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domingo, 31 de marzo de 2013

Don Camillo monsignore... ma non troppo - Carmine Gallone (1961)


TITULO ORIGINAL Don Camillo monsignore... ma non troppo
AÑO 1961
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACION 109 min.
DIRECCION Carmine Gallone
ARGUMENTO De un cuento del volumen "Mondo piccolo" (1948) di Giovanni Guareschi
GUION Carmine Gallone, Giovanni Guareschi
REPARTO Fernandel, Gino Cervi, Leda Gloria, Gina Rovere, Saro Urzì, Valeria Ciangottini, Marco Tilli, Andrea Checchi, Emma Gramatica, Karl Zoff, Ruggero De Daninos, Carlo Taranto, Armando Bandini, Giuseppe Porelli, Andrea Scotti, Giulio Girola, Renzo Ricci, Gustavo Serena, Mario Siletti, Franco Pesce
FOTOGRAFIA Carlo Carlini
MONTAJE Niccolò Lazzari
MUSICA Alessandro Cicognini
PRODUCCION Angelo Rizzoli para CINERIZ
GENERO Comedia

SINOPSIS Nominato Monsignore, don Camillo è coinvolto con Peppone senatore nei fatti del luglio 1960, a Roma. Tornano poi a casa a rimettere pace tra cattolici e comunisti. 4° episodio delle disavventure di Camillo e Peppone. L'inventiva è in calando. Pochi momenti buoni. Seguito da Il compagno Don Camillo. (Il Morandini)




TRAMA:
Il parroco di Brescello è stato promosso Monsignore e trasferito a Roma dove si trova anche Peppone, eletto senatore. I due non si vedono mai ma la nostalgia per Brescello li unisce inconsapevolmente. Il miracolo inaspettatamente si avvera: a Brescello scoppia una grossa lite tra comunisti e cattolici e il PCI da una parte e il Vaticano dall'altra non trovano di meglio che inviare sul posto don Camillo e Peppone, quali elementi moderatori, perché si raggiunga un accordo circa la costruzione della Casa del Popolo la cui edificazione richiederebbe la demolizione di una piccola cappella votiva. Altre grane opporranno Don Camillo a Peppone: il matrimonio del figlio di Peppone; l'oltraggio subito dalla compagna Gisella; i fatti di luglio, ma alla fine i due tornano a Roma stringendosi la mano.

CRITICA:
"La noia più totale si distilla sul filo delle bobine e la stanchezza è tale che, alla fine del film, si ha persino poca forza per protestare." (J. Grob, "Image et Son" n. 148, febbraio 1962)"Questo quarto episodio delle disavventure di Don Camillo e Peppone ripropone, sia pur con minor freschezza e vivezza inventiva, personaggi e situazioni già note. Non mancano pagine colorite e felici, ma Carmine Gallone ha preferito comunque affidarsi alla collaudata valentia degli interpreti limitandosi a dirigere il film con quella perizia e quella accuratezza formale che gli sono proprie. (...) Gli intenti di questo, come degli altri film ispirati ai personaggi di Guareschi sono volti a dimostrare come gli uomini di buona volontà, di buon senso e di cuore pur militando in campi politici avversi finiscono sempre per agire a f n di bene e per il bene comune." ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 50, 1961)

NOTE:
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Ricordo di una serata fra amici, e mentre si cuoceva la pizza fatta in casa, si butta l’occhio alla televisione. C’è chi punta al film su Totò Riina e chi Grey’s anatomy. Io parteggiavo per il secondo finché non ho accidentalmente girato su Rete4, e lì ho visto “Don Camillo, monsignore ma non troppo”.
Per quanto delle cinque pellicole con il prete reazionario Don Camillo e il sindaco comunista Giuseppe “Peppone” Bottazzi, lo reputi il meno bello, non sono esistiti dubbi. Quella era la scelta. E non è stata un’imposizione, perché via via che le battute si susseguivano, anche gli altri hanno cominciato ad avvicinarsi.
La cosa più straordinaria di questi due personaggi, interpretati in maniera magistrale da Gino Cervi (Peppone) e Fernandel (Don Camillo), è l’incredibile umanità e senso del rispetto che hanno l’uno dell’altro, pur essendo avversari politici che non si risparmiano mai qualche onesto colpo basso.
Il film racconta del ritorno al paese Brescello, nella pianura Padana, dei due protagonisti per eccellenza, dopo essersi trasferiti a Roma: il comunista come senatore, il prete come monsignore, fatti salire di grado proprio per evitare qualche guaio di troppo per il modo, spesso caloroso, di esprimere le loro opinioni.
L’inizio è da collasso. Peppone che sta dormendo in Parlamento mentre è in mezzo all’ennesima lite furibonda fra le parti. D’improvviso si desta, e si mette a urlare “Fascisti!!!”. Poi tocca a Don Camillo, che terrorizza un novello pretino (che dovrebbe andare per conto del Vaticano a Brescello) raccontandogli delle tante bastonate subite, pur di farsi mandare nella sua parrocchia per risolvere una piccola situazione, dove è destinato (a sua insaputa) anche il suo nemico di mille battaglie.
E che succede? I due si rincontrano in treno. Ma ovviamente ognuno racconta una bugia. Le due forze politiche sono di nuovo allo scontro. Non mancano in questo film certe epiche uscite, come quella di Peppone che dice al suo capo di sezione: “Io ero comunista quando tu stavi ancora nei Balilla”. O lo scatch, quando il senatore dice: “non vi abbiamo mai chiesto di andare a tirare giù le statue di Stalin o Lenin”, subito la risposta dell’uomo di chiesa: “ma se ci aveste chiamato, saremmo venuti di corsa”.
Ma se la prima situazione viene risolta, resta il matrimonio del figlio comunista. Chiesa o Comune? C’è in ballo il partito. Alla fine vengono fatti entrambi, con Peppone (ricattato dal religioso) che fa da chierichetto a Don Camillo.
Commovente la scena quando il figlio di Peppone e la sua sposa quando arrivano all’altare dopo mille peripezie. Don Camillo che ironizza sull’abito bianco della giovane sposa, in quanto gli avevano detto di essere incinta. Trattasi in realtà di una bugia a fin di bene. Al che Don Camillo, chiede “ma perché tutta questa fretta di sposarsi allora?”. E la ragazza risponde: “Perché ci vogliamo bene”. E lì Don Cammillo fa un sorriso, e le dà una mezza carezza alla ragazza, che è da brividi.
Lascio per ultime due cose. La voce narrante. Calda e rassicurante. E poi soprattutto la voce del Cristo. Un soffio umano che cattura, proprio perché parla al cuore delle persone in maniera sincera. Senza politica né arroganza. Una lezione che molti, che si rivolgono alle genti, dovrebbero imparare.
Ultimo ciak. Musica e titoli di coda.
Luca Ferrari
http://www.sbngs.it/italia/spettacolo--dal-portale--eventi--oldfilm


Da Roma a Brescello
Tutto è cambiato. Don Camillo e Peppone non sono più parroco e sindaco. Non sono più a Brescello, ma a Roma: Peppone ora è un senatore e don Camillo un monsignore. Sembra che i due siano destinati a restare sempre nella capitale ma, improvvisamente, vengono a sapere che nel loro vecchio e amato paese c'è bisogno di loro: i due, quindi, partono immediatamente e, con loro grande sorpresa, si ritrovano nel vagone letto di un treno. Dopo essere arrivati a Brescello iniziano le loro disavventure: la costruzione della Casa del Popolo e la rimozione di una cappella dedicata alla Madonna, il matrimonio del figlio di Peppone, il funerale di un ragazzo comunista.... I nostri cari eroi saranno anche invecchiati, ma il loro spirito è sempre lo stesso e i loro screzi e momenti di amicizia non mancano mai. Vedendo don Camillo e Peppone lontani da Brescello, il pubblico potrebbe provare un po' di tristezza e nostalgia ripensando ai film precedenti, che però viene subito cancellata, oltre che dal ritorno dei due al paese, da molti divertentissimi episodi: il ritrovo dei due amici/rivali sul treno, la riscossione dei soldi vinti da Peppone (o forse sarebbe meglio dire Pepito Sbazzeguti?) al totocalcio, don Camillo che fa il bagno nel fiume e gli vengono rubati i vestiti, la campana in piazza che piomba addosso a Peppone, i reciproci "favori" che i due protagonisti si fanno alla fine della storia...
Probabilmente questo può sembrare il più nostalgico dei cinque film della serie, ma, a parte ciò, si rivela una storia bellissima ricca di risate e momenti toccanti, che fa ridere e commuovere al tempo stesso. In parole semplici: un vero e proprio capolavoro esattamente come gli altri.
Lady Libro
http://www.mymovies.it/film/1961/doncamillomonsignore/pubblico/?id=586500

sábado, 30 de marzo de 2013

Noi credevamo - Mario Martone (2010)


TÍTULO ORIGINAL Noi credevamo
AÑO 2010
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 203 min.
DIRECTOR Mario Martone
GUIÓN Mario Martone, Giancarlo De Cataldo (Novela: Anna Banti)
MÚSICA Hubert Westkemper
FOTOGRAFÍA Renato Berta
REPARTO Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Toni Servillo, Francesca Inaudi, Luca Barbareschi, Luca Zingaretti, Guido Caprino, Renato Carpentieri, Ivan Franek, Anna Bonaiuto, Pino Calabrese, Enzo Salomone, Stefano Cassetti, Michele Riondino, Fiona Shaw
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Palomar / Les Films D'Ici / Rai Cinema / Rai Fiction / ARTE France
WEB OFICIAL http://www.noicredevamo.it
PREMIOS 2010: Premios David di Donatello: 7 premios, incluyendo mejor película. 13 nominaciones
GÉNERO Drama | Histórico. Siglo XIX

SINOPSIS Como respuesta a la feroz represión borbónica de 1828, tres jóvenes del sur de Italia, Domenico, Angelo y Salvatore (Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco y Luigi Pisani), deciden alistarse en el grupo de resistencia dirigido por Giuseppe Mazzini (Toni Servillo). A través de cuatro episodios, seremos testigos de la corrupción, las conspiraciones y las pulsiones homicidas que se viven en el seno de la organización. La unidad de Italia está en juego, pero no parece que vaya a ser precisamente un camino de rosas. (FILMAFFINITY)



Presentato con successo alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia e liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Anna Banti, il film narra la storia di tre ragazzi del sud Italia che, in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l'Unità d'Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese come saranno tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche.
Originale e realistico, Noi credevamo porta sotto la luce dei riflettori la Storia, una parte poco conosciuta e quasi dimenticata dalla storiografia ufficiale. Contraddistinto da un ritmo sostenuto, caratterizzato da colpi di scena e da una fotografia di alto livello, nel film, attraverso la vita dei protagonisti, lo spettatore ripercorre alcune fra le pagine più importanti della storia risorgimentale, pagine perdute e oscurate, riscoprendo persone vere che hanno contribuito attivamente all'unificazione.
"Domenico, Angelo e Salvatore" - afferma il regista Mario Martone -  "incarnano modi profondamente diversi di vivere l'esperienza della clandestinità, della cospirazione e della lotta armata, modi che ancora oggi è possibile cogliere intorno a noi, se non ci si limita ad appiattire problemi enormi come quello dell'indipendenza dei popoli su uno schema superficiale. La loro storia ha per sfondo la tormentantissima nascita dello stato italiano, le scelte di un paese eternamente diviso in due (allora tra monarchici e repubblicani), il contrasto dilaniante tra azione e disillusione che segna da allora, come un pendolo amaro, ogni fase della nostra storia. Guardando la radice della nazione italiana si scorgono molte cose della pianta che ne è sviluppata".
Anche nel film di Martone viene dunque rappresentata la solita sordida e deleteria storia italiana di sempre, la tendenza ad allearsi con il più forte, una quasi genetica incapacità a fare fronte comune, una spinta inarrestabile a dividersi, a diffidare gli uni degli altri, anche all'interno dello stesso schieramento, una specie di coazione a ripetere della nostra politica. Martone inoltre, con uno sguardo che ha le sue origine al sud, ribalta la tesi che il meridione abbia rovinato il nord, evidenziando come il popolo, come troppo spesso accade, finisce con l'essere più spettatore e oggetto che non protagonista del proprio futuro.
Mario Martone. Nato a Napoli, cinquant'anni, è regista di teatro e di cinema. Ha cominciato a lavorare nel 1977, nel clima delle avanguardie teatrali di quel periodo, fondando il gruppo "Falso Movimento" e realizzando spettacoli che incrociavano il teatro col cinema come Tango glaciale ('82) e Ritorno ad Alphaville ('86). Dieci anni dopo, coinvolgendo altri artisti napoletani, ha immaginato e dato vita alla cooperativa "Teatri Uniti", con cui, oltre a continuare il suo teatro, ha realizzato i lungometraggi: Morte di un matematico napoletano (Gran Premio della Giuria a Venezia nel '92), Rasoi (dall'omonimo spettacolo realizzato con Enzo Moscato e Toni Servillo), L'amore molesto (1995), Teatro di guerra (1998). Numerosi sono i suoi lavori in altri formati: cortometraggi, documentari, film di montaggio, tra cui Lucio Amelio/Terraemotus, Antonio Mastronunzio pittore sannita, La salita (episodio del film collettivo I vesuviani), Una storia saharawi, Nella Napoli di Luca Giordano, Caravaggio l'ultimo tempo (questi ultimi entrambi vincitori del Gran premio Asolo per i film d'arte, nel 2004 e nel 2006). Per il suo lavoro cinematografico ha ricevuto, tra gli altri premi, due David di Donatello e un Nastro d'argento. Tra i suoi spettacoli in teatro spiccano gli allestimenti di tragedie greche (da Filottete ai Persiani a Edipo re) e, negli ultimi anni, di opere liriche (Mozart, Verdi, Rossini) nei maggiori teatri del mondo, da Londra a Madrid, da Parigi a Tokio. Tra il 1999 e il 2000 è stato direttore del Teatro di Roma, dove ha compiuto un lavoro di radicale cambiamento della programmazione, creando un nuovo spazio teatrale, il Teatro India, e aprendo alle altre arti e alla contemporaneità. Ha contribuito nel 2003 alla nascita del Teatro Mercadante Stabile di Napoli, per il quale ha curato il progetto Petrolio che ha coinvolto decine di artisti italiani sui temi dell'omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini. E da un romanzo di Goffredo Parise, anch'esso degli anni '70, ha tratto il suo ultimo film L'odore del sangue. E' attualmente direttore del Teatro Stabile di Torino.
http://naonaut.blogspot.com.ar/2010/11/il-regista-mario-martone-pordenone-per.html
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Gli uomini che fecero l'Italia

Tre ragazzi del sud Italia, in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l'unità d'Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese come saranno tra rigore morale e pulsioni omicide, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche. Sullo sfondo, la storia più sconosciuta della nascita del paese, dei conflitti implacabili tra i "padri della patria", dell'insanabile frattura tra nord e sud, delle radici contorte su cui sì è sviluppata l'Italia in cui viviamo. (sinossi)

Perchè mai realizzare proprio oggi un film sull'Italia in formazione, che abbracci quel largo periodo storico che va dai primi moti risorgimentali (storicamente riconducibili al 1820) sino alla presa della Capitale, fino al 1870 sotto il dominio Pontificio? A domanda retorica, risposta scontata: la cronaca più o meno storico-filologica raccontata da Noi credevamo di Mario Martone - pellicola in concorso a Venezia 2010 - in tutta evidenza ripropone problematiche che, incubate sotto altre forme ed espresse con metodi meno violenti almeno da un punto di vista fisico, covano tuttora sotto la cenere di un paese costantemente tormentato a livello politico da scosse telluriche spesso artatamente create per alimentare divisioni laddove in passato, perlomeno, erano gli ideali a scuotere e fomentare gli animi.
Gli intenti didattici di Mario Martone, che per l'occasione ha ripreso il testo omonimo scritto oltre trent'anni addietro da Anna Banti, risultano quantomai espliciti da subito, vuoi per una regia di impianto formale strettamente televisivo (fa eccezione, a livello linguistico, un accenno di macchina a mano verso il finale), sia per un'attenzione pressoché maniacale a tenere saldo il timone di una continuità logica e narrativa che avrebbe potuto con facilità naufragare a causa della pletora di personaggi, in parte fittizi o nella maggioranza dei casi realmente esistiti, citati in Noi credevamo. E senza, per una volta, che tali annotazioni determinino per forza di cose un giudizio negativo sul film; il quale al contrario si pone come un prodotto intellettualmente ambizioso ma onesto in un panorama cinematografico italiano poco avvezzo ad operazioni di questo tipo: un'opera cioé che possa essere considerata una lezione di Storia senza eccessi cattedratici o, peggio, tentazioni di proselitismo.
L'Italia descritta da un autore sovente definito, nella sua filmografia passata, compiutamente (Morte di un matematico napoletano, ad esempio) o velleitariamente (L'odore del sangue) intellettuale, in quest'occasione ha il non trascurabile merito di annullarsi nelle mille vicende narrate, preferendo con saggezza concentrarsi sull'aspetto idealista dei vari personaggi che attraversano con speranza e dolore il proscenio della Storia di Noi credevamo e non trascurando affatto di descrivere allo spettatore anche una loro dimensione privata che contribuisce a far scattare quell'indispensabile pulsione empatica necessaria a far trascorrere senza noia gli oltre duecento minuti di proiezione. Il ritratto che ne esce è quello di un macrocosmo frammentato, diviso, nel quale le persone appaiono incapaci di riporre fiducia l'una nell'altra e dove l’agguato è sempre dietro l’angolo (ed attenzione a tal proposito al ruolo interpretato da Luca Barbareschi, assolutamente carico di sottintesi simbolici del tutto extra-diegetici…), prima del coronamento di quell'obiettivo che alla fine sarà sì centrato ma solo formalmente, come ben esprime il monologo finale del narratore Domenico/Luigi Lo Cascio, uno dei tre "credenti appassionati" la cui esistenza è stata appositamente romanzata per essere inserita, in un contesto il più possibile realistico, negli scenari storici del lungometraggio.  Del resto, in Noi credevamo, il passato funge da specchio riflettente sul presente in modo quasi spontaneo: le numerose immagini di violenza cieca e brutale si distorcono e adattano bene alle cronache televisive e non solo che al giorno d'oggi condizionano una pubblica opinione allora molto più ingenua ma anche più pronta all'azione e alla reazione, non anestetizzata come adesso. Poiché in fondo la morale amara della pellicola di Martone, ben riassunta da alcuni dialoghi sparsi qua e là serviti da un cast convinto e convincente nel corso del fluviale film, è che comunque deve essere necessario provarci, a cambiare l'ordine delle cose che  si ritiene ingiusto; ben coscienti che battersi contro la cosiddetta real-politik, quella che viaggia per sua espressa volontà (e motivi di potere...) sopra le teste di tutti, potrebbe risultare impresa dai contorni quasi impossibili. L'importante, per continuare almeno a sentirsi vivi, è non dire "noi non crediamo più".
Anche se forse, in determinate circostanze, può essere la soluzione più comoda.
Daniele De Angelis
http://www.cineclandestino.it/it/film-in-sala/2010/noi-credevamo.html
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Noi credevamo, una storia italiana
In previsione del centocinquantenario, Mario Martone rilegge l'unificazione nazionale in chiave anticelebrativa. Lungo e accurato, è il ritratto di una patria lontana soltanto nel tempo.
Ma che vi credete, che sia facile raccontare il Risorgimento? Raccontare, dico io, la storia di quando l’Italia non era ancora neanche Italia, questo mondo rurale di illuminazione a olio, agricoltura, nobiltà e carboneria. Ah, la fa semplice il sussidiario delle scuole elementari: la barbetta di Mazzini, il barbone di Garibaldi, gli occhialetti di Cavour, i cannoni, e poi uno sfondo indistinto di figurine da presepe e cartapesta.
No che non è facile. Noi Credevamo ci prova con lo sbobinamento di tre ore e un quarto di pellicola. Tre ore e tre storie – con la s minuscola ma solo per rispetto della grammatica – le storie di tre amici e confratelli su e giù per la spina dorsale del paese. E un’ottica tutta nuova, anzi, lo smantellamento di un’ottica: via quelle macchine da presa puntate sull’eroismo, giù l’illuminazione, giù tutte le teste.
Dunque ecco l’Italia risorgimentale secondo Mario Martone: un pasticcio di fallimenti e atmosfere cupe di un giorno mai davvero nitido. Un guazzabuglio di piani amatoriali dall’esecuzione affidata a sbruffoni e mitomani. Questo Mazzini fantomatico, irraggiungibile e attraversato da idee febbrili senza una direzione ben determinata. E, a ricordarci che un secolo e mezzo non è certamente sufficiente a modificare la firma di un popolo: i grandi interessi ed il bene comune costantemente minati dalla minutaglia di controversie personali e individualismi dell’ultimo momento.
Con una fotografia e un’attenzione al costume storico magistrali, sulla forza lirica di Verdi, Rossini e Bellini, ecco tutte splendidamente in equilibrio tra ambiguità, violenza e patriottismo le interpretazioni di Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Luigi Lo Cascio e Valerio Binasco. Con una lode particolare a quest’ultimo, volto meno visto al cinema, ma semplicemente eccezionale, letteralmente posseduto dal personaggio di Angelo. Peccato invece per la singola nota stonata, ma stonata davvero - non potrete non digrignare i denti – della Cristina di Belgioioso secondo Francesca Inaudi: una recitazione teatrale, dozzinale, che stacca dal contesto come un pupo siciliano in un film della Pixar.
La formula del triplice racconto funziona. Separazioni e riunioni, piccole spedizioni avventurose, mentre su ogni cosa grava angosciante il peso della Storia. Anni che scorrono, capelli che ingrigiscono, mentre tutti in sala malcelatamente aspettano con il fiato sospeso la grande battaglia finale, la parentesi eroica che continua ad essere elusa: lo stesso Garibaldi rimarrà un’ombra sulla cima di un colle illuminato dal plenilunio.
Tuttavia, tre ore. Tre ore, in effetti, sono proprio tante, e finiscono inevitabilmente con il diluire la qualità momenti di vero genio registico che preferiamo non disvelare in anticipo. Tre ore che sono tali anche per necessità, e diventano quasi quattro nella versione smembrata in puntate a uso fiction televisiva che andrà in onda sui circuiti Rai. E dunque non possiamo non domandarci: uovo o gallina? Lungometraggio stiracchiato per farne mini serie, o mini serie ricompattata per pigiarla dentro il grande schermo?
Poi, tutto si esaurisce con una strana accelerazione finale. Al traguardo non c’è alcuna gloria, eppure non ne siamo sorpresi. C’è così tanta Italia in questa storia, in questa Storia, in queste storie di centocinquant’anni fa, che quel Parlamento vuoto fatto di eleganti tube ben riposte su uno scaffale non sorprende. La strizzata d’occhio è più che altro un amaro colpetto sulla spalla, e la chiarezza dell’operazione si fa retroattiva: saprete anche voi perché siete andati a vedere Noi credevamo, e ne coglierete infine la giusta intonazione.
Andrea B. Previtera
http://www.giudiziouniversale.it/articolo/film/noi-credevamo-una-storia-italiana


RECENSIONI
Martone, regista tra i massimi del nostro teatro, ma formatosi come cineasta, quando si cimenta per il grande schermo rimane consapevole della differenza del mezzo, senza peraltro mettere da parte l'attitudine al palco: se quanto narra in Noi credevamo si ispira alla realtà storica dei fatti, non tralascia d'altra parte lo specifico della messinscena, secondo un’indole contaminatrice che lo porta a costruire splendidi quadri cinematografici in interni scenografici di grande rigore, ma abitati da figure declamanti, interpretate secondo un modulo studiatamente antinaturalistico, centellinando gli esterni che non si ergono mai ad ambientazioni facilmente riconoscibili, a quinte identitarie, rimanendo l’attenzione puntata sull’azione e i personaggi che la fanno, sulle atmosfere, sugli umori e le passioni prima che sui fatti, evidenziandone la dimensione tragica o melodrammatica, mettendo da parte la cronaca, lasciando che sia lo spirito controverso dell’epoca ad emergere: in Noi credevamo il Risorgimento è un palcoscenico della parola dove non c’è mai il gigante iconico a far da mattatore, ma uomini veri, con entusiasmi, dubbi, convinzioni e valori autentici; in Noi credevamo il Risorgimento è visto dentro e fuori da un teatro epocale incendiato dalle lotte di classe, da giuramenti di fedeltà ad associazioni sovversive (la Giovine Italia dell’esule Mazzini), tra conciliaboli clandestini e litigiosi contrasti di sette.
Martone non prende neanche per un attimo in considerazione la logica dell’affresco storico tradizionale: nel suo film non vediamo apparire i grandi protagonisti del periodo, non ci sono Garibaldi, Cavour o Vittorio Emanuele II, evocati certo, ma mai presenti sulla scena e così i grandi eventi storici non sono mai mostrati, ma solo riferiti: il cuore del lavoro è affidato infatti a un dietro le quinte animato da personaggi sì secondari, ma che la Storia la agirono, personaggi dalle cui vicissitudini è possibile ricavare uno sguardo interno ai tempi, a un’epoca di cui non si dà mai un’immagine grossolana o facilmente illustrativa.
I tre personaggi su cui Martone concentra l’attenzione e le cui vite di rivoluzionari vengono narrate attraverso quattro episodi fondamentali [1], hanno ciascuno una storia, una classe d’appartenenza, un ambiente di riferimento che si incastonano alla perfezione nell’affresco generale: essi vivono in bilico tra paura e coraggio, tra alto profilo etico e furioso impulso omicida, consapevoli che la libertà di un paese si acquista col sangue, ma umanamente tormentati dalla responsabilità che certe scelte comportano, a volte lontani dalla reale condizione e coscienza di un popolo che, come dice la principessa Cristina di Belgiojoso non può essere semplicemente dichiarato libero, senza averlo prima reso consapevole degli esatti confini tra schiavitù e libertà regolata, a volte animati da uno spirito indomito che li conduce al gesto eroico o folle.
Martone è di precisione e di profondità impressionante nella sua messinscena, fa emergere il senso della passione dei suoi personaggi, non è interessato al distacco e non teme di prendere posizione, disegna una figura di statura elevatissima (il repubblicano Domenico, costretto a vedere un’Italia unita sotto il segno dei Savoia e che nel finale interroga un Parlamento di ombre pugnaci che hanno già dissolto l’ideale rivoluzionario nel quale credeva e per il quale aveva combattuto e sofferto), la cui fierezza e il cui rigore morale, a fronte di un’autoanalisi urticante e senza sconti, illuminano la sua caratterizzazione e a cui un Luigi Lo Cascio di bravura commovente dona ogni sfumatura, con una precisione di tratto e un’intensità interpretativa che non esito a definire supreme: da tempo non si vedeva nel cinema italiano un tale perfetto mèlange tra un personaggio così magnificamente scritto e un’incarnazione dello stesso in grado di esaltarne ogni aspetto, di farlo vibrare di vita, di toccare le corde dello spettatore in modo così naturale e potente.
Noi credevamo è un film bellissimo, che si nutre di mille, diverse cose (letteratura, teatro, certi cineasti - Visconti, Rossellini, Soldati -), che emoziona senza ricatti e senza didattiche, che non conosce compiacimenti né retorica, che mette in sordina l’epica ed esalta l’umano (merito di un ottimo cast, diretto splendidamente), in cui, pur rimanendo sullo sfondo, emerge comunque la logica della Grande Storia, quella delle battaglie strenue di coloro che fondarono lo Stato Unito su un territorio instabile, segnato dalla siderale distanza tra Nord e Mezzogiorno, da movimenti sostenuti da animi travagliati e contraddittori e da cui è germogliata e sorta l’Italietta odierna.
[1] MM – Dopo molti mesi di studio e ricerche abbiamo individuato tre figure “minori” tra i cospiratori italiani dell’ottocento e abbiamo attribuito le loro vicende a tre personaggi di nostra immaginazione: intorno a queste vicende abbiamo quindi costruito l’intera impalcatura del racconto, composta integralmente di fatti, comportamenti e parole attinti rigorosamente alla documentazione storiografica. Uno dei tre personaggi è ispirato al protagonista di un romanzo in cui Anna Banti racconta la storia di suo nonno che era stato un cospiratore, un libro intitolato “Noi credevamo”. Solo una parte di questo libro confluisce nel film, ma il titolo ci è apparso bellissimo e adatto per l’insieme del racconto. Domenico e Angelo, l’altro protagonista, incarnano due modi profondamente diversi di vivere l’esperienza della clandestinità, della cospirazione e della lotta armata, modi che ancora oggi è possibile cogliere intorno a noi, se non ci si limita ad appiattire problemi enormi come quello dell’indipendenza dei popoli su uno schema superficiale. La loro storia ha per sfondo la problematicissima nascita dello stato italiano, le scelte di un paese eternamente diviso in due (allora tra monarchici e repubblicani),il contrasto dilaniante tra azione e disillusione che segna da allora, come un pendolo amaro, ogni fase della nostra storia. Provare a leggere la radice dello stato italiano ci aiuta a comprendere molte cose della pianta che ne è sviluppata.
Ricordiamo che la versione del film che circola in sala dura 170'. La versione televisiva integrale, presentata al Festival di Venezia, dura 204'.
Luca Pacilio
*
Il cinema come lezione di storia
Poteva essere il film che mancava. Quello che a 150 anni di distanza ripercorre le strade tortuose e conflittuali che hanno portato all’unità d’Italia, e invece l´opera di Mario Martone, pur con il coraggio che la contraddistingue, non riesce a rendere vive le immagini che accompagnano il lungo viaggio nella sua visione. Se si apprezza l’idea di eliminare il più possibile la retorica e l’ideologia, cercando anche le ombre, evidenziando i lati oscuri, non trasformando nessuno in eroe, manca però quell’approccio organico capace di abbinare i contenuti alla forma. Non siamo neanche dalle parti dello sceneggiato televisivo, manca il feuilleton, ma l’approccio risente piuttosto di un’impostazione teatrale, sia nella messa in scena, nel modo in cui si contrappongono le ragioni dei personaggi, che nella recitazione, non sempre all’altezza, e nel trucco, spesso posticcio. Il problema di fondo è che i tanti personaggi finiscono per assurgere al ruolo di simboli e discutono in continuazione di massimi sistemi. Non attraversano un periodo storico, ma sembrano sempre sul punto di determinarlo. Non fanno che esprimere dubbi sulle ragioni storiche dell’epoca e non si lasciano mai andare a un commento, una notazione, un dettaglio, che non abbia motivazioni politiche. Più che parlare tra loro, parlano al pubblico. Manca quindi la loro umanità, il loro sentire al di là di ciò che rappresentano - chi una speranza incattivita chi, invece, una speranza più pacata, in ogni caso la mancanza di coesione – insomma, non si ha modo di entrare nella loro vita. Nonostante l’approfondito lavoro di ricerca alla base dei quattro segmenti che suddividono il racconto, si finisce così per essere sempre distanti dalla materia, spesso esclusi dalla successione di nomi e riferimenti, non sempre immediati per chi non ha freschi gli studi di storia, e senza che sia sempre chiaro chi siano i personaggi, che con il passare del tempo, e a volte degli attori, si avvicendano sullo schermo. Un film per non dimenticare le proprie origini e gli eventi che hanno portato al presente (profetico e con rimandi all’attualità quell’”Italia gretta, superba e assassina”, dal romanzo di Anna Banti, da cui è tratto il film), che, però, fallisce proprio nella sua maggiore ragione di essere: tramandare una memoria storica problematica in modo comunicativo. Poteva essere il Gangs of New York italiano, invece le ragioni della Storia prevalgono su quelle dei personaggi e molto meno delle lodevoli intenzioni, alla fine, arriva.
Luca Baroncini
*
Ottocento
Le scelte.
Domenico.
Angelo.
L’alba della nazione.
Quattro capitoli per un romanzo incompleto e frantumato, dilaniato tra ideali furibondi e cocenti disillusioni eppure urgente nonostante il disinganno inciso già nel titolo all’imperfetto (tempo non concluso), che scopre i gangli infiammati e purulenti della disunità d’Italia.
Quattro sezioni di un saggio di storiografia patria non ufficiale, che affonda nelle pieghe e nelle piaghe di un Risorgimento che non è quello dei libri di scuola, nelle sue quinte oscure (l’aura tormentosa e ambigua, quasi stanca, che avvolge Mazzini e quella altrettanto ambigua ma più inquietante di Crispi), un Risorgimento privato degli episodi maggiori (e più gloriosi) e di alcune delle sue figure più celebri che sono solo nomi, ombre, silhouette viste da lontano (l’iconica apparizione notturna di Garibaldi), vissuto dal basso, sulla pelle e nel cuore di personaggi minori (i tre amici Angelo, Domenico e Salvatore) che vivendo la loro storia hanno fatto la Storia.
Quattro atti di un’opera lirica che risuona anche nel fuoricampo delle ellissi storiche, rapsodica e turbolenta, senza una conclusione catartica, senza un finale la cui tragica completezza inviti il pubblico a congedarsi con la coscienza soddisfatta, ancora turbata invece dalle contraddizioni irrisolte messe in scena.
Cospiratori repubblicani, proletari e aristocratici, la meglio gioventù ottocentesca alle prese con l’inarrestabile marcire dell’utopia unitaria e democratica in una terra già divisa tra un Sud asservito e un Nord manipolatore, sporca di olio rubato e di sangue fraterno. Un film sulla creazione dell’Italia moderna che per larga parte è significativamente ambientato all’estero, dove agiscono principalmente le figure-guida e i teorici del movimento, nella confinante Savoia svizzera e tra gli esuli parigini e londinesi. E lo sfrangiarsi dell’azione politica, tra furori rivoluzionari e rigurgiti reazionari, aie contadine e salotti nobili, mazziniani e monarchici, soldati sabaudi e garibaldini, anticlericali di città e preti di campagna, cenacoli intellettuali e arrembaggi armati, moderatismo e derive terroristiche, brigantaggio clandestino e di Stato, con l’ombra lunga della realpolitik a calare su tutto, del compromesso che si fa tradimento. Un coro maschile nel quale spicca però la figura femminile di Cristina di Belgiojoso, la principessa cospiratrice, intellettuale e patriota, corpo modernissimo e anarchico, dedito al piacere e padrone di sé, che non si fa intimidire dalle gabbie sociali e sessuali (aristocratica, donna), capace di individuare le falle dell’azione e del pensiero risorgimentali. Un affresco vasto e spericolato dunque, uno smisurato spazio umano, storico, politico, geografico percorso da Martone con una lucidità straordinaria.
Opera densissima, di potente e fosco splendore, Noi credevamo condensa teatro (la recitazione volutamente declamata di alcune sequenze, il Risorgimento come altro “teatro di guerra”), melodramma verdiano e belliniano (le arie che contrappuntano l’intero racconto e ne ritmano il respiro), letteratura, pittura (la produzione ottocentesca, tra l’accademia di Francesco Hayez e il verismo coloristico dei Macchiaioli), perfino la tv nella sua accezione didascalica alta, quella che non sacrifica alla divulgazione la profondità di sguardo (quale l’ha intesa Rossellini nell’ultima parte della sua carriera) ma soprattutto cinema, grandissimo cinema. Post-viscontiano, neo-rosselliniano, affine per potenza espressiva all’ultimo lavoro di Marco Bellocchio (e come quest’ultimo destinato in Italia a un’accoglienza critica prigioniera del contenutismo e di schematismi ideologici, impermeabile ai puri valori della messinscena), Noi credevamo vibra oltre che del suo splendido cast diretto con intelligenza rara (su tutti un Valerio Binasco gigantesco, da brividi, quasi “posseduto” dal personaggio che interpreta) anche di graffi mélo (il bacio impetuoso alla Belgiojoso velata per le strade di Parigi, il ritratto realizzato dall’antica amante gettato nel fuoco), di squarci western di asciutta intensità (l’ultima parte, quella garibaldina), di centellinate trasgressioni all’impeccabilità della ricostruzione scenografica, anacronismi dal fragoroso effetto stridente (la scala di ferro che conduce al patibolo, un cancello metallico dietro il quale si nasconde un quarto misterioso attentatore, i pilastri in cemento armato di una costruzione non finita in mezzo alla campagna meridionale). La regia di Martone è di elegantissima e violenta essenzialità, profondamente segnata dalla miracolosa fotografia di Renato Berta (si veda l’incipit, incastro sapiente di solarità mediterranea e fuoco devastatore, o certi strepitosi notturni a lume di candela), improntata a una meticolosa organizzazione degli spazi (il montaggio è del fidato e sempre encomiabile Jacopo Quadri) in cui si passa dalla foga sovreccitata e in continuo movimento degli ideali di gioventù (la natura del Cilento, la neve alpina, i palazzi e teatri parigini) ai luoghi sempre più cupi e angusti dell’elaborazione tormentata della maturità, tra complotti rivoluzionari e prigionie fisiche e mentali (il pietroso set carcerario della seconda parte è di un’asprezza barbarica), per ritornare a un plein air sudista amaro e insanguinato ma ancora luminoso e infine ripiegarsi nella splendida sequenza finale del parlamento tenebroso e vuoto, abitato solo da schiere di eleganti tube: l’orrore della recita politica, il trasformismo-spettacolo applaudito da un platea invisibile, un attentato immaginario siglato da uno sguardo in macchina di infinita desolazione.
L’alba della nazione assume tinte crepuscolari ma assistere al funerale di un’utopia non significa disconoscerne il valore. L’Italia è un albero dalle radici malate, lo scheletro di un edificio eretto con sacrificio e passione e mai completato, un ricco patrimonio umano, paesaggistico, culturale lasciato sfiorire. A forza di essere antiepico Martone finisce col realizzare un’epica in negativo, di travolgente cupezza, che dialoga col presente e col nostro passato recente (gli anni ’70 della contestazione e del terrorismo), un’epica della disfatta, degli ideali traditi, di quel che poteva e doveva essere e non è stato, che non rinuncia però a cercare una strada o una cura.
Un capolavoro, ebbene sì, di lancinante e radicale bellezza.
Michele Favara
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3120
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Con il suo ultimo film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, Noi credevamo, Mario Martone ha affrontato un tema fondamentale nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia: l’esistenza non di uno, ma di due Risorgimenti, spesso contrapposti tra loro. Il Risorgimento di Cavour e dei Savoia, moderato e annessionista (a vantaggio del Piemonte); e il Risorgimento dei democratici, dei mazziniani, dei repubblicani, dei cospiratori, dei rivoluzionari, pienamente in linea con le rivoluzioni di mezzo continente. Come noto, dopo la sconfitta della Repubblica romana, sarà il primo Risorgimento a prevalere, a “fare l’Italia”, e a determinare le sorti del nostro paese (e non solo del Meridione) per molti decenni. In parte, fino a oggi.
Questo tema (la netta differenza tra il Risorgimento istituzionale e conservatore, che forse non merita neanche di essere chiamato Risorgimento, e quello rivoluzionario) in Martone è strettamente intrecciato a un altro, che si svolge attraverso tre biografie: sono esistiti anche dei patrioti meridionali che, non stando né con i Borbone né con i Savoia, hanno sognato e lottato per un’Italia diversa.
Noi credevamo riprende in parte la storia di Domenico Lopresti, mazziniano del Cilento protagonista del romanzo di Anna Banti che ha il medesimo titolo. Ma la sua biografia è intrecciata a quella di altri due giovani cilentani, che crescono precocemente nella cospirazione: Angelo e Salvatore. Angelo ricalca la figura, realmente esistita, di Giuseppe Andrea Pieri, che attentò alla vita di Napoleone III insieme a Orsini, e che per questo fu ghigliottinato. Salvatore ricalca invece la figura di Antonio Sciandra, coinvolto in un attentato a Carlo Alberto.
Martone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Giancarlo De Cataldo, ha deciso di narrare episodi minori, e oscuri, del nostro Ottocento. Non il 1848 o la Spedizione dei Mille, ma appunto l’attentato di Orsini (una vera e propria azione terroristica), l’insurrezione fallita in Savoia nel 1834, e la spedizione di Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i due Risorgimenti raggiunse la massima tensione. “Garibaldi fu ferito”, recita la canzoncina che tutti sappiamo, ma quei versi dissimulano un conflitto molto più aspro, fratricida, che si concluse con i piemontesi che presero a sparare sui garibaldini, spargendo morti.
Nel mezzo, una lunga parte del film, è dedicata al carcere politico di Montefusco, dove il Regno di Napoli rinchiuse i suoi “sovversivi”. E, qui nella ricostruzione di quel composito e ristretto mondo carcerario, Martone non si è rifatto solo al romanzo della Banti, ma anche a “Carceri e galere politiche”, le bellissime memorie di Sigismondo di Castromediano, patriota di Cavallino che lì fu recluso, e che poi – nell’Italia unita – sarebbe diventato deputato. Il carcere di Montefusco è stato ricreato fedelmente sull’altro versante appenninico, nei castelli di Bovino e Deliceto. E Martone ha saputo ricreare molto bene non solo il dibattito carcerario tra monarchici e repubblicani, tra moderati e radicali, ma anche le profonde differenze tra aristocratici e popolani.
Il Domenico protagonista di “Noi credevamo” (Edoardo Natoli da giovane, Luigi Lo Cascio in seguito) è uno sconfitto, che si aggira in un’Italia che ha preso tutta un’altra piega, tra i fantasmi di compagni morti. Muoiono il settario Angelo (Andrea Bosca da giovane, Valerio Binasco poi) e Salvatore (Luigi Pisani), ucciso dallo stesso Angelo, che lo crede una spia. E muore Saverio (Michele Riondino), il figlio di Salvatore, negli scontri sull’Aspromonte. Sullo sfondo, visti con gli occhi e i pensieri dei cospiratori minori, si stagliano la figura titanica di Mazzini (Toni Servillo) e quella enigmatica di Crispi (Luca Zingaretti), che compirà tutta la parabola da rivoluzionario a primo ministro conservatore. Una parabola molto italiana.
Per entrare ancora di più nei meandri del film, è utile leggere il volume pubblicato dallo stesso Martone per Bompiani Overlook (Noi credevamo) che contiene, oltre alla sceneggiatura e molte foto di scena, anche una corposa introduzione. Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da “criminali” al sevizio dei piemontesi “simili ai nazisti”, e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale. Invece bisogna sempre ricordare che i Borbone inviarono le loro truppe a reprimere nel sangue la Repubblica romana, e che fecero spegnere nelle loro galere decine, centinaia delle migliori intelligenze meridionali, come Lopresti o Castromediano.
Qui si rischia di perdere il bandolo della matassa. Tra gli sconfitti degli anni sessanta dell’Ottocento non ci sono certo i Borbone, e le loro corti militar-amministrative che seppero riciclarsi rapidamente. I veri sconfitti furono tutti coloro che come Domenico aveva sognato un paese, una società, delle istituzioni radicalmente diverse, libere da tutte le ottuse monarchie esistenti. E che invece furono sommersi dalla solita melma.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/noi-credevamo/

viernes, 29 de marzo de 2013

Fifa e arena - Mario Mattoli (1948)


TÍTULO ORIGINAL Fifa e arena
AÑO 1948
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 80 min. 
DIRECTOR Mario Mattoli
GUIÓN Marcello Marchesi, Steno, Mario Monicelli (Historia: Steno)
MÚSICA Pippo Barzizza
FOTOGRAFÍA Vincenzo Seratrice (B&W)
REPARTO Totò, Isa Barzizza, Mario Castellani, Franca Marzi, Giulio Marchetti, Cesare Polacco, Vinicio Sofia, Ada Dondini, Luigi Pavese, Galeazzo Benti
PRODUCTORA C.I.D. / Metropa Films
GÉNERO Comedia 

SINOPSIS Nicolino Capece, farmacéutico de Nápoles, se encuentra en una situación absurda al ser confundido con un terrible asesino y va a parar rocambolescamente a Sevilla, donde unos gángsters le obligan –bajo la amenaza de denunciarlo a la policía si no obedece– a seducir a una actriz americana, Patricia, para casarse con ella, obtener todo su dinero y luego asesinarla. Para justificar su presencia en Sevilla finge que es torero. (FILMAFFINITY)


Subtítulos (Español)

Soggetto
Nicolino scambiato per un pazzo criminale e' costretto a fuggire da Napoli,travestito da hostess fugge a Siviglia dove il bandito Cast vuole fargli sposare la ricca americana Patricia per poi eliminarla e impadronirsi dell'eredità.Nicolino (ora Nicolete) per caso viene a trovarsi in un'arena e grazie alle sue astuzie ha la meglio sugli altri toreri che lo diffidano dal toreare.

Critica e curiosità
Per questo film , parodia del celebre " Sangue e arena " , il regista in un primo momento giro' un finale nel quale Toto' sotto la pioggia stava con un ombrello vicino al toro e gli diceva "ma chi ce lo fa fare ,ma chi te lo fa fare a te di morire per questi quattro disgraziati , ma non pensi come sarebbe bello tornartene ai tuoi campi..." , ma questo finale non piacque al produttore e fu girato il finale che tutti conosciamo. Da ricordare la scena in cui Totò preso dalla fame si prepara un panino con una spugna riepiendola con crema da barba , borotalco ed altre cose "indigeste " , e la scena in cui Totò cerca di sbirciare attraverso un acquario la nuda Isa Barzizza , ma un pesce in quel preciso istante gli passa davanti impedendogli la visione.E' un pesce democristiano dira' Totò, apostrofando le sue qualita' censorie .Il film ebbe un successo incredibile tanto che in molte sale dovette intervenire la Celere per impedire resse al botteghino.

Scriveva [Lorenzo] Quaglietti, L'Unità, Roma, 23 dicembre 1948:
«Una prova ancora offre questo film delle grandi possibiltà di Totò, che la fortuna non ha ancora fatto incontrare con un soggetto e, soprattutto, con un regista in grado di sfruttarne adeguatamente ,le risorse, Fifa e arena è un film povero, realizzato in fretta e furia; tuttavia Totò gli ha assicurato il merito di far ridere gli spettatori. Laddove, poi, alla mimica dell'attore si è aggiunta la trovata della sceneggiatura, la comicità diventa pressoché irresistibile. È davvero un peccato, dunque, che per il resto il film presti il fianco alle critiche più acerbe e severe».

E ancora lan. [Arturo Lanocita],Il Nuovo Corriere della Sera,Milano,4 gennaio 1949:
«Fifa e arena [...] ossia Siviglia napoletanizzata; Totò e il suo prognatismo spiegati al popolo iberico e applicati alla corride. E' una piccola enciclopedia della paura ridicola; i lazzi, le smorfie e le contorsioni di un comico teatrale sono qui esasperati in una traduzione cinematografica che non senza emulare modelli celebri [...] suscita risate [...]».
http://www.antoniodecurtis.com/fifa.htm

Critica:
E’ buona parte del nostro mondo rivistaiolo che in questa occasione si è riversato sullo schermo, offrendo il destro a Totò di spadroneggiarvi con la limitata varietà delle sue maschere, che, pur ammirevoli nella loro capacità, non una volta riescono tuttavia a cogliere un motivo profondamente umano.
Gigi Michelotti, "Nuova Gazzetta del Popolo", Torino, 25 novembre 1948.

Il film, che è una parodia di "Sangue e arena", di Rouben Maumoulian (1941), di cui si vede anche un inserto di 30 secondi a colori, ed è ambientato in una Siviglia visibilmente napoletanizzata, si regge sulla solita commedia degli equivoci (prima lo scambio di foto, poi di persona), che è la via più breve per costruire un qualunque intreccio. Nel caso di "Fifa e arena" si vede con assoluta chiarezza che il film è ritagliato su misura per Totò. Del resto gli incassi erano strepitosi e Totò stava diventando la "macchina per far soldi".
Da notare che per la prima volta Marcello Marchesi entra nella sceneggiatura e si vede dal costante fuoriuscire delle scene dalla barriera di un "realismo" minimo. Nei primi  quindici minuti la maschera di Totò è godibile con tutto il suo candore e gli accenni alla realtà concreta (l'allusione al cachet, la paura delle sirene, il rubacchiare sugli incassi), poi, man mano che il film si struttura su continue esagerazioni e ipertrofiche esibizioni di "numeri" teatrali, il volto di Totò, travolto da una storia irreale, si sfalda nel ridicolo della prima maniera, ivi compresa la mimica di ritorno. Alcuni spunti sono intelligenti, come il pesce definito "democristiano" perchè impedisce di vedere la donna nuda, il panino preparato con spugna e sapone da barba (chiaro richiamo a "La febbre dell'oro" di Chaplin), l'impossibilità a toreare perchè non è iscritto ai sindacati. Il tema della fame, che è il leit-motiv presente in tutti i film precedenti, è ora ridotto (siamo nel 1948) a una barzelletta, al contrario de "Il ratto delle Sabine", dove assume contorni realistici, aderenti all'anno in cui il film fu girato (1945). Evidentemente ora si poteva scherzare sulla fame, dal momento che il problema non era più attuale. Presenti le solite battute del tipo a prescindere (detto due volte senza alcun nesso logico), pinzellacchere, bazzecole e uno splendido sono un uomo di  mondo (ripetuto anche questo due volte). Altre, che arricchiscono il film strizzando l'occhio allo spettatore, sono strettamente legate all'attualità, come: Questi cavalieri, quanti cavalieri, troppi cavalieri (alludendo a Mussolini); La guerra è finita -Finita? Sospesa! Sei esistenzialista ? - Sono qualunquista.
Da notare comunque che la maschera tipo marionetta o macchietta degli esordi è ormai stata assorbita da una recitazione un po' più umanizzata e Totò si chiama Professor Tromboni, Gasparre e Nicolino Capece.
Lorenzo Quaglietti, recensendo il film su "L'Unità", annotava: «Una prova ancora offre questo film delle grandi possibilità di Totò, che la fortuna non ha fatto finora incontrare con un soggetto e, soprattutto, con un regista in grado di sfruttarne adeguatamente le risorse».
Tratto da "Totò principe clown" di Ennio Bìspuri per gentile concessione
http://www.antoniodecurtis.org/fifa.htm

jueves, 28 de marzo de 2013

Uno strano tipo - Lucio Fulci (1963)


TITULO ORIGINAL Uno strano tipo
AÑO 1963
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 90 min.
DIRECCION Lucio Fulci
GUION Lucio Fulci, Vittorio Metz
REPARTO Adriano Celentano, Memo Dittongo, Raffaella De Carolis, Nino Di Napoli, Franco Giacobini, Nunzia Fumo, Giacomo Furia, Gianni Agus, Don Backy, Mario Brega, Carlo Campanini, Roger Louis, Erminio Macario, Valentino Macchi, Claudia Mori, Antonella Murgia, Rosalba Neri, Luigi Pavese, Gino Santercole, Renato Terra
FOTOGRAFIA Guglielmo Mancori
MONTAJE Ornella Micheli
MUSICA Mariano Detto
PRODUCCION Giovanni Addessi Cinematografica - LUX
GENERO Comedia

SINOPSIS Cantante famoso va ad Amalfi per alcune esibizioni e trova che la precedente visita di un suo sosia gli sta creando non pochi problemi. Chiarito l'equivoco, va in vacanza a Capri, dove l'attende una sorpresa. Una commedia umoristica fatta su misura per le poche, innegabili doti del "molleggiato nazionale", che interpreta molto bene sé stesso. (Il Morandini)



Trama 
Adriano Celentano giunge ad Amalfi per alcune esibizioni, ma trova che la precedente visita di un suo sosia, per il quale egli viene scambiato, ha prodotto molti guai. Celentano si trova in ingarbugliatissime situazioni e rischia anche di perdere la fidanzata, che lo ha raggiunto colà con il padre. Alla fine tutto si chiarisce ed il cantante si reca a Capri per un periodo di riposo: ma anche di qui è passato il sosia e la pace è davvero perduta per sempre.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=20580&film=Uno-strano-tipo
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Le somiglianze tra le persone sono frequenti, e non è raro essere scambiati per qualcun altro. È quello che succede al povero Adriano Celentano, che, in vacanza sulla costiera amalfitana, dove ha portato con sé la sua band, I Ribelli [Don Backy, Ricky Gianco, Miki Del Prete, Luciano Beretta, Gianni Dell’Aglio, Nando De Luca, Gino Santercole, Detto Mariano, Domenico Pasquadibisceglie, Giorgio Benocchio], la sua fidanzata [Donatella Turri], e il suo vivace manager [Erminio Macario], si troverà in coinvolto in un grosso equivoco. Peppino, un ragazzo con chiari disturbi psichici, sfrutta la somiglianza con il cantante per ottenere favori, soldi e fama. Approfitta del suo handicap un truffatore, Cannarulo [Nino Taranto], che incita Peppino ad arrischiarsi in azioni per nulla lecite. Adriano, invece, vede crescere i sospetti su di lui, e anche i suoi fan più accaniti esprimono una certa delusione per le sue ultime prestazioni canore ad Amalfi, dove, infatti, a insaputa sua e della band, è stato sostituito proprio da Peppino.
In un gioco di equivoci, scambi di persona, e amori passionali, come quello tra Carmelina [Claudia Mori] e Peppino,che l’ha lasciata rifiutando, per paura, di vedere suo figlio, Pasqualino [appena nato], si riuscirà a venirne fuori.
Uno strano tipo, 1962, è un’altra divertente commedia di Lucio Fulci, regista che proprio alle commedie ha dato ampio spazio, come pure all’horror, regalandoci chicche come 002 Operazione Luna, I due parà, 1965, e firmando le sceneggiature di film storici con Totò.
Di due anni precedente è Urlatori alla sbarra, nel quale vediamo delle assonanze con questo film, non solo perché vede protagonista Adriano Celentano, ma anche per il collegamento con il cinema musicale che andava forte in quegli anni, e che vedeva i cantanti del tempo [Mina, ad esempio], gli urlatori, cimentarsi in film nei quali interpretavano sé stessi.
Uno strano tipo è un film piacevole, che soffre però di tempi un po’ troppo estesi, in particolare nella seconda parte, in cui i connotati del “colpevole” sono già noti, eppure ci si sofferma ancora su numerosi dubbi e estenuanti giochi di scambi di identità. In fondo, però, ciò è perdonabile, soprattutto se a recitare le parti dei protagonisti c’è Adriano Celentano, che, tra smorfie, balletti strambi e tic regolati ad arte, ha dimostrato,  come d’altronde lo stesso Don Backy, [che qui si vede poco], capacità attoriali non di poco conto, oltreché canore.
Cecchi Gori Home Video distribuisce in DVD il film, impreziosendolo di precisi contenuti extra, in cui a prendere parola sono il critico cinematografico Paolo Albiero, che si sofferma sulle produzioni cinematografiche di Fulci, descrivendo poi le modalità con le quali la commedia musicale italiana si sia prepotentemente affacciata nel panorama cinematografico di quegli anni, e Aldo Pellegrini, uno dei sosia più famosi del molleggiato, che, alla descrizione della sua carriera di imitatore [ma guai a dirgli che è l’imitatore di Celentano, lui, che si considera un suo interprete], aggiunge il più interessante racconto del primo incontro con Celentano, avvenuto nel 1986, al quale ne sono seguiti altri, in seguito ai quali è nata una bella amicizia. Chiudono la sezione il trailer e i menu animati e interattivi.
Gilda Signoretti
http://www.ingenerecinema.com/uno-strano-tipo-di-lucio-fulci/


Uno strano tipo
di Adriano Celentano

Io sono uno strano tipo
E faccio quello che mi piace
E per questo penso solo che
La vita è vita solo accanto a te
E tu la pensi forse come me
Se è vero o no un giorno lo saprò
Perchè io sono uno strano tipo
Mi piace stare con gli amici
Ma se penso che non ci sei tu
Sono triste perchè sento che
La mia vita non esiste più
Ed allora lascia andar.
Io sono uno strano tipo
E faccio quello che mi piace
E per questo penso solo che
La vita è vita solo accanto a te
E tu la pensi forse come me
Se è vero o no un giorno lo saprò
Perchè io sono uno strano tipo
Mi piace stare con gli amici
Ma se penso che non ci sei tu
Sono triste perchè sento che
La mia vita non esiste più
Ed allora lascia andar.

miércoles, 27 de marzo de 2013

Pianese Nunzio, 14 anni a maggio - Antonio Capuano (1996)


TITULO ORIGINAL Pianese Nunzio, 14 anni a maggio
AÑO 1996
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACION 115 min.
DIRECCION Antonio Capuano
GUION Antonio Capuano
REPARTO Fabrizio Bentivoglio, Rosaria De Cicco, Emanuele Gargiulo, Manuela Martinelli, Teresa Saponangelo, Nando Triola, Tonino Taiuti
FOTOGRAFIA Antonio Baldoni
MONTAJE Giogiò Franchini
MUSICA Umberto Guarino, Almamegretta
PRODUCCION Ama Film S.R.L. - Istituto Luce S.P.A. - G.M.F. S.R.L. en colaboración con Mediaset (1995-1996)
GENERO Drama

SINOPSIS Don Lorenzo Borrelli (F. Bentivoglio), sacerdote lombardo e parroco in una chiesa del quartiere Sanità a Napoli, conduce un'intransigente battaglia contro la camorra, i suoi misfatti, la sua mentalità. Invece di eliminarlo fisicamente, la camorra lo colpisce nel suo punto debole: i rapporti col tredicenne Nunzio. Sarà lo Stato a toglierlo di mezzo. Concessi i meriti civili, le qualità descrittive e le doti degli interpreti, il risultato è un dramma isterico e predicatorio. L'impresa di coniugare Brecht col barocco napoletano non è riuscita. (Il Morandini)





TRAMA:
Don Lorenzo Borrelli è il nuovo parroco della chiesa di Santa Maria delle Monteverginelle nel quartiere Sanità a Napoli. Un quartiere in degrado: disoccupazione, camorra. Don Lorenzo ha avviato un rapporto di comprensione con la popolazione e di netta opposizione alla camorra che domina la zona: tiene incontri di catechesi con i giovani in modo libero e aperto ed ospita in canonica alcuni giovani bisognosi di aiuto. Tra questi Nunzio Pianese un ragazzo tredicenne (un po' introverso, appassionato di canzoni) il cui padre, che vive per conto suo, è poco equilibrato e dedito al vino, mentre la madre lo ha affidato alla propria sorella Rosaria. Il ragazzo frequenta la terza classe della Scuola Media ed è spesso ospite di don Lorenzo che un giorno gli propone di trasferirsi stabilmente in canonica. Tra don Lorenzo e Nunzio si instaura un rapporto "particolare": a questa sua condotta nel privato fanno contrasto le sue prediche e conferenze alla gente del quartiere che lo sente inveire contro la camorra. Il suo atteggiamento infastidisce e preoccupa la camorra che controlla il quartiere, "vede e sa tutto": resasi conto del comportamento di questo prete con Nunzio, capisce che c'è un modo di liberarsi di un pericoloso avversario. La famiglia disgregata, la zia Rosaria che lo ha ospitato, la scuola, il servizio di assistenza sociale, gli amici di Nunzio ed infine la polizia sono i "passaggi" di una strategia fatta di inviti a riflettere, di minacce, di ricatti che gradatamente inducono i parenti, insegnanti e assistenti sociali a fare pressione sul ragazzo perché capisca e valuti la sua situazione reale e decida di denunciare il prete. Nunzio, inizialmente restio, si rende gradatamente conto che la sua situazione è di pubblico dominio, che tutti prendono le distanze da lui, che corre seri pericoli: alcuni espliciti "avvertimenti" della camorra fanno crollare le sue residue resistenze. Don Lorenzo, cosciente anche lui che la sua relazione è nota, fa appello all'"amicizia" ma continua. Nella settimana prima di Pasqua Nunzio cede fisicamente e moralmente. Mentre don Lorenzo guida nelle via del quartiere una sua "singolare" versione della Via Crucis sostituendo ai veri protagonisti della Passione di Cristo se stesso, i boss e la gente del quartiere, Nunzio rilascia la sua sofferta deposizione. Don Lorenzo, terminato il rito, dichiara di assumere le sue responsabilità dinanzi alla legge.

CRITICA:
Film civilissimo, "Pianese Nunzio 14 anni a maggio", ha il pregio e insieme il difetto di voler far convivere temi delicati come la camorra e il voto di castità, finendo per svolgerne bene uno solo. Se da un lato è narrato con sobrio stile e lucida penetrazione psicologica il percorso emozionale di don Lorenzo, la sua condizione di orfano votato al sacerdozio più per necessità che per scelta, la profondità, l'infantile purezza delle sue convinzioni e la sua rabbia nei confronti di un mondo ingiusto, è proprio la descrizione di quel mondo (la camorra, i "tipi" del rione) a slittare nel convenzionale e in qualche retorica.Anche se c'è da dire che la narrazione sfrutta accortamente sia il realismo di suoni e voci (un napoletanto tanto stretto da rendere quasi indispensabili i sottotitoli in inglese), sia l'artificio straniante e "autenticante" dei personaggi che, nel bel mezzo dell'azione, guardano in macchina e declinano le proprie generalità e il proprio ruolo. Fabrizio Bentivoglio è di commovente bravura. Il giovanissimo Emanuele Gargiulo una rivelazione. E non c'è un caratterista fuori posto. (Il Secolo XIX, Fausto Serra, 5/9/96)

NOTE:
REVISIONE MINISTERO LUGLIO 1996.PRESENTATO NELLA SEZIONE UFFICIALE ALLA 53.MA MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA.TARGA D'ARGENTOPREMIO SAINT VINCENT 1996 A ANTONIO CAPUANO
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=25379&film=PIANESE-NUNZIO-14-ANNI-A-MAGGIO
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Sinossi
Napoli, anni Novanta. Don Lorenzo Borrelli è il giovane parroco di una chiesa del rione Sanità: nel degradato quartiere è diventato un punto di riferimento per quei pochi che, da veri cristiani, pensano di non poter farsi complici della criminalità organizzata.
Fra i tanti giovani che gli si avvicinano alla ricerca di valori diversi da quelli della camorra, c’è Nunzio, quattordicenne con una situazione familiare disagiata (i genitori sono divorziati, il padre soffre di gravi turbe psichiche) alla quale tuttavia riesce a reagire positivamente (va bene a scuola, ha delle doti canore che cerca di mettere a frutto). Il prete si lega fortemente al ragazzo fino a instaurare con lui un rapporto che travalica il semplice affetto, sfociando in una vera e propria passione amorosa.
Ben presto, tuttavia, Nunzio diviene il mezzo attraverso cui i criminali possono liberarsi dello “scomodo” parroco. Le pressioni sulla famiglia, sull’ambiente scolastico e sugli amici da parte della camorra spingono la polizia a indagare e il ragazzo a denunciare don Lorenzo.

Analisi
Dopo Vito e gli altri (1991), per la seconda tappa del suo viaggio nel degrado di Napoli, Capuano sceglie come protagonista ancora una volta un ragazzino. Nunzio, tuttavia, diversamente da Vito (il protagonista del film del 1991), non è un piccolo delinquente, una vittima inconsapevole della società: descritto da tutti gli altri personaggi (che di tanto in tanto si isolano dallo sfondo dell’azione rivolgendosi direttamente alla macchina da presa per degli “a parte” nei quali parlano di se stessi e dei propri rapporti con Nunzio) come maturo e responsabile, il ragazzo sembra riuscire a camminare tra le macerie fisiche e morali che lo circondano come un essere “graziato”, dotato di un’apparente serenità che lo salva dal contesto in cui vive. Allo stesso modo, anche don Lorenzo è un personaggio atipico, che sfugge nettamente allo stereotipo del parroco antimafia impegnato in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata. L’insana passione per Nunzio viene spiegata dallo stesso prete in un bellissimo monologo interiore, dal quale si può intendere come i rapporti sessuali avuti con il ragazzino siano, al di là della perversione, una realizzazione della sua maniera particolarissima di intendere il rapporto con Cristo: «L’amicizia non può includere l’affetto, la tenerezza, l’amore? Ho scoperto il calore dell’amore. E la mia dedizione a te non ne viene diminuita. Diviene anzi maggior consapevolezza e gioia di vivere e testimoniare il Cristianesimo. Anche il mio rapporto con te è molto sessuale. Vivo dentro una storia d’amore grandissima, con un uomo, con il tuo corpo, con te che sei come me un uomo».
Questo drammatico fraintendimento è solo l’altra faccia di quell’attitudine a prendere alla lettera il Vangelo cui assistiamo a più riprese durante il film: dopo aver negato ai suoi fedeli la Comunione in seguito a un efferato omicidio avvenuto nel quartiere – non ritiene degno neanche se stesso di sedere alla tavola del Signore poiché si sente complice dei malviventi per non aver detto e fatto abbastanza – don Lorenzo si rifiuta finanche di impartire l’estrema unzione a un camorrista assassinato.
Prete e bambino, allora, sono accomunati da un destino simile: don Lorenzo potrebbe essere un santo per quello che fa all’interno della comunità ma è macchiato dalla passione per Nunzio, punta estrema del suo portare al limite le proprie passioni, del suo non riuscire a essere normale (potrebbe cercare il “Corpo di Cristo” in un rapporto sessuale con una giovane parrocchiana che lo desidera, ma che egli respinge); il ragazzino, all’interno della storia, potrebbe essere “santificato” dallo spettatore solo se fosse un criminale, solo se la nostra falsa coscienza potesse vedere in lui il simbolo di un degrado morale cui invece egli è riuscito, nonostante tutto, a sottrarsi. Si comprende, così, come il film sia stato inviso oltre che alla critica cattolica, anche a quella laica: al di là delle accuse di blasfemia rivoltegli, Capuano lascia buona parte della storia avvolta dall’ambiguità, dando allo spettatore la facoltà di giudicare senza l’uso di filtri o schemi precostituiti (quando sospende l’azione per far parlare direttamente i personaggi, i monologhi non spiegano ma vanno riletti tra le righe a film terminato), rinunciando spesso alla narrazione in favore di una serie di “visioni” napoletane. Così, come in Vito e gli altri riusciva a non scadere nel banale stereotipo dell’impegno civile dando al film una forma diversa, straniata, questa volta il regista sceglie per protagonisti due personaggi, ognuno a suo modo, indifendibili: Nunzio perché non riesce a incarnare adeguatamente l’oggetto della nostra compassione, don Lorenzo perché non può rappresentare efficacemente un eroe nel quale immedesimarsi. Entrambi, però, sono degni del nostro rispetto in quanto autentiche vittime, semplici pedine di un gioco di morte ben più tremendo e crudele di quel gioco d’amore che hanno inventato insieme.
http://www.minori.it/minori/pianese-nunzio-14-anni-maggio


Tutti parlano di Pianese Nunzio, tutti vogliono Pianese Nunzio. “Pianese Nunzio”, prima il cognome e poi il nome in modo un po' scolastico, un po' meridionale, un po' giudiziario, passa tra la folla attraverso un telefono senza fili. Pianese Nunzio diventa il mezzo attraverso cui la camorra può liberarsi di un prete scomodo.
Infatti, in principio fu la camorra; per quanto camuffata da musica alta, canti a squarciagola, con le cuffie da registrazione nelle orecchie. Poi la camorra passa allo sfondo e il film passa, a sua volta, alla pista principale, fino a farla diventare preponderante nella conclusione.
La chiesa (come tematica) fa quindi il suo ingresso in maniera surrettizia, in sordina, in modalità laterale, passando sotto le vesti di - visto il contesto - un'evocazione della superstizione. Sensazione che è ulteriormente confermata dall'importanza di quella che sembra essere la spina dorsale del racconto (la camorra). Un prete di un quartiere disagiato di Napoli, Don Lorenzo Borrelli (Fabrizio Bentivoglio), parte piacentina estranea al sistema camorristico napoletano, combatte fermamente la società corrotta e criminale presso la quale ha da poco preso servizio. A fargli compagnia in parrocchia, un chierichetto di quasi quattordici anni.
Il film però, a un certo punto, partorisce. Sboccia tutto d'un tratto e, allo stesso tempo, lentamente. Indizi della sostituzione di tematica, che sarebbe avvenuta da lì a poco, c'erano già stati, in precedenza: un prete e un bambino che si riposano nello stesso letto a torso nudo; lo stesso prete che rincorre lo stesso bambino e poi, finalmente afferrandolo, accenna a un (troppo) tenero abbraccio. Era la pista dell'abuso sessuale (però consenziente) la vera pista, che inizialmente si fa passare per cliché popolare, come frutto di una credenza facile, fin troppo frequentata.
Qual è il reato maggiore? Quasi quasi ci credi che va bene così, che sia giusto scambiarsi un po' di sano affetto, accarezzandosi... fuori la gente si ammazza! Capuano mette in scena un ambiguo (nel senso di ambivalente, dubbio) sistema assiologico (che, peraltro, come si è visto, si disvela lentamente), attraverso l'ambiguità stessa del personaggio-prete. E dare un giudizio non è facile. Quello che sembrava il problema diventa una matrioska di problemi, pronta a contenere, a andare nel cuore del male minore. La lunga carrellata iniziale, rasente alle ringhiere con sbarre, parla di un sentimento di prigionia; e aveva già visto molto lontano.
Pianese Nunzio 14 anni a maggio, secondo lungometraggio del regista Antonio Capuano, è un film violentemente napoletano, a partire dall'anteposizione del cognome, ma con un tocco di piacentineria e, dunque, di - visti i parametri - esotico. La parte napoletana del film ci mette dentro la perfetta caratterizzazione dei personaggi, tutti attori napoletani bravissimi (tra i quali anche la solita, magnifica, Rosaria De Cicco, che ha lavorato con Capuano anche su La guerra di Mario), che si esibiscono in un altrettanto valida recitazione a carattere locale (di quelle a cui, altrove, si metterebbero i sottotitoli). I modi di dire dei napoletani del popolo, che si susseguono senza sosta, fanno pensare a una presa di realtà in tempo e spazio reali. Più che un film girato a Napoli e che parla di Napoli è un film dentro Napoli; nei suoi vichi capillari e annidati, dove dilagano un'attitudine neomelodica, peraltro affidata alle ambizioni stesse del personaggio principale (il bambino), urla e mandolini. Le strade sono affollate di tanta musica, musica popolana, i figli sono figli della strada. Le famiglie disgregate vivono in case con porte sempre aperte, praticamente in mezzo alla via, da dove possono entrare tutti, e in qualsiasi momento. Il Rione Sanità, si sente; il sentimento della massa è qualcosa di molto forte in questo film, e tangibile; l'impressione sistematica è quella che ci sia molta più gente di quanta in realtà se ne veda. La confusione della gente per le strade di Napoli è sempre quella della vigilia di Natale a San Gregorio Armeno.
Dal punto di vista espressivo e registico, l'idea che se ne ricava è che il film abbia in sé delle trovate molto vicine a una messa in scena teatrale, che lasciano trapelare l'impostazione e la formazione del suo autore (si veda, ad esempio, lo sguardo in macchina dei personaggi al momento dell'autopresentazione). La perlustrazione dello spazio da parte della macchina da presa che va a recuperare i rientri di campo dei personaggi è certamente una caratteristica che si impone.
Nei film di Capuano troviamo famiglie disperate e madri che perdono l'affidamento dei figli, ed è proprio qui che, forse, il prete riesce a trovare il suo appiglio di beatificazione. A conclusione di un montaggio alternato che ha l'ardire di creare pathos (più patimento e pietà, che tensione in senso stretto), don Lorenzo Borrelli, assente alla via crucis da lui stesso guidata, pronuncia la frase: “nato a Piacenza da genitori ignoti”, parlando di se stesso.
Martina Federico
http://www.schermaglie.it/italiana/2008/antonio-capuano-pianese-nunzio-14-anni-a-maggio-alla-ricerca-del-male-minore

martes, 26 de marzo de 2013

Primo amore - Dino Risi (1978)


TÍTULO ORIGINAL Primo amore
AÑO 1978
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 110 min.
DIRECTOR Dino Risi
GUIÓN Dino Risi, Ruggero Maccari
MÚSICA Riz Ortolani
FOTOGRAFÍA Tonino Delli Colli
REPARTO Ugo Tognazzi, Ornella Muti, Mario Del Monaco, Caterina Boratto, Riccardo Billi
PRODUCTORA Dean Film
GÉNERO Drama | Comedia dramática

SINOPSIS Después de pasar toda una vida trabajando sobre los escenarios, Hugo ha ido a parar a un asilo destinado a actores veteranos. En esta institución conoce a Renata, una bellísima muchacha de 18 años que trabaja como camarera. A pesar de su juventud, la joven ya ha sufrido demasiados acosos por parte de los hombres, pero el maduro Hugo está firmemente decidido a no ser uno más. (FILMAFFINITY)



Trama e Recensione
Picchio (Ugo Tognazzi) è un ex comico di avanspettacolo che vive in un ospizio per artisti. Qui si invaghisce della bella Renata che vi lavora come cameriera (Ornella Muti). Quando finalmente Picchio riceve gli arretrati della pensione, decide di scappare via con la ragazza, promettendole di lanciarla nel mondo della rivista. Da qui inizia il peregrinare dei protagonisti alla ricerca di una scrittura che non arriverà mai: è il 1978 e l'avanspettacolo è morto ormai da tempo. Picchio si rende conto che la sua epoca è finita ed anche tutto il mondo che le girava intorno e che lo teneva ancora vivo; molti dei suoi ex colleghi o sono morti o sono troppo vecchi per lavorare. Ben presto anche Renata lo abbandona per un impresariaccio di una tv privata. Picchio tornerà mestamente ad aspettare la morte nel suo ospizio per artisti.
Commedia amara e malinconica, con una struggente colonna sonora di Riz Ortolani, sul tempo andato via che non torna mai più e che vive solo nei ricordi del protagonista. Come Polvere di stelle, il film tratta del mondo della rivista e dell'avanspettacolo ma con una marcia in più e una capacità di analisi sinceramente più profonda e meno machiettistica del pur bel film con Alberto Sordi e Monica Vitti. Melanconicamente bello.
http://forum.tntvillage.scambioetico.org/?showtopic=249968


Trama
Ugo Cremonesi, in arte Picchio, rimasto senza lavoro e in attesa di liquidazione, lascia momentaneamente il mondo dell'avanspettacolo e si rifugia a Villa Serena, una casa di ricovero per artisti anziani, diretta da un impettito Direttore, detto "il Capitano". Più vicino al tramonto che all'alba, ma non del tutto domo, Ugo sente pesare l'atmosfera da cimitero che regna nell'ospizio, non annullata dall'incontro con vecchie conoscenze come l'ex fiamma, la soubrette Lucy, o l'amico Augustarello. Un poco alla volta il maturo comico s'attacca alla 18enne cameriera Renata che, per semplicità o per curiosità o per stanchezza dell'ambiente, finisce per accettare la sua amicizia. Quando giungono i sette milioni della liquidazione, la ragazza e il suo patetico compagno si recano a Milano, a Roma e persino a Capri. Ma, non appena si esaurisce il gruzzolo, il rapporto sentimentale e paradossale si affievolisce. Quando Ugo presenta Renata alla TV privata "Sette Colli" con la speranza di un doppio ingaggio, la giovane si lascia conquistare da Emilio, uno dei dirigenti. Ugo, disperato, finisce per diverse settimane alla neuro. Quando ne esce, incontra casualmente Renata, ormai affermata, ma rifiuta il suo gesto riconoscente. Questa volta, con molta meno prosopopea, si ripresenterà a Villa Serena.
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=14897

Criticas
"Comedia agridulce, cruel en ocasiones, en la que Risi elabora un agudo retrato de personajes, ayudado por el siempre magnífico Tognazzi. El desarrollo de la acción no ofrece sorpresas, pero el cineasta llena el relato de pasión, lo acerca al melodrama y le confiere una insólita belleza intimista"
(Miguel Ángel Palomo: Diario El País)

"C'è un vero stacco fra la prima parte del film, dal ritmo arioso, e la seconda, spezzettata in una serie di episodi piuttosto prevedibili e dal tono esasperato. 'Primo amore' ci sembra non abbia il rigore tipico delle opere di Risi, e le molte citazioni di cui è costellato (ci sono dei richiami anche a Fellini) finiscono con il limitarne i significati. Si tratta, però, di un film tutto godibile: gli interpreti sono guidati con una mano attenta e sensibile, compresi i non protagonisti, come Mario Del Monaco, l'ex tenore, che guida la casa di riposo con sapidi metodi militareschi, e Caterina Boratto, una deliziosa e svagata ex diva della rivista."
(Alfio Cantelli, "Il Giornale", 20 settembre 1978)

lunes, 25 de marzo de 2013

Rosolino Paternò, soldato - Nanni Loy (1970)


TITULO ORIGINAL Rosolino Paternò, soldato
AÑO 1969
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 101 min.
DIRECCION Nanni Loy
GUION Furio Scarpelli, Age, Nanni Loy
REPARTO Nino Manfredi, Jason Robards, Martin Landau, Peter Falk, Frank Latimore, Corrado Sonni, Lorenza Guerrieri, Milena Vukotic, Anthony Dawson, Franco Balducci, Empedocle Buzzanca, Scott Hylands, Slim Pickens, Mario Maranzana, Renzo Marignano, Orso Maria Guerrini, Bill Vanders, Adalberto Rossetti, Bozena Frait
FOTOGRAFIA Tonino Delli Colli
MONTAJE Ruggero Mastroianni
MUSICA Carlo Rustichelli
PRODUCCION Dino De Laurentis Cinematografica (ROMA), Jadran Film (ZAGABRIA)
GENERO Comedia

SINOPSIS Luglio 1943, in Sicilia. Alla vigilia dello sbarco quattro militari americani e un prigioniero italiano, costretto a far da guida, debbono compiere una pericolosa missione. Su una sceneggiatura poco felice di Age & Scarpelli, Loy sbaglia un film che oscilla tra bellico d'azione, farsa e satira senza trovare la rotta. Manfredi fa quel che può, anche troppo. (Il Morandini)


TRAMA:
Nel luglio del 1943, alla vigilia dello sbarco alleato in Sicilia, il generale americano Maxwell decide di effettuare un'azione di "commando" sulla costa siciliana per distruggere le pericolose postazioni del forte Xifonio. Vengono prescelti per la missione cinque uomini: il capitano Pawney, il sergente Armstrong, il caporale Mellone, il soldato Reggie, e un prigioniero italiano, Rosolino Paternò, costretto a fungere da guida in quanto nativo della zona. Paracadutata in territorio italiano, la piccola pattuglia si riduce immediatamente di una unità per la morte del capitano Pawney, causata dalla mancata apertura del paracadute. Decisi a portare a compimento la missione, i quattro superstiti iniziano la marcia di avvicinamento alle postazioni nemiche e, dopo lunghe vicissitudini, giungono in vista dell'obiettivo. Perduto anche Reggie in uno scontro con i nazifascisti, la ridottissima pattuglia penetra finalmente all'interno del forte, dove però l'attende una grossa delusione: i cannoni che si sarebbero dovuti distruggere sono stati trasferiti da tempo in Africa. Per dare un senso alla loro missione, i tre decidono di far saltare ugualmente il forte, allo scopo di risparmiare alla popolazione un ulteriore bombardamento della zona. Ma anche questa iniziativa si rivela inutile: il comando alleato, privo di notizie sull'esito della missione, ha già dato disposizione di bombardare la costa. Laceri e feriti, Armstrong, Mellone e Paternò assistono sconcertati all'avanzata delle truppe alleate.

NOTE:
- IL FILM ERA STATO ANNUNCIATO CON IL TITOLO 'LA GUERRA E' L'ANIMA DEL COMMERCIO'.- REGIA DELLA SECONDA UNITA': LEOPOLDO SAVONA.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=8989&film=Rosolino-Paterno-Soldato
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Rosolino Paternò soldato... (1970) [4 errori]
Continuità: [N°94638] Lo stravagante capitano monco interpretato da Peter Falk inizia il giro all'interno della base in cerca di candidati per la missione. Quando mette alla prova il primo andando a tutta velocita' verso di lui, Jason Robards e' sull'attenti con l'attrezzatura da lancio prima lontana dai piedi poi vicina poi di nuovo lontana.

Continuità: [N°94639] L'esperto in comunicazioni e' intento a istruire le truppe sui segnali luminosi. Chiama ad alta voce la recluta che vuole testare, tale "Mallory". Costui si fa avanti, ma alle sue spalle transitano dei camion che non erano di passaggio un istante prima.

Continuità: [N°94640] Al momento della partenza, il capitano controlla se le truppe siano opportunamente equipaggiate. Alla domanda "sigarette italiane?", il soldato lascia cadere il pacco, ma allo stacco ritorna a reggerlo ex abrupto.

Continuità: [N°94641] Sull'aereo i soldati si preparano per il lancio agganciando i moschettoni. Sul finire della prima inquadratura in cui cio' avviene, Peter Falk in fondo alla fila si gira e la cinghia gli passa sotto il collo (visivamente molto fantozziano, sembra che ci si debba strozzare da un momento all'altro). Nello shot seguente le cinghie sono posizionate diversamente, e il fenomeno si ripete successivamente.
http://www.bloopers.it/testo/index.php?id_film=12287&Lettera=R


Intervista a Furio Scarpelli       
Tratta da "Nanni Loy, un regista fattapposta" (Tredicilune, CUEC editore, 1996)  di Maria Paola Ugo e Antioco Floris
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Come tutti anche Nanni Loy doveva combattere con il fato della realizzazione, con l‘ignoranza e la pavidità della produzione, con la mancanza di apporti che provengono da fuori del cinema, come la narrativa e il teatro. In America invece si usa molto desumere sceneggiature da racconti e commedie. Lui sapeva bene che gli apporti nel cinema sono di provenienza extracinematografica. E che troppo spesso qui da noi si vedeva e si continua a vedere anche oggi o racconti senza significati o significati senza racconti. Questo è un momento in cui prevale la seconda maniera che forse è anche più accettabile della prima. Descrizione e significati, però il racconto non c’è. Ma questa è una carenza che probabilmente fa parte della nostra non tradizione a narrare. Il film "Rosolino Paternò soldato" inizialmente doveva farlo Hiller, solo in seguito passò a Nanni Loy. Abbiamo lavorato tanto tempo con Arthur Hiller, poi invece - non mi ricordo perché -, con De Laurentiis non si trovarono. Il film piacque a Nanni Loy. La gestazione fu lunga perché De Laurentiis ne voleva fare un film non soltanto all’americana ma un film italo-americano e probabilmente l’operazione non riuscì. La matrice, il seme è uno, anche il seme di una quercia è una ghianda, non possono essere due. Quindi il film restò italiano nel bene e nel male, con personaggi che erano americani. lo non l’ho più rivisto. Non è uno di quei film di cui c’è un’insistita presenza alla televisione. Ci piacque scriverlo e anche vederlo dopo che fu girato, ma da allora non ne so più niente. Dissero che non aggiungeva nulla rispetto ad altre opere come Tutti a casa? È una iattura tipicamente italiana, io non voglio salvare il livello del film, può darsi che valesse non più di tanto, ma non è lì la questione. Bontempelli scrisse nel 1950 che la dannazione del narratore italiano è che oltre a inventare il romanzo deve inventare il genere a cui farlo appartenere.
Così stanno le cose secondo certa critica: siccome una cosa è già stata fatta, un argomento è già stato trattato, uno stile narrativo è già stato toccato, si deve passare ad altro. Questo significa volere ostacolare la nascita di un genere, questa definizione la intendo in senso alto, nobile. II genere non è manierismo. Sarebbe stato come dire a John Ford: senti adesso di western ne hai già fatto uno o due, basta, non ne fare più. Rosolino non era una scopiazzatura. Nell’ambito di un tipo di racconto bellico era vedere le cose dal punto di vista basso, della cosiddetta povera gente, che è poi quella che ha fatto la guerra, ma in un ambiente, in un settore, in un momento diverso da Tutti a casa: è durante la guerra e non durante lo sfacelo dell’ 8 settembre. Il protagonista voleva somigliare a un tipo di meridionale che era molto più simile a quelli che avevano fatto la guerra precedente, quella del ‘15-’18, che non certo ai giovani meridionali d’oggi. Quindi una componente di mancanza di sapienza esistenziale, candore, ingenuità, sono queste le “doti” che hanno fatto sì che tanti e tanti meridionali siano morti in guerra. Una specie di inadeguatezza ad un ragionamento di ribellione, per acquiescenza, per candore. Questo era forse anche un personaggio di maniera.
Noi ci riferivamo a quello che sapevamo e sentivamo, ma anche il settentrionale era ugualmente sprovvisto di senso critico e dì spirito di ribellione. Nanni Loy intervenne anche nella sceneggiatura, del resto questo è un metodo italiano che ha dato buoni frutti. I mezzi per fare film sono mille, ma facciamo finta che siano due fondamentali. C’è quello di un certo cinema che fanno in America che è desunto al novanta per cento dei casi da commedie o racconti. Allora il cuore dell’opera è già nato al di fuori dell’iniziativa realizzativa di un film. C’è uno scrittore che ha creato una narrazione. Questa opera poi diventa un’impresa cinematografica. Lì la collaborazione può essere anche minima fra regista e sceneggiatore perché in quel caso il regista non deve presiedere alla nascita di un essere che prima non c’era. Ma quando, come avviene in Italia, è lo sceneggiatore che crea la storia oltre a creare la sceneggiatura, è chiaro allora che l’esigenza del regista è quella di essere presente. È chiamato a sua volta ad essere autore, non c’è prima Calver o Miller. L’impresa nasce in quanto impresa cinematografica. Quindi il cinema italiano è più cinema di quello americano. Ciò non toglie che sia più brutto.
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http://www.cinemecum.it/newsite/index.php?Itemid=338&catid=83&id=2557:da-nanni-loy-qun-regista-fattappostaq-intervista-a-furio-scarpelli&option=com_content&view=article