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domingo, 28 de febrero de 2021

Carmela è una bambola - Gianni Puccini (1958)

TÍTULO ORIGINAL
Carmela è una bambola
AÑO
1958
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español e Italiano (Separados)
DURACIÓN
85 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Gianni Puccini
GUIÓN
Sandro Continenza, Marcello Coscia
MÚSICA
Giorgio Fabor
FOTOGRAFÍA
Mario Montuori (B&W)
REPARTO
Marisa Allasio, Nino Manfredi, Ugo D'Alessio, Gianrico Tedeschi, Carlo Taranto, Flaminia Jandolo, Gianni Bonagura, Rossella Como
PRODUCTORA
Gino Mordini, Giorgio Agliani Cinematografica
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
Una joven llamada Carmela, que está a pocos días de casarse, atraviesa sonámbula los tejados cuando suenan las campanas de medianoche. Su destino es la casa de Totò, el hombre del que está enamorada, pero ella no lo sabe, aún... (FILMAFFINITY)
 
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Carmela (Marisa Alasio), giovane avvocatessa, pensa solo alla carriera e non si oppone quando il padre Don Arcangelo (Ugo D’Alessio) ex guappo, divenuto ormai ricco sfondato, le combina il matrimonio con il barone Prospero (Mauro Carbonoli) un giovane timido ed impacciato, vittima di una madre dispotica ed asfissiante. Prima di convolare a nozze Carmela scopre di essere sonnambula e di recarsi, allo scadere della mezzanotte, nell’appartamento di Toto (Nino Manfredi) un giovane squattrinato che sbarca il lunario come guida turistica nella Costiera Amalfitana, in aperta concorrenza a Don Arcangelo. Per evitare lo scandalo Carmela si fa accompagnare dalla sorella Bice (Flaminia Jandolo) dal dottor Ingravallo (Gianrico Tedeschi) uno psicanalista che la ipnotizza, Successivamente, dopo averle consigliato di anticipare il matrimonio, le comunica che vuole visitare Toto per stabilire quale legame li unisce. Allo psicoanalista basta un colloquio per comprendere che Carmela è attratta dalla spavalderia, semplicità e genuinità di Toto e decreta che i due sono una coppia ideale. Dopo averli congedati, esclama tra se e se: “E’ una generazione piena di complessi” ed inizia, nervosamente, a contarsi, senza più fermarsi, le dite delle mani.

Musicarello candido ed ingenuo che prende spunto dalla canzone A sonnambula di Pisano ed Alfieri, cantata da Sergio Bruni che spopolò negli Anni Sessanta. La pellicola è inondata di un’innocenza di altri tempi,  Manfredi è in grande spolvero e lo psicoanalista che compare sulla scena è di una simpatia travolgente. Esilarante la sequenza quando chiede a Toto di rispondere, liberamente, per via associativa a delle parole che pronuncia, a cascata, una di seguito all’altra.
Ignazio Senatore
https://www.cinemaepsicoanalisi.com/it/carmela-e-una-bambola-di-gianni-puccini-italia-1958-durata-85/

 

“Carmela è ‘na bambola, e fa ‘ammore cu me. Ma ‘a mamma è terribile, nun mm’ ‘a vò’ fá vedé…” chi si è imbattuto nel corso della sua esistenza terrena in questa bella canzone degli anni cinquanta, non può non vedere la commedia Carmela è una bambola. È arrivata l’estate, la stagione e con essa non solo il caldo, ma le commedie all’italiana in onda sulle emittenti locali e nazionali. Mi divertono, mi fanno trascorrere novanta minuti di relax. Quelle in bianco e nero poi: deliziose. Questa mattina nel solco della tradizione ho visto Carmela è una bambola, una bella commedia ambientata tra Amalfi e Sorrento con Nino Manfredi giovanissimo e una bella Marisa Allasio. Chi segue i miei scritti sa che Marisa, la bella Marisa, è su di un piedistallo nel mio Pantheon delle belle donne del cinema. È stata Lei a farmi soffermare su un film che non vedevo da tempo. Realizzato nel 1958 con la regia di Gianni Puccini su un soggetto di Alessandro Continenza,Bruno Baratti, Marcello Coscia. Il film è tratto dalla canzone napoletana ‘A sunnambula, composta nel 1957 da Gigi Pisano ed Eduardo Alfieri, nel film Sergio Bruni interpreta la canzone nella colonna sonora. A interpretare per la prima volta ‘A sonnambula fu Aurelio Fierro nella Piedigrotta del ’57. Una commedia ricca di garbo e ironia con Manfredi e Allasio che si divertono e fanno divertire. Carmela è la figlia di un ex-guappo napoletano diventato per così dire un imprenditore nel camo dei trasporti. Ha un autobus nuovo di zecca don Di Capua, questo il nome del papà di Carmela alias Marisa Allasio. Don Di Capua ha un concorrente, un bel giovane Totò anch’egli proprietario di un vecchio pullman. Carmela non è la classica donna di provincia è una laureata in legge, destinata dal padre a sposare un aristocratico. Bella Carmela, molto bella, ma con un grande problema: è soggetta a una strana forma di sonnambulismo. Nel paese tutti pensano che la notte ci sia un fantasma che si aggira per i tetti, come sempre accade a Napoli quest’evento straordinario si trasforma in lunghe processioni al banco lotto. Ma i numeri non escono perché è Carmela, la bellissima Carmela il fantasma che di notte si reca nella stanza di Totò, un giovane che le è del tutto indifferente per di più anche avversario del suo genitore. Rivoltasi a un medico perché le chiarisca il motivo di questa imbarazzante anomalia, Carmela capisce che, in realtà, è proprio Totò l’uomo di cui è inconsciamente innamorata. Nella speranza di beccare quest’estate altre commedie spassose, quelle che preferisco della Allasio sono Poveri ma belli e Susanna tutta panna, non mi resta che augurarvi una buona visione. A proposito: “Allora aggio truvato nu bellu ritrovato: Carmela fa ‘a sunnambula pe’ mme vení a truvá… E fa scema a mammá!E cu ‘a scusa ch’è na sunnambula, chesta bambola, nèh, che fa? Tutt’ ‘e ssere, pe’ copp’a ll’ásteco, vène a ll’ùnnece a passiggiá… ‘Ncopp’a ll’ásteco ce stóngh’io e lle dico: “Stó’ ccá pe’ te…” E ‘a sunnambula, ch’è na bambola… fa ‘a sunnambula ‘mbracci’a me!”

È inutile aspettare Carmela… fa ‘a sunnambula ‘mbracci’a me!
Tonino Scala
https://centoautori.wordpress.com/2014/06/08/carmela-e-una-bambola/ 

Come spiegare altrimenti l’oblio che circonda la figura di Gianni Puccini?, Giornalista, critico, traduttore, sceneggiatore di grandissimo talento, divenuto (forse suo malgrado) regista di commedie di costume, ma anche di film d’impegno, è oggi pressoché dimenticato. Bisognerebbe ripartire dall’inizio, riscrivere la storia o forse solamente raccontarla: la storia di un figlio d’arte (suo padre Mario grande scrittore realista, anche lui dimenticato), fratello maggiore di altri due talentuosi personaggi, lo sceneggiatore e regista Massimo Mida e l’ispanista Dario Puccini, che condivise con i suoi familiari e con i grandi protagonisti della scena culturale degli anni Trenta e Quaranta alcune delle esperienze più fervide del nostro Paese. I corsi al nascente Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1935. L’amicizia e collaborazione con Rudolf Arnheim all’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa, organismo ufficiale della Società delle Nazioni, prima che il grande studioso ebreo fosse costretto a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali. La nascita della rivista «Cinema» nel 1936, alla quale collaborarono fra gli altri, per darne la misura dello spessore, Giacomo Debenedetti, Francesco Pasinetti, Corrado Alvaro, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti, Mario Praz, Gian Gaspare Napolitano, Mario Soldati, Anton Giulio Bragaglia, Leo Longanesi, Mario Pannunzio, Giuseppe Prezzolini, Giorgio Vigolo, Paolo Monelli. Il gruppo che dalle pagine della rivista «Cinema» cerca di cambiare il corso del cinema italiano, allora in balìa dei telefoni bianchi, e vi riuscirà, sia a livello critico sia, soprattutto, sul campo, con il passaggio alla sceneggiatura e alla regia: oltre a Puccini, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni, ma anche figure come Pietro Ingrao, Mario Alicata. Domenico Purificato. L’incontro con Visconti e la famosa, controversa, sceneggiatura di Ossessione, alla quale in molti misero la mano, ma stando ai titoli di testa, è opera di Visconti, Alicata, De Santis e Puccini: il film con quale il “nuovo” irrompe nel cinema italiano, lo spartiacque fra cinema fascista e neorealismo. E poi la vita, quella vera, la Resistenza, il carcere a Regina Coeli il 2 dicembre 1942, insieme al fratello Dario (le bellissime lettere al padre e alla moglie, pubblicate in parte nel bellissimo libro di Ernesto G. Laura, Parola d’autore. Gianni Puccini tra critica, letteratura e cinema, A.N.C.C.I., Roma, 1995), la nomina a direttore di «Cinema» nel fatidico numero datato, significativamente, 25 luglio-18 agosto 1943, quando ancora era in carcere. Il secondo arresto nel marzo 1944. La liberazione e l’attività di critico (vastissima anche in precedenza e di cui qui non si può dare un resoconto dettagliato) a «l’Unità», la direzione di «Film d’oggi», poi i ritratti di costume su «Vie Nuove» e «Paese Sera». Le sceneggiature per i film dell’amico De Santis, fra i quali il capolavoro Riso amaro. Finalmente il passaggio alla regia, antica passione, che gli regalerà però molte amarezze per la difficoltà di realizzare i progetti a cui teneva (impressionanti, per numero e qualità, le proposte che sottoponeva ai produttori in promemoria che andrebbero consegnati a molti produttori attuali a corto di idee), ma anche le gioie per film destinati a rimanere come L’impiegato, L’attico e I sette fratelli Cervi, la sua ultima opera, la più sentita. Il film forse della svolta, ma il 5 dicembre del 1968 Puccini muore improvvisamente a soli cinquantaquattro anni. E, come spesso è accaduto nel cinema italiano, alla morte prematura si è aggiunto il silenzio (colpevole) della critica.
...
https://www.fondazionecsc.it/evento/cinema-trevi-dalla-teoria-alla-pratica-il-cinema-di-gianni-puccini-e-massimo-mida/

sábado, 27 de febrero de 2021

Dove vai tutta nuda? - Pasquale Festa Campanile (1969)

TÍTULO ORIGINAL
Dove vai tutta nuda?
AÑO
1969
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano (Separados)
DURACIÓN
93 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Pasquale Festa Campanile
GUIÓN
Pasquale Festa Campanile, Sandro Continenza, Ottavio Jemma, Luigi Malerba
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Roberto Gerardi
REPARTO
Tomas Milian, Maria Grazia Buccella, Gastone Moschin, Angela Luce, Lea Lander, Vittorio Gassman, Tito LeDuc, Giancarlo Badessi, Fred Jackson, Andrea Esterhazy, Fulvio Mingozzi
PRODUCTORA
Fair Film
GÉNERO
Comedia | Erótico

Sinopsis
En estado de embriaguez, un joven empleado de banca se despierta con una muchacha que tiene por costumbre decir siempre la verdad y pasear completamente desnuda por casa. Lástima que sea también la esposa del presidente del banco... (FILMAFFINITY)
 
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Dove vai tutta nuda? [1969] è una pellicola maliziosa confezionata su misura per esaltare la bellezza di Maria Grazia Buccella, indiscussa protagonista. Tomas Milian è un modesto impiegato di banca che, a Londra, in stato di ubriachezza, sposa la Buccella, una bella ragazza svampita priva di freni inibitori, abituata a girare nuda per casa. Gastone Moschin è il direttore della banca per la quale lavora Milian, che pretende dal dipendente fedeltà e celibato, anche perché utilizza la sua casa come alcova per incontrare le amanti. Alcune sequenze vedono Moschin impegnato nella sua fantasia erotica ricorrente: il massaggio sulle natiche dell’amante di turno. Vittorio Gassman è Rufus, un ladro strampalato e pasticcione che veste abiti surreali, porta lunghi capelli bianchi e gira in compagnia di due cani. Tra gli interpreti riconosciamo anche Angela Luce nel ruolo di una delle amanti del direttore di banca.

Il film serve soprattutto a mostrare le grazie della Buccella, lanciata come simbolo erotico nel consueto personaggio della ragazzina ingenua e maliziosa. Il regista immortala la sua bellezza in pose plastiche, nascondendo alla censura diversi nudi integrali con trucchi scenografici, ma spesso non bastano acquari e capelli disposti in modo da non mostrarla senza veli. Il tono del film è comico, spesso surreale, come nel caso del matrimonio estorto dopo una sbronza e nelle sequenze che mostrano una Buccella ingenua che scandalizza gli uomini. Equivoci e doppi sensi sono all’ordine del giorno, da buona pochade che si rispetti, più farsa che commedia, il nudo è esibito in maniera generosa e senza remore.
Vediamo Maria Grazia Buccella senza veli a letto con Tomas Milian, vestita in maniera provocante in autobus e un istante dopo restare con slip e reggiseno, ma anche sulla scala mobile in minigonna e intenta a provocare incidenti dopo aver esibito le lunghe gambe. A un certo punto la ragazza stringe amicizia persino con una prostituta e la porta a casa sua per farla lavorare al riparo dalle intemperie. Il messaggio sociale della pellicola – espresso dalla stessa Buccella – è che gli abiti rappresentano l’ipocrisia sociale, per questo vanno tolti appena possibile. La trasgressione sta nell’affermare che “nudo è bello”, mentre nascondere il proprio corpo è una finzione ipocrita. Un altro episodio a rischio censura vede la protagonista con il vestito da sera che si sfilaccia fino a restare nuda. Maria Grazia Buccella canta la canzone Dove vai tutta nuda?, scritta da Armando Trovajoli, autore di una divertente colonna sonora che scorre sulle immagini di un cartone animato. Mario Cecchi Gori interpreta un piccolo ruolo da avvocato. Tomas Milian è molto bravo in una parte comica da marito imbranato che non riesce a contrastare le follie di una moglie non voluta che finisce per farlo innamorare. Dove vai tutta nuda? è una commedia sofisticata all’americana condita di momenti surreali e di alcune parti maliziose da commedia sexy italiana. Per i tempi è un film molto spinto che rischia tagli e censure, ma persino un divieto ai minori. A un certo punto la commedia si trasforma in pochade e presenta tutti i protagonisti sulla scena per la bagarre finale.
Gordiano Lupi
https://www.ingenerecinema.com/2011/04/20/dove-vai-tutta-nuda-di-pasquale-festa-campanile/


Il bancario Manfredo (Tomas Milian) sposa, offuscato dai fumi dell'alcol, l'avvenente “Tonino” (Maria Grazia Buccella), ragazza senza inibizioni inevitabilmente in contrasto con le regole della società. I coniugi andranno a vivere nello stesso palazzo del capo di lui (Gastone Moschin), in apparenza moralista ma in realtà attratto dai comportamenti della donna.

Irritante commedia degli equivoci, che cerca furbescamente di utilizzare il gioco del contrasto per far emergere le derive moralistiche contemporanee. Festa Campanile ovviamente non ci riesce e, anzi, spinge forte sulle grazie della Buccella. Il soggetto di Ottavio Jemma è talmente banale da rasentare l'amatorialità. Persino le musiche di Trovajoli passano in secondo piano di fronte ai dialoghi grotteschi tra i protagonisti. Mario Cecchi Gori produce e appare in un raro e fugace cameo.
https://www.longtake.it/movies/dove-vai-tutta-nuda 

 

Pasquale Festa Campanile

Regista cinematografico, sceneggiatore e scrittore, nato a Melfi (Potenza) il 28 luglio 1927 e morto a Roma il 25 febbraio 1986. Sceneggiatore con Massimo Franciosa di alcuni film di grande successo degli anni Cinquanta e Sessanta, prodotti dalla Titanus, tra cui Poveri, ma belli (1957) di Dino Risi, passò poi alla regia divenendo uno dei rappresentanti di quella generazione di registi italiani con una marcata propensione per la commedia erotica. Le sue numerosissime opere non mancarono di suscitare un certo interesse critico in Francia. Ottenne il premio per la migliore sceneggiatura nel 1958 al Festival di Cannes per il film Giovani mariti di Mauro Bolognini e nel 1964 una nomination all'Oscar, condivisa con Franciosa, Vasco Pratolini e Carlo Bernari, per Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy.

Laureato in giurisprudenza, iniziò l'attività di scrittore e di giornalista divenendo redattore di uno dei più importanti settimanali letterari, "La fiera letteraria", e collaboratore di riviste prestigiose come "Paragone". Nel 1955, anno in cui vinse il premio Re degli amici e il premio Corrado Alvaro per il romanzo umoristico La nonna Sabella (dal quale trasse poi il soggetto per l'omonimo film del 1957 di D. Risi), F. C. debuttò nel cinema come sceneggiatore con Gli innamorati di Bolognini. Il film, quattro storie d'amore ambientate nel microcosmo popolare di una piazza romana, segnò l'inizio della collaborazione con Franciosa. Sulla falsariga del film precedente, ma accentuando situazioni e tipologie di personaggi in direzione di una più marcata caratterizzazione da commedia, F. C. scrisse con Franciosa e con il regista Risi Poveri, ma belli, e i successivi Belle, ma povere (1957), uno dei maggiori incassi dell'anno, e Poveri milionari (1959). Frattanto aveva continuato la sua collaborazione con Bolognini, scrivendo con il regista, Franciosa, Enzo Curreli e Pier Paolo Pasolini, Giovani mariti, intelligente e delicato affresco della provincia italiana, cui fece seguito, nel 1961, il melodramma La viaccia, tratto da L'eredità di M. Pratesi. Sceneggiatore di fiducia del produttore Goffredo Lombardo della Titanus, nel 1960 F. C. aveva avuto modo di collaborare con Luchino Visconti, partecipando con Franciosa alla realizzazione della sceneggiatura di Rocco e i suoi fratelli, ispirato ai racconti di Il ponte della Ghisolfa di G. Testori, al fianco di Suso Cecchi d'Amico ed Enrico Medioli, su soggetto dello stesso regista, della Cecchi d'Amico e di Vasco Pratolini. Tre anni dopo collaborò con lo stesso gruppo alla sceneggiatura di Il Gattopardo (1963), tratto dal romanzo omonimo di G. Tomasi di Lampedusa. Ancora con Franciosa e con Tonino Guerra, F. C. aveva scritto L'assassino (1961), debutto nella regia di Elio Petri, originale e felice commistione tra realismo italiano e thriller francese, che si snoda attraverso un raffinato gioco narrativo. La sua ultima collaborazione di rilievo come sceneggiatore fu per il paradossale apologo di Una storia moderna: l'ape regina (1963) di Marco Ferreri.

In quello stesso anno iniziò la sua attività di regista, dirigendo, in collaborazione con Franciosa, Un tentativo sentimentale, cui seguì, l'anno successivo, Le voci bianche, ambientato nella Roma del Settecento, che ottenne un notevole successo di pubblico e di critica e rivelò la vena malinconica (soprattutto nel personaggio interpretato da Vittorio Caprioli, un castrato alla fine della carriera) e ironica che avrebbe caratterizzato buona parte del lavoro di F. C. regista. Dopo aver realizzato un film di derivazione letteraria come La costanza della ragione (1964), tratto dal romanzo di V. Pratolini e sceneggiato da Fabio Carpi, diresse il farsesco La cintura di castità (1967) che, nonostante l'ottimo cast (Tony Curtis, Monica Vitti e Ivo Garrani), non ottenne il successo sperato, e La ragazza e il generale (1967), sceneggiato dal regista con Franciosa e Luigi Malerba, e interpretato da Virna Lisi, Umberto Orsini e Rod Steiger, in cui, sullo sfondo della Prima guerra mondiale, si narra una storia senza vinti e vincitori.

La vena malinconica di F. C. tornò ad affiorare in Cara sposa (1977) e Il ritorno di Casanova (1978), tratto dal romanzo di A. Schnitzler e scritto da Piero Chiara. Il film, che non fu mai proiettato nei cinema e apparve in televisione solo molto tempo dopo, descrive la fine di un mito, l'angoscia di un uomo che assiste impotente al proprio inarrestabile declino. Da allora in poi F. C. abbandonò temi più sfumati e intensi e optò decisamente per le commedie erotiche che tanto successo avevano presso il suo pubblico, assecondando un approccio più prosaico. Tra queste si ricordano Scacco alla regina (1969), da un romanzo di R. Ghiotto, sceneggiato da Brunello Rondi e Tullio Pinelli, storia di un rapporto di sudditanza che si stabilisce fra un'attrice di successo e la sua dama di compagnia; Dove vai tutta nuda? (1969), sceneggiato dallo stesso F. C., Malerba, Ottavio Jemma, Sandro Continenza, e Il merlo maschio (1971), che ebbe un buon successo di pubblico. Con il film Il ladrone (1980), tratto da un suo romanzo, F. C. tentò di discostarsi dalle tematiche abituali, pur conservando toni da commedia, per narrare la storia dell'ingenuo Caleb (interpretato da Enrico Montesano) che, abituato a vivere di espedienti e convinto che Gesù sia solo un abile mago, finirà per morire sulla croce accanto a Cristo. Negli anni Ottanta firmò i suoi maggiori successi di pubblico: Nessuno è perfetto (1981) con Renato Pozzetto e Ornella Muti, Bingo Bongo (1982) con Adriano Celentano e Carole Bouquet, e Il petomane (1983) con Ugo Tognazzi, commedia più strutturata e originale rispetto alle precedenti. L'ultimo film girato dal regista fu Uno scandalo perbene (1984), sceneggiato da Cecchi d'Amico, ennesimo lungometraggio ispirato al caso dello smemorato di Collegno il cui protagonista, Ben Gazzara, aveva già interpretato per F. C. il film drammatico La ragazza di Trieste (1982), tratto dal suo omonimo romanzo.
https://www.treccani.it/enciclopedia/pasquale-festa-campanile_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/

viernes, 26 de febrero de 2021

Cinque poveri in automobile - Mario Mattoli (1952)

TÍTULO ORIGINAL
Cinque poveri in automobile
AÑO
1952
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano (Separados)
DURACIÓN
97 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Mattoli
GUIÓN
Mario Amendola, Aldo De Benedetti, Eduardo De Filippo, Titina de Filippo, Aldo Fabrizi, Oreste Maccari, Mario Monicelli, Steno (Historia: Cesare Zavattini)
MÚSICA
Francesco Ferrari, Vittorio Mascheroni
FOTOGRAFÍA
Mario Albertelli (B&W)
REPARTO
Eduardo De Filippo, Aldo Fabrizi, Titina de Filippo, Walter Chiari, Isa Barzizza, Hélène Rémy, Luigi Cimara, Aldo Giuffrè, Pietro Carloni, Laura Carli, Mario Pisu, Belle Tildy, Bruno Lanzarini, Arnoldo Foà
PRODUCTORA
Documento Film
GÉNERO
Comedia. Drama

Sinopsis
Cuatro pobretones ganan un automóvil de lujo. Antes de venderlo hacen un pacto: se lo quedarán durante cuatro días, a un día cada uno. (FILMAFFINITY)
 
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Un cocchiere, una comparsa cinematografica, un conducente ed un facchino d'albergo acquistano in società un biglietto della lotteria e vincono un'automobile di lusso. Decidono di rivendere l'automobile e dividersi il ricavato, ma prima ciascuno di loro vuole tenerla per un giorno. Durante il breve tempo concessogli, ognuno cerca naturalmente di realizzare il suo più profondo desiderio. La comparsa, che si crede una grande attrice, cerca soltanto di riconquistare l'affetto della figlia e del genero e vi riesce; il conducente, preso dal desiderio di farsi ammirare da un collega, va incontro a varie disavventure e passa una giornata terribile; il cocchiere vorrebbe umiliare un antico compagno che molti anni prima gli ha portato via la donna amata, ma lo vede così malridotto che ne sente compassione; dopo una strana avventura galante, dovuta ad un malinteso, il facchino conquista il cuore della giovane cameriera, da lui timidamente corteggiata. Venduta l'automobile, una quota andrà ad un quinto povero, un disoccupato, con il quale i vincitori decidono di dividere il ricavato della vendita.

"Cesare Zavattini pose mano al soggetto di 'Cinque poveri in automobile' nel 1934 [...].Oggi a diciott'anni di distanza dalla primitiva stesura, i 'Cinque poveri in automobile' hanno imboccato la via dello schermo ad opera del regista Mattoli [...] con un finale rimaneggiato e più sorridente di quello immaginato allora da Zavattini [...]. Mattoli avrebbe dovuto collegare e fondere i diversi apologhi che formano il film in modo da conferire loro un'unità narrativa e, almeno, una parvenza di credibilità anche sociale. Gli episodi corrono invece su piani di fortissimo dislivello, affidati più che altro all'impegno e alla serietà degli attori che li interpretano". (Tino Ranieri, Rassegna del Film, n. 9, Dicembre 1952).
https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/cinque-poveri-in-automobile/5443/


 In occasione del trentennale della morte di Eduardo De Filippo vi avevo promesso di analizzare tutte le sue commedie de La Cantata dei giorni dispari, in quanto sono le commedie più intense, più ricche di significato, quelle che più lasciano l’amaro in bocca, ma allo stesso tempo anche quelle che insegnano di più, quindi le più moraleggianti.

Ma poi c’ho pensato, ho riflettuto a lungo su questa mia decisione e mi sono detta che per far apprezzare un grande artista bisogna farlo conoscere a 360°, quindi oggi non vi propongo una sua commedia, ma bensì un film-commedia che lo vede sì protagonista, ma non a capo di una famiglia. Non si trova al vertice di un nucleo familiare quasi alla deriva come in Natale i casa Cupiello, in Napoli Milionaria, Non ti pago, né tantomeno rappresenta il marito tradito e umiliato davanti all’intero paese come in Chi è cchiu’ felice ‘e me. Qui infatti Eduardo, che veste i panni dell’omonimo personaggio Eduardo Moschettone, deve badare solo a se stesso e al suo sostentamento perché è un semplice addetto della nettezza urbana.

Si tratta di 5 poveri in automobile, un film del 1952 della regia di Mario Mattoli che vede al fianco di Eduardo un cast eccezionale composto da: Titina De Filippo, Aldo Fabrizi e Walter Chiari.

Dunque la storia di Eduardo si intreccia con quella dei personaggi sopraelencati, tutti accomunati da un evento fortunato: la vincita alla lotteria di un’ automobile di lusso.
Questa vincita però si rivela subito una fregatura, in quanto per poter mantenere l’automobile i 4 dovrebbero avere un’ingente somma di denaro. Così decidono di comune accordo di rivenderla al concessionario alla somma di un milione e in più hanno la possibilità di poterla utilizzare una sola volta a turno. Compromesso più che necessario, dal momento che ciascuno ha un forte desiderio di mostrare ai loro rispettivi amici, conoscenti o parenti la loro fittizia ricchezza. Ma andiamo per gradi…
Il primo giorno la macchina tocca a Mariù Palombella, attrice di successo in gioventù ridotta ormai al ruolo di comparsa a Cinecittà, interpretata dalla grande Titina De Filippo. La povera Mariù ha un solo vizio: l’alcol. Ed è proprio questo che la rende una poco di buono agli occhi di suo genero che le impedisce di vedere sua figlia e sua nipote. Dunque Mariù spinta da un sentimento di dolore e di rivalsa, con tanto di autista e segretario, interpretato in realtà da un suo collega di Cinecittà, ben truccata e vestita si presenta a casa di sua figlia annunciando di essere stata scelta da un regista americano per quattro film e quindi prossima alla partenza chiede di salutare sua nipote. Una scena alquanto emozionante, alla fine della quale, anche il genero, resosi conto della farsa, ma avendo apprezzato la buona fede della donna, le chiede di tornarli a trovare presto. Così si conclude la sua magnifica giornata.

Il giorno seguente i protagonisti non litigano affatto perché essendo venerdì 17 preferiscono lasciare l’auto a Cesare che, ignaro della data, accetta di buon grado. Cesare è un vetturino che fatica a tirare avanti in seguito all’avvento dei taxi, interpretato da Aldo Fabrizi. Il suo scopo, in possesso del gioiellino, è di far morir d’invidia un suo collega vetturino. Ma non sapendo guidare bene finirà per urtare la carrozza e questa sarà solo la prima delle sue disgrazie di quel venerdì 17… Infatti sarà obbligato ad accompagnare lui stesso i due passeggeri del collega in giro per la città e ciò gli costerà molto caro, non solo sarà scambiato per l’amante della cliente a bordo della sua macchina, ma finirà anche per pagare multe su multe per star dietro ai capricci dei suoi passeggeri. Dunque il piano che aveva organizzato per la sua giornata si rivelerà del tutto fallimentare.
Il terzo giorno la macchina spetta a Eduardo. Il suo progetto non è tanto dissimile da quello di Cesare, perché anche lui vuole far rosicare qualcuno. Ma il movente è ben diverso… Eduardo vuole semplicemente mostrare al suo rivale di gioventù in amore, che gli aveva sottratto la donna con la sua ricchezza, quanto sia arrivato in alto, nonostante lui lo avesse sempre reputato un nullafacente. Ma anche qui ci sarà un colpo di scena. Eduardo recatosi nel suo paese natio con l’automobile e l’autista scopre che proprio quell’uomo che gli aveva tolto tutto da ragazzo, non solo aveva perso la donna che amava e il lavoro, ma anche la casa e adesso era costretto a vagabondare e racimolare un po’ di cibo per strada. Quindi si rende conto che il suo desiderio di rivalsa non ha più motivo di esistere perché le sue condizioni economiche non sono poi così disastrose.
Poi in ultimo tocca al bello e affascinante facchino Paolo, interpretato da Walter Chiari. Quest’ultimo non vuole far invidia a nessuno, ma desidera soltanto fare bella figura con la donna che ama e che sta frequentando. Ma anche lui sarà coinvolto in una serie di intrighi. Riuscirà alla fine a conquistare la sua amata, ma nel darle un bacio emozionato e felice finisce per distrarsi e investire un uomo. Così tutti e quattro i compagni di avventura si ritroveranno all’ospedale per assistere l’uomo ansiosi per la sua sorte e per quella dell’auto. Fortunatamente l’uomo riporta soltanto una lussazione al braccio. Ma confessa di essersi fatto investire di proposito perché nel vedere una macchina come quella aveva creduto di trovarsi di fronte a un riccone e di conseguenza di poterci guadagnare qualcosa. I quattro in un primo momento indignati restano senza parole, ma nel vederlo povero, umile e disperato come loro decidono di far beneficiare anche lui della somma pattuita dal concessionario. Ecco il quinto povero. Così il film si conclude…

Al termine di questo film ho provato una serie di emozioni contrastanti. Da un lato ho subito notato la netta differenza con le altre storie che hanno visto Eduardo protagonista. Innanzitutto come ho già accennato all’inizio, questa non è una commedia ma un film, dunque i ritmi e i tempi sono diversi, brevi, rapidissimi e circoscritti ai singoli personaggi della scena, anche per la scelta del regista di creare quattro episodi distinti e separati che non hanno dato al film la giusta unità narrativa. Ma ho avuto l’impressione di trovarmi non solo di fronte ad un genere diverso, ma anche a un attore diverso. Il suo modo di recitare mi è sembrato meccanico, artefatto e poco spontaneo. Forse anche per l’utilizzo del dialetto ridotto al minimo, una scelta linguistica poco rispondente alla sua personalità e alla sua vena comica. Sì perché Eduardo qui è limitato, non essendo lui il regista non può decidere di articolare il copione come meglio crede, non può usufruire della sua napoletanità a tutto tondo . Ma non napoletanità intesa come dialetto, come lingua, ma bensì come atteggiamenti, comportamenti, il modo di interagire con i suoi personaggi. É freddo, distaccato, quasi estraneo, invece nelle commedie diventa un tutt’uno con i suoi attori, i suoi colleghi, i suoi familiari, Quindi non bisogna sottovalutare la mancanza del nucleo familiare intorno al quale Eduardo fa ruotare il suo intero teatro. Sì è proprio quella la chiave del suo successo: la famiglia. Il suo punto debole nella vita priva, ma il suo di forza e di partenza sul palcoscenico.

In aggiunta, mi ha colpito molto l’insegnamento che ogni episodio ha voluto darci. La prima scena infatti ci mostra che il perdono è concesso a tutti soprattutto se ci si mostra disposti a cambiare per il bene altrui. La seconda può essere definita con un proverbio: Chi troppo vuole nulla stringe, in quanto Cesare che vuole fare a tutti i costi lo sbruffone finirà per perder solo tempo e denaro. La terza ci mostra un uomo che impara ad apprezzare ciò che ha. La quarta invece è il trionfo della bontà, dell’ingenuità e del sentimento più puro: l’Amore!

Che dire, certamente un bel film, ma lontano dalla grandiosità delle commedie di Eduardo!
Vincenza Pacifico
https://innomineartis.wordpress.com/2015/02/12/cinque-poveri-in-automobile-di-e-con-eduardo-de-filippo/ 


 
 

jueves, 25 de febrero de 2021

Le farò da padre - Alberto Lattuada (1974)

TÍTULO ORIGINAL
Le farò da padre
AÑO
1974
IDIOMA
Italiano y Español (Opcionales)
SUBTÍTULOS
No
DURACIÓN
110 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Alberto Lattuada
GUIÓN
Bruno Di Geronimo, Ottavio Jemma, Alberto Lattuada (Historia: Bruno Di Geronimo)
MÚSICA
Fred Bongusto
FOTOGRAFÍA
Lamberto Caimi
REPARTO
Gigi Proietti, Teresa Ann Savoy, Irene Papas, Mario Scaccia, Isa Miranda, Bruno Cirino, Lina Polito, Clelia Matania, Maria Pia Attanasio
PRODUCTORA
Clesi Cinematografica, Relic
GÉNERO
Comedia. Romance

Sinopsis
Un film inteligente y profundo que narra la pasión amorosa de un abogado por una retrasada mental y ninfómana en una una Puglia tradicionalista y católica. (FILMAFFINITY)
 
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TRAMA LE FARÒ DA PADRE
Saverio Mazzacolli, giovane avvocato romano, vuol realizzare nel Salento un villaggio turistico. Le idee e le amicizie altolocate non gli mancano: i soldi sì. Li ha, però una nobildonna locale, la contessa Raimonda Spina e in lei, portandosela anche a letto, Saverio ripone le sue speranze. Ma la donna è furba e pretende, per finanziare il progetto, un'esosa percentuale dei guadagni. Per aggirare l'ostacolo, l'avvocato chiede in isposa la sedicenne figlia della contessa, Clotilde, bella ma mentalmente ritardata. La proposta accettata non rende tuttavia donna Raimonda più disposta a cedere. D'accordo con un suo dipendente, Saverio organizza allora il rapimento di Clotilde, per "deprezzarla". Durante la sua custodia, però, Mazzacolli si invaghisce della ragazza e, pur di poterla sposare, rinuncia ai suoi propositi truffaldini.

CRITICA DI LE FARÒ DA PADRE
"Purtroppo il film rischia di qualificarsi in un diluvio di coprolalia inutile e nei giri obbligati della commedia all'italiana, con le sue insopportabili macchiette dentro. Luigi Proietti è certamente bravo e nella parte: a tratti un po' meccanico, s'impone soprattutto quando esprime la stupefazione finale del personaggio." (Tullio Kezich - Il millefilm).
https://www.comingsoon.it/film/le-faro-da-padre/15538/scheda/

Sapete la solita banale frase “non fanno più i film di una volta” che si usa immancabilmente con i mostri sacri del cinema italiano? Risulta altrettanto valida anche per questo lavoro di Lattuada, con un Gigi Proietti in grande forma in un ruolo assai complesso. La storia ruota intorno a un avvocato di provincia, alla ricerca di una “svolta” esistenziale, deciso a incastrare una ricca vedova con una figlia adolescente affetta da ritardo mentale. Dopo ripetuti tentativi andati di seduzione della vedova andati a vuoto, il nostro decide di rapire la ragazzina per chiederne il riscatto. Naturalmente le cose non andranno lisce perché finirà per innamorarsene. Immaginate l’impossibilità oggi di rappresentare scene di sesso, con intento positivo, tra un quarantenne e una quindicenne, oltretutto mentalmente ritardata! Un argomento che nessuno sceneggiatore moderno toccherebbe nemmeno con i fondi Mibac già sul conto. Eppure Proietti e il film riescono a coinvolgerci e a rendere tutto in qualche modo condivisibile e, almeno personalmente, per nulla disgustoso. Non so se posso dire di esser arrivato a essere solidale con il protagonista, d’altronde è un tombeur de femmes e la situazione è talmente estrema che nessuno resisterebbe! Scherzi a parte, l’attore romano riesce a trasmettere in maniera efficace l’affetto tra sentimentale e paterno che lega i due, nonostante la differenza d’età e la disabilità mentale di lei. Quel che ho trovato meno efficace, invece, sono i vari tentativi del film di cercarsi situazioni in stile commedia all’italiana classica, trovandole un po’ stridenti con l’afflato drammatico dell’intera vicenda. Per carità, con Proietti di mezzo le battute e le volgarità in romanaccio ci stanno e sono benvenute, però a volte calca troppo la mano sulla comicità anni settanta e la cosa finisce con lo spegnere una trama che non sembrava aver bisogno di battute facilotte. Comunque, essendo praticamente un unicum nel nostro cinema e considerando la nostalgia che mi anima, non riesco a parlarne troppo male e ne consiglio la visione non solo ai fan del gran attore romano, in un raro ruoli non solo comico, ma anche a chi cerca qualcosa di diverso dal solito.
https://ilgerliotti.wordpress.com/2019/01/09/le-faro-da-padre/


 

 
 

miércoles, 24 de febrero de 2021

A che servono questi quattrini? - Esodo Pratelli (1942)

TÍTULO ORIGINAL
A che servono questi quattrini?
AÑO
1942
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano (Separados)
DURACIÓN
85 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Esodo Pratelli
GUIÓN
Mario Massa, Esodo Pratelli (Obra: Armando Curcio )
MÚSICA
Franco Casavola
FOTOGRAFÍA
Domenico Scala (B&W)
REPARTO
Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Clelia Matania, Paolo Stoppa, Nerio Bernardi, Augusto Di Giovanni, Edwige Maul, Italia Marchesini, Nino Marchesini, Margherita Pezzullo
PRODUCTORA
Juventus Film
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
El marqués Eduardo Parascandolo, tras haber dilapidado toda su fortuna pasa el tiempo aleccionando a los jóvenes (a quienes se dirige como discípulos, citando a su manera a Sócrates, Platón y Diógenes) su filosofía de vida, según la cual el dinero es inútil, una especie de enfermedad que aflige a la humanidad y que los seres humanos no deberían trabajar para dedicarse plenamente a la contemplación y al descanso. (FILMAFFINITY)
 
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Su tutt’altro versante si dispone A che servono questi quattrini? (aprile 1942; 84 min.), pellicola di Esodo Pratelli, anch’essa tratta da un lavoro teatrale. Il regista, originario di Lugo di Romagna (n. 1892) firma pochi lungometraggi nel perdiodo 1939-43, mentre nel dopoguerra tace. Il film in questione è ricavato dall’omonima commedia di Armando Curcio (1940), sceneggiata da Pratelli e da Mario Massa ed affidata alla vincente comicità di Eduardo e Peppino De Filippo (i quali, si dice, abbiano aiutato lo scrittore in fase di redazione). La vicenda, assai flebile, dipinge le peripezie dello squattrinato marchese Edoardo Parascandalo il quale va filosofeggiando intorno alla inutilità del denaro, alla morte incombente e alla ignoranza dell’umanità intorno alle domande fondamentali sull’Essere. Eduardo insomma ci regala una versione popolaresca e godibile del pensiero socratico (il pensatore greco è ripetutamente citato) il cui disincantato e indolente scetticismo suona assai insolito quando non apertamente  provocatorio nell’ambito del cinema dell’era bellica. De Filippo è insomma l’antiNazzari (in riferimento a Mariti di Mastrocinque), è svogliato e sornione, ironico e distaccato da ogni pensiero ideologico forte.
La commedia di Pratelli va insomma inquadrata in quel cinema silenziosamente afascista che andava sviluppandosi in quegli anni turbolenti, facendo leva sul tradizionale lassismo meridionalista, condito da un poco di filosofia pirandelliana.
A proposito di ques’ultima e dell’eterno conflitto tra essere e apparire, si sviluppa al centro del racconto la vicenda di Vincenzino Esposito (Peppino De Filippo), discepolo del “maestro”, il quale riceve un’enorme, inattesa (e fasulla) eredità: di colpo tutte le porte si aprono al poveraccio, finora considerato una figura marginale da tutti; non conta dunque avere realmente i quattrini, basta far credere al prossimo di possederne in quantità per ottenere ogni cosa.
Il disprezzo del denaro, asse centrale del film, porta con sé il disprezzo per le beghe della realtà materiale, intrisa di avidità sciocca e immemore del destino mortale dell’individuo; tale disprezzo innerva i discorsi del protagonista e tacitamente implica il disprezzo per l’accanimento fascista a volere conquistare, imporre e guerreggiare. Insomma mentre i futuri soloni del neorealismo, per ora, firmano pellicole patriottiche (Rossellini, Vergano), in questo modesto lavoro di Pratelli invece si possono cogliere reali istanze antifasciste.
http://www.giusepperausa.it/i_mariti_e_a_che_servono_quest.html

A che servono questi quattrini! (1942) [4 errori]

Continuità: [N° 92898] A circa 8 minuti dall'inizio ... Vincenzino/Peppino De Filippo quando esce di casa con la cassettina sotto braccio indossa un soprabito/camice abbastanza e vistosamente sporchetto. Un minuto dopo quando si ferma ad ascoltare la lezione del marchese Parascandolo/Eduardo De Filippo di macchie se ne vedono poco e niente. Un'altro minuto dopo, quando rientra a casa, il soprabito ritorna abbastanza e vistosamente sporchetto.

ND: [N° 98094] In tre sequenze diverse,Eduardo controlla per tre volte l'ora sul suo orologio da tasca. A 6'35'' sono le 10 e 1 minuto; a 6'43'' sono le 11; a 6'51'' sono le 12 e 17. Tutt'e tre le volte la lancetta dei secondi è immobile.

Continuità: [N° 98095] Osteria. Paolo Stoppa (destra schermo,profilo sinistro) afferra per il bavero Peppino de Filippo -seduto- e lo tira su in piedi. Tra i due si vede un uomo (frontale) che armeggia con un metro a nastro chiuso tra le mani. Nuovo ciak,un fotogramma dopo,ripresa da altra angolazione: perfetta continuità dei due attori principali,ma il sarto tiene il metro a nastro allungato tra le due mani.

FraseFamosa: [N° 111353] Le due battute finali del film (in due scene diverse), una detta dal marchese Eduardo Parascandolo/Eduardo De Filippo e l'altra da Vincenzino Esposito/Peppino De Filippo "Ma il denaro ricordalo bene non serve a niente e non ha dato mai la felicità a nessuno" "A nessuno specialmente quando è poco"
http://www.bloopers.it/testo/index.php?id_film=12040&Lettera=A

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“ …Certo è che questo benedetto cinematografo è un grande enigma e chi si raccapezza è bravo. Vi indico tuttavia gli aspetti piacevoli del film in questione: la scena all’osteria quando il vino viene versato nella bocca di Peppino attraverso un imbuto e quando il sarto prende le misure, la recitazione impeccabile dei due meravigliosi fratelli e le ombre di Socrate e di Diogene che vagano su tanto parapiglia, in una amenità ingenua e popolare:” ( Diego Calcagno, in Film, 30 maggio 1943)
http://cortoin.screenweek.it/archivio/cronologico/2010/07/a-che-servono-questi-quattrini_1942.php 

Esodo Pratelli (Lugo di Romagna, 8 febbraio 1892 – Milano, 4 gennaio 1983) è stato un pittore e regista italiano.

Dopo aver frequentato l'Accademia delle Belle Arti di Roma si trasferì a Milano, dove nel 1922, fece la sua prima mostra di pittura e dal 1924 fu direttore della Scuola superiore d'Arte applicata all'Industria del Castello Sforzesco.[1]

Durante il fascismo partecipò alle più importanti esposizioni dell'epoca tra cui la prima Quadriennale d’Arte di Roma e la Biennale di Venezia.

Alla fine degli anni '30, debutta nel mondo del cinema come sceneggiatore e regista realizzando tra l'altro Pia de' Tolomei, Se non son matti non li vogliamo e A che servono questi quattrini? con Eduardo e Peppino De Filippo.

Sarà Dirigente a Cinecittà dal momento della fondazione, al Centro Sperimentale e alla Commissione di censura cinematografica. Durante la guerra inizia a lavorare a un film, abbandonandone poi la lavorazione; sarà Vittorio De Sica a riprendere il progetto e portarlo a termine col titolo La porta del cielo.

Nel dopoguerra gira alcuni documentari sulle arti figurative. Dall'inizio degli anni '50 di Pratelli si perdono le tracce, non si conoscono notizie esatte sulle sue attività, almeno quelle inerenti al cinema.
https://www.capitoliumart.it/artista/pratelli-esodo-1892-1983/8019

 

martes, 23 de febrero de 2021

Abbasso il zio - Marco Bellocchio (1961)

TÍTULO ORIGINAL
Abbasso il zio
AÑO
1962
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
No
DURACIÓN
13 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Marco Bellocchio
GUIÓN
Marco Bellocchio
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Guido Cosulich
REPARTO
Documental
PRODUCTORA
Giorgio Patara Produzione Cinematografica
GÉNERO
Documental | Cortometraje

Sinopsis
Primer trabajo de un joven Marco Bellocchio, filmado en 1961 en Val Trebbia, en la zona de Piacenza. Una historia de niños jugando desde un cementerio moderno a uno antiguo, buscando fragmentos de hueso en ese lugar abandonado.(FILMAFFINITY)
 
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TRAMA ABBASSO IL ZIO
Tre ragazzini scavalcano il muro di cinta di un vecchio cimitero della campagna piacentina e raggiungono un loro coetaneo, che sta pregando davanti a una tomba. Poi, escono tutti insieme di corsa dal cimitero e si recano in un vecchio cimitero di campagna dall'aria abbandonata: qui, i quattro si divertono A scoperchiare le lapidi, a estrarre ossa e denti e a fumare atteggiandosi ad adulti, affascinati e al tempo stesso spaventati dalla morte.

CURIOSITÀ SU ABBASSO IL ZIO
- CORTOMETRAGGIO DI ESORDIO DEL REGISTA.
https://www.comingsoon.it/film/abbasso-il-zio/16511/scheda/

Marco Bellocchio

Regista cinematografico, nato a Piacenza il 9 novembre 1939. L'orizzonte dei conflitti familiari, lo spazio e il tempo della parola, il gioco libero e impervio della sessualità, l'ombra della morte, l'allucinazione della follia, la presenza costante della pratica psicoanalitica, caratterizzano i suoi film politici, controversi e intensamente poetici, attraversati da un pensiero rigoroso e da un gusto inesauribile della sperimentazione e del rischio. Nato in una famiglia della borghesia piacentina, B., dopo aver compiuto i primi studi presso i Fratelli delle Scuole Cristiane e aver frequentato il Liceo Lodi dei padri Barnabiti, s'iscrisse alla facoltà di Filosofia a Milano. Il suo interesse per l'attività teatrale e cinematografica lo indusse però a seguire dapprima i corsi dell'Accademia dei Filodrammatici e dal 1959, a Roma, quelli del Centro sperimentale di cinematografia. Prime sue prove di regia furono il documentario Abbasso il zio (1961), e i cortometraggi La colpa e la pena (1961) e Ginepro fatto uomo (1962); quindi l'esordio con I pugni in tasca (1965: il titolo è anche un verso di J.-N.-A. Rimbaud) portò B. alla notorietà e ne condizionò il percorso successivo. Già si intravedono le tracce di uno stile coerente che si va formando: la famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna l'ombra e la malattia, l'uso del tempo, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l'accamparsi dei corpi, in primo luogo quello di Lou Castel, l'indimenticabile Ale, che segna l'opera con un'impronta incancellabile, mortifera e dolce. Il film irruppe sulla scena del cinema italiano con la forza del suo anticonformismo, mentre il successivo La Cina è vicina (1967), partendo da un tessuto non dissimile ‒ i luoghi sono ancora quelli di una città di provincia, Imola ‒ elabora un discorso più marcatamente politico, focalizzato sui rapporti di classe. Intanto, nel 1967 già si respirava quel clima di contestazione che preparò la stagione del Sessantotto e che avrebbe influito radicalmente sulle opere cinematografiche. B. partecipò alle lotte di quegli anni sollecitando un cinema diverso e realizzò Discutiamo discutiamo, episodio del film collettivo Amore e rabbia (1969, firmato anche da Pier Paolo Pasolini, Carlo Lizzani, Jean-Luc Godard e Bernardo Bertolucci): un 'apologo' di matrice brechtiana, ambientato in un'aula universitaria dominata dai ritratti di Ho Chi-minh e di Che Guevara, percorso da un'ironica disposizione autocritica. La fine del Sessantotto vide B. impegnato nell'Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti); testimonianza di questo periodo furono Paola (1969), sull'occupazione di case organizzata dai militanti nella cittadina calabrese, e Viva il 1° maggio rosso, dello stesso anno, che documentava le manifestazioni per la festa dei lavoratori. Sempre nel 1969, con il Timone d'Atene di W. Shakespeare per il Piccolo Teatro di Milano B. firmò la prima regia teatrale, seguita solo nel 2000 da un Macbeth per il Teatro Stabile di Roma. Nel nome del padre (1972), incentrato sui suoi ricordi della vita di collegio, segnò una tappa importante per l'analisi dei meccanismi del potere mostrando la necessità di romperne gli schemi. Il risultato è un film dominato dalle ombre, metaforico, intimamente sentito, animato dall'urgenza di alludere alla storia collettiva di un intero Paese, che si specchia nel microcosmo dell'istituzione pedagogica. Con Sbatti il mostro in prima pagina (1972) B. volle sganciarsi dal genere poliziesco 'di denuncia' da cui prendeva le mosse, deviando verso un'indagine documentaristico-sociologica sui mezzi di informazione. Nel 1975 B. realizzò, con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, un documentario, di intatta e vitale carica politica e di lancinante intensità, sull'esperienza dell'ospedale psichiatrico di Colorno (Parma), girato in 16 mm e intitolato Nessuno o tutti, e poi portato a 35 mm nella versione destinata al normale circuito cinematografico con il titolo Matti da slegare, che ottenne la menzione FIPRESCI e il premio OCIC al Festival di Berlino. Marcia trionfale (1976) esplora invece il mondo delle caserme, mettendone a nudo i rituali, la ripetitività, il vuoto esercizio del potere. Nel 1977 B. realizzò per la televisione Il gabbiano, esplorazione passionale del celebre testo teatrale čechoviano assunto nella sua totale integrità ma riletto attraverso il linguaggio cinematografico. A La macchina cinema (1978), viaggio documentaristico tra gli emarginati del sottobosco cinematografico, diretto insieme ad Agosti, Petraglia e Rulli, è seguito Vacanze in Val Trebbia (1980), curiosa esercitazione 'leggera' sulla vita in campagna di una coppia (B. stesso e la sua compagna Gisella Burinato, con il loro bambino), sospesa, in una dimensione onirico-avventurosa, tra documentario e fiction. Ancora nel 1980, con Salto nel vuoto B. (che ha ottenuto con questo film il David di Donatello come miglior regista) è riuscito finalmente a fare i conti con I pugni in tasca, cominciando a liberarsene e procedendo con tersi piani-sequenza per raccontare l'imprevedibile insediamento della follia in una relazione parentale. Con Gli occhi, la bocca (1982), ha operato poi un vero e proprio ritorno al set del primo film e al suo protagonista Lou Castel, 'uguale e diverso' rispetto all'Ale di I pugni in tasca, congedandosi con coraggio dal proprio passato (anche di autore), e rischiosamente inaugurando una nuova apertura. Dopo Enrico IV (1984), da L. Pirandello, significativo per il sottile e ambiguo lavoro sul tempo, con Diavolo in corpo (1986), liberamente ispirato al romanzo di R. Radiguet, B. ha messo in gioco una personale svolta, aprendosi alla discussa influenza dello psicoanalista M. Fagioli e inaugurando una sorta di trilogia sul femminile che è proseguita con La visione del sabba (1988) e si è chiusa con La condanna, vincitore del Premio speciale della giuria al Festival di Berlino nel 1991, vagamente ispirato a un fatto di cronaca, il caso Popi Saracino. In queste tre opere si avverte un cambiamento della scrittura filmica, che sembra muoversi secondo coordinate più libere, affidando ai piani ravvicinati la verità di un'emozione sperimentata fino al limite estremo. Con Il sogno della farfalla (1994) B. ha tematizzato nodi complessi, in primo luogo quello del linguaggio ‒ il protagonista, un attore, non parla per scelta volontaria, se non attraverso le parole dei testi, sul palcoscenico ‒ e della comunicazione come reale bisogno dell'essere umano. Anche nel successivo Il principe di Homburg (1997), da H. von Kleist, attraverso il doppio registro realtà/sogno, legge/trasgressione connaturato alla sua opera, il regista intreccia nelle pieghe della messinscena e del ritmo luministico un complesso e sensibile processo di messa a fuoco delle immagini, con un uso insistito della dissolvenza incrociata. Ne risulta il 'ritratto' romantico di un giovane affine a quello del ragazzo chiuso nel silenzio del film precedente. Con La balia (1999), partendo da una novella pirandelliana, ha quindi realizzato un film vibrante di suoni prima che di immagini, esplicitando in una specie di ricapitolazione dei suoi temi, dalla follia al femminile, l'indole di un regista che non ha mai rinunciato ad andare incontro alla realtà, che non è sceso a compromessi e non si è stancato di cercare.
https://www.treccani.it/enciclopedia/marco-bellocchio_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/

lunes, 22 de febrero de 2021

La pazza gioia - Paolo Virzi (2016)

TÍTULO ORIGINAL
La pazza gioia
AÑO
2016
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
111 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Paolo Virzì
GUIÓN
Francesca Archibugi, Paolo Virzì
MÚSICA
Carlo Virzì
FOTOGRAFÍA
Vladan Radovic
REPARTO
Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Anna Galiena, Valentina Carnelutti, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Bob Messini, Carlotta Brentan, Francesca Della Ragione, Roberto Rondelli
PRODUCTORA
Co-production Italia-Francia; Lotus Productions, Manny Films, RAI
GÉNERO
Comedia. Drama | Amistad. Road Movie. Comedia dramática


Sinopsis
Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) es una condesa charlatana y millonaria que está convencida de encontrarse entre los círculos íntimos de los líderes políticos mundiales. Por su parte Donatella (Micaella Ramazzotti) es una joven tatuada, vulnerable e introvertida, envuelta en su propio halo de misterio. Ambas son pacientes de Villabiondi, una delirante institución psiquiátrica. (FILMAFFINITY)

Premios
2016: 5 Premios David di Donatello: inc. mejor película, director y actriz. 17 nom.
2016: Festival de Valladolid - Seminci: Espiga de oro, Actriz y Premio del público
2016: Premios del Cine Europeo: Nominada a mejor actriz (Bruni Tedeschi)
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In una comunità terapeutica di recupero sulle colline toscane sono ospiti l’istrionica e chiacchierona Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e la fragile e silenziosa Donatella (Micaela Ramazzotti). Entrambe considerate socialmente pericolose, dissimili nel comportamento, nel carattere e nell’apparenza riescono a costruire un’imprevedibile amicizia, che le porterà verso una rocambolesca e intensa fuga (in stile Thelma & Louise) alla ricerca di impossibili risposte ed un’effimera felicità.
Siamo di fronte ad un film al femminile, magistralmente interpretato dalle due protagoniste e diretto da Virzì con grande capacità e attenzione. Ottima la sceneggiatura che affronta una serie di tematiche molto delicate con grande sensibilità, abbinandole a una sottile leggerezza, senza però sminuire il profondo dolore che accompagna l’esistenza delle due donne, e le problematiche sociali che le circondano.
Gli affetti e le emozioni s’intrecciano con i sensi di colpa, i segreti del passato e l’ammalarsi della mente. Il tutto è proposto con una perfetta fusione tra l’ironia e il dramma sostenute da un’elevatissima qualità dei dialoghi.
Quando Donatella mostra con orgoglio il nome del proprio figlio tatuato sulla spalla ecco Beatrice che con grande spontaneità risponde: “Comprati un quadernetto per scrivere le tue cosine invece di avere tutto il corpo così“.
E poi ancora: “Dove stiamo andando?” – “ Stiamo cercando un po’ di felicità” – “Ma sei scema?” – “E dove si trova?”  – “Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili “
Paolo Virzì e Francesca Archibugi durante la stesura della sceneggiatura, si sono confrontati con psichiatri e psicoterapeuti, incontrando nelle case di cura pazienti con diversi tipi di disturbi. Le informazioni acquisite e il contatto profondamente umato con i malati mentali li hanno portati a scrivere un copione dalla parte di Beatrice e Donatella.
Un piccolo appunto: da appassionato di musica mi sarei aspettato una colonna sonora più caratteristica, maggiormente avvolgente, ma forse è una deformazione professionale.
Il film è stato presentato al festival di Cannes il 14 Maggio scorso, ed è stato accolto molto favorevolmente. Al termine della proiezione sono stati tributati calorosi applausi per più di dieci minuti.
I miei complimenti a Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, che con le loro recitazioni danno spessore e attendibilità a personaggi estremamente complessi.
Un film da vedere assolutamente!
Roberto Bianchi
https://offtopicmagazine.net/2016/06/10/la-pazza-gioia-di-paolo-virzi-2016/

Paranoiche, ansiose, ossessive, insonni, lunatiche: non sono le pazienti di un reparto psichiatrico, non sono le donne dei film di Virzì, sono le persone. Il segreto de La pazza gioia, l'ultimo lavoro del regista livornese scritto con Francesca Archibugi e presentato a Cannes nella Quinzaine, sta nel mescolare tutto – malattia, femminilità e umanità – nel non dividere il mondo dei matti da quello dei ”normali” e nel non escludere il dramma dalla commedia.

A Villa Biondi – virtuosa comunità terapeutica sulle colline pistoiesi – Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) incontra e travolge Donatella (Micaela Ramazzotti). La prima indossa abiti eleganti e colorati, ha un ombrellino per ripararsi dal sole, è una sedicente contessa che sostiene di essere stata incastrata dalla magistratura. La seconda è il suo opposto: tace, è coperta da tatuaggi e cicatrici, le tremano le mani, ha la fisionomia delle ragazze che in stazione ti chiedono un euro per il biglietto.
Il film racconta della loro fuga alla ricerca di una felicità piccola e allo stesso tempo immensa, dei loro tentativi di rimediare agli errori del passato e dei loro nuovi sbagli, del loro rincorrere gli amori sbagliati. E Paolo Virzì ci riesce ancora, nonostante qualche caricatura, a creare personaggi come nessun’altro sa fare e il bello è che non si capisce fino in fondo quale sia il suo trucco. Perché non è vero che il regista de La prima cosa bella, film che ha diversi aspetti in comune con La pazza gioia, riesce a raccontare le donne, o per lo meno, non è solo così. Beatrice e Donatella sono donne, ma sono prima di tutto, come si diceva all'inizio, persone; esseri umani dotati di un’emotività incontrollata e sprovvisti di ipocrisia, sono caratteri che nella quotidianità potrebbero anche infastidirci, ma che il film decide di non giudicare.

In tutto questo vortice di dolente allegria Vladan Radovic fotografa una Toscana calda e di tramonti, Carlo Virzì cura le musiche e Valeria Bruni Tedeschi si muove in modo scomposto mantenendo un costante stato di grazia.

Allora viene in mente che forse il trucco di Virzì è proprio quello di non sovraccaricare il racconto con scene madri. I momenti forti ci sono, ma il resto del film è costellato di dettagli, perché Bobo Rondelli che fa la pipì in testa a Beatrice per dirle che non la ama più e il modo in cui Donatella tiene in mano il cellulare che contiene “la canzone di babbo” (Senza fine di Gino Paoli) dicono già moltissimo sul loro essere sole.

«Quanto siamo stanche io e te. Dovremmo riposarci un po'» dice Donatella a Beatrice mentre il Valium fa effetto sul lungomare di Viareggio all'imbrunire, è un dialogo che ti rimane dentro, come tutta La pazza gioia.
http://www.paperstreet.it/la-pazza-gioia-paolo-virzi/ 

Toscana. En una residencia psiquiátrica se encuentran como pacientes Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi), condesa adinerada que cree que se encuentra entre líderes políticos mundiales, y Donatella (Micaella Ramazzotti), una joven introvertida. Ambas se unirán en una fuga del centro que cambiará para siempre sus vidas.
Comedia dramática que destaca por las interpretaciones de sus dos protagonistas, Valeria Bruni Tedeschi y Micaella Ramazzotti, en especial la primera.

La película narra la historia de dos mujeres igual de desequilibradas pero al mismo tiempo muy diferentes: Beatrice (Tedeschi), condesa encerrada en una institución psiquiátrica creada por su familia que se refugia en la burbuja que se ha construido sobre mentiras, con aires de grandeza trasnochada; y Donatella (Ramazzotti), joven introvertida que padece una depresión profunda, con un pasado tortuoso de drogas, prostitución, intentos de suicidio, problemas de comportamiento en la infancia y algo más grave que es un profundo secreto.
El centro de la trama es la complicidad entre ambas que poco a poco crece en su emotividad y les lleva a escapar juntas. En este momento la película se transforma en una “road movie” por los paisajes de la Toscana.

Se nos plantea entenderlas, comprender su entorno, sus circunstancias; Paolo Virzi nos habla de libertad con un fondo que termina defendiendo la familia, el hogar.

La tragicomedia es irregular. Resulta más floja en los momentos que resalta el drama, sin lograr conmover y pecando en ocasiones de sensiblera. En su aspecto de comedia crea mejores situaciones, a pesar del histrionismo y de las reiteraciones. También es excesiva su duración para lo que tiene que contar, extendiéndose más de lo necesario con un final muy previsible que deja un poso de indiferencia.
Marta Canacci
https://www.alohacriticon.com/cine/criticas-peliculas/locas-de-alegria-la-pazza-gioia-2016-de-paolo-virzi/



domingo, 21 de febrero de 2021

Ho fatto splash - Maurizio Nichetti (1980)

TÍTULO ORIGINAL
Ho fatto splash
AÑO
1980
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Maurizio Nichetti
GUIÓN
Maurizio Nichetti, Guido Manuli
MÚSICA
Detto Mariano
FOTOGRAFÍA
Mario Battistoni
REPARTO
Maurizio Nichetti, Angela Finocchiaro, Luisa Morandini, Carlina Torta
PRODUCTORA
Vides Cinematografica
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
Tres chicas comparten piso en Milán; Luisa es aspirante a actriz, Angela universitaria, y Carlina maestra de escuela a tiempo parcial. Un día reciben la visita de Maurizio, el primo de Carlina, un hombre que se durmió frente al televisor cuando tenía seis años y se ha despertado ahora tras más de 20 años. No habla, y es muy raro. La vida de las tres chicas se convertirá en una experiencia surrealista. (FILMAFFINITY)
 
2 

Angela (Finocchiaro), Luisa (Morandini) e Carlina (Torta: i personaggi hanno gli stessi nomi delle tre attrici) dividono un appartamento milanese a Porta Venezia, insieme a un bambino, figlio di una quarta coinquilina che è partita per un viaggio intorno al mondo. Delle tre, soltanto Carlina ha un lavoro stabile (fa l'insegnante in una scuola elementare) e porta a casa uno stipendio: Luisa aspira a fare l'attrice (con piccole parti a teatro e negli spot pubblicitari) e Angela è una pittrice sciroccata. A ravvivare ulteriormente l'atmosfera in casa, arriva il cugino di Carlina (Nichetti), che si era addormentato da piccolo guardando la televisione e si è appena risvegliato dopo un sonno durato oltre vent'anni... Il secondo film di Nichetti dopo "Ratataplan" è un libero susseguirsi di situazioni surreali e di scenette comiche ed episodiche che da un lato guardano alla comicità del muto (significativamente, nella casa delle ragazze spiccano, fra le altre cose, dei ritratti di Chaplin, Keaton, Oliver & Hardy e i fratelli Marx), per esempio nelle sequenze in cui il protagonista porta il caos in luoghi istituzionali (in chiesa, a teatro), e dall'altro cercano di abbozzare una satira sociale tipica della commedia all'italiana, benché filtrata attraverso l'ironia strampalata e grottesca, quasi "da fumetto", tipica dell'attore/regista. Il quale, fedele al proprio personaggio stralunato, resta in silenzio per l'intero film, con l'eccezione di un'unica frase, quella che dà il titolo al film (pronunciata durante le riprese di uno spot all'Idroscalo) e che diventa involontariamente un fortunato slogan pubblicitario per una bibita gassata. E proprio la pubblicità e la televisione, anzi la dipendenza (soprattutto da parte dei bambini e dei giovani) da questa, sono il filo conduttore della pellicola: sin dalla scena iniziale, in cui assistiamo all'indisciplina che regna nella classe in cui insegna Carlina (fra le altre cose, uno degli scolari fa il verso al Fonzie di "Happy Days"), per proseguire con l'attrazione irresistibile del bambino che vive in casa delle ragazze per i cartoni animati sul piccolo schermo (anche se non sembra far altro che guardarsi in loop la sigla italiana di "Gundam") e per la popolarità virale conquistata dal jingle "Ho fatto splash". Ma ce n'è per la società in generale (i giovani ribelli, il ladro gentiluomo, l'architetto "madonnaro", l'ingordigia degli invitati al pranzo di nozze, il mondo del teatro, con una presa in giro di Giorgio Strehler nella sequenza che mostra il suo allestimento de "La tempesta" di Shakespeare al Teatro Lirico). Guido Manuli ha collaborato alla sceneggiatura e ha disegnato le animazioni.
Christian Alle
http://tomobiki.blogspot.com/2018/11/ho-fatto-splash-maurizio-nichetti-1980.html

TRAMA HO FATTO SPLASH
A Milano Angela, Luisa e Carlina vivono insieme, alle spalle dell'unica a lavorare, Carlina, che fa la maestra. Luisa, aspirante attrice, vive di sogni e Angela, che di sogni ne ha pochi, si occupa malamente della casa dove, tra l'altro, vaga un bamboccio sempre incollato alla televisione, lasciato alle tre ragazze dall'amica Mimi, emigrata in Brasile senza più dar notizia di sé. Un giorno arriva la notizia che Abele (così chiamata perché sua mamma credeva che Abele fosse la moglie di Caino) ha mandato da Carlina il cugino Maurizio, appena risvegliatosi da un sonno di 20 anni, causato dall'ascolto di "Grazie dei fior", cantata da Nilla Pizzi. La notizia mette in subbuglio le ragazze che sperano nell'arrivo di un bel fusto, ma che non sanno come risolvere i problemi economici dato che Carlina è stata derubata dell'ultimo stipendio. Maurizio, comunque, finisce per essere determinante in questa specie di harem. Portato da Luisa e Angela alle riprese di un carosello, ne determina il successo "facendo splash".

CRITICA DI HO FATTO SPLASH
"(...) Riportiamo tra virgolette alcune frasi delle note di regia poichè, all'atto pratico, ciò che "Ho fatto splash" voglia dire risulta assai poco chiaro allo spettatore, il quale potrà più o meno godersi le varie sequenze in cui il film si articola ma non scoprire da solo, a meno che non sia dotato di talenti divinatori, la morale o il messaggio dell'insieme. In realtà stavolta Nichetti fa più splash che centro: il brio di "Ratataplan" riappare qui appena a tratti. Riappare soprattutto allorchè è di scena lui, con le sue duttili doti di mimo, che egli d'altronde sa bene di non dover adulterare, se per tutto il film si concede una battuta, sola, quella da cui è tratto il titolo. Per il resto, mentre "Ratataplan", era muto, qui invece si parla, si chiacchiera, e non in modo eccessivamente vivace, così come eccessivamente vivaci non sono nè le gags nè il relativo montaggio, che si anima un po' solo nelle sequenze in cui una replica della "Tempesta" di Shakespeare - Strehler è messa allegramente a soqquadro.

CURIOSITÀ SU HO FATTO SPLASH

- COLLABORAZIONE ALLA SCENEGGIATURA E ANIMAZIONE: GUIDO MANULI.
https://www.comingsoon.it/film/ho-fatto-splash/14969/scheda/

DI COSA SI TRATTA:
Maurizio bambino si addormenta davanti alla televisione e si sveglia 20 anni dopo, accolto dalla cugina e da due amiche che vivono con lei.

COSA MI E' PIACIUTO:
il film scorre molto piacevolmente sul doppio binario della commedia realistica brillante, sostenuta dalle tre ragazze, e dal comico surreale e clownesco di Nichetti, che si avvale con rispetto ma anche con creatività dei modelli del cinema comico del passato, mettendo insieme le occhiatre complici di Oliver Hardy alla fisicità acrobatica di Buster Keaton e alle invenzioni mimiche di Tati. Con Tati condivide l'idea del mutismo ostinato, interrotto da una sola frase, che dà il titolo al film. La cosa buffa è che né a Hulot né a Maurizio nessuno chiede mai perché non parlano. Lo schema prevalente è quello della distruzione involontaria dell'ordine costituito: il set pubblicitario, la cerimonia in chiesa, il pranzo nuziale, la Tempesta al Piccolo Teatro. Nichetti disordina l'ordinario, ma sempre con l'arma dell'ingenuità. Bravi tutti gli attori, anche quelli di contorno. Gradevoli le musiche di Detto Mariano.

CURIOSITA':
Luisa Morandini è figlia del noto critico Morando e coautrice dell'ancor più noto dizionario dei film. Il finto spot pubblicitario della "gassosa per i gasati" viene citato anni più tardi in Ladri di saponette.
http://www.claudiocolombo.net/Dvd/hofattosplash.htm

sábado, 20 de febrero de 2021

Che fine ha fatto Toto Baby? - Ottavio Alessi (1964)

TÍTULO ORIGINAL
Che fine ha fatto Totò baby?
AÑO
1964
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN
110 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Ottavio Alessi
GUIÓN
Ottavio Alessi, Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Sergio D'Offizi (B&W)
REPARTO
Totò, Pietro De Vico, Mischa Auer, Ivy Holzer, Edy Biagetti, Alicia Brandet, Stelvio Rosi, Mario Castellani
PRODUCTORA
Produzioni Cinematografiche Mediterranee (PCM), Rizzoli Film
GÉNERO
Comedia | Parodia

Sinopsis
Totò y Pietro son dos hermanos que viven de pequeños hurtos. Un día roban una maleta en la estación, y descubren que ésta contiene un cadáver, por lo que deciden hacerlo desaparecer en el campo. Comienzan entonces todo tipo de desventuras. Parodia de "¿Qué fue de Baby Jane?" (FILMAFFINITY)
 

Nonostante sia accreditato formalmente a Ottavio Alessi Che fine ha fatto Totò Baby? è in tutto e per tutto una creatura di Paolo Heusch, che venne licenziato in tronco a lavorazione pressoché ultimata. Tra le più estreme rappresentazioni della crudeltà comica di Totò, il film testimonia anche il versatile talento di Heusch, la sua volontà di tracimare oltre i confini del sadico ridefinendo il corpo comico per eccellenza del cinema italiano.
Paolo Heusch, chi era costui? Sicuramente non il regista di Che fine ha fatto Totò Baby?, almeno a giudicare da tutti i riferimenti ufficiali al film, a partire dai titoli di testa e dalle locandine preparate per il lancio nelle sale – un paio le trovate anche all’interno di questa recensione. Eppure la quasi totalità delle riprese del film, e il senso che esse assumono, la si deve proprio a Heusch, che all’epoca dei fatti era appena quarantenne e da un lustro si trovava in rampa di lancio. Invece, per motivi su cui si possono fare solamente speculazioni (per quanto basate su ipotesi abbastanza concrete) di fatto la sua carriera finì con il licenziamento in tronco con cui venne espulso dal set: da allora solamente quattro regie (Il rinnegato del deserto o Una raffica di piombo con Antonio Santillán, Un colpo da mille miliardi, El ‘Che’ Guevara, Incontro d’amore in co-regia con Ugo Liberatore), l’ultima delle quali nel 1970, e poi più nulla, almeno ufficialmente, fino alla morte sopraggiunta a Roma nell’ottobre del 1982 a cinquantotto anni. Quindi, immediatamente dopo, l’oblio critico, dal quale Heusch non è in realtà ancora emerso. Un oblio ovviamente immeritato, ma ancora più sorprendente se si considera l’indole del tutto inconsueta di questo regista, in grado di esordire con uno sci-fi come La morte viene dallo spazio, che può contare sulla fotografia di Mario Bava, per poi mettere in scena uno dei pochissimi horror licantropici italiani – Lycanthropus, 1961, firmato con lo pseudonimo Richard Benson –, e adattare per il grande schermo Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini a quattro mani con Brunello Rondi. Nel 1963, un anno prima di Che fine ha fatto Totò Baby?, Heusch dirige Totò ne Il comandante: non si tratta di un lavoro come tutti gli altri perché si tratta di uno dei pochissimi esempi di cinema drammatico all’interno della filmografia di Antonio de Curtis. All’epoca venne addirittura spacciato come il primo dramma interpretato da Totò, dimenticando Yvonne la Nuit dell’altrettanto dimenticato Giuseppe Amato. Il comandante è il primo film a portare davanti alla macchina da presa Totò fingendo di non conoscerne in nessun modo la maschera comica, di non essere a conoscenza del suo pregresso, della sua icona. Fu un fiasco colossale al botteghino, ma questa sua peculiarità emerse con evidenza. Potrebbe essere stato questo a spingere la produzione ad affidare di nuovo a Heusch il grande comico partenopeo pochi mesi dopo, per portare a termine Che fine ha fatto Totò Baby?. Con tutto quello che ne conseguì.

Che fine ha fatto Totò Baby? è una commedia completamente al di fuori dagli schemi del cinema italiano dell’epoca. Arriva in sala in un momento in cui è la commedia all’italiana a dettare legge ma guarda con insistenza dalla parte della farsa. Non la farsa di derivazione teatrale di cui Totò fu uno degli interpreti più brillanti, né la pochade di Feydeau e Bernard; no, la farsa orchestrata da Heusch e poi portata a termine da Alessi è ferale, crudele, funebre, mortuaria. Non si ride, si sogghigna. Non si parteggia per lo sventurato Totò perché il suo personaggio è al di là del mostruoso, anticipa e soverchia i brutti, sporchi e cattivi che arriveranno nel decennio successivo: è deforme, privo di morale, senza alcuno scrupolo, un intrallazzatore che improvvisa la propria vita e può dunque improvvisare anche la morte altrui. Nel delirio che progressivamente si sviluppa, sequenza dopo sequenza, non si vedono le radici della commedia nazionalpopolare nostrana, ma semmai i calembour esiziali dei fratelli Marx. Totò li contiene tutti al proprio interno, dalla verve dialettica e prossima al nonsense di Groucho alla goffaggine lasca di Chico, fino alla dicotomica funzione angelica/diabolica di Harpo. Nessun film ha osato ricostruire il corpo in scena di Totò come Che fine ha fatto Totò Baby?, perché nessuno ha pensato che fosse lecito spingersi così in là, utilizzando l’elemento nero come principale motore dell’azione, e non come suo orpello aggiuntivo, ostacolo al protagonista della narrazione. Da quando Totò e suo fratello Pietro (Pietro De Vico, sublime spalla comica, al fianco del mattatore napoletano in altre pellicole celebri, da Totòtruffa 62 a Totò cerca casa e Totò sceicco) trovano all’interno della valigia che hanno rubato un cadavere la sceneggiatura si muove a velocità frenetica verso il deliquio, la perdita di coscienza del reale. Per giustificare la totale follia che sta per prendere corpo in scena – di fronte alla quale Helzapoppin’ di H.C. Potter sembra un racconto dominato dal raziocinio – si ricorre perfino all’escamotage delle piante di marijuana mangiate in quantità industriale dall’inconsapevole Totò, un “trucchetto” atto anche a evitare la scure della censura. Perché Che fine ha fatto Totò Baby? non utilizza i meccanismi del noir per deriderli e parodiarli, come aveva fatto ad esempio Steno due anni prima in Totò Diabolicus; il film di Heusch e Alessi tracima ben presto oltre i confini del sadico, con Totò destinato a compiere una vera e propria mattanza, sotto l’effetto delle droghe ma anche perché altro non potrebbe fare, spinto all’eccesso da uno script che non si fa mancare nulla, e osa tutto l’osabile. Anche troppo, probabilmente.

Se Pasolini fu in grado di cogliere la profonda tragicità della maschera comica di Totò, spingendolo lontano dalla replica esausta dello schema cui era stato costretto da film sempre più seriali, identici di fatto gli uni agli altri – e resi unici solo dalla straordinaria capacità attoriale di Totò –, ipotizzando una via d’uscita lirica anche se non priva di crudezze (riscontrabili sia in Uccellacci e uccellini sia ne La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole?, uscito postumo nel 1968), Heusch sembrava possedere la rara capacità di reinventarlo completamente, guidandolo in un percorso mai tentato prima, e per questo impervio almeno quanto affascinante. Vale la pena ricordare come in quegli anni l’attore fosse già completamente cieco: questa sua recitazione “al buio” dona al personaggio una disperazione ancora più estrema, come se il limite – anche quello dello spazio – potesse essere una volta per tutte espunto, eliso dal reale. Certo, Che fine ha fatto Totò Baby? (inutile sottolineare come il riferimento cinefilo sia al capolavoro di Robert Aldrich, cui è legato per il tema della consanguineità e della psicopatia, ovviamente) è un film slabbrato, esagerato, talmente scombiccherato da risultare a tratti farraginoso, pesante, forse anche insostenibile. Eppure è anche la più clamorosa raffigurazione del talento sconfinato di uno dei più grandi attori del cinema italiano del Novecento, con troppa facilità ridotto “solo” al ruolo di comico, di buffone di corte. Heusch compie un’operazione coraggiosissima, e quindi prossima alla catastrofe, ed è un peccato che non gli venga più neanche attribuito il merito di tutto questo. Perché? Pare che la decisione di cacciare Heusch dal set per affidare il film allo sceneggiatore Alessi sia stata presa dalla produzione su pressante richiesta dello stesso Totò, che pure aveva elogiato apertamente il giovane cineasta solo pochi mesi prima, al termine della lavorazione de Il comandante. Cosa successe, allora? Senza farla troppo lunga, anche perché i documenti a disposizione permettono solo illazioni, per quanto probabilmente credibili, si scoprì che Heusch intratteneva relazioni omosessuali. Nel reazionario seppur libertino mondo del cinema questo equivalse a uccidere socialmente il regista romano. Quale che sia la verità attorno all’epurazione di Heusch (perché di questo, ed è indiscutibile, si trattò), quel che è certo è che quasi tutto Che fine ha fatto Totò Baby? è da ascrivere alla sua filmografia. Ed è forse giunto il momento di ricordarlo. Così come varrebbe la pena ricordare un altro attore sublime, il russo Mischa Auer, che qui interpreta un conte uxoricida e che negli anni Trenta e Quaranta recitò in classici come Viva Villa! di Jack Conway e Howard Hawks, L’impareggiabile Godfrey di Gregory La Cava, L’eterna illusione di Frank Capra, I lancieri del Bengala di Henry Hathaway, e il già citato Helzapoppin’. Morì a Roma, dove si era trasferito negli ultimi anni di vita, nel 1967. Un mese dopo lo seguirà anche Totò.
Raffaele Meale
https://quinlan.it/2020/04/21/che-fine-ha-fatto-toto-baby/

Una pellicola di genere commedia che è stata diretta da Ottavio Alessi che assieme a Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi hanno curato soggetto e sceneggiatura. La produzione è stata gestita da Alberto Pugliese e Luciano Ercoli. Il montaggio del film è stato realizzato da Licia Quaglia con le musiche della colonna sonora che sono state composte da Armando Trovaglioli e con la scenografia ideata da Nedo Azzini. Il film è stato girato in bianco e nero in Italia nel 1964 e la sua durata è di circa 87 minuti. Il film mostra la grande bravura di Totò e la sua enorme capacità di recitare sull’improvvisazione. L’attore napoletano Pietro De Vico, che nel film interpreta Pietro il fratello di Totò Baby, ha raccontato in una intervista che Totò, per niente soddisfatto di quanto fosse riportato sul copione, gli chiese esplicitamente di inventare al momento le risposte alle sue battute. Dalla geniale improvvisazione dei due sono nate le scene più belle del film. Totò è stato anche un grande autore di canzoni napoletane, alcuni dei suoi testi hanno fatto il giro del mondo, basta ricordare Malafemmena e Core analfabeta.

TOTO’ E PIETRO DE VICO NEL CAST
Che fine ha fatto Totò Baby?, il film in onda su Rete 4 oggi, mercoledì 2 agosto 2017. Una pellicola prodotta in Italia nel 1964 per la regia di Ottavio Alessi. Si tratta della parodia del lavoro cinematografico uscito nel 1962 intitolato” Che fine ha fatto Baby Jane?”, un thriller psicologico magistralmente interpretato da Bette Davis e Lucille Le Sueur, meglio conosciuta come Joan Crawford. Nel film “Che fine ha fatto Totò Baby?” hanno recitato due attori eccezionali, Totò e Pietro De Vico. La coppia ha lavorato insieme diverse volte, dando vita a scene veramente divertenti in film molto famosi tra cui “Totò truffa 62”, “Il giudizio universale” e “Totò diabolicus”. Ma vediamo insieme la trama del film.

LA TRAMA DEL FILM
Totò Baby e Pietro sono fratelli, entrambi fanno i ladri e spesso lavorano insieme. Al momento sono impegnati a rubare le valigie alla stazione Termini della capitale, ma scoprono che in una di queste è nascosto un cadavere. Cercano di disfarsi della valigia ma, per sbaglio, la scambiano con il bagaglio di due ragazze tedesche. Per tentare di recuperarla, si recano nella villa che ospita le due straniere ma il proprietario della residenza, un certo conte Mischa Auer, li scopre e comincia a ricattare i due poveri ladri. L’uomo si dice disposto a non denunciarli alla polizia ma in cambio chiede che i due lo aiutino a liberarsi della moglie per poter finalmente ereditare le sue ricchezze. Totò Baby accetta di aiutare il conte ma poi in cambio chiederà “vitto e alloggio” per sé e per il fratello Pietro, momentaneamente sulla sedia a rotelle a causa di un incidente. Il conte non si fida di Totò Baby, teme che possa riferire alla polizia dell’omocidio della moglie, quindi con la collaborazione della due regazze tedesche, decide di ammazzare i due fratelli ladri. Nel frattempo Totò Baby scopre che nel piccolo orto dietro la villa cresce rigogliosa una pianta di marijuana.
In un primo momento l’ingenuo ladro, pensando fosse un ortaggio buono da mangiare, raccoglie le sue foglie, le condisce come fosse una semplice insalata, e le mangia. Gli effetti che seguono l’assunzione involontaria della droga si fanno sentire abbastanza presto, Totò Baby è come impazzito e compie una serie di omicidi, tra le vittime ci saranno anche le due straniere tedesche, una morta strangolata e l’altra precipitata in un bisone contenente acido. Anche il conte farà una brutta fine, Totò Baby prima lo uccide, poi lo fa a pezzi, lo cucina e lo serve a cena al povero Pietro, atterrito dalla violenza inaudita del fratello. Molto astute e diaboliche anche le trappole che Totò Baby studia per attirare il postino e il giardiniere, che saranno entrambi accoltellati a morte e poi murati in una stanza della villa. A questo punto Totò Baby si allontana insieme a Pietro e insieme vanno a rilassarsi su una delle più belle spiagge del litorale romano. Qui il ladro pluriomicida viene avvistato e catturato dagli agenti di polizia; quindi Totò Baby finirà in un manicomio criminale dove passerà il suo tempo a scrivere la sua autobiografia servendosi di una macchina da scrivere che in realtà non esiste ma è presente soltanto nella sua immaginazione.
Cinzia Costa
https://www.ilsussidiario.net/news/cinema-televisione-e-media/2017/8/2/che-fine-ha-fatto-toto-baby-su-rete-4-il-film-con-toto-e-pietro-de-vico-oggi-2-agosto-2017/776416/

 

Una sceneggiatura piena di spifferi, degli attori lasciati al loro destino e una trama più friabile del pane carasau, senza nessun'altra ambizione tranne quella di antologizzare in chiave parodica le scene più note di un film campione d'incassi delle stagioni precedenti. Questa è la composizione di quasi tutti i film di routine girati da Totò, il quale – novello Atlante – doveva accollarsi, per mezzo del suo repertorio, tutto il peso di produzioni scalcinate a cui lui solo poteva dare un senso.

Che fine ha fatto Totò Baby? non si discosta da questo schema: la produzione è un po' poverella, l'attenzione alla continuità è nulla, e pure Pietro De Vico e Mischa Auer non sono le spalle più memorabili di Totò, perché né la sceneggiatura (di Ottavio Alessi e dei laboriosissimi Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi) né la regia sanno valorizzare la loro presenza: al primo non viene dato niente da fare se non lanciare strilletti da ebete, mentre il secondo si propone lodevolmente di fare tante “facciacce” quante Totò.

Che fine ha fatto Totò Baby? comunque ha una marcia in più rispetto a tanti film di Totò con gli stessi handicap. La ragione è che questa pellicola trasuda una perversione che non ha paragoni nella vasta filmografia del Principe De Curtis. Tutto inizia all'insegna delle dita nell'occhio e dei morsi sulle mani a cui lo scafato ladro Totò Baby sottopone il suo fratello scemo, Pietro; ma la situazione degenera quando i due arrivano nella villa dell'aristocratico Mischa e Totò entra (ancora una volta) in contatto con la droga. Già due anni prima lui e Peppino De Filippo si erano fatti una doccia di cocaina (in Totò, Peppino e... la dolce vita), ma stavolta le conseguenze sono più estreme: Totò diventa un serial killer e supera in ferocia la Bette Davis di Che fine ha fatto Baby Jane?, spaziando tra varie tecniche omicide quali lo strangolamento, l'acido solforico e l'accoltellamento.

Con i capelli che gli si rizzano sempre di più sulla testa man mano che la follia si acuisce, Totò invoca letteralmente la complicità del pubblico (invitandolo a tenere l'acqua in bocca quando fa a pezzi un corpulento giardiniere) e si produce in alcuni numeri di mimica mirabolanti che dispensano la regia dal fare alcunché.

Nel clima di sfrenatezza complessivo, c'è spazio – come nel succitato Totò, Peppino e... la dolce vita – per plurimi riferimenti all'omosessualità, mostrata in modo piuttosto variegato. Non mancano i classici fraintendimenti da avanspettacolo così diffusi nei film di Totò: prima Pietro De Vico viene scambiato per un invertito da un maresciallo dei carabinieri, perché nel suo baule viene trovato il corpetto di una procace tedesca; poi Totò accarezza con desiderio il braccio di un aitante postino... ma per la semplice ragione che sta pianificando di mutilarlo! Nel reparto omosessualità maschile c'è anche il succitato giardiniere gorgheggiante, che canterella fino a che Totò non lo fa a tocchetti e che richiama vagamente la figura del grasso ed effeminato Victor Buono di Che fine ha fatto Baby Jane?

Nella compagnia del conte Mischa, dedita a blande trasgressioni, fanno anche un'apparizione – abbastanza precoce per il genere della commedia – delle ragazze presumibilmente devote a Saffo: «Zitta tu, non sono cose per donne!» intima una mora dalla voce scura a un'oca bionda che le chiede di prendere una boccata di marijuana, anticipando una dinamica che negli anni successivi sarebbe divenuta lo standard per i rapporti lesbo cinematografici, con la donna virilizzata che sottomette la sciocchina implume. Anche le turiste tedesche (Ivy Holzer e Alicia Brandet) caricate in macchina da Totò e Pietro De Vico potrebbero essere una coppia, benché la loro intimità si riduca al mugugnare confidenzialmente mentre dormono nello stesso letto.

Ottavio Alessi, accreditato come regista di questa singolare pellicola, nel 1968 ha firmato il suo unico altro film, anch'esso piuttosto memorabile nella sua perversione (e caratterizzato da una recitazione ugualmente disomogenea), vale a dire l'ardito Top Sensation, con Rosalba Neri e Edwige Fenech che “bisessualeggiano” alacremente. Ma prima di attribuire all'oscuro Alessi una vena autoriale (appena accennata data la sua scarsa prolificità) di “regista della perversione”, va considerato che a Totò Baby hanno messo mano anche Paolo Heusch e la più assidua spalla di Totò, Mario Castellani, la cui voce appare in continuazione leggermente contraffatta per doppiare molti dei personaggi secondari. Forse è anche per questa sovrapposizione di mani diverse che la fattura del film appare abbastanza sciatta: troppi cuochi guastano la cucina, come dice il proverbio; per fortuna che Totò mette sul fuoco un po' di buona carne... umana.
Andrea Meroni
https://www.culturagay.it/recensione/1660