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viernes, 30 de abril de 2021

Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e di politica - Lina Wertmuller (1996)

 

TÍTULO ORIGINAL
Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e di politica
AÑO
1996
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN
101 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Lina Wertmuller
GUIÓN
Leonardo Benevenuti
MÚSICA
Pino D'Angiò
FOTOGRAFÍA
Blasco Giurato
REPARTO
Veronica Pivetti, Gene Gnocchi, Tullio Solenghi, Cinzia Leone, Mariano D'Amora, Piera Degli Esposti, Cyrielle Clair, Rossy de Palma
PRODUCTORA
Bruno Altissimi, Claudio Saraceni
GÉNERO
Comedia

Sinópsis
Nel corso di una manifestazione, tra il metalmeccanico comunista Tunin e la parrucchiera leghista Rossella scoppia una passione irrefrenabile. Talmente irrefrenabile, che Tunin acconsente a tradire il suo partito ed iscriversi a quello di Bossi per amore della bella Rossella, senza sapere che i conflitti politici e sentimentali non finiranno con la sua resa.
 
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Tunin e Zvanin, operai metalmeccanici, anche se ora litigano perché il primo è rimasto con il partito di Rifondazione e il secondo ha aderito al partito dell'Ulivo, sono vecchi amici con la passione per le automobili d'epoca. Eccitati politicamente, piombano in piena celebrazione del partito della Lega Nord: assaliti dai leghisti, Tunin si infiamma per una di loro, la debordante Rossella, parrucchiera, che accetta di cedergli, purché egli firmi l'adesione alla Lega. Zvanin, sposato con Mariolina, perora la causa dell'amico contrario ad aderire politicamente alla Lega Nord, ma finisce per incapricciarsi di Anitina, la bionda socia di Rossella. Costei adesca Tunin su un battello fluviale che poi fa scorrere davanti al ristorante aperto della moglie di lui, Palmina che lo caccia di casa, dopo aver insinuato che il loro unico rampollo, Tazio, fidanzato con Volga figlia di Zvanin, sia figlio di questi. Rossella, che si è fatta frattanto eleggere assessore alla cultura, organizza una corsa storica sperando che Tunin, che ormai vive segregato in un garage, partecipi. Costui, vedendo l'amico traditore in gara, si precipita con la sua vettura d'epoca facendolo sbandare in un campo di granturco, picchiandolo ed accusandolo di tradimento finché questi non gli ricorda che quando ha sposato Palmina costei era illibata. Riconciliati, i due salgono sull'automobile di Tunin e vincono la gara, ma alla premiazione insultano i leghisti e fuggono. Torna così la pace nelle famiglie.Ma alla vittoria del partito dell'Ulivo una manifestazione leghista turba la festa degli aderenti al partito al ristorante. Nella confusione generale Rossella e Palmina si accapigliano, e Tunin, nel separarle risente nuovamente l'attrazione fatale per la parrucchiera.

Critica
"Un po' sulla falsariga dello storico duetto Peppone-Don Camillo, il film stiracchia il primo tempo in un viavai iper-padano di agguati, sguardi assassini, incresciosi contrattempi ed ardori 'politicamente scorretti'. Le beghe strapaesane lasciano il tempo macchiettistico che trovano, Gene Gnocchi non ritrova il passo del Rubagotti della mitica 'Mai dire gol' e i dialoghi del protagonista col proprio indisciplinato pene ricordano un po' troppo uno dei più brutti libri di Moravia. Nonostante l'impeccabile cammeo del professor Mimmo De Masi nella parte di sé stesso, l'odissea dell'italico cassaintegrato non riesce, inoltre, a tradursi in doping cinematografico ed a sollevare il racconto dal suo pittoresco contesto scenografico. Ci si vorrebbe domandare perché la Wertmüller tenga in così poco conto la bella calligrafia e si ostini a filmare dei teatrini con una sciatteria non dissimile da quella simpaticamente in auge nella serie Banfi-Fenech degli anni Settanta. Ma è una domanda in fondo oziosa: anche perché il secondo tempo guadagna in ritmo indiavolato, in qualità delle battute (si fanno sentire Benvenuti e De Bernardi) e in delirio pochadistico, svincolando definitivamente il film da pericolose ambizioni." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 13 ottobre 1996)
https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/metalmeccanico-e-parrucchiera-in-un-turbine-di-sesso-e-politica/34754/

Non mi sono mai occupato di Lina Wertmüller (Roma, 1928), anche se ho visto quasi tutti i suoi film, apprezzandone senza riserve soltanto tre: Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1974), Mimì metallurgico ferito nell’onore (1971) e Pasqualino Settebellezze (1975).   Non voglio togliere niente a una regista apprezzata anche oltreoceano, spesso candidata a premi prestigiosi, ma trovo che molti suoi lavori siano stati sopravvalutati da certa critica alla disperata ricerca di pellicole intrise di messaggi politici. Lina Wertmüller comincia con il teatro con Garinei e Giovannini, si avvicina al cinema come assistente prima di Armando Grottini, poi di Federico Fellini (La dolce vita e Otto e mezzo), non trascura radio (sceneggia Un olimpo poco tranquillo), teatro (Carmen, Amore e magia nella cucina di mamma) e televisione (Canzonissima 1959, Il giornalino di Gian Burrasca). Debutta come regista con un film che ricorda I vitelloni del maestro Fellini, ma si intravede una cifra stilistica tesa alla satira grottesca: I basilischi (1963). Il vero e proprio successo arriva con il suo film migliore: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), che mette in campo per la prima volta la coppia Giannini – Melato in una commedia grottesca intrisa di elementi sociopolitici. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1974) rappresenta il culmine della poetica femminista e della polemica antiborghese, con una storia d’amore improbabile tra un rozzo marinaio (Giannini) e una ricca industriale (Melato), uniti dal naufragio su un’isola deserta. Uno dei suoi minimi storici – anche per colpa di un cast inadeguato – è Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1983), ma una caratteristica della regista restano i titoli interminabili, spesso di cattivo gusto. Ottimo Io speriamo che me la cavo (1992), con un grande Paolo Villaggio nei panni di un maestro del nord che affronta una problematica scolaresca meridionale. Il suo ultimo lavoro cinematografico è Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004), con Sophia Loren protagonista, mentre chiude con la televisione girando Mannaggia alla miseria (2009), sempre interpretato dalla Loren. David di Donatello alla carriera nel 2010. Cammeo nel 2013 in Benevenuto presidente di Riccardo Milani.
Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1995) è uno degli ultimi lavori di Lina Wertmüller, ma non è così mal riuscito, anche se i protagonisti non hanno la classe di Mariangela Melato e Giancarlo Giannini. Tullio Solenghi è Tunin, operaio di Rifondazione Comunista, Gene Gnocci è Zvanin, operaio revisionista del PDS, entrambi messi in cassa integrazione dalla Ferrari. Piera Degli Esposti e Cinzia Leone sono le mogli che affrontano la situazione – da brave donne coraggio – e mettono in piedi una trattoria alla foce del fiume dove servono rane fritte. Le donne sono i personaggi migliori, perché i due mariti invece di impegnarsi nel lavoro sono farfalloni e fedifraghi. Il tempo libero – teorizzato in un cammeo del sociologo Domenico De Masi – viene utilizzato per farsi le amanti, non tanto per riscoprire poesia, arte e attività sportive. Solenghi corre dietro alle gonne della parrucchiera leghista Veronica Pivetti – sorella di Irene, Presidente della Camera dei Deputati – e ci finisce a letto dopo averle promesso di passare dalla parte di Bossi. Nel frattempo Gnocchi tradisce la moglie con Cyrielle Claire che interpreta una giovane maestra di tango. Il tema politico si innesta sul versante erotico – abbastanza spinto – e la lotta tra leghisti e comunisti si stempera tra le lenzuola. Crisi coniugale, tradimenti, lotta di classe, ignoranza leghista, superficialità della sinistra, sono tutti elementi mixati in un gran calderone sociopolitico. La storia diverte, presa come commedia grottesca, interpretata sopra le righe da Solenghi e Gnocchi, ma anche da una Pivetti molto nuda e in gran forma, come non la vedremo più. Certo, sono lontani i tempi di Giannini e Melato, siamo nel 1996, dobbiamo accontentarci di una disfida Solenghi – Pivetti, condita di riferimenti politici e di allusioni culturali. Il tentativo di attualizzare Travolti da un insolito destino in salsa erotico – politica non riesce più di tanto, ma il film va preso per quel che è: una pochade senza pretese, abbastanza volgare, zeppa di dialoghi tra Solenghi e il suo pene, ricca di momenti da commedia sexy condita da una spruzzatina di sociologia politica. La crisi della sinistra appena s’intuisce, la diffidenza verso D’Alema pure, l’astio contro i leghisti è stemperato dal sesso a buon mercato, alla fine l’immagine che resta impressa è quella di Soleghi che si copre le terga sia con la bandiera dell’Ulivo che con quella della Lega. La lotta politica sta andando a puttane, in pratica. Se Wertmüller, De Bernardi e Benvenuti volevano lanciare questo messaggio (ma non credo) ci sono riusciti in pieno.  Buona l’ambientazione padana, alla periferia di Mantova, nel comune di Pizzighettone, alla foce del fiume Po.
A nostro giudizio comunque da recuperare, se ci accontentiamo di rivedere una pochade, ma dobbiamo avere la capacità di sopportare l’irritante non recitazione di un Gene Gnocchi sempre uguale a se stesso.
Giordano Lupi
https://cinemaitalianodatabase.com/2018/05/11/metalmeccanico-e-parrucchiera-in-un-turbine-di-sesso-e-politica-1995-di-lina-wertmuller-recensione-del-film/


Lina Wertmuller ha condotto una curiosa carriera. A costo di ricevere accuse di sessismo, resto convinto del fatto che la sua importanza nel cinema italiano sia da accreditarsi al suo essere donna, data l’inconsueta presenza femminile nostrana dietro le macchine da presa. Al suo attivo ha una serie di film vivaci quanto grevi, grotteschi e romantici al contempo, realizzati nella prima parte del suo percorso artistico. Dalla metà degli anni settanta si può tranquillamente parlare di stasi se non di involuzione.

Apice di questo periodo mediocre (successivamente solo stantii e tristi ricordi di un glorioso passato) è questo Metalmeccanico e parrucchiera, dichiaratamente girato con l’intenzione di rinverdire i fasti della coppia Mariangela Melato e Giancarlo Giannini. Commedia sociale, insomma, con al centro due militanti (un rifondarolo e una leghista) padani travolti da un insolito destino d’anarchia sentimentale.

Il primo guaio è che Veronica Pivetti e Tullio Solenghi non sono nemmeno lontanamente accostabili a Melato e Giannini e sovente azzardano vaghe imitazioni di tic e guizzi dei due mostri sacri. Il secondo è che una storia del genere poteva funzionare negli anni cinquanta, benché in certe parti del centro nord si respiri tuttora quell’aria un po’ guareschiana del manicheismo politico che finisce a tarallucci e vino (e in questo caso nel letto).

In realtà Wertmuller non osa più di tanto in questa ennesima versione di Don Camillo e Peppone in salsa erotica, gioca di rimessa non eccedendo come in passato (ritmo come sempre forsennato ma attenuato e forse edulcorato), adeguandosi ad un passo tutto sommato televisivo in cui la scioltezza narrativa non è in armonia con la fluidità stilistica.

Il fatto che il film si lasci guardare senza troppe pretese non c’entra con l’evidenza che trattasi di film confusionario e fuori tempo massimo, in cui il richiamo sessuale se ne fotte dell’ideologia politica, perché è tutto talmente debole che non si rinuncia ad una scopata per una falce e un martello o per un luogo di fantasia su bandiera verde.
https://lorciofani.com/2015/06/09/italian-retro-metalmeccanico-e-parrucchiera-in-turbine-di-sesso-e-politica-1996/


 
 
 

jueves, 29 de abril de 2021

E Dio disse a Caino - Antonio Margheriti (1970)


TÍTULO ORIGINAL
E Dio disse a Caino
AÑO
1970
IDIOMA
Italiano y Alemán (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
109 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Antonio Margheriti
GUIÓN
Giovanni Addessi, Antonio Margheriti
MÚSICA
Carlo Savina
FOTOGRAFÍA
Riccardo Pallottini, Luciano Trasatti
REPARTO
Klaus Kinski, Peter Carsten, Marcella Michelangeli, Guido Lollobrigida, Antonio Cantafora, Giuliano Raffaelli, Luciano Pigozzi
PRODUCTORA
Co-production Italia-Alemania del Oeste (RFA); D.C. 7 Produzione, Peter Carsten Produktion, D.C. 7 Produzione
GÉNERO
Western | Spaghetti Western

Sinópsis
El teniente Hamilton, del ejército nordista, queda en libertad después de cumplir diez años de trabajos forzados, acusado injustamente por Acombar, quien se apoderó no sólo de sus bienes, sino también de su prometida. Ahora regresa para vengarse. Coincidiendo en la diligencia con el hijo de Acombar, le envía el recado de su inminente llegada. Hamilton espera que caiga la noche y llegue un tornado para llevar a cabo su venganza. Acombar, enterado de sus planes, ordena a sus hombres perseguir y eliminar a Hamilton. (FILMAFFINITY)
 
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Gary Hamilton (Kinski) recibe el perdón tras estar diez años sentenciado a trabajos forzados. Hamilton no duda en volver a su pueblo, para allí acabar con Acombar (Peter Carsten), el hombre que lo traicionó y le preparó la trampa que sirvió para acusarle de un crimen que no había cometido.
El primer dato que llama la atención de "Y Dios dijo a Cain" es que su guión esta tomado de un spaghetti de unos meses antes, "Los Pistoleros de Paso Bravo" (1969-Salvatore Rosso), y es que además de copiar la base inicial de la película, tanto el nombre del protagonista como del villano principal son el mismo que en la película de Rosso. Pero solo coinciden en este par de detalles, y aunque no se puede dudar de que los guionistas de esta se "inspiraron" en aquella otra, la labor del director Antonio Margheriti hace que sean dos películas completamente distintas.
La mayor parte del metraje se sitúa en una única noche de venganza y violencia, en la que el Halmiton va eliminado uno a uno a todos los hombres de Acombar, para después terminar acabando con este en un final homenaje a la escena de los espejos en "La Dama de Shangai" de Welles.
Coinciendo con la "vendetta" del protagonista, esa misma noche un tornado castiga el pueblo, haciendo que los pistoleros de Acombar tengan más difícil la labor de encontrarlo. Y es que el propio Halminton a veces parece que se funde con el tornado, y a ojos de sus enemigos es un fantasma que aparece y desaparece a voluntad, mientras la campana de la iglesia no deja de sonar...
Antonio Margheriti logra de un guión bastante limitado, montar una película cuanto menos curiosa, con muchos momentos inundados de escenas más cercana a un film de genero terrorífico o de suspense, sobre un personaje que cuanto más avanza el metraje más parece un ente no-físico, que simplemente se pasea por el pueblo y la mansión de Acombar, acabando con todos los pistoleros y cada vez con menos lineas de diálogos, para al final terminar desapareciendo junto con el tornado del pueblo, después de completar su venganza.
Aunque los intentos de Margheriti son loables, no puede evitar algunos lastres, entre ellos el escaso presupuesto, o la mala fotografía, que hace que la noche sea demasiada noche, eliminando la visión en muchas partes de la película.
Tampoco acompaña mucho la música, que es básicamente una rutinaria banda sonora de cualquier film de terror de serie B.
Sobre Klaus Kiski, aunque a veces parece que actúa con cierta desgana, y realmente no termina de desarrollar el personaje (de todas formas, quizás es que realmente tampoco había mucho que desarrollar), es un papel que no se puede negar que le queda perfecto, y la película se convierte en un buen lucimiento para el aleman.
Cinta de visita obligada para llegar a conocer cuando el spaghetti se unía a otros géneros, dando unos resultados bastante loables, que cuanto menos se salía del esquema tipico visto en centenar de westerns europeos.
http://800spaghettiwesterns.blogspot.com/2009/10/y-dios-dijo-cain.html

 

Segunda vez que traigo por aquí a Antonio Margheriti, junto a Mario Bava el mejor y más definitorio director del orrore a’lla italiana de los 60. Y si la otra vez fue con Danza macabra y su autoremake, La larga noche del baile de los muertos, en lo que pretendía ser un artículo-espejo que mostrara el esplendor del género a principios de esa década y su posterior resurrección en los 70, ahora regresa con, nada menos, que la transposición de las constantes espirituales góticas al polvoriento territorio del eurowestern, transmigración genérica de singulares resultados, pocos epígonos -principalmente Oro maldito el otro gran spaghetti-western Segunda vez que traigo por aquí a Antonio Margheriti, junto a Mario Bava el mejor y más definitorio director del orrore a’lla italiana de los 60. Y si la otra vez fue con Danza macabra y su autoremake, La larga noche del baile de los muertos, en lo que pretendía ser un artículo-espejo que mostrara el esplendor del género a principios de esa década y su posterior resurrección en los 70, ahora regresa con, nada menos, que la transposición de las constantes espirituales góticas al polvoriento territorio del eurowestern, transmigración genérica de singulares resultados, pocos epígonos -principalmente Oro maldito el otro gran spaghetti-western clave crística) dirigido por inaprensible Giulio Questi para un Tomás Milian desatado o la zarrapastrosa aunque interesante Django, Il bastardo de Matteo Garrone, más que nada por otorgar a su infalible pistolero interpretado por el marmolillo Anthony Steffen (de nacimiento Antonio De Teffe) lo que ya parecen ser superpoderes- y soterrada influencia futura, como se verá un poco más adelante en la persona del gran Clint Eastwood, el autor que de modo más consistente continuó esta veta tan interesante como sub-explotada.
Lo que en teoría no pasa de ser un muy poco estimulante que da vueltas a la enésima venganza personal tan querida por el género (tanto que Margheriti lo despacha en apenas un cuarto de hora diurno que no es más que la carrerilla para lo que de verdad le interesa crear) queda transformado completamente de acuerdo con la pasión por lo terrorífico de su autor. Nace entonces un western gotizante, nocturno y ventoso, estilizado hasta el delirio y absolutamente arrebatado. Inmerso por completo en las reglas del relato de horror y de la fantasía tétrica – el héroe visitará la iglesia del pueblo y confesará al cura su misión (purificándose antes de un gran viaje, en este caso no físico sino moral) y luego usará ese mismo lugar sagrado para atraer y ejecutar a varios de los sicarios de Carsten (en un detalle impío sorprendente este matará al cura al pie del órgano), el enfrentamiento definitivo tendrá lugar entre el fuego, simultáneamente símbolo purificador y recordatorio infernal que rodea a la imagen de Kinski multiplicada por los espejos del salón donde tiene lugar el fuego (con el detalle de que el villano dispara contra su propia imagen) y cuando el mal sea finalmente vencido el imperio que sostenía se derrumbará en cenizas como una casa Usher del spaghetti-western- pero con el mérito de conseguirlo sin alterar un ápice la historia, únicamente por la fuerza de un sentido de la atmósfera y una capacidad para convocar visiones de ultratumba que nace directamente de la forma, el enfoque y la estética escogidas. Del conocimiento de unos resortes y de la inteligencia para utilizarlos de modo natural, sin estridencias, convirtiendo la deriva fantasmagórica en el curso natural de las cosas.
En consecuencia todo el tercio inicial no será más que un obligatorio desarrollo que desembocará en una clímax abiertamente irreal y preceptivamente tormentoso en el que los fenómenos meteorológicos, en este caso un tornado, aparecen como sanción casi de orden divino para con las maldades pasadas y presentes del vil personaje del cacique Acombar, interpretado por un excelente Peter Carsten (su presentación será disparando frenético sobre una serie de muñequitos mientras planea la carrera política de su hijo) aislado por una sola noche, que el tiempo que dado para cumplir la venganza (por cierto, que estará bajo la cañón un instante, mediado el metraje, pero no será ejecutado porque, obligatoriamente, tiene que ser el último, no olvidemos que el mundo de lo onírico está, en realidad, lleno de reglas). Aunque quizás no sea tanto divina como más bien una suerte de manifestación infernal a juego con el diabólico jersey rojo que luce el vengador, un Klaus Kinski absolutamente genial, ángel contrahecho de volcánica presencia fílmica, imposible mezcla de hieratismo y tensión perfecta para un personaje que es el terror mismo, la muerte encarnada. Un ente, más que un hombre, ubicuo (recorre todo el pueblo por las galerías subterráneas que lo surcan, pertenecientes  un antiguo cementerio indio con todo lo que eso sugiera, y accede a las casas por toda suerte de portezuelas secretas que solo él conoce) y clarividente, investido de unas cualidades prácticamente sobrenaturales -aparecerá en el pueblo recortado contra el sol y totalmente vestido de negro (luego abandonará el gabán para mostrar quedarse con el mentado modelo rojo y cuando haya concluido su misión se marchará sin nada tal y como salió de la prisión en la que lo encontramos trabajando como forzado y matando sin pestañear a una serpiente de cascabel) y tras el se desatarán los elementos, cuando Carsten mencione su verdadero nombre (Gary Hamilton) una ráfaga abrirá de golpe una ventana, en otro genial detalle por tres veces cogerá un recipiente con whisky (al salir de la cárcel en la cantimplora que supuso su condenación, de una botella en la casa del médico, su único amigo, y de un vaso en el saloon cuando el hijo de su enemigo descubra la verdad) y solo lo olerá o en la antesala del fin, cuando finalmente asalte la mansión de este, su antigua amante no será capaz de verle a través de los visillos.
Todo detalles, tanto de puesta en escena como de concepto, que delinean con elegancia la transmutación de un género en otro. La capacidad de la dirección y la planificación para transcender un origen de manifiesta vulgaridad.

Margheriti consigue con la sutileza de estos medios filtrar el terror por entre las ranuras del género en un planteamiento que anticipan las incursiones tenebristas de Clint Eastwood con la finalmente malograda Infierno de cobardes o la ya magistral El jinete pálido (no ya solo en el abierto tono fantasmal, sino en detalles concretos como la planificación del tiroteo final entre las casa laberínticas con un Predicador que aparece y desaparece como por ensalmo) e incluso en esa cumbre que es Sin perdón, que recuerda a este modesto film en su fotografía o en el ominoso clima de pesadilla de su imponente clímax final.
Evidentemente el film no está libre de algunas losas coyunturales que lastran formalmente el conjunto, desde los zooms en avalancha a los feos reencuadres que ya presagian los 70, pero deja imágenes de gran poderío simbolista: caballos al galope sin montura por en medio de las calles, tañidos de campanas que anuncian la llegada de tú hora entre reflejos y cortinajes, pasadizos subterráneos, viento y balas, el pasado como en un espectro intocable en rojo y negro. En definitiva la consecución de un pathos fatalista presente en este western bastardo con la misma fuerza, sino más, que trabajos puros como la mencionada Danza macabra o en la no menos lograda I lunghi capelli della morte, joyas que filmadas a mayor gloria de la lúgubre belleza, a la vez carnal e incorpórea, de Barbara Steele.
https://esbilla.wordpress.com/2010/05/24/lo-encontre-en-una-noche-de-fuego-y-ruido-y-dios-dijo-a-cain-el-eurowestern-gotico-de-antonio-margheriti-el-estilo-transformando-el-origen-o-klaus-kinski-como-la-venganza-personificada/



miércoles, 28 de abril de 2021

Senza Pietà - Alberto Lattuada (1948)


TÍTULO ORIGINAL
Senza pietà
AÑO
1948
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
90 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Alberto Lattuada
GUIÓN
Federico Fellini, Alberto Lattuada, Tullio Pinelli
MÚSICA
Nino Rota
FOTOGRAFÍA
Aldo Tonti (B&W)
REPARTO
Carla del Poggio, John Kitzmiller, Pierre Claudé, Giulietta Masina, Folco Lulli, Lando Muzio, Enza Giovine, Daniel Jones, Otello Fava
PRODUCTORA
Lux Film
GÉNERO
Drama | Crimen. Racismo. Trenes/Metros

Sinopsis
Narra el amor entre Angela, una guapa joven italiana, y Jerry, un muchacho afroamericano. La diferencia de razas dificultará su relación. (FILMAFFINITY)
 
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Tal vez me tildarán de pesado y de insistente. Ya sé que la mayoría de ustedes conocen y tienen claro a que se llamó y se sigue llamando “neorrealismo italiano”. Supongo que soy yo mismo quien tiene el concepto tan pillado con pinzas que siempre estoy recurriendo a definiciones y estudios más o menos documentados sobre la materia. Lo último que acabo de leer al respecto es que se trata de una especie de versión italiana del llamado realismo poético francés del que Marcel Carné y su Quai des brûmes eran dos magníficos exponentes. La cruda realidad reflejada con sensibilidad poética podría estar en el punto de partida de algunas películas insignia del movimiento neorrealista. Baste recordar Stromboli, tierra de Dios de Roberto Rossellini, pero no alcanza, y este es un juicio personal, a otros trabajos como esta “Senza Pietá” de Alberto Lattuada.

Sinceramente creo que, sin la dura realidad de la ocupación alemana y la resistencia al poder nazi no hubiésemos hablado nunca de neorrealismo. “Roma, ciudad abierta,”(Rossellini, año 1945) es un claro exponente cinematográfico de aquella situación, y puede considerarse como la película matriz de todo este movimiento. En esa línea claramente influenciada por el conflicto bélico tenemos otras películas: Paisa o Alemania año cero, del propio Rossellini o esta Senza Pietá de Lattuada. Otras se alejarán un tanto de la guerra finalizada, aunque seguirán mostrando una sociedad que trata de resurgir de las cenizas de las bombas y de los escombros de la destrucción: Ladrón de Bicicletas.

En Senza Pietá la guerra está latente. La Policía Militar americana trata de poner cierto orden en las calles de una Italia recién liberada. Son tiempos de contrabando, de pillaje, de vandalismo y de negocios sucios. Tiempos de miseria donde lo importante es sobrevivir aunque sea a costa de comerse las lágrimas y enterrar la moral en el fondo de la faltriquera. En las sinopsis que he leído de esta película, se dice que estamos ante una historia de amor entre una prostituta y un sargento americano de color. Tal parece que quienes resumen la película han visto la película pulsando el “forward” . No mienten, pero no dicen toda la verdad. Identificar el engaño a una buena muchacha,  que tras enterrar a un hijo muerto con apenas 12 días y luchando por sobrevivir parte en busca de su hermano, con la prostitución es sintetizar tanto las cosas que acaban deformando la verdad. A la única persona que se preocupa por ella, el sargento de la PM, se le tiende una trampa en la que acaba cayendo por amor. Y ella, durante el tiempo que el soldado pasa en prisión se ve obligada a muchas cosas por un grupo mafioso que domina todo Livorno.

Tampoco estoy de acuerdo con quienes distorsionan la historia de amor añadiéndole tintes racistas o antirracistas, según se mire, aunque en este tema es posible que a finales de los 40 las cosas se viesen de otro modo muy distinto al actual. En cualquier caso, y según cuentan las crónicas, muchos soldados negros trataban de quedarse en Europa dada la situación insufrible que vivían los hombres de color en los Estados Unidos.

La historia que, brevemente, les he contado sin destripar muchas cosas, está en el centro. En la periferia tenemos la fotografía real de una Italia rota, destrozada por la guerra, donde se filmaba en las calles porque Cineccitá estaba destruida, donde incluso muchos actores no eran profesionales y donde, a través del cine, se daba una imagen al mundo de la Italia cierta y real.

Antes del conflicto mundial, el cine italiano era un exponente de la Italia tradicional, llevando a la pantalla obras clásicas de la literatura , dramas rurales o comedias urbanas. Con la reconstrucción llega otro tipo de cine donde los aspectos comerciales empiezan a tener un peso específico importante y donde la ficción le va robando espacio a la realidad. Entre esos dos ríos: El neorrealismo es el espejo de una Italia luchadora.

En Senza Pietá colaboró (también lo hizo en otros trabajos de Lattuada) un Federico Fellini, cuyo debut directivo se produciría poco después, también con el director milanés, en Luces de Variedades. La presencia de Nino Rota en la música o de Aldo Tonti en la fotografía son circunstancias a valorar y mucho.  Una gran promesa como Giulietta Massina es otro de los grandes alicientes del film.

Senza Pietá es un trabajo excelente de uno de los mejores directores italianos. Un gran desconocido para la mayoría. De él, ya comentamos en este blog, Anna, con Silvana Mangano, y con toda seguridad continuaré viendo trabajos suyos.
http://conelcineenlostalones.blogspot.com/2014/03/sin-piedad-alberto-lattuada-1948.html

Sinopsis
Recién terminada la Segunda Guerra Mundial, Angela intenta llegar a Livorno donde cree que vive su hermano. Viaja en el vagón de un tren como polizón y durante el trayecto, es testigo de un tiroteo entre unos delincuentes y una patrulla militar estadounidense. Uno de los forajidos y un sargento afroamericano suben disparándose al furgón y el militar resulta herido. Angela trata de curarle y cuando el tren llega a la estación pide ayuda, pero confundida por la policía con una prostituta, es arrestada.
Enseguida, la internan en el 5º pabellón del hospital de Livorno, el lugar donde las mujeres apresadas en las redadas, permanecen retenidas.
En la institución, Angela hace amistad con Marcella y una noche las dos muchachas escapan juntas.
Marcella la lleva ante Pierluigi, quien dirige una red de contrabando y prostitución. Angela, está sola y se ve obligada a aceptar la poco honesta oferta de trabajo hecha por el mafioso, quien le cuenta que su hermano era un contrabandista y murió en un enfrentamiento con la policía.
Una tarde, Angela se encuentra de nuevo con Jerry Jackson, el sargento estadounidense negro a quien ayudó en el tren, y se hacen amigos.
Los bandidos locales quieren utilizar a Jerry para robar mercancías de los almacenes del ejército de los EE.UU. y después venderlos en el mercado negro. En un principio, el hombre rechaza el intento de soborno, pero se ha enamorado de Angela y con la esperanza de obtener el dinero suficiente para que deje a Pierluigi, cede a los deseos de los delincuentes y colabora con ellos. Sin embargo, Jerry es capturado y encarcelado.
Unos días después, el militar consigue fugarse.
Mientras Marcella consigue su sueño y se marcha a Estados Unidos con su novio, que también es afroamericano, Jerry y Angela le roban a Pierluigi una gran suma de dinero destinada a pagar una carga de contrabando. Los malhechores los persiguen y finalmente los encuentran en una pequeña iglesia. Se produce un tiroteo y Angela cae muerta.
Mientras el jefe y sus hombres huyen con el dinero, Jerry, desesperado, carga el cuerpo de Angela en un camión y se lanza por un acantilado.

Curiosidades
-Carlo Ponti, el productor, había sugerido a Fellini y Pinelli, a la postre los guionistas del film, que antes de escribir el guion, visitaran los escenarios donde se iba a desarrollar la trama; ambos se quedaron en el lugar durante unas semanas disfrazándose de vagabundos para poder moverse libremente sin ser molestados.
-La realización de la película se vio dificultada por rodarse en la “Pineta di Tombolo” de Livorno, escenario donde campaban a sus anchas la delincuencia y la prostitución (incluso Carla Del Poggio, fue confundida con una prostituta). Fueron necesarios acuerdos con las pandillas que infestaban la zona. Todo ello hizo que Lattuada tuviera que renunciar a varias escenas.
-John Kitzmiller, además de ser uno de los intérpretes de la película, era oficial del Ejército de EEUU, y actuó como mediador para posibilitar la filmación de escenas dentro del peligroso lugar de rodaje.
-El director del Hotel Majestic en Roma actuó en el film bajo el pseudónimo de Pierre Claudè, dando vida a Pierluigi, el líder de la banda. Fue su única actividad cinematográfica.
-Federico Fellini con Giulietta Masina por un lado, y Alberto Lattuada con Carla Del Poggio por otro, formaban dos matrimonios en la vida real; el mismo Lattuada relata que en el momento de realizarse “Senza pietà”, las dos parejas eran muy amigas y formaban "un cuarteto inseparable". Tres años más tarde, la relación se cortó tras el fracaso de la película “Luci del varietà” (1950) que marcó el final de la colaboración entre los dos cineastas.
-El personaje de la hermana Gertrude está basado en una persona real, una monja que cuidaba a mujeres jóvenes en el 5º Pabellón del Hospital Livorno.
-La escena final se desarrolla a primera hora de la mañana, pero en realidad se filmó por la tarde, debido a la posición del sol sobre la costa oeste de la Toscana que habría ocasionado problemas de contraluz.
-La película fue prohibida en las zonas de ocupación estadounidenses y británicas en Alemania.
-La relación amorosa interracial entre los protagonistas era considerada un tema “delicado” e hizo que Lattuada tuviera problemas de distribución del film en algunos países.
-“Nastro d’Argento (Cinta de Plata) para Giulietta Masina como Mejor Actriz Secundaria.
https://pizarradelespectador.blogspot.com/2019/08/cine-neorrealista-costumbrista-italiano_24.html

Nell'immediato secondo dopoguerra Angela, una ragazza sbandata, cerca di raggiungere in treno Livorno, dove ritiene abiti il fratello. Mentre viaggia su un treno merci, rimane coinvolta in una sparatoria tra i militari americani e alcuni malviventi, e assiste al ferimento di Jerry, un soldato di colore. Condotta in un istituto religioso dalla polizia, Angela stringe amicizia con la volitiva Marcella: le due ragazze evadono insieme. Livorno è in quel momento sede della principale base americana in Italia, luogo di perdizione e centro dei traffici più oscuri. Marcella conduce Angela dall'ambiguo Pierluigi, che gestisce un losco giro di contrabbando e prostituzione. Il fratello non è più in città, e Angela è costretta a non rifiutare le disoneste offerte di lavoro fatte da Pierluigi. Nel frattempo Jerry è guarito e, incontrata di nuovo Angela, se ne innamora; per aiutarla accetta di consegnare merce alla banda di Pierluigi. Scoperto, viene però arrestato. Per Angela inizia un periodo terribile di sfruttamento, oggetto com'è degli insani ricatti di Pierluigi. Jerry evade dal campo di reclusione e torna alla ricerca di Angela. Mentre Marcella corona il suo sogno di libertà e parte per gli Stati Uniti, Jerry e Angela tentano di sottrarre a Pierluigi una ingente somma di denaro destinata al pagamento di un carico di contrabbando. I malviventi li inseguono e, durante un drammatico conflitto a fuoco, Angela è colpita a morte. Jerry, disperato, carica il suo cadavere su un camion e si getta con l'amata defunta in una scarpata.

Nel novero dei vari modi con i quali il cinema italiano del primo dopoguerra si avvicina alla realtà postbellica, la sottolineatura della componente 'nera' è elemento di primo piano, soprattutto in quei registi che uniscono all'attenzione per i dati formali una cultura filmica che guarda agli Stati Uniti come alla Francia: su tutti, Giuseppe De Santis e Alberto Lattuada. Già in Il bandito (1946) Lattuada aveva posto l'accento sull'ineluttabilità del destino che attendeva i reduci, sconfitti dall'andamento degli eventi bellici e poi da una società che li respingeva, e costretti infine a scendere sul terreno della criminalità. Senza pietà, con la didascalia che lo apre a ricordarlo fin dal primo momento, sposta il discorso sui tanti indifesi rimasti vittime di un periodo di grande confusione materiale e morale, della solitudine, della povertà, della necessità di riscatto. Per questo Lattuada sceglie Tombolo, già immortalata come 'paradiso nero' da un'altra pellicola (Tombolo ‒ Paradiso nero, Giorgio Ferroni 1947), come simbolo della tentazione criminale, luogo di perdizione dove albergano i vizi e le depravazioni peggiori. Il racconto, che procede a ritmo serrato e incrocia le vicende delle ragazze a quelle di Jerry, soldato nero che ama una donna bianca, ritrae con cupo realismo i mille mali ancora da sanare che attraversano quell'Italia distrutta. La disperazione di fondo, il plumbeo grigiore sono un portato del cinema francese d'anteguerra, mentre la densità della messa in scena e l'avvolgente linearità di alcuni movimenti di macchina provengono direttamente dall'amore per i film hollywoodiani. La sequenza della balera, nella quale le ragazze danzano scatenate con i loro amanti e clienti, è una testimonianza di questo amore, come già avviene nell'opera di De Santis; il montaggio rapido fa salire la tensione insieme al ritmo della musica ed esalta la controllata ma sensuale esposizione dei corpi delle donne, fuori dalle sottovesti e dai vestiti a fiori.

La coppia Fellini-Pinelli, responsabile di tanti film importanti dell'epoca, costruisce una sceneggiatura solida e sostenuta dalla partecipazione di alcuni dei miglior caratteristi dell'epoca, dal grande Folco Lulli all'onnipresente John Kitzmiller (già in Paisà, in Tombolo ‒ Paradiso nero e in Vivere in pace di Luigi Zampa, 1947) che in virtù del suo status di ufficiale dell'esercito americano fece ottenere a Lattuada il permesso di girare a Livorno. Carla Del Poggio perde in Senza pietà l'aura rassicurante di ragazza della porta accanto che le avevano donato le sue partecipazioni cinematografiche d'anteguerra. Il film segna anche la definitiva consacrazione di Giulietta Masina che, al suo primo ruolo importante, fu premiata con un Nastro d'argento. Esaurita la contingenza del momento, ed evaporato il comune sentire dell'ispirazione neorealista, Lattuada lascerà prevalere l'ispirazione calligrafica e letteraria, a partire dal successivo Il mulino del Po (1949).

Interpreti e personaggi: Carla Del Poggio (Angela Borghi), John Kitzmiller (Jerry Jackson), Giulietta Masina (Marcella), Folco Lulli (Jack), Pierre Claudé (Pierluigi), Daniel Jones (Richard), Enza Giovine (suor Gertrude), Otello Fava (Sordo), Lando Muzio (capitano sudamericano), Romano Villi (bandito), Max Lancia [Cesare Lancia], Mario Perrone (banditi), Carlo Bianco (barone Hoffman), Joseph Falletta (americano), Patrizia Lari (ragazza nell'istituto correzionale).
https://www.treccani.it/enciclopedia/senza-pieta_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/


martes, 27 de abril de 2021

Mystere - Carlo Vanzina (1983)

 

TÍTULO ORIGINAL
Mystère
AÑO
1983
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN
84 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Vanzina
GUIÓN
Carlo Vanzina, Enrico Vanzina
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Giuseppe Maccari
REPARTO
Carole Bouquet, Phil Coccioletti, Duilio Del Prete, John Steiner, Peter Berling, Samuele Goldzader, Janet Agren, Marcia Briscoe, Livio Galassi, Lionello Pio Di Savoia, Gregory Snegoff, Gabriele Tinti, Stefano Davanzati, Sergio Tardioli
PRODUCTORA
Tris Film
GÉNERO
Thriller

Sinopsis
Unos asesinos buscan a una prostituta que ha entrado en posesión de un encendedor que, sin que ella lo sepa, contiene los negativos que demuestran el asesinato de un político. (FILMAFFINITY)
 
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So bene perché ho dedicato mezza serata a questo film: quando uscì, la mia “ideologia” mi impediva di andarlo a vedere. Ma quanto mi piaceva Carole Bouquet…

Aveva 26 anni, l’avevo scoperta con l’ultimo Bunuel e come Bond Girl, appariva algida e sfolgorante, e non era il caso di indagare sulle sue effettive qualità d’attrice. Qui recita la parte di una “prostituta d’alto bordo” (già questa espressione suscita un certo languore) ed è doppiata da Maria Pia Di Meo. Non mostra quasi nulla, fa intravedere lo stretto indispensabile, molto più nudo è il pessimo partner, Phil Coccioletti, il poliziotto soprannominato “Colt”.

Leggo su wikipedia che i Vanzina “ebbero l’idea di questo film dopo aver visto il francese Diva”, di due anni precedente: se è così, non mi pare abbiano dimostrato di saper copiare… La critica sottolineò come si trattasse del primo film con il quale uscivano dal recinto comico-giovanilistico, proiettandosi verso un thriller soft core che troverà il suo apice nell’85 con il ben più incisivo Sotto il vestito niente.

Ambientato a Roma, il film comincia con un delitto in Piazza di Spagna ricalcato su JFK a Dallas. Ma un fotografo ha colto perfettamente il volto dell’assassino (il quale non si preoccupa nemmeno di darsi alla fuga rapidamente). Questo fotografo sarà un cliente della bruna Mystère e dell’amica bionda Pamela (Janet Agren), che esercitano in Via Veneto. Poi verrà ucciso da un uomo che usa un bastone con coltello retrattile, e che si rivelerà essere della Criminalpol (Duilio Del Prete).

L’intrigo internazionale è fiacco (spia sovietica, l’assassino, John Steiner, visto in Tepepa e vari poliziotteschi), le interpretazioni una più scadente dell’altra. “Colt” risulta antipatico, ma è un aitante fustacchione e Mystère finirà per innamorarsene… Pare che i Vanzina avrebbero preferito evitare un lieto fine, ma si impose il produttore, Goffredo Lombardo.
https://rudighedini.wordpress.com/2019/12/20/mystere-id-carlo-vanzina-1983-filmtv132-4/

 

Secondo il consueto divoramento di cinema pregresso che nel passar degli anni ha caratterizzato sempre più il cinema di Carlo Vanzina, nel 1983 fu il turno, per stessa ammissione del fratello Enrico, nientemenoché del francese Diva (Jean-Jacques Beineix, 1981), brillante opera d’inizio anni Ottanta oggi piuttosto dimenticata ma che al tempo della sua comparsa nelle sale riscosse un ottimo successo in patria, e un buon successo anche in Italia. Nel caso di Mystère, primo tentativo dei fratelli Vanzina di uscire dal territorio del comico e della commedia, la filiazione è meno scoperta che in altre occasioni (basti pensare a Sotto il vestito niente, 1985, e ai suoi evidenti rapporti col cinema di De Palma) ma si fa via via più dichiarata nello svolgersi del racconto, che presenta una seconda parte popolata da bizzarri personaggi piuttosto aderenti all’opera-modello di Beineix. Come spesso accade nel cinema di Vanzina, si tratta di una filiazione più di spirito e meno di sostanza. Se il plot di Mystère ruota intorno a un oggetto-MGuffin come per Diva (qui un accendino che contiene importanti informazioni riguardo a un omicidio, là una registrazione abusiva di un’esibizione operistica), d’altra parte la tecnica del McGuffin non è certo un’esclusiva né di Beineix né di Vanzina, assurta dalla tradizione cinematografica a escamotage narrativo di amplissimo utilizzo.

La comunanza di spirito, tuttavia, sembra tenere insieme i due film con qualche ragione in più. In entrambi i casi abbiamo a che fare con un contesto metropolitano fatto di subite e desiderate solitudini, in entrambi i casi assistiamo allo srotolarsi di una pazza corda narrativa che prende le mosse da un piccolo oggetto insignificante per intrecciare in un’incessante caccia un numero crescente di personaggi, minacciosi e/o grotteschi. Come d’uso con maggiore o minore intensità nel cinema di Vanzina, è possibile rintracciare anche qui almeno una citazione del film preso a modello: potremmo definirla “citazione debole”, dal momento che la ben nota ed entusiasmante sequenza in Diva dell’inseguimento in motorino nei corridoi sotterranei della metropolitana è forse qui riproposta in un inseguimento a piedi sui rulli della metro di Roma, vagamente simile al modello sul piano stilistico. Citazione debole, poiché il riferimento può essere sì riconosciuto, ma in una dimensione di lontano richiamo, e decisamente meno efficace nella sua riuscita audiovisiva. Altro esempio di citazione debole può essere rintracciato nel fumettistico personaggio con gli occhiali da sole scuri che assume un peso rilevante verso la conclusione di Mystère. Anche Diva è popolato di eleganti e silenziosi malintenzionati con occhiale scuro, con la differenza però che Mystère colloca il suo scherano con gli occhiali da sole pure dentro a un bagno turco, e le risate sono garantite. L’effetto è quello di una parodia più o meno volontaria, che ricorre più volte nel racconto di Mystère e sul quale torneremo più avanti.

In entrambi i casi, infine, sia Beineix sia Vanzina si collocano in un territorio anni Ottanta in cui nello stesso film i generi s’intrecciano, si mescolano, fino al loro totale annullamento. In Diva ciò appare un preciso tratto al quale Beineix giunge muovendosi senza evidenti idee precostituite; la dimensione è quella del fumetto, in cui noir, ribellismo anarcoide, poliziesco, spy movie, trasalimenti melodrammatici e risvolti erotici coesistono minuto dopo minuto, senza presupporre nemmeno una loro distinzione. In Mystère i Vanzina sembrano invece procedere per accumulo, sterzando le tonalità di genere soprattutto nella seconda metà. In Beineix, i generi sono letteralmente dimenticati in un oggetto nuovo; in Vanzina, sembrano invece continuare a esistere per compartimenti stagni all’interno dello stesso racconto.

Gli esiti, diciamolo subito, sono decisamente lontani dal puro piacere di fruizione garantito dal film di Beineix. E anzi, si mantengono a discreta distanza anche da altre buone o ottime riuscite dei Vanzina. Il paragone con Sotto il vestito niente, giunto nelle sale appena due anni dopo, è a tutto svantaggio di Mystère. Enrico Vanzina racconta che per Mystère ci furono alcuni problemi col produttore Goffredo Lombardo, responsabile dell’aggiunta posticcia di un affrettatissimo finalino in cui i due protagonisti finiscono per tubare come colombe nel contesto turistico di Hong Kong.

Tuttavia, i problemi narrativi emergono con una certa evidenza anche nel resto del film. Mystère esordisce infatti piuttosto bene, introducendo al mondo patinato della protagonista secondo linee tipicamente vanziniane nell’utilizzo espressivo della bellezza. Bellezza sempre patinata, para-pubblicitaria, che tuttavia, come meglio farà in seguito in Sotto il vestito niente e in Via Montenapoleone (1987), descrive efficacemente un mondo fatuo e superficiale, anche foriero di solitudine, alienazione urbana e disagio. C’è infatti, nella prima parte del film, il tentativo di disegnare una cornice tra noir, spy, poliziesco e giallo intorno a una protagonista totalmente centrale alla quale si vorrebbero riservare spazi di costruzione di un vero personaggio. Pur in un ambito in qualche modo predeterminato da convenzioni letterarie e cinema pregresso, Mystère cerca dunque di raccontare anche stati d’animo, di collocare la sua protagonista in una dimensione di orgogliosa e cinica solitudine in compagnia del suo gatto. Nel suo rapporto col micio sembra di rintracciare qualche debito da Il lungo addio (Robert Altman, 1973), mentre la cornice metropolitana e il rapporto tra una squillo e il suo poliziotto richiamano alla mente, per grandissime linee, le dinamiche di Una squillo per l’ispettore Klute (Alan J. Pakula, 1971).

L’emulazione e simulazione di un contesto americano, sia pure calato in una cornice dichiaratamente romana, sono infatti altrettanto intense, con effetti talvolta stranianti ai limiti del ridicolo involontario. La voglia di americanità prende infatti le mosse fin dal prologo, dove l’omicidio di un diplomatico a Piazza di Spagna si tramuta in innesco narrativo rinviando (chissà perché poi…) all’uccisione di John Fitzgerald Kennedy, con tanto di pseudo-Lee Oswald nascosto col fucile dietro a una finestra e un Abraham Zapruder che da cineamatore si tramuta in fotografo. Ma gli effetti più vistosi del desiderio di internazionalità ricadono sul personaggio del poliziotto, figura di uomo forte e protettivo per la protagonista Mystère. L’uomo di legge qui convocato trasuda infatti stereotipi fin dal nomignolo che i colleghi gli hanno affibbiato, quel “Colt” che ricorda più un western di un noir.

Impegnato, come sarà sempre più frequente di qui in poi, a tracciare percorsi espressivi intorno alla fotogenia dei suoi protagonisti, Vanzina sfrutta alle sue massime potenzialità la bellezza di Carole Bouquet, statua di volta in volta agghindata con eccentriche ed elegantissime mises, mentre per il ruolo dell’ispettore convoca un americano, Phil Coccioletti, che sembra uscito fuori, per aspetto fisico e modalità attoriali, da una soap opera o da un serial tv d’oltreoceano. Dalla sua figura, e da altre figure secondarie, si apre tutto un interessante capitolo intorno agli ambigui limiti della parodia, con ampie crepe tra consapevole e inconsapevole. Se da un lato il Colt di Coccioletti si lancia in esilaranti esercizi di arti marziali in stile Bruce Lee, dall’altro almeno due delle morti messe in scena nel film sono particolarmente malriuscite, o (dipende dai punti di vista) genialmente parodiche. Che sia voluto o meno, l’effetto di tali episodi è quello di una goffa imitazione dalla quale si evincono tracce di macro-modelli autoctoni e non (pensiamo a tutto il pregresso di cinema di genere italiano). Ci riferiamo in particolare alla morte del corpulento Peter Berling, che finisce con la testa dentro a un televisore, e a quella di Duilio Del Prete, fulminato in vasca da bagno da un rasoio elettrico. Nel gioco di duplicazione e serializzazione di modalità espressive altre, l’effetto qui è evidentemente quello trash di una copia malriuscita, che non riesce nemmeno a salvarsi tramite squisite scelte stilistiche come accade per Sotto il vestito niente.

Vi è d’altra parte un’incompiuta identità di cinema di genere che invece di tradursi in fertile superamento si traduce in puro e semplice affastellamento, stanco e sfiatato. Sulle prime i Vanzina sembrano voler intrecciare un canovaccio da spionaggio e politica internazionale a una struttura piuttosto italiana di whodunit – anche qui è un dettaglio che Mystère non ricorda a motivare per una buona metà lo svolgersi del racconto, laddove il consueto dettaglio visivo è sostituito da un dettaglio sonoro. D’altra parte, a metà del percorso i Vanzina abbandonano lo whodunit (sottolineato da quelle scarpe bianche e nere con bastone che ritornano più volte in dettaglio ribassato) svelando l’identità dell’assassino e imboccando la strada della suspense, e poi dell’action movie. Mentre, fino a quel momento, buona parte degli omicidi hanno comunque rispettato il canone slasher dell’uccisione all’arma bianca, con dettaglio a effetto della lama a scatto.

Al fondo, vi è una sostanziale mancanza di intercomunicazione tra le due nette parti del racconto; una prima parte piuttosto avvincente, grazie anche alla buona costruzione di un dramma noir urbano, percorso dagli umori cangianti di Mystère (molto bella, ad esempio, la sequenza dedicata alla sua malinconica nottata di pioggia passata al riparo in un’edicola), e una seconda parte dove il racconto si fa sempre più episodico, trascinato per isolate parentesi narrative nelle quali di volta in volta si rilancia la peripezia sempre intorno al solito manipolo di personaggi. Oltre alla disputa con Lombardo sull’happy ending del film, si direbbe che Mystère abbia forse incontrato qualche altro problema produttivo, dal momento che il prodotto finale risulta tanto slabbrato e incoerente, per nulla fedele allo spirito di un regista e di uno sceneggiatore che, pur al centro di un rapporto non idilliaco con la critica, sono comunque riusciti a condurre in porto film piuttosto bilanciati nei loro elementi almeno fino alla fine degli anni Ottanta.

Malgrado le tante debolezze, la visione di Mystère resta però necessaria per inquadrare lo sviluppo della cinematografia vanziniana lungo tutto il decennio. Il ricorso ad attori non eccelsi, convocati essenzialmente per la loro resa fotogenica, trova qui il suo esordio, tanto che il goffo Phil Coccioletti appare un degno predecessore del Tom Schanley di Sotto il vestito niente, nel quale Vanzina compie un salto ulteriore verso una sorta di Nouveau Réalisme applicato alla fatuità anni Ottanta: non più attrici di buon calibro come Carole Bouquet, chiamate a impersonare affascinanti manichini, ma direttamente le mannequin internazionali. Non più la Bouquet, ma Renée Simonsen e Carol Alt. Non più simulazioni, ma l’esposizione dell’oggetto in sé. Sotto il vestito niente sarà un film di gran lunga superiore, e in fin dei conti pure Via Montenapoleone risulta assai più compiuto. Eppure il Vanzina sobrio narratore di mondi fatui esordisce qui. Nelle ambasce di Mystère, altera e disincantata squillo d’alto profilo, romanticamente solitaria, bellissima, smarrita in un deserto metropolitano.
Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2020/03/14/mystere/ 


 
 

lunes, 26 de abril de 2021

La nonna Sabella - Dino Risi (1957)


TÍTULO ORIGINAL
La nonna Sabella
AÑO
1957
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Dino Risi
GUIÓN
Dino Risi, Massimo Franciosa, Remigio Del Grosso, Antonio Ghirelli (Novela: Pasquale Festa Campanile)
MÚSICA
Michele Cozzoli
FOTOGRAFÍA
Tonino Delli Colli (B&W)
REPARTO
Peppino De Filippo, Sylva Koscina, Renato Salvatori, Paolo Stoppa, Dolores Palumbo, Rossella Como, Tina Pica
PRODUCTORA
Co-production Italia-Francia; Franco London Films, Titanus, Compagnia Cinematografica
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
El joven Rafael debe acudir al pueblecito de Pollena, donde vive su anciana abuela Sabela, que ha reclamado su presencia ya que al parecer se encuentra muy enferma. A su llegada Rafael descubre que su abuela está perfectamente, y que todo ha sido un truco para poder hablarle de un proyecto: el plan de Sabela es casar a su nieto con una muchacha de buena familia. Pero a Rafael el plan no le convence. Al año siguiente se estrenó la secuela, "Sabela vuelve al ataque". (FILMAFFINITY)

Premios
1957: Festival de San Sebastián: Concha de Oro (mejor película)

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Se dovessimo individuare un filone decisivo per la commedia italiana degli anni cinquanta, non avremmo dubbi: è lo strapaesano, cioè il ripiegamento indolente in una cultura sottoprovinciale, quasi un bozzetto ai limiti del folklore, diffidente nei confronti delle città, ancorata alle tradizioni e agli usi e costumi di una comunità generalmente piccola ma a suo modo universale perché sovrasta la geografia per porsi quale epitome di un’intera nazione.

In diversa misura, fanno parte della covata film legati da sotterranee o meno affinità elettive, dai Pane e amore a Don Camillo fino a Il medico e lo stregone e l’assurda superproduzione Anna di Brooklyn che postula la visione americana dell’Italia. Per allargare il campo, è un mondo che costeggia il cosiddetto neorealismo rosa, cioè la virata popolare e brillante del nostro movimento più rappresentativo, e chiude una stagione pronta a raccontare i cambiamenti del costume della società del benessere.

In questo senso, La nonna Sabella è un film emblematico. È diretto dal divino Dino Risi, un regista settentrionale e borghese che veniva dal clamoroso successo di Poveri ma belli, zenit del neorealismo rosa ed interessante esplorazione di una Roma immutabile e vivace a metà tra noncuranza ed effervescenza: cosa c’entrava con questa spumeggiante commedia corale rurale e montanara?

C’entrava realisticamente per ragioni contrattuali (in tutto e per tutto un film Titanus), ma non dimentichiamo che alla base c’è un testo di Pasquale Festa Campanile, il quale è qui anche impegnato in sede di sceneggiatura con quel Massimo Franciosa con cui aveva ricevuto un ottimo riscontro con Gli innamorati. In più li affiancava Ettore Giannini, lo sfortunato autore del capolavoro Carosello napoletano: un bel parterre, insomma.

E, in fondo, è un film che risiede tutto nel disegno dei personaggi, collocati in una storia sì molto pimpante e tutto sommato avvincente ma che funzionano di per sé in virtù della scafata sapienza con cui sono scritti: bastano pochi dettagli, un tic, un gag, un certo tipo di abbigliamento, una battuta di spirito per definire gli orizzonti limitati di questi personaggi chiusi in un paese soffocante, dove tutti conoscono tutto e mantenere segreti è impossibile.

La nonna Sabella racconta il ritorno a casa di uno studente, giunto al capezzale dell’anziana nonna che in realtà ha architettato la messinscena pur di far rimpatriare il nipote. Arzilla quanto dispotica, gli ha combinato il matrimonio con la figlia di un proprietario terriero, sebbene lui ami la nipote del postino, il quale intrattiene da vent’anni una relazione clandestina con la sottomessa sorella di Sabella, incapace di opporsi alla vecchia.

Chiaramente l’intreccio costituisce l’occasione per abbozzare situazioni orecchiabili a tutti coloro che hanno vissuto o bazzicato in piccole comunità così autoreferenziali, ma è comunque curioso che a distanza di sessant’anni il film continui a divertire col suo mix di sotterfugi campestri e dittature familiari, con l’occhio di Risi che osserva con compassata ironia i movimenti vorticosi in un borgo arretrato o fermo nel tempo da cui – sembra dirci – sarebbe opportuno scappare.

La direzione degli attori si affida al consumato mestiere di professionisti infallibili o ad una certa consuetudine (Renato Salvatori era un povero ma bello, Sylva Koscina capitalizzava alla grande il suo corpo). Difficile sbagliare quando ci sono gli amanti clandestini Peppino De Filippo e Dolores Palumbo («garofanino!»), Paolo Stoppa e Renato Rascel quali comprimari di lusso, e soprattutto la gigantesca Tina Pica nel ruolo, assieme alla Caramella dei Pane e amore, più iconico della sua carriera esplosa troppo tardi ma come un roboante fuoco d’artificio.
https://lorciofani.com/2018/11/17/italia-50s-26-la-nonna-sabella-dino-risi-1957/

[...] Risi gira anche La nonna Sabella, sapientemente dedicato al­l'insolito protagonismo di Tina Pica ed alle emergenti grazie della pin-up Sylva Koscina. Qui la trama è dav­vero secondaria, perché i maneggi matrimoniali dell'invadente nonnetta sono dall'inizio destinati alla scac­co; ma trovate e scenette si susse­guono con la solita efficacia perché una Tina Pica in camicione nero non patisce il passaggio di categoria (ogni sua frase è un poema), e le danno replica Peppino De Filippo, Paolo Stoppa e Renato Rascel. Un film­favoletta (con splendide scenografie in esterni ed interni), ma a ben ve­dere, non privo di quella polemica contro i riti della mentalità passatista che Risi sa sviluppare senza appe­santire una sola sequenza.
Valerio Caprara Dino Risi, Gremese 1993
https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/54F6CBC1910D62C7C125782A0033A499?opendocument 

Storia d’ambiente e racconto garbatamente ironico della famiglia dell’Autore: al centro delle vicende che la vedono protagonista, dapprima fanciulla caparbiamente schietta poi giovane donna sicura e imprevedibile, è la nonna Sabella.

Tirannica e simulatrice, commediante, straordinariamente vera e ‘fantastica’; estrosa, coinvolgente nel suo irriducibile attaccamento alla vita, sorprendente nella capacità di aderirvi, resta un personaggio che suscita simpatia e che è difficile dimenticare.

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FESTA CAMPANILE, Pasquale, La nonna Sabella, Milano, Bompiani, 1983

Nel romanzo sono riportate ficcanti  descrizioni della vita sui treni dell'epoca. Pasquale Festa Campanile d'altra parte era nato a Melfi nel 1927, non lontano dalla zona dei tragici eventi.

Trasferitorsi a Roma negli anni della seconda guerra mondiale, si avvicinò presto agli ambienti cinematografici, dove si elaboravano in que-gli anni i capolavori del cinema neorea-lista italiano. Scrittore, sceneggiatore eregista, Pasquale Festa Campanile esordì nel 1957 proprio con il romanzo La nonna Sabella che ottenne il Premio Re degliA ranci e il Premio Corrado Alvaro, e di cui Dino Risi fornì nello stesso anno la versione cinematografica con attori famosi come   Tina Pica, Renato Salvatori, Peppino De Filippo, Sylva Koscina, Paolo Stoppa, Dolores Palumbo.

"Le differenze tra scrivere e sceneggiare sono molto forti. Certamente io ho il rimpianto di avere perso molti anni facendo cinema e trascurando la letteratura. Il successo ottenuto da La nonna Sabella - il mio primo romanzo - in un certo senso mi traviò, perché mi catapultò immediatamente nel mondo del cinema e dopo feci una quantità enorme di sceneggiature, a volte con soddisfazione, tanto è vero che vinsi persino tre nastri d’argento, ma certo allontanandomi dal lavoro letterario che era quello che più mi era caro. Difatti per molti anni non scrissi più nessun romanzo e il mio secondo libro uscì dopo ben diciotto anni. (…)
http://www.antiarte.it/trenodiluce/la_nonna_sabella.htm


 
 

domingo, 25 de abril de 2021

La gondola del diavolo - Carlo Campogalliani (1946)


TÍTULO ORIGINAL
La gondola del diavolo
AÑO
1946
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
125 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Campogalliani
GUIÓN
Max Calandri, Carlo Campogalliani, Marcello Pagliero
MÚSICA
Umberto Mancini
FOTOGRAFÍA
Mario Albertelli, Antonio Marzari (B&W)
REPARTO
Loredana, Carlo Lombardi, Erminio Spalla, Nino Pavese, Alfredo Varelli, Flora Marino, Letizia Quaranta, Carlo Micheluzzi, Mario Sailer, Giorgio Piamonti, Giorgia Piccoli, Edgardo Pellegrini, Giorgio Malvezzi, Cristina Veronesi, Roberto Mauri
PRODUCTORA
Scalera Film
GÉNERO
Aventuras

Sinopsis
Un misterioso asesino siembra el terror en la Venecia de los Dux. Sus dardos apuntan a hombres ricos y poderosos, y muy cerca del delito siempre se ve una góndola, conocida como "del diablo", que huye a toda velocidad por la laguna. Se empieza a sospechar de un gondolero que se ha enriquecido de forma imprevista con el producto de un trabajo poco claro, mientras que entre la hija de este último, Marina, y el noble Paolo Venier nace una romántica historia de amor. Paolo que, con un grupo de jóvenes subversivos desea rebelarse contra el gobierno de la República, es confundido durante la noche con el asesino escurridizo de la góndola y detenido. Pero no sabe que quien le ha tendido la trampa es alguien que se mueve en los círculos más altos de la corte... (FILMAFFINITY)
 
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In una Venezia rinascimentale, mentre fervono i moti popolari e, soprattutto, gli intrighi degli stranieri per creare o distruggere alleanze tra la Serenissima e altre fazioni, un misterioso assassino – a cui il popolino ha assegnato il nomignolo “La gondola del Diavolo”, poiché dopo ogni delitto una misteriosa gondola abbandona le acque svanendo come un fantasma tra i canali – colpisce importante figure del governo. La storia d’amore tra una giovane popolana e uno studente appartenente alla nobiltà s’intreccia con queste vicende storico-gialle, fornendo una spinta essenziale alla risoluzione dei misteriosi omicidi.
Carlo Campogalliani (esperto e abile artigiano del cinema popolare: Ursus, 1961 e Maciste nella valle dei re, 1960) riduce per lo schermo un soggetto di Max Calandri (poi anche lui autori di alcune pellicole commerciali come Il moschettiere fantasma, 1952) che unisce varie anime dello spettacolo popolare – il film in costume, l’intrigo storico e la storia d’amore tra la popolana e il patrizio di turno – aggiungendovi però anche il mistero e il “giallo”, elementi non particolarmente utilizzati – e non lo saranno fino al finire degli anni ’50 – dal cinematografia italiana. Il risultato, grazie alla sua abilità nella gestione degli elementi, è una discreta pellicola, vittima di alcune ingenuità dovute sia al periodo di realizzazione che all’innocenza delle sceneggiature di un divertimento riservato a un pubblico di non grandi pretese e ancora ancorato a una semplicità mentale che avrebbe reso difficilmente accettabile una maggior complessità o durezza dell’argomento – e lo testimoniano pienamente le pellicole “peplum” con la loro concettuale ingenuità, anche se con la seconda metà degli anni ’60 (e, nello specifico, con l’avvento dell’iperbolica violenza dello “spaghetti western”) tutto sarebbe cambiato in un improvviso balzo sociale.
In ogni caso, sia l’intreccio giallo – che abilmente si combina con quello romantico – che l’azione storica risultano molto ben amalgamati e non mancano di fascino, grazie anche alla bella fotografia del duo Mario Albertelli (Barbablù, 1941 di Carlo Ludovico Bragaglia) e Antonio Marzari (nella cui scarna filmografia, cominciata con È sbarcato un marinaio, 1940 di Pino Ballerini, questo è il titolo conclusivo) capaci di conservare nel loro bianco-e-nero le atmosfere più fosche della città lagunare.
Le buone interpretazioni dell’intero cast rendono alquanto agevole il lavoro del regista modenese, fornendo credibilità e un vivo senso dell’emozione ai propri personaggi, tra i quali spiccano il giovane Paolo di Alfredo Varelli (I giganti della Tessaglia, 1960 di Riccardo Freda); il mellifluo Ricunis di Carlo Lombardi (L’anonima Roylott, 1936 di Rafaello Matarazzo); e la sensuale Imperia di Flora Marino (La signora delle Camelie, 1947 di Carmine Gallone).
https://www.darkitalia.com/reviews/movies/la-gondola-del-diavolo-1946-carlo-campogalliani/

Tra i classici indimenticabili del nostro cinema riproposti da CG Home Video troviamo anche alcuni titoli cinematografici firmati da Carlo Campogalliani, attore e regista prolifico che, cominciata la sua carriera cinematografica al tempo del cinema muto anche in veste di regista [La nave dei morti, 1921, La casa della paura, 1921], si è felicemente adattato all’ondata burrascosa portata dal cinema sonoro sfornando titoli che tutt’ora sono degni di considerazione, come il suo primo film sonoro Cortile, 1931,  Il bravo di Venezia [anche questo distribuito home video da CG Home Video], 1941, che vedeva come protagonista principale Rossano Brazzi, o La mano morta, 1949, o la commedia sentimentale Bellezze in bicicletta, 1951, costituito da un cast d’eccezione che vedeva la presenza di Peppino De Filippo, Aroldo Tieri, Renato Rascel.

Campogalliani non si è ancorato ad un unico genere, ma anzi ne ha sperimentati diversi, anche se prevalentemente si è dedicato all’avventura, alla commedia e al peplum.

É appena giunto in DVD, sempre tramite GC Home Video, La gondola del diavolo, che possiamo definire un dramma gotico d’atmosfera [come pure La mano morta, 1949], diretto in un anno difficile per l’Italia e per il mondo, il 1946, l’anno del dopoguerra e della ricostruzione.

Prodotto da una delle più importanti case di produzione italiane, la Scalera Film, [che limitò le proprie produzioni cinematografiche durante il biennio in cui si era insediata al Nord la Repubblica di Salò, per poi chiudere definitivamente nel 1952, non prima di aver prodotto l’Otello di Orson Welles], e girato negli stabilimenti di Scalera Film a Venezia, La gondola del diavolo fu scritto dallo stesso Campogalliani con l’attore e regista Marcello Pagliero, che si ispirarono ad un’antica leggenda veneziana di origini medievali che aveva come soggetto non una gondola qualsiasi, ma la “gondola del diavolo”.

Marco [Erminio Spalla] è un gondoliere veneziano che vedovo da alcuni anni, per mantenere la sua famiglia, composta dalla figlia Marina [Loredana Padoan], ormai una ragazza, e il suo unico figlio maschio, ancora bambino, è costretto a vendere la sua gondola, dopo varie trattative, a Crisostomo, un cliente non certo facile.

Marco è in mano ad uno strozzino, ma finalmente riuscirà a sbarazzarsi dell’uomo e a non patire più la fame nel momento in cui un suo amico lo propone all’ambasciatore di Francia, che, trattenendosi un mese a Venezia, cerca un gondoliere da pagare profumatamente. Tutto sembra andare per il meglio, sennonché, da un momento all’altro, Venezia viene colpita da una serie di omicidi compiuti di notte sempre a ridosso del canale. L’anomalia sta nel fatto che, a omicidio compiuto, il canale è attraversato da una gondola guidata da un uomo incappucciato, motivo per il quale tutti l’hanno battezzata la gondola del diavolo. La magistratura suprema della Repubblica Veneziana, per volontà del doge, fa arrestare e perseguitare alcuni sospettati, ma gli omicidi continuano e i prigionieri sono perciò liberati. Nel frattempo Marina, che per aiutare il padre vende alcuni ricami, ha stretto formalmente amicizia con la cortigiana Imperia [Flora Mannino], legata a Messer Ricunis [Carlo Lombardi], relazione forzata, in quanto la donna non lo ama, ma anzi lo teme. Messer Ricunis è un uomo molto furbo, arricchitosi illecitamente, lui che è di origini umili. Nel frattempo Paolo Venier [Alfredo Varelli], un nobile che appartiene ad una organizzazione sovversiva che sta organizzando una rivolta contro il patriziato veneziano, si innamora di Marina, la quale comincia a sospettare che proprio suo padre, assente da casa di notte, sia il gondoliere assassino.

La gondola del diavolo è un film in costume molto accattivante. Pur non essendoci nessun ricorso alla violenza, a parte la scena che vede un condannato, poi graziato, legato al tavolo della tortura, il rimando al genere horror è spesso presente, ma trattato sempre in maniera velata. Gli assassinii non si vedono mai, preceduti quasi sempre da un primo piano del pugnale e da un forte urlo. Completa è la caratterizzazione dei personaggi, tra tutti Messer Ricunis, megalomane e presuntuoso a tal punto da affermare ad Imperia, che lo taccia di egoismo: “Ho molta amicizia per me stesso. Guai a chi tocca questo vulcano”.

Come un degno film d’ambientazione storica, La gondola del diavolo è anche esteticamente appariscente per via dei costumi e delle scenografie firmate dagli storici sceneggiatori Ottavio Scotti [Orient Express di Carlo Lodovico Bragaglia, 1954, Romanzo di un giovane povero, 1942, di Guido Brignone]e Luigi Scaccianoce [Uccellacci e uccellini, 1966, di Pier Paolo Pasolini, Satyricon, 1969, di Federico Fellini]. Particolare è la trovata iniziale, con cui si apre il film, con il primo piano di un grande libro, che sul frontespizio ne riporta il titolo,  La gondola del diavolo, appunto, sfogliato da una mano guantata.

Tra gli extra, la sezione testuale Il periodo bellico di Scalera Film, sulla storia della storica casa di produzione.

“É mezzanotte. Il tempo è sereno. Dormite tranquilli”.
Gilda Signoretti
https://www.ingenerecinema.com/2013/09/13/la-gondola-del-diavolo-carlo-campogalliani/ 


 

 

sábado, 24 de abril de 2021

Chi salvera le rose - Cesare Furesi (2017)


TÍTULO ORIGINAL
Chi salverà le rose?
AÑO
2017
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
103 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Cesare Furesi
GUIÓN
Cesare Furesi
MÚSICA
Marcello Peghin
FOTOGRAFÍA
Giuseppe Pignone
REPARTO
Carlo Delle Piane, Caterina Murino, Lando Buzzanca, Antonio Careddu, Philippe Leroy, Guenda Goria, Eleonora Vallone, Massimiliano Buzzanca
PRODUCTORA
Corallo Film
GÉNERO
Drama. Romance | Homosexualidad. Vejez/Madurez

Sinopsis
La película narra la historia de amor entre dos hombres ancianos. Uno de ellos está enfermo y postrado en la cama, el otro es un empedernido jugador de póquer que dedica su tiempo a cuidarlo y a visitarlo cada día. Este último tiene una relación complicada con su hija. A veces el amor es la única solución, pero nos damos cuenta cuando ya es demasiado tarde. (FILMAFFINITY)
 
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Si intitola Chi salverà le rose? - e l'interrogativo poetico e un po' misterioso non è casuale – il film di Cesare Furesi (in programma in questi giorni nelle sale dell'Isola e della Penisola) imperniato su una delicata e struggente storia d'amore tra due uomini – interpretati da un ottimo e sempre convincente Carlo Delle Piane e da uno straordinario Lando Buzzanca.

Un'antica passione trasfigurata in tenerezza – un sentimento intimo e profondo che riempie la casa - come racconta la figlia Valeria (un'affascinante e intensa Caterina Murino) - di una perenne quasi insostenibile “euforia”. Completano il cast Eleonora Vallone (nel ruolo di un'aristocratica e spietata giocatrice) e Philippe Leroy – l'amico biscazziere, oltre al giovane Antonio Careddu, attore di solida formazione teatrale che presta il volto all'adolescente nipote, con aria di superficialità e raffinatezza da golden boy ma con tutta la fragilità e le insicurezze della sua età.Focus sull'amore e sul significato della bellezza in quest'insolita e riuscita “opera prima” tra dolcezza e rabbia, fin nella dedica iniziale al padre perduto, con una trama complicata e semplice insieme in cui s'intrecciano le vicende di più personaggi, su cui il regista (che firma anche la sceneggiatura insieme al figlio Guido con la collaborazione di Paola Mammini) preferisce non svelare troppi dettagli, lasciando allo spettatore il compito di completare il quadro.

Una narrazione incalzante e piena di sorprese, per un ritratto di famiglia ancora ricco di segreti – a partire dall'ambigua professione dell'avvocato Giulio (Carlo Delle Piane – e il riferimento ai film dei Taviani è assolutamente voluto), maestro nel gioco d'azzardo di cui il nipote Marco (Antonio Careddu) pare aver ereditato il talento, per non dire dell'ancor più enigmatica figura del suo compagno d'una vita, Claudio (Lando Buzzanca) di cui s'intuisce il grande carisma e la capacità di suscitare e tener vivi gli affetti – perfino quello della ribelle Valeria.
Chi salverà le rose? è il refrain di una conversazione d'amore che ancora continua incessante perfino nei sogni, mentre gli antichi fasti di una villa ormai in rovina e di un albergo fallito segnano l'inizio di una fine annunciata – ma resta l'incanto dei tramonti su Alghero: una domanda sospesa, nell'urgenza di convocare l'intera famiglia per cercare di salvare il salvabile o forse semplicemente stringersi in un estremo abbraccio.

Affiorano antichi rancori, una rabbia mai sopita, la ferita di un abbandono che in realtà era un movimento di fuga («ma una figlia si aspetta di essere richiamata»), tra le molte incomprensioni e i silenzi di una felicità interrotta, nell'impossibilità di vivere all'ombra di quella pericolosa e irraggiungibile “euforia”.
Film costruito su una sottile suspense in cui nulla è come appare e la verità è invisibile agli occhi, per cui è opportuno non svelare troppo della trama, Chi salverà le rose? si presta a più livelli d'interpretazione e tocca temi che vanno dal brivido e dai rischi del gioco d'azzardo, all'idea della perdita e la paura dell'abbandono, le misteriose ferite dell'infanzia e le incomprensioni figlie del silenzio tra persone che pure si vogliono bene ma non sanno comunicare, e regala – quasi a tradimento, come la bellezza - un colpo al cuore.
http://www.cinemecum.it/newsite/index.php?option=com_content&view=article&id=5047%3Achi-salvera-le-rose-di-cesare-furesi-un-enigma-in-forma-d-amore&catid=335&Itemid=719

È questa la storia di Giulio (Carlo Delle Piane) e di Claudio (Lando Buzzanca), non più giovanissimi, ma uniti da un grande amore che va avanti da anni. Entrambi vivono nel loro ex albergo, andato in fallimento a causa del vizio di Giulio per il poker. Anche a seguito di ciò, Valeria, figlia di quest’ultimo, ha deciso di interrompere qualsiasi rapporto con il genitore. Un giorno, però, a causa della grave malattia di Claudio, Giulio deciderà di chiamare sua figlia insieme al nipote Marco chiedendo loro di tornare a trovarli dopo tanti anni.

Che dietro il lavoro di Furesi ci siano le migliori intenzioni, è cosa certa. Molto bella, infatti, anche se non proprio originalissima, l’idea di mettere in scena la delicata storia d’amore tra i due uomini, con tutte le loro abitudini ed i loro rituali quotidiani, ad esempio. Tuttavia, la scarsa riuscita di questa sua opera prima è, dunque, sicuramente una forte ingenuità da un punto di vista prettamente cinematografico, la quale ha portato ad una messa in scena maldestra e con non pochi elementi di disturbo al proprio interno. Fin dai primi dialoghi tra Carlo Delle Piane e Lando Buzzanca, infatti, da subito qualcosa ci disturba. E non si tratta soltanto di una poco esperta direzione degli attori, bensì anche delle battute stesse presenti all’interno dello script: troppo “letterarie”, troppo macchinose, poco spontanee e quasi “finte”. Ovviamente tale problema persisterà durante tutto il lungometraggio, anche per quanto riguarda i personaggi di Valeria (Caterina Murino) ed altre figure secondarie. Esempio lampante di un uso eccessivo della parola è il momento in cui Valeria stessa, truccandosi davanti ad una specchiera, pronuncia tra sé e sé la frase “Questo pranzo non me lo voglio perdere!”. Non dimentichiamo che, però, l’errore di dare troppo spazio alle parole a scapito delle immagini probabilmente derivare dal fatto che Furesi ha innanzitutto grande esperienza come scrittore e successivamente come regista, il che, spesso e volentieri, può creare situazioni del genere.

Il vero problema di Chi salverà le rose?, però, è, di fatto, un altro. Di fianco a battute troppo “ingombranti” ed a una maldestra direzione attoriale, ecco uno script che presenta al proprio interno dei buchi decisamente importanti. Non mancano, di conseguenza, personaggi lasciati in sospeso che finiscono per non avere alcun peso all’interno della narrazione stessa (prima fra tutte Elisabetta, la ragazza di Marco), così come snodi narrativi talmente poco convincenti da far perdere di credibilità a tutto il lungometraggio (come la decisione da parte di Giulio, in prossimità del finale, di togliersi la vita e la relativa, patetica scena che vede protagonista l’uomo insieme a sua figlia Valeria).

Nel tentativo di rilanciare l’albergo di famiglia, ad un certo punto la stessa Valeria afferma di voler vendere i tramonti e non le camere (riferendosi al panorama che si può vedere dalla struttura). Evidentemente tale operazione è stato anche il tentativo di Furesi nel mettere in piedi la storia. E, di fatto, come già è stato detto, di bei paesaggi e di panorami mozzafiato il film è pieno. Tutto ciò, unito alle ottime intenzioni iniziali, però, al fine di ottenere un buon risultato finale, non è sufficiente. Purtroppo.
Marina Pavido
https://entracteblog.wordpress.com/2017/03/14/la-recensione-chi-salvera-le-rose-di-cesare-furesi/ 

Definito dagli autori uno spin-off di “Regalo di Natale” di Pupi Avati, questo film, con Carlo Delle Piane e Lando Buzzanca (già icona gay per la fiction “Mio figlio”), ci racconta una famiglia gay. Una famiglia arcobaleno ante litteram che si troverà ad appianare attriti e incomprensioni prima che sia troppo tardi. Un finale a sorpresa, durissimo, che fa riflettere e discutere. Il film vuole essere, secondo gli autori, un omaggio al sentimento più alto, l’Amore, a prescindere dai generi, dai ruoli e dalle età. Giulio Santelia (Carlo Delle Piane) è un anziano signore. Ha fatto del poker una professione, dimenticando il titolo di Avvocato, e dedicandosi alla sua storia d’amore con Claudio (Lando Buzzanca). Giulio ha una figlia, Valeria (Caterina Murino), rimasta orfana prestissimo, che da tempo non vive con lui, con cui ha un rapporto conflittuale e che invece adora Claudio. Valeria ha a sua volta un figlio, Marco (Antonio Careddu), che ha cresciuto da sola, che adora i “nonni” e ha ereditato la passione del poker, seppur con scarsi risultati. Quando Claudio si ammala gravemente, tutto l’amore viene raccolto da Giulio in una rosa, portata al suo capezzale ogni mattina. Per Claudio smette di giocare a poker ma in poco tempo i soldi finiscono, e Giulio è costretto a licenziare il giardiniere, la cuoca e a vendere persino i mobili, inscenando il bluff perfetto all’interno della loro casa, nella splendida Alghero. Come in una pièce teatrale, dirige se stesso nelle diverse mansioni, per non far mancare nulla all’amato Claudio, ignaro della situazione. Ma il suo amore non può bastare, c’è bisogno di altro, di una somma di amori. C’è bisogno di aiuto. C’è bisogno di Valeria… Carlo Delle Piane (Coppa Volpi alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia per il suo ruolo in “Regalo di Natale”) ha dichiarato: “… non avrei mai immaginato di subire uno straordinario fascino, leggendo una storia che tratta l’amore fra due anziani dello stesso sesso. Un tema importante, quello contenuto nelle 107 pagine della sceneggiatura, affrontato con tatto e delicatezza. Un bel tentativo di accordare il concetto di nucleo familiare che si adegua naturalmente, e mantiene intatte le dinamiche dei rapporti. E finalmente si parla di Amore Vero. Scritto benissimo”. Il regista Cesare Foresi ha detto di essere stato ispirato anche dalla lettera che Sophia, una bambina di 10 anni, inviò al Presidente degli Stati Uniti. La lettera diceva: “Caro Presidente, volevo solo dirti che sono felice che sei d’accordo che due uomini possano amarsi perché ho due papà e loro si amano. Ma a scuola gli altri bambini pensano che questo sia disgustoso e strano e questo mi ferisce…”. Foresi ci spiega: “La nostra sceneggiatura tratta questo argomento. Duro, diretto, ma amabilmente sviluppato. Due nonni, una figlia, un nipote, una malattia, delle carte da gioco… tutto accuratamente miscelato in modo che l’amore, e solo quello, possa emergere. L’omosessualità dei due anziani non arriva come tale, ma si inserisce nella storia con delicata naturalezza. Nessun richiamo a standard comportamentali o al “vizietto”… niente di tutto questo”.
https://www.cinemagay.it/film/salvera-le-rose/

Ambientato ad Alghero, città d’origine del regista Cesare Furesi al suo primo lungometraggio, Chi salverà le rose? riporta al cinema Giulio Santelia, l’avvocato del film Regalo di Natale di Pupi Avati, donandogli una storia tutta nuova.
Opera prima di Cesare Furesi, Chi salverà le rose? mette al centro un’anziana coppia omosessuale e il conflitto tra genitore e figlia. Giulio (Carlo Delle Piane) che potremmo definire il vero protagonista, dato che è il nodo che lega tutti gli altri personaggi, è un anziano amante del poker. L’uomo, ex avvocato, vive felicemente la sua storia d’amore col compagno Claudio (Lando Buzzanca); un po’ meno il rapporto con la figlia Valeria (Caterina Murino), orfana di madre, che adora, però, Claudio. La donna è mamma di un giovane ragazzo, cresciuto da sola e che ha preso dal nonno la passione per il gioco d’azzardo di carte.
L’idea di partenza di Chi salverà le rose? è sicuramente interessante, stimolante, attuale, persino poetica e parte da un ottimo espediente narrativo: raccontare la vecchiaia fra due persone amate, il tempo che cambia il suo scorrere e i movimenti dei personaggi che si fanno più lenti. E le prime scene del film fanno ben sperare in una storia d’amore con un sottofondo di poker che potrebbe essere molto promettente. Poi, però, tutto svanisce. Sceneggiatura e cast pian piano perdono sempre più la loro cedibilità, lasciando come unico perno e punto di forza della vicenda quella tenerezza struggente che traspare da ogni sguardo e da ogni movimento di Carlo Delle Piane.
Il secondo filone narrativo, legato alla figlia Valeria (Caterina Murino) e al nipote Marco, fa crollare il film e lo fa soffrire di una sindrome da piccolo schermo, dove i meri eventi e il bisogno eccessivo di dialoghi prendono il sopravvento sul racconto di coppia, quello più espressamente cinematografico, che riusciva con garbo a creare delle immagini suggestive e delicate.
Nonostante le premesse, il soggetto lodevole e le tematiche impegnate sulle quali solleva l’attenzione, Chi salverà le rose? non riusce a cogliere l’interezza del sentimento di questa vita famigliare e di questo amore, sottraendo rilievo alla forma ed anche al contenuto, prospettando solo frammenti di una storia e non il senso della storia nella sua interezza.
Federica Rizzo
https://darumaview.it/2017/chi-salvera-le-rose-recensione-film