vancini con Massimo Felisatti, il progetto _ covato a lungo dal regista ferrarese, disoccupato al cinema da più di 20 anni _ è originale e ambizioso: sullo sfarzoso, feroce, labirintico scenario storico della Ferrara primo Cinquecento (ricostruita con ammirevole perizia a Belgrado), racconta una vicenda dal duplice punto di vista dei potenti e delle vittime, cioè "dal basso", con lo sguardo di chi non fa la storia. Nessuno l'aveva mai fatto nei film italiani o stranieri sul Rinascimento. Le cadenze sono da melodramma tragico, con risvolti comici e una certa distanza pittorica. Grazie ai contributi di Maurizio Calvesi (fotografia), Giantito Burchiellaro (scenografie), Lia Morandini (costumi) sul piano figurativo i risultati sono eccellenti. Due debolezze a livello drammaturgico: pur essendo un film in crescendo, come si avverte specialmente nella 2ª parte, la 1ª risulta descrittiva e dispersiva; nonostante l'apprezzabile brio istrionico di Dovì, il personaggio di Moschino "non raggiunge una sufficiente prepotenza emblematica" (T. Masoni). La sfodera tardi. Distribuito con fiacca indifferenza dall'Istituto Luce.  
(Il Morandini)
 
 
Florestano Vancini torna alla storia di Ferrara con il suo nuovo film.

Il regista Florestano Vancini è ritornato alla storia della sua città con E ridendo l'uccise, un affresco del Rinascimento ferrarese attraverso una vicenda ambientata alla Corte Estense. Una storia che il grande scrittore Riccardo Bacchelli aveva raccontato in La congiura di Giulio D'Este e che fa da base, insieme ad altri libri e  documenti, al nuovo film del regista ferrarese la cui sceneggiatura è stata scritta insieme ad un altro concittadino,  lo sceneggiatore e scrittore Massimo Felisatti.
Una congiura raccontata attraverso la figura di un buffone di  corte, Moschino, il cui nome è inventato, ma che fa riferimento a personaggi della letteratura riguardanti il Rinascimento. E che si ritrova in modo particolare in un sonetto di Antonio Cammelli, detto il Pistoia, dal titolo  In morte di un buffone che nell'ultima terzina offre al regista ferrarese il titolo del film.


Fotografia di un'altra scena del film.Nulla è inventato, in questo come negli altri film di carattere storico, nel cinema di Florestano Vancini, se non la  costruzione narrativa del film, poiché egli è sempre attento alla verità storica, da studioso che avrebbe amato fare  lo storico, se non fosse diventato regista.

Alla storia della sua città si è ispirato sin dal suo primo documentario con il quale, nel 1949, ha esordito nel  cinema: Amanti senza fortuna, diretto insieme ad Adolfo Baruffi, in cui rievoca la tragica vicenda d'amore di Ugo D'Este e Parisina Malatesta. E alla storia di Ferrara ritorna con il suo primo lungometraggio La lunga notte  del '43 (1960), rivelandosi come uno dei talenti più interessanti del periodo: alla Mostra di Venezia di quell'anno  ottenne il Premio "Opera prima".

Nel film, il regista rievoca un tragico episodio del periodo fascista, l'eccidio di undici antifascisti presso un  muretto del Castello Estense per vendicare la morte di un federale, ucciso, secondo la tesi di Vancini, per una  faida interna, dagli stessi fascisti.

La ricostruzione del clima che si respirava nel periodo del regime fascista, e che condizionava anche i sentimenti, è poi rievocata in Amore amaro (1974), mentre le lotte dei contadini ferraresi ai primi del Novecento  sono ricostruite in La neve nel bicchiere (1984), tratto dal romanzo di Nerino Rossi e sceneggiato anch'esso  insieme a Massimo Felisatti.

Fotografia di una scena del film.Da una ventina d'anni, Vancini pensava a un film sul Rinascimento ferrarese. L'ha affrontato, dapprima nel  2002, nel mediometraggio Lucrezia Borgia: un'intervista impossibile di Maria Bellonci e, finalmente, nel 2004,  dopo tante difficoltà di carattere produttivo, trattato in maniera più ampia, in E ridendo l'uccise.

In questo film si racconta la faida che, fra il 1505 e il 1506, vide contrapposti, da una parte, i fratelli Alfonso  (Ruben Rigillo) e Ippolito (Vincenzo Bocciarelli), dall'altra Giulio (Giorgio Lupano) e Ferrante (Carlo Caprioli),  per una questione di potere, dopo la morte del Duca Ercole I d'Este.

Sullo sfondo, è descritta la vita alla corte estense di Ferrara, in cui si muovono, fra gli altri, personaggi storici  come Lucrezia Borgia (Marianna De Micheli), Ludovico Ariosto (Fausto Russo Alesi) e il giovane Tiziano  (Gianantonio Martinoni).
Attraverso la figura del giullare di Corte (un bravissimo Manlio Dovì, qui trasportato dal cabaret a un personaggio d'intensa attorialità) e la storia della sua amicizia con una contadina (Sabrina Colle), viene  raccontata la vita quotidiana della povera gente, vittima di un totale dispotismo esercitato dai sovrani sul popolo  ridotto a condizioni di dura miseria.

Fotografia di un'altra scena del film.Un ruolo di rilievo nel film lo ricopre anche il Conte Boschetti (Mariano Rigillo) che affiancava Giulio e Ferrante nella congiura e che finirà letteralmente squartato in piazza: un episodio che si trova nella letteratura e  nell'iconografia dell'epoca, e non una concessione splatter alla moda cinematografica di oggi.
I fratelli saranno graziati e condannati al carcere a vita. Il giullare di corte, Moschino, coinvolto suo malgrado  nella congiura, viene invece riconosciuto non colpevole di lesa maestà e lasciato libero.

Passato dal servizio di Giulio a quello di Alfonso, morirà in seguito a uno scherzo. Infatti, dopo aver salvato il  Duca da un fastidioso singhiozzo, gettandolo nell'acqua di una fontana, riceve in cambio una condanna per  impiccagione.
Al momento dell'esecuzione, che troppo tardi si rivela una burla di Alfonso, Moschino muore per la paura.

Come un romanzo storico, il film mescola realtà e fantasia in una ricostruzione che è anche commedia, tragedia,  farsa e il cui titolo, come sottolinea Vancini, vuole rispecchiare una metafora della vita: scherzare, ridere, morire.
Alla riuscita del film, prodotto da Renata Rainieri e distribuito dall'Istituto Luce, contribuiscono anche le  musiche d'ispirazione rinascimentale di Ennio Morricone e la precisa fotografia di Maurizio Calvesi.

Particolarmente ben riuscita la ricostruzione scenografica da parte di Giantito Burchiellaro, effettuata negli studi  di Belgrado e nella Villa D'Este di Tivoli sia per questione di costi sia per la "modernità" della Ferrara d'oggi  che avrebbe richiesto una città quasi del tutto coperta da fondali.

Fotografia di una scena del film.Una ricostruzione storica, quella di Vancini, non sfarzosa, bensì ricercata che rianima con raffinatezza lo  scenario del Rinascimento ferrarese.
Un regista, Florestano Vancini che a quasi ottant'anni (li compirà nell'agosto 2006) conferma doti di grande  spessore, mantenendo quel rigore stilistico che lo ha sempre contraddistinto e una visione della storia legata al  presente, non consegnata irrimediabilmente al passato: la storia come maestra di vita.

In E ridendo l'uccise il suo intento, infatti, è quello di raccontare le due facce del Rinascimento: quella dei nobili  e dei governanti, pronti a tutto per conquistare il potere, e quella del popolo, dei sudditi e dei contadini, una  condizione sociale che ha portato continui momenti di violenza. Situazioni che si ripetono a tutt'oggi.

In occasione dell'uscita del film è stato pubblicato, anche con il contributo della Cassa di Risparmio di Ferrara,  un volumetto In omaggio a Florestano Vancini, maestro del cinema italiano che, oltre a un intervento dello  stesso regista, riporta scritti di Vittorio Sgarbi e di alcuni critici di importanti quotidiani nazionali e contiene un  compact disc con le musiche composte e dirette da Ennio Morricone.
Paolo Micalizzi
https://rivista.fondazioneestense.it/it/2005/item/104-e-ridendo-luccise
 

lunes, 26 de noviembre de 2012

L’uomo di vetro – Stefano Incerti (2007)


TITULO ORIGINAL L’uomo di vetro
AÑO 2007
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DIRECCION Stefano Incerti
GUION Heidrun Schleef, Salvatore Parlagreco, Stefano Incerti
REPARTO David Coco, Anna Bonaiuto, Tony Sperandeo, Elaine Bonsangue, Ilenia Maccarrone, Ninni Bruschetta, Francesco Scianna, Tony Palazzo
FOTOGRAFIA Pasquale Mari
MONTAJE Cecilia Zanuso
MUSICA Andrea Guerra
PRODUCCION Red Film, Rai Cinema
GENERO Drama

SINOPSIS Ispirato alla storia di Leonardo Vitale, il primo pentito di mafia che pagò questa scelta con il carcere, il manicomio giudiziario e, infine, con la sua stessa vita.


La storia che Incerti rievoca si svolge tra '72 e '84. È quella di Leonardo Vitale, primo pentito di mafia. Anche se nel Dna napoletano del regista c'è la lezione del cinema d'inchiesta e meridionalista di Rosi, L'uomo di vetro - dal libro di Salvatore Parlagreco (Bompiani) - non è un film "giornalistico". Piuttosto è interessato a scavare nella complessità di un'anima divisa in due. Il trentenne palermitano Leonardo appartiene per famiglia a un mondo contiguo e colluso. Alle regole "dell'onore" è stato iniziato da adolescente compiendo due esecuzioni.
A metà strada tra il suo debole tentativo di sottrarsi in nome di una vita normale e la diffidenza mafiosa verso la sua "mancanza di coraggio" c'è la radice delle sue disgrazie. Incastrato nelle indagini per un sequestro e torchiato dalla polizia fa dei nomi, mettendosi nella posizione pericolosa del "morto che cammina", ma non gli viene risparmiata la galera. Che gli ispira una crisi di coscienza e una valanga di informazioni preziose alla giustizia. Turbato ma non pazzo, finirà in manicomio: l'unica possibilità di conservarsi vivo, favorita dai parenti. Se il testimone è giudicato pazzo i mafiosi denunciati possono tornare in libertà.
Paolo D'Agostini
http://www.repubblica.it/2007/06/sezioni/spettacoli_e_cultura/cinema/recensioni/uomo-di-vetro/uomo-di-vetro/uomo-di-vetro.html
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Il mercato cinematografico funziona anche così. Cioè che a giugno escono i film che i distributori comprano per le “nicchie”, quei film che non interessano al grande pubblico, e in cartellone possono stare soltanto negli spazi residuali d’inizio estate. Se questo è l’allungamento della stagione cinematografica c’è, per una volta, da esserne felici. Dopo Il matrimonio di Tuya (recensito la scorsa settimana), nelle sale arriva un altro regalo inaspettato, L’uomo di vetro di Stefano Incerti. Napoletano, classe 1965, Incerti ha iniziato come aiuto regista per gli autori della “nuova Napoli” degli anni ’80: Martone, De Caro, Corsicato. Esordisce a metà anni ’90 con il suo primo lungo, Il verificatore, che gli porta un David di Donatello come miglior opera prima. Poi firma un episodio del film collettivo e partenopeo I vesuviani (con Corsicato, Martone, Capuano e la De Lillo), realizza un altro lungo e approda alla consacrazione mainstream “all’italiana”, cioè a un film con la Sandrelli (La vita come viene). Insomma, Incerti pare perdersi nei meandri del cinema di bandiera… fino a questo film, dal soggetto esplosivo, stupefacente.
L’uomo di vetro (tratto dall’omonimo romanzo di Salvatore Palagreco) racconta la storia vera di Leonardo Vitale (1941-1984), primo mafioso ad aver collaborato con la giustizia, pentendosi nel 1973. Arrestato per errore nel ’72, Vitale al rilascio cade in un esaurimento nervoso pervaso di connotazioni mistiche: è l’espressione di una crisi profonda, che porta Leonardo alla volontà di pentimento. Le possibili conseguenze inducono suo zio, Titta Vitale (uomo d’onore e “testa” di uno dei clan palermitani), a internare Leonardo in un ospedale psichiatrico. Nel ’73, però, Leonardo riesce a costituirsi, sfuggendo al controllo dello zio. Confessa subito alla polizia gli omicidi commessi, ma soprattutto inizia a raccontare dell’esistenza di una cosa chiamata “Cupola” e del ruolo preminente di quattro persone al suo interno: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e il sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Vitale confessa com’è strutturata la mafia, i rapporti tra questa e politica locale e nazionale, persino i particolari più “caratteristici”, come la descrizione del rito di giuramento degli affiliati. Leonardo Vitale fu creduto pazzo e internato in un manicomio per 10 anni. Uscito dal manicomio nel 1984, Vitale viene ucciso dalla mafia. Non tanto per le confessioni fatte, che non avevano portato all’arresto di nessuno, ma perché negli ani ’80 altri pentiti (Buscetta e Tituccio Contorno) stavano parlando, e in un clima civile decisamente mutato. L’uccisione di Vitale fu un monito per loro, e non è un caso se Falcone dedica all’importanza di Vitale alcune riflessioni, in cui alla fine afferma: è augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita. Anche in questo senso il film di Incerti è una sfida vinta. Ma non lo è solo in questo senso, nell’accezione del racconto impegnato, che comunque in questo caso è davvero un pugno nello stomaco. Il regista fa bene a concentrarsi sul personaggio, intessendo un ragionamento sulla mafia quanto sulla follia (che può essere raccontata come il disagio dell’isolamento, la diversità assoluta dal contesto) che non ha nulla dell’ovvia narrazione su Cosa Nostra, cui commissari Cattani, tv e cattivo cinema ci hanno abituato. Incerti cerca, in primo luogo, un modo di raccontare che vada in profondità, che sappia guardare al di là del dato costringendo lo spettatore ad un progressivo soffocamento. Il film non è perfetto, tutt’altro. Ma fa piacere vedere un cinema di idee forti, che non ha paura di angosciare, che non deve per forza mitigare lo strazio assoluto del reale con finali falsi e cerchiobottisti. L’uomo di vetro fa star male ma inchioda lo spettatore a una riflessione complessa. E avvilente. Perché L’uomo di vetro è la storia di un fallimento. Il fallimento di un uomo e del suo tentativo, del fallimento di un paese e delle sue istituzioni. Un lavoro molto interessante. Un cinema che in Italia vorremmo vedere più spesso.
Elisa Battistini
http://nonhosonno.wordpress.com/2007/06/22/luomo-d-vetro-di-stefano-incerti/

UN HOMBRE ARREPENTIDO
Aunque Leonardo Vitale fue un mafioso insignificante dentro de la Cosa Nostra, apenas un miembro más de entre los miles que han pertenecido a la organización, su figura ha alcanzado una importante notoriedad debido al valor  histórico excepcional de su testimonio. Leonardo Vitale no fue sólo el primer miembro de la Mafia que se entregó voluntariamente a las fuerzas del orden para colaborar con la justicia; el suyo es también uno de los pocos casos en los que se observa un arrepentimiento sincero, una auténtica renuncia a la mentalidad mafiosa con el deseo explícito de alejarse de ella por completo, cosa del todo imposible para un iniciado en la mafia.
El término pentito, con el que suele designarse a todo mafioso que acaba rompiendo el código de la omertà para dar su testimonio en la lucha contra la Mafia, merece ser explicado para comprender a nuestro personaje. Como se sabe, los pentiti son los arrepentidos, los desertores de la mafia, personas que por uno u otro motivo deciden colaborar con la justicia. Pero por supuesto hay importante diferencias entre ellos. No todos los pentiti son iguales, y la diferencia radica en el motivo que los lleva a hablar. Por esta razón, muchos estudiosos del fenómeno de la criminalidad organizada han expresado sus dudas sobre la fiabilidad de sus testimonios. Obviamente, todos los pentiti son desertores convertidos en delatores, pero no a todos se les puede dar la categoría, superior si se quiere, de arrepentidos. Y entre los auténticos arrepentidos, los menos, Leonardo Vitale ocupa un lugar destacado por haber sido el primero.
Nació en 1941 y fue educado en los valores mafiosos que imperaban en su familia de sangre desde hacía varias generaciones. Fue iniciado en la mafia por su tío, que era el capo de la cosca de Altarello Di Baida y, según dejó dicho Vitale, el hombre más influyente de su vida tras la muerte de su padre, también mafioso. Su iniciación se llevó a efecto cuando Leonardo tenía 19 años y, como suele ser habitual, después de mancharse las manos con la muerte de un hombre. Para el ritual de iniciación se utilizó una espina de naranjo amargo, con el que le pincharon el dedo tal y como dicta la tradición.
A partir de su conversión en un hombre de honor, Leonardo Vitale fue entrando poco a poco en la estructura de la Cosa Nostra, llegando en 1970 a ocupar el puesto de capodecina en la familia de Altarello Di Baida; es decir, de jefe de un grupo de diez hombres, aunque el número en este caso puede variar. Hasta entonces, Vitale había participado en trabajos de poca monta, siempre alrededor del negocio de la extorsión: alguna quema de automóviles, el envío de cartas amenazadoras, la recaudación del pizzo en el territorio de la familia, etc. Sin embargo, una vez convertido en capodecina por haber matado a otro mafioso, su tío le fue haciendo partícipe de algunos secretos a los que no había podido tener acceso hasta entonces: la jerarquía de la organización, la existencia de la Cúpula, el relevante papel de Totò Riina como una de las cabezas máximas de la organización o las últimas operaciones de peso llevadas a cabo por la Mafia en Sicilia, como la desaparición del periodista  de L’Ora Mauro De Mauro, y que poco después formarían el grueso de su alegato, o en todo caso el centro de la información por él aportada, una información que permanecería en estado latente, en parte olvidada y en parte a la espera de nuevas evidencias que le dieran el crédito que merecían, y que no llegaron hasta 1984 cuando Tommaso Buscetta, un desertor de la Mafia mucho más influyente que Vitale, se decidió a colaborar con el juez Giovanni Falcone, no tanto por arrepentimiento como por venganza y despecho contra el clan de los corleonesi.
¿Por qué se decidió a hablar Leonardo Vitale? ¿A qué se debió su arrepentimiento? Según parece, su acto de contrición fue el fruto maduro de un drama interno que lo había acosado desde la infancia, y que acabó en una especie de crisis espiritual que le hizo comprender la maldad inherente en la forma de vida que había llevado hasta entonces. Se puede decir que fue su propósito de enmienda lo que lo indujo el 29 de marzo de 1973 a cruzar las puertas del cuartel local de la brigada móvil de Palermo para confesarse autor de dos asesinatos consumados, un intento de asesinato, un secuestro y un buen número de delitos menores. Una vez en poder de la justicia, la prensa no tardó en dar la noticia de su conversión, apodándolo significativamente como “el Valachi de las afueras de Palermo”, en una clara alusión a Joseph Valachi, un soldado de la mafia norteamericana que en 1963 había sido el primer mafioso que se había atrevido a denunciar a la Cosa Nostra estadounidense ante una comisión senatorial.
No obstante, existen importantes diferencias entre los casos de Valachi y Vitale. Cuando el primero se decidió a hablar, ya era un preso de la justicia que cumplía una larga condena por asesinato, y que además había sido condenado a la vez por la Cosa Nostra al creérsele un traidor. Por el contrario, Vitale ostentaba el cargo de capodecina y gozaba de la confianza de su capo, que además era su propio tío, y todo parecía indicar que tenía posibilidades de ascender rápidamente en la estructura de la organización.
Ahora bien, cuando los agentes de la brigada móvil lo interrogaron se encontraron con un tipo mentalmente desequilibrado, que se expresaba oralmente con enormes dificultades, y cuyo discurso estaba plagado de incisos y correcciones, en lo que constituía un patético esfuerzo por dar forma a su pensamiento. Leonardo Vitale vivía angustiado por el temor de creerse un pederasta y, según parece, agobiado ante la idea de parecer menos hombre por ciertas inclinaciones homosexuales que en el mundo de la mafia están totalmente proscritas. Tres semanas más tarde, recluido ya en la prisión de Ucciardone, un juez de instrucción le pidió a un equipo de psiquiatras forenses que valoraran la personalidad del pentito, con el fin de considerar si su testimonio podría ser creíble en un juicio.
Los resultados de este examen psiquiátrico despejaron muchas dudas. Leonardo Vitale fue declarado “semidébil mental”; efectivamente, su inteligencia era límite y su estado de ánimo rozaba la depresión y la tendencia al desequilibrio, lo que hacían de él un tipo impredecible en sus manifestaciones. Además, vivía bajo los efectos devastadores del temor y los remordimientos por una sexualidad no aceptada, castrada por completo y nunca satisfecha. Pero todas estas características personales no invalidaban la información que había aportado. Los psiquiatras decidieron que su enfermedad en nada afectaba a su memoria y, por tanto, su testimonio podía ser considerado valido. Como consecuencia de sus revelaciones, veintiocho personas fueron llevadas a juicio en 1977, de las cuales sólo dos fueron condenadas: el propio Vitale y su tío.
        Declarado culpable de asesinato, Leonardo Vitale fue condenado a veinticinco años de reclusión, pero debido a sus peculiaridades mentales pasó la mayor parte de su condena en instituciones psiquiátricas, hasta ser puesto en libertad, finalmente, en junio de 1984. Seis meses más tarde, el 2 de diciembre de ese mismo año, y cuando salía de misa en compañía de su madre y de su hermana, un desconocido acabó con su vida pegándole dos tiros en la cabeza.
(*)La historia de Leonardo Vitale fue llevada al cine en el año 2006. La película, dirigida por Stefano Incerti, se titula L’uomo di vetro, y está basada en el libro homónimo de Salvador Parlagreco.
http://www.agustincelis.com/LEONARDO%20VITALE.html
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Critica
"Anche se nel Dna del regista c'è la lezione del cinema d'inchiesta e meridionalista di Rosi, 'L'uomo di vetro' non è un film 'giornalistico'. Piuttosto è interessato a scavare nella complessità di un'anima divisa in due (...) Incerti ha trovato la chiave per raccontare 'la lotta di un non eroe, in parte vittima e in parte colpevole'. Fuori dai cliché." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 15 giugno 2007)

"Senza sposare la causa oggi persa e consunta dall'uso del cine poliziesco o della fiction 'Piovra', Stefano Incerti si ispira a un libro per mettere in scena la storia umana del primo pentito di mafia, avendo nel Dna i film di Petri e Giordana. Senza l'enfasi positivista tv, il film entra sottopelle in una esemplare vicenda nevrotica degna del dr. Sacks, sulle spalle di Leonardo Vitale, primo collaboratore di giustizia che nel '72 fece saltare i tavoli di Cosa Nostra ma pure i suoi nervi: restò 11 anni in manicomio criminale. Tutta realtà romanzesca ma vissuta nel trionfo della mitologia, del folklore, del falso onore di padrini e padroni. David Coco è un attore sensibile e bravo, eccede con misura ed esprime con una sua pìetas la fragilità mentale mina, per volere di zio, una vita violenta. Con lui un cast di ottimo livello tra cui due volti necessari come Sperandeo e Bruschetta e la brava Anna Bonaiuto." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 15 giugno 2007)

"L'idea più bella de 'L'uomo di vetro', dal libro di Salvatore Parlagreco sul primo e misconosciuto pentito di mafia (Bompiani), sta tutta nel vecchio slogan della 'banalità del male'. Leonardo (David Coco) ha un'aria da bravo ragazzo, una fidanzatina adorante, una madre (Anna Bonaiuto) che partecipa alla messinscena quotidiana della normalità. Può essere mafioso uno così? Sulle prime non ci crede nemmeno la polizia. Perché non ci creda nessuno, la mafia, pirandellianamente, lo costringe a fare la parte del pazzo. Finendo per farlo quasi impazzire davvero. E qui il film potrebbe avere un'impennata se Incerti e i suoi interpreti non si contentassero di impaginare un raccontino pulito e al fondo convenzionale, ottimo per la tv. Non sono le storie che mancano, sono le ambizioni." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 21 giugno 2007)

"Chi ha apprezzato 'I cento passi' di Giordana non potrà non essere colpito da 'L'uomo di vetro,' il film del bravo Stefano Incerti, tratto dal libro omonimo di Salvatore Parlagreco, dedicato a Leonardo Vitale, primo pentito di mafia. Di grande realismo e di profondo impatto emotivo, la pellicola, disegnando un verosimile affresco del mondo di "cosa nostra", narra la storia di una lucida follia: quella di un "uomo d'onore" che decide di passare dall'altra parte dopo una lacerante crisi di coscienza. (...) Il suo precario equilibrio psichico, reso più fragile dal "facile" ricorso all'elettroshock, fa il gioco della mafia, che lo vuole pazzo: le dichiarazioni di un folle non hanno peso in tribunale. E così accade. Alla fine è quasi il solo a pagare. Rilasciato dopo 11 anni di manicomio criminale, viene ucciso nel 1984. (...) Quello di Incerti è un film a tratti duro ma mai sopra le righe, che non cade nei classici stereotipi mafiosi. Né fa di Vitale - un misurato David Coco - un eroe. Piuttosto vuole raccontare la battaglia interiore di un uomo, al contempo vittima e colpevole, che diventa una lotta, più o meno consapevole, per affermare la libertà di coscienza anche a costo di andare contro le proprie radici e gli affetti. Non siamo ancora al pentitismo strumentale, di mestiere. E alla fine l'impressione è che il ravvedimento di Vitale sia arrivato in anticipo sui tempi, troppo presto per uno Stato non ancora pronto e colpevolmente indifferente: non capì o non volle capire che la follia in parte era l'autodifesa di un uomo lasciato solo con le sue paure." (Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano', 23 giugno 2007)

"Senza sposare la causa oggi persa e consunta dall'uso del cine poliziesco o della fiction 'Piovra', Stefano Incerti si ispira a un libro per mettere in scena la storia umana del primo pentito di mafia, avendo nel Dna i film di Petri e Giordana. Senza l'enfasi positivista tv, il film entra sottopelle in una esemplare vicenda nevrotica degna del dr. Sacks, sulle spalle di Leonardo Vitale, primo collaboratore di giustizia che nel ' 72 fece saltare i tavoli di Cosa Nostra ma pure i suoi nervi: restò 11 anni in manicomio criminale. Tutta realtà romanzesca ma vissuta nel trionfo della mitologia, del folklore, del falso onore di padrini e padroni. David Coco è un attore sensibile e bravo, eccede con misura ed esprime con una sua pìetas la fragilità mentale mina, per volere di zio, una vita violenta. Con lui un cast di ottimo livello tra cui due volti necessari come Sperandeo e Bruschetta e la brava Anna Bonaiuto." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 6 luglio 2007)
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=47794