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martes, 17 de diciembre de 2013

Cuori senza frontiere - Luigi Zampa (1950)


TITULO ORIGINAL Cuori senza frontiere
AÑO 1950
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 87 min.
DIRECCION Luigi Zampa
GUION Clare Catalano, Piero Tellini
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Carlo Montuori
PREMIOS 1952: Círculo de críticos de Nueva York: Nominada a Mejor película extranjera
REPARTO Gina Lollobrigida, Raf Vallone, Erno Crisa, Cesco Baseggio, Enzo Staiola, Ernesto Almirante, Gino Cavalieri, Fabio Neri, Mario Sestan
PRODUCTORA Lux Film
GENERO Drama | Años 40

SINOPSIS Después de la Segunda Guerra Mundial, los aliados designan una ciudad no identificada en el área de Trieste como parte de Yugoslavia e Italia parcialmente. Una línea blanca de demarcación divide la ciudad en dos y la gente del pueblo tiene poco tiempo para decidir a qué lado de la línea quiere vivir. Esto lleva a la división de los hogares, las familias, los amigos y la iglesia y las tensiones son altas. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Costados con HJ Split)

Carlo Gaberscek su CUORI SENZA FRONTIERE (1950) di L. Zampa
I drammi del dopoguerra in Cuori senza frontiere con la Lollo e Raf Vallone

Nell'immediato dopoguerra e fino alla metà degli anni ’50 in Italia viene prodotto un alto numero di film a sfondo bellico, relativi alla prima e soprattutto alla seconda guerra mondiale. Tra questi ultimi un piccolo gruppo di pellicole è incentrato sulla questione di Trieste e il confine orientale. Film sull’esodo istriano come La città dolente (1949), sui campi profughi in Donne senza nome (1949), le laceranti divisioni territoriali in Cuori senza frontiere (1950), sull’occupazione jugoslava in Trieste mia! (1951), pur costruiti con un impianto di tipo melodrammatico per adattarli alle esigenze del grande pubblico, mettono in scena eventi, condizioni, tragedie, drammi molto attuali. Sono film che inaugurano quello che molti anni dopo verrà definito il “cinema di frontiera”. In particolare, il regista Franco Giraldi ha sentito molto questo tema, realizzando una trilogia conclusasi con il film La frontiera (1996). Anche Porzûs (1997) di Renzo Martinelli va inserito in questo contesto; ma già una scena del film Penne nere (1952), ambientato in Carnia durante l’occupazione cosacca, accennava alla complessità della lotta per il confine orientale. Si tratta della scena (girata nei dintorni di Villa Santina) in cui gli alpini, reduci dall’Albania, appena ritornati sulle loro montagne, hanno uno scontro con un gruppo di partigiani jugoslavi presenti nella zona. Nel corso degli anni ’90, in relazione ai mutamenti politici, alla crisi della Jugoslavia e le conseguenti guerre, si sviluppa una notevole pubblicistica dal punto di vista storico e memorialistico intorno alle vicende dell’esodo istriano-dalmata e delle foibe, e il 10 febbraio 2005, in occasione del Giorno del Ricordo, istituito con la legge n. 92, 30 marzo 2004, la Rai trasmette in prima serata Il cuore nel pozzo, di Alberto Negrin, una miniserie (ambientata in Istria, ma girata a Tivat in Montenegro) sulla tragedia delle foibe e dell’esodo.
Cuori senza frontiere, uscito nel 1950, diretto da Luigi Zampa e interpretato da Raf Vallone, Gina Lollobrigida, Erno Crisa, Cesco Baseggio, Enzo Staiola, è ambientato in un piccolo paese del Carso goriziano diviso in due dalla “linea bianca”, la linea di frontiera fra Italia e Jugoslavia tracciata dalla Commissione Internazionale dei Territori creata in base al Trattato di Pace e agli accordi del 9 agosto 1947. La scena iniziale, con la panoramica del paese e la voce fuori campo che illustra sinteticamente la situazione, sembra tratta (come nel caso di altri film di quel periodo) da un cinegiornale. Entro mezzanotte gli abitanti devono scegliere se essere italiani o jugoslavi. Ma i bambini del paese non si rassegnano a quella forzata separazione e fanno sparire uno dei paletti di demarcazione. Ne nasce un forte clima di tensione tra le due parti che culmina in una sparatoria in cui uno dei bambini viene gravemente ferito. Nella generale commozione, le divisioni e le contrapposizioni sembrano per un momento essere superate e le guardie di frontiera lasciano passare il camion che porterà il bambino all’ospedale di Gorizia; ma la voce fuori campo spiega che egli morirà e che la linea bianca andrà oltre quel paese “… per nazioni intere su fino al nord, fino a dividere un continente dall’altro”. Luogo centrale del film è dunque un confine politico-militare, anzi la costruzione di un confine, con paletti, linee di demarcazione, filo spinato, cavalli di frisia, sbarre, guardie armate che dividono ciò che prima era unito. La vicenda di un piccolo paese, un microcosmo in cui la volontà di dividere che viene imposta dall’alto fa esplodere contrasti, disperazioni, risentimenti, minacce, diffidenze, incertezze, emozioni, passioni, crisi di identità e di appartenenza, diventa quindi metafora di una tragedia molto più vasta. Come racconta il critico cinematografico triestino Tullio Kezich, che fu segretario di produzione del film ed ebbe anche una piccola parte come tenente jugoslavo della Commissione Internazionale, il copione prese spunto da un tema di attualità: le immagini del cimitero di Gorizia diviso in due dal confine. Si decise però di girarlo (nel 1949) a Santa Croce, Monrupino e dintorni, un paesaggio carsico che sessant’anni fa appariva molto diverso da quello di oggi, uno scenario aspro e spoglio ed irto, molto adatto al rafforzamento della rappresentazione drammatica. Quali i motivi della scelta del Carso come location di Cuori senza frontiere, un film di budget contenuto che, come altri contemporanei, poteva essere girato prevalentemente in studio o nei dintorni di Roma? Nel 1949 siamo nel pieno della guerra fredda e nel vivo della questione di Trieste. In tale contesto il Carso (che, tra l’altro, era una location cinematografica inedita), già fissato nell’immaginario collettivo, e proprio con quelle connotazioni di paesaggio aspro e roccioso, come luogo della grande guerra patriottica, veniva ad assumere un alto valore simbolico. Un luogo fortemente evocativo, sacralizzato, che, trent’anni dopo, veniva violato e diviso da un rigido confine. (Messaggero Veneto, 8 febbraio 2010)

Articolo pubblicato in occasione della proiezione di Cuori senza frontiere al Cinema Teatro Sociale Gemona, mercoledì 10 febbraio 2010.
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Il set triestino di ''Cuori senza frontiere'' (Il Piccolo 14 ago)

Nell’era della mondializzazione può accadere che un film ambientato a Trieste venga girato a Buenos Aires. In passato la città, i suoi esterni, i suoi dintorni, divenivano indispensabili specie se la vicenda, per motivi politici o storici, o letterari, li sceglieva per il teatro dell’azione. Ne parlo per esperienza, essendo stato una volta indirettamente coinvolto, per essere precisamente nel 1949, quasi alla vigilia della mia definitiva partenza per Roma, quando arivò con la sua troupe Luigi Zampa, per girare nei pressi di Opicina ”La Linea Bianca”, che prima della uscita cambiò titolo e si chiamò ”Cuori senza frontiere”. La pellicola era prodotta da Carlo Ponti per la Jux Film, la società fondata nel 1934 da Riccardo Gualino, uomo d’affari torinese, che si distingueva per la sua grande cultura. Aveva dato vita a una compagnia di produzione e di distribuzione, che in tempo di guerra e nel dopoguerra rappresentò l’unica vera Major mai esistita nella storia del cinema italiano, una grande società privata, che avrebbe tenuto a battesimo autori quali Renato Castellani, Luigi Comencini e Giuseppe De Santis, e dato prestigio a registi già avviati come Riccardo Freda, Pietro Germi, Alberto Lattuada, lo scrittore Mario Soldati e, per l’appunto, Luigi Zampa.
”Cuori senza frontiere” trattava un tema di drammatica attualità: la laboriosa definizione della provvisoria linea di confine tra la Jugoslavia di Tito e la parte di Venezia Giulia sotto il Gma (Governo militare alleato), in attesa che il trattato di pace desse finalmente un assetto stabile alla nostra frontiera orientale. L’Italia era stata sconfitta e ciò la metteva in stato di grande inferiorità; a conti fatti senza voce in capitolo.
La situazione, all’aprirsi delle trattative, era in sostanza gestita dalle due «superpotenze», che nel frattempo erano entrate in conflitto tra di loro, la cosiddetta guerra fredda. Il confine con la Jugoslavia era divenuto un tratto della «cortina di ferro», che separava i paesi dell’Europa orientale, soggetti alla tutela sovietica, dai paesi dell’Europa occidentale, i quali non potevano muovere foglia senza il consenso degli Stati Uniti. Le due «superpotenze» avevano trovato una intesa, agendo senza troppi riguardi verso i due paesi confinanti. Si erano accordate tracciando una linea di confine, che in diversi punti attraversava al proprio interno città e villaggi, addirittura dividendo le abitazioni dai terreni di loro proprietà. La «Linea Bianca» del titolo originario, per l’appunto.
Prima di iniziare le riprese, si procedette alla preparazione, che vide impegnati sul posto il direttore di produzione, lo scenografo, il direttore della fotografia e i loro rispettivi assistenti. Il direttore di produzione, che lavorava per Carlo Ponti, era allora Bianca Lattuada, sorella del regista Alberto, la quale, appena giunta a Trieste, mi pregò di darle una mano risolvere alcuni problemi con le autorità locali. Personalmente non conoscenvo Bianca; ma ero amico di suo fratello, allora presidente della Cineteca italiana di Milano, la principale fornitrice di «classici» ai circoli del cinema, della cui fderazione ero divenuto il segretario generale. Per prima cosa coinvolsi a mia volta Tullio Kezich, il quale, collaborando alla conduzione della Sezione spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti, aveva avuto anche lui occasione di conoscere Alberto Lattuada, durante i nostri frequenti viaggi a Milano per allestire il programma del nostro circolo.
Per Tullio fu quella l’occasione di gettare le basi del secondo aspetto dell’attività in seno alla «macchina cinema», come produttore, oltre che come critico e autore.
Fu quello, se ricordo bene, l’ultimo incarico che ebbi a Trieste, prima di trasferirmi definitivamente a Roma: una divertente parentesi nell’attività quotidiana, che tra l’altro mi consentì di frequentare Gina Lollobrigida e Raf Vallone, i due protagonisti del film. La «Lollo» non era ancora giunta al culmine della popolarità, mentre Raf Vallone, ex calciatore del Torino, aveva appena debuttato in ”Riso amaro” di De Santis, troncando la carriera di giornalista iniziata nella edizione piemontese dell’«Unità». Anche Tullio e io ci prestammo un giorno a interpretare due piccoli ruoli. Erano tempi quelli, in cui i nostri registi non facevano caso al grado di professionalità degli attori. Tanto, col doppiaggio si rimediava a tutto. Le poche parole che dovevamo pronunciare erano oltretutto in slavo, poiché Tullio vestiva i panni di un partigiano di Tito e io quelli dell’ufficiale sovietico incaricato a tracciare con il parigrado inglese e americano la tormentata linea di confine. La parte di Tullio, se ricordo bene, era più impegnativa della mia. Me la cavai, ripetendo come una litania lo Svoboda Narodu, che, insieme a Smrt Fascismu apriva i programmi della radio titina.
Ogni tanto giungeva da Roma qualche regista per parlare con gli attori, e prenotarli per interpretare il loro film in corso di allestimento. Fu in quella occasione che conobbi di persona Giuseppe De Santis, il nostro regista e, prim’ancora, il nostro critico di culto, cioè da quando, in tempo di guerra, scriveva sul quindicinale «Cinema», il quindicinale diretto allora da Vittorio Mussolini, figlio del duce, che non s’accorgeva di tenere tante serpi in seno. Erano state proprio le convincenti recensioni di De Santis, in radicale contrasto con quelle dei critici ufficiali, a impartirmi, senza che me ne rendessi conto, le prime lezioni di antifascismo. Vallone aveva preso dimora in un albergo di Opicina e una sera ci invitò a cena in una trattoria del Carso, dicendo che gli sarebbe piaciuto conoscere qualche nostro amico. Di certo vennero Fulvio Anzelotti e Gianni Tamaro, ma non escludo che ci fossero anche Gianpaolo De Ferra, Giorgio Vidusso e qualcun altro ancora. Ricordo che bevemmo del terrano in tale abbondanza che alla fine eravamo tutti un po’ alticci. Ma non tanto da divertirci, quando uno di loro, versando l’ennesimo bicchiere al suo vicino di tavola, esclamò: «Dai, bevi! Tanto g’avemo el mona che paga!». Sperammo che Raf non avesse sentito, o perlomeno capito. E così è stato, prché altrimenti penso che la serata sarebbe finita in modo più imbarazzante.
Dal suo canto la Lollobrigida, che non era ancora la primadonna del nostro cinema, la «maggiorata fisica» di ”Altri tempi”, la «Bersagliera» dei ”Pane, amore...”, era ospitata a casa di Anna Gruber Benco, nipote della scrittore Silvio Benco, appena scomparso dopo avere dato alle stampe ”Contemplazione del disordine”, la sua ultima opera, probabilmente la più importante. Un’amicizia dovuta alla scoperta di essere state entrambe, nella loro infanzia, «amiche di Topolino».
Zampa aveva con sé due aiuti, uno era Bolognini, inadatto al ruolo. Piuttosto pasticcione, non passava giorno senza che combinasse un guaio. «Vedrai che Bolognini diventerà un regista di successo», mi disse Zampa, forte della sua esperienza. Profezia che puntualmente si avvrò. Bolognini infilò una serie di film graditi, sia alla critica che al pubblico.
Non ricordo quanto durò il tempo delle riprese. Certamente non più di due-tre mesi. Tuttavia, alla fine del secondo mese si respirava già aria di chiusura. Arrivò Carlo Ponti e si portò via metà della troupe dicendo che gli era necessaria per iniziare le riprese di un altro film. Così Zampa si trovò d’improvviso a doversi arrangiare con una troupe appena necessaria per girare un’opera prima a basso costo. Mai lo sentii protestare per il torto subìto da un produttore, che gli doveva molto grazie al successo dei film precedenti girati per lui. Se al posto suo ci fosse stato un regista prepotente, com’era già allora il giovane Giuseppe De Santis, le cose sarebbero andate diversamente. Pur avendo un ruolo quanto mai marginale, le riprese di ”Cuori senza frontiere” furono per me assai illuminanti sul mestiere del regista, quando deve far fronte alle pretese del produttore, e sui problemi che insorgono durante le riprese di un film.
CALLISTO COSULICH
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“... dopo la seconda guerra mondiale... il confine fu arretrato di una trentina di km fino ai sobborghi orientali della città [Gorizia], escludendo la linea ferroviaria transalpina con la   stazione di Montesanto e le frazioni di Salcano, San Pietro e Vertoiba. Il comune fu così ridotto a  due quinti del suo territorio e perdette il 15% della sua popolazione. ... oltre il confine gli      Jugoslavi fondavano la città gemella di Nova Gorica...”. 
AAVV, Friuli Venezia Giulia (Touring Club Italiano, 1982)

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La Venezia Giulia, come è noto, vive tra il 1945 e il 1948 una situazione di tragica incertezza, situazione che invece si protrae fino al 1954 per Trieste. Nel capoluogo del Friuli la guerra finirà solo allora, quando la popolazione avrà finalmente la certezza di poter tornare sotto l’amministrazione italiana e potrà considerare scongiurato il pericolo di divenire parte della Jugoslavia di Tito. 
Furono anni luttuosi nei quali le forze di occupazione slovene e croate si abbandonarono a ogni genere di vendetta, strage, pulizia etnica, infoibamento e quant’altro. In particolare nel maggio- giugno 1945, durante i tristemente famosi quaranta giorni di occupazione di Trieste e Gorizia, le truppe titine massacrarono migliaia di civili a vario titolo (ex fascisti, aderenti ai partiti italiani, carabinieri, poliziotti e componenti della GdF) per potere spezzare la resistenza della popolazione nei confronti dei nuovi occupanti. 
Purtroppo nel periodo 1945-48 le truppe jugoslave, protette da Stalin, trovarono completo appoggio nella sciagurata politica antiitaliana del partito comunista di Togliatti il quale si adoperò fattivamente per favorire il passaggio di Trieste agli slavi. 
Questa materia drammatica e scottante, ancora in piena evoluzione nel 1950, viene trattata con indecente leggerezza ed evidente faziosità da Luigi Zampa nel mediocrissimo Cuori senza frontiere (settembre 1950; 90 min.), pellicola prodotta dalla solita Lux e sceneggiata da Piero Tellini e Stefano Terra. Vi si racconta di un immaginario picolo paese che viene spaccato in due dalla linea Morgan (la linea del confine provvisorio, stabilito da una commissione interalleata che divise la zona A amministrata dagli angloamericani, dalla zona B abbandonata - seppur provvisoriamente - alla Jugoslavia). Il riferimento palese è ovviamente a Gorizia, che venne realmente divisa in due città autonome (nasceva allora Nova Gorica). 
Regista e sceneggiatori trattano la materia con il piglio leggero della commedia quasi umoristica, per poi virare bruscamente nelle ultime sequenze verso un dramma cupo e strappalacrime che culmina nella morte del piccolo Pasqualino (Enzo Stajola, già protagonsita di Ladri di biciclette). Senza troppa fantasia gli autori raccontano delle problematiche tipiche di una popolazione spaccata in due dall’oggi al domani da un confine artificioso; raccontano di bambini divisi che si lanciano pietre “lungo il confine”; del solito triangolo amoroso - mai così superficialmente abbozzato - tra uno scampato alle persecuzioni comuniste (Raf Vallone), un fiero comunista di origini slave e una bamboleggiante e ottusa Donata (Gina Lollobrigida; basti dire che in una sequenza promette amore eterno a Vallone e in quella successiva varca la frontiera slava - con la famiglia - per ricongiungersi al precedente fidanzato... ); raccontano infine dei sacerdoti cacciati dalla zona comunista, dei piccoli furti e delle liti continue che avvengno lungo il confine e lasciano largo spazio al gruppo di bambini ai quali vengono affidati deliranti e del tutto inappropriati dialoghi sulle questioni sociopolitiche derivanti dalla divisione del paesino (in un’atmosfera di fastidiosa inverosimiglianza).
La pellicola è scadente da qualunque punto la si voglia considerare. Ciò che più la rende insopportabile, consiste però nel fatto di avere propinato agli Italiani una visione semirosea di un gravissimo problema nazionale, inventando la presenza di una sostanziosa parte (nel racconto sembra essere la metà esatta della popolazione) che preferisce passare in Jugoslavia, in omaggio alla propria fede comunista. Questo clima da Peppone e Don Camillo (i libri di Guareschi sono già stati editi) è profondamente manipolatorio nei confronti della realtà storica. In quelle zone gli slavi erano una minoranza e anche gli strati italiani filocomunsiti divennero presto poca cosa di fronte alle crudeltà titine e al taglio meramente nazionalistico che andava assumendo l’annesione della Venezia Giulia. Basti dire che nelle elezioni comunali triestine del 1949 i partiti filo slavi raccolgono poche migliaia di voti rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione la quale, pur votando per differenti partiti, si schiera compattamente nel fronte italiano. Questo voler addolcire lo scontro e voler mostrare entro un’aura di sostanziale simpatia il mondo comunista slavo, arricchito da un foltissimo  umero di “entusiasti” Italiani, è una menzogna politica grave. Tanto più che nel 1950 non solo erano note le crudeltà del 1945 (gli infoibamenti innanzitutto), ma era perfino noto che gli sfortunati comunisti italiani che avevano fatto l’errore di passare dall’altra parte nell’epoca staliniana della Jugoslavia, ora si trovavano in larga parte nei lager, controllati con sospetto come simpatizzanti di una potenza (l’URSS) di colpo divenuta nemica. 
Con il film di Zampa siamo insomma di fronte alla consueta ambiguità dei settori massonici piemontesi: la Lux Film porta avanti una politica di fraterna simpatia con le forze comuniste, pur cercando di distinguersi da esse. Si veda tra l’altro con quanta antipatia vengono descritti i politici nazionalisti italiani che giungono nel paesino per fornire un sostegno attivo in una fase tanto delicata: gli autori, tanto comprensivi con i comunisti italiani passati con la Jugoslavia, li ritraggono come un gruppo di ciarlatani e di mestatori, interessati a strumentalizzare le disgrazie degli abitanti locali. 
Insomma la Lux porta avanti in ambito filmico la stessa ambigua politica editoriale della torinese Einaudi, la quale pubblicherà addirittura i testi di Gramsci e la storia del Partito comunista italiano (in cinque ponderosi volumi) redatta da Paolo Spriano, storico ufficiale del partito di Togliatti (una storia, tra l’altro, in cui, neppure una volta, vengono citati i quotidiani rapporti che legavano strettamente i dirigenti comunisti e l’ambasciatore sovietico a Roma... ). Einaudi e Lux prendono appena le distanze dal totalitarismo sovietico e non esitano a offrire il loro concreto e prestigioso contributo alla causa del PCI le cui origini, tra l’altro, si intersecano con la storia della città di Torino (dove operarono Gramsci e Togliatti). Il falsificante film di Zampa si inserisce a pieno titolo in questo atteggiamento di ambiguità politica dei settori “colti” della città piemontese. 
La critica militante nicchia di fronte a questa favoletta edulcorata e parla in genere di sproporzione tra argomento e realizzazione. In ogni caso non ricopre di insulti il lavoro come aveva fatto invece con l’ottimo film di Bonnard dedicato a Pola ovvero La città dolente (1949; vedi) nel quale la tragedia dell’esodo veniva affrontata senza infingimenti. Per certi versi si può perfino pensare che questo filmetto complessivamente rassicurante (un bambino muore, è vero, ma si ricordi che si è trattato solo di un incidente di fronte al quale le due fazioni in lotta ritrovano addirittura un’inaspettata sintonia) sia stato girato proprio con l’intento di contrastare la pellicola di Bonnard e altre possibili iniziative culturali di matrice anticomunista che avessero per argomento il delicato tema dei confini orientali. 
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Che il realismo fosse già presente nella cultura italiana dai tempi del verismo di Verga ci sono pochi dubbi, per quanto la realtà popolare fosse già stata protagonista nella pittura, nell’opera lirica, nel teatro e nel romanzo. Ma dalla metà degli anni Quaranta ai Cinquanta il cinema si fa portavoce di problemi nazionali ed inaugura un nuovo stile, che, senza falsa retorica, rinnovato nei contenuti e nella tecnica, farà scuola.
Il Neorealismo viene consacrato a livello internazionale nel 1946, quando  il festival di  Cannes  conferisce  il premio  Gran  Giuria  a  Roma  città  aperta  di  Roberto  Rossellini, una delle prime opere del cinema di Liberazione che ha avuto il coraggio di sostenere la guerra partigiana contro il fascismo e la dittatura.
Non solo: il filone non è mera propaganda politica, come poteva essere stata quella mussoliniana, ma reagisce al mondo patinato dei telefoni bianchi filmando la vita popolare semplice e quotidiana nelle cosiddette “esterne”, usando immagini spoglie che non avessero particolari effetti tecnici, facendo recitare accanto agli attori professionisti  anche  i  non  professionisti,  dando  così  spazio  a  nuovi  tipi  di improvvisazione.
I film di Rossellini (Paisà-1946), Vittorio de Sica ( Umberto D., Sciuscià-1946, Ladri di  biciclette-1948),  Giuseppe  de  Santis  (Riso  Amaro-1949)  e  Luchino  Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Senso) in modo diverso ed originale recuperano le tematiche nazionali di una certa rilevanza mescolandole ad un forte senso per il melodramma e per il gusto dello spettacolo, nel caso specifico di Visconti, senza però tradire mai un
forte impegno sociale nel descrivere e riportare l’amarezza e la difficoltà della vita reale.
Nel 1950 Luigi Zampa, lo stesso che anni più tardi girerà il medico della mutua (1968) o Bello Onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) firma la regia di Cuori senza Frontiere, un film che affronta il dramma di un paese di campagna diviso tra Italia e Jugoslavia, raccontando l’assurdità della demarcazione della linea di confine e le conseguenze che la popolazione subì.
Nel cast  una giovanissima e doppiatissima Gina Lollobrigida (Donata), Raf Vallone (Domenico), Cesco Baseggio (Giovani Sebastian, padre di Donata e di Pasqualino) e i due futuri critici cinematografici Calisto Cosulich e Tullio Kezich, rispettivamente nel ruolo di un ufficiale sovietico e di un tenente jugoslavo.
Proprio dalla testimonianza di quest’ultimo, che è anche segretario di produzione, si evince che il film originariamente intitolato La linea bianca prende spunto da un tema d’attualità, ispirato probabilmente dall’immagine del cimitero di Gorizia divisa in due dopo la divisione dei confini, in seguito all’assemblea dell’Onu del 9 agosto 1947.
Proprio in questo paesino, presumibilmente del Carso goriziano, arriva un giorno la Commissione internazionale che deve delimitare i territori confinanti. 
Soldati di ogni nazionalità scendono dai camion, scaricano i paletti e il filo spinato, tracciano la netta linea bianca di demarcazione così come stabilito sulla carta, attraversano campi, cimiteri, chiese, e addirittura un campo da bocce.
Il sindaco con la voce strozzata dalla commozione avvisa i cittadini che da quel giorno in poi, in base a quella linea fresca di vernice, a occidente sarà repubblica italiana a oriente repubblica jugoslava. Ciascuno ha  tempo entro mezzanotte per scegliere con chi stare, dopodiché la zona verrà presidiata dai soldati che, armati di mitra, sono autorizzati a sparare a chiunque oltrepassi il confine.
Il paese ne viene distrutto psicologicamente e territorialmente: i bambini, protagonisti fin da subito in una serie di primi piani che fungono da presentazione allo spettatore, non possono più giocare sulla collina perché è stata divisa in due, il contadino non può   vendere il toro perché il mercato è rimasto fuori dal confine, al prete hanno diviso l’oratorio dalla chiesa, a Giovanni Sebastian, padre di Pasqualino, uno dei bimbi che vediamo giocare nelle prime sequenze del film, e di Donata, è disperato perché gli resta la casa ma non il campo da coltivare.
Le famiglie, in poche ore, devono decidere il da farsi e il proprio destino, qualcuno lo fa  senza  il  minimo  dubbio,  come  il  fidanzato  segreto  di  Donata,  Stefano  che, sostenuto dalla sua fede politica, decide immediatamente di attraversare il confine e cerca di convincere il futuro suocero, ancora riluttante, a fare altrettanto.
Passa la mezzanotte e il giorno successivo, mentre Giovanni valuta ancora la propria scelta, Pasqualino portando la mucca al pascolo scorge un uomo ferito al di là del confine. E’ il primo profugo, il primo clandestino, della Storia e del film,  Domenico, che il bambino con l’aiuto della sorella porta subito in salvo nella loro casa.
Nella fretta della situazione perdono di vista la vacca, che, inconsapevolmente, attraversa definitivamente il confine, lasciandosi prendere dai soldati jugoslavi, che li ammoniscono per aver salvato un profugo e si accaparrano la bestia come fosse una sorta di ricompensa.
Il ritrovo di Domenico vale a Donata un nuovo amore clandestino e alla famiglia Sebastian una fotografia come baluardo dell’italianità, ma i problemi sono altri, il campo di Giovanni ormai è di qualcun altro e anche la vacca che era fonte del loro sostentamento è andata perduta. Decide così di attraversare il confine con i suo cari aiutato da Stefano, per recuperare e cose perse e per poter garantire un nuovo futuro alla propria famiglia.
L’unico che subisce in modo più diretto ed immediato l’onta di essere diventato “un traditore” è senza dubbio il bambino, Pasqualino, deriso e mortificato dagli altri ragazzini che non lo accettano né da parte slovena né da parte italiana.
Solamente quando Stefano, con un colpo di testa, annuncia in casa Sebastian, a sorpresa, il suo matrimonio con una sbigottita Donata, anche i bambini, capeggiati dal fratello minore di lui, lo riconosceranno finalmente come uno di loro, facente parte della stessa famiglia.
Così Pasqualino entra a far parte dell’“altra” banda: i ragazzini, gelosi e indispettiti dalla situazione che stanno vivendo, non riescono a far altro che sfogarsi l’uno contro il gruppo dell’altro, riconoscendo nella differenza d’identità l’unico motivo valido di scontro. Ma un sasso lanciato vicino all’occhio di Pasqualino e il rischio di fargli del male per davvero li fa ridimensionare e ragionare su quanto sta accadendo.
Nella logica lineare e coerente dei bambini, la miglior cosa, individuato il problema è eliminarlo alla radice per non doverlo più riconoscere né farci i conti. 
Dal momento che nessuno li può vedere perché il luogo è impervio e lontano dal paese, sconfinano e gettano dalla rupe uno dei paletti che demarca le zone di confine.
Non immaginano nemmeno le conseguenze: i Grandi, divisi nelle due fazioni, italiana e slovena temendo che sia un tentativo per modificare i confini e rubare la terra si accusano l’un l’altro, e chiedono di rimettere al suo posto il paletto entro un orario stabilito.
Il clima è tesissimo, nessuno sospetta che siano stati i ragazzini e Pasqualino, che si sente in colpa per quanto accaduto, d’accordo con gli altri bambini recupera il paletto all’imbrunire, caricandoselo sulla schiena con l’intenzione di rimetterlo al suo posto. Contemporaneamente, nel paese, Domenico ha scavalcato il confine per riprendersi Donata e portarla via con sé, ma Stefano li sorprende e con il mitra in mano cerca di uccidere il rivale. Nella confusione e tensione generale agli spari dei due seguono gli spari al confine, Pasqualino, ingobbito dal peso del legno come se fosse in una Via Crucis, viene ferito e cade a terra. Donata accorre, recupera il corpo accorgendosi che il  fratello  respira  a  fatica,  lo  riporta  in  casa,  ma  il  medico,  scuotendo  la  testa sconsolato, suggerisce di portarlo subito all’ospedale.
Mentre il climax drammatico s’intensifica, la famiglia Sebastian, di fronte all’intero paese e alle guardie attonite, caricato il bambino su un camion, attraversa il confine, ma è troppo tardi e la voce fuori campo che ha accompagnato molte sequenze del film, ci annuncia la morte di Pasqualino e l’inesorabile linea bianca che resterà per sempre, non solo a dividere in due il paese ma un continente intero.
Palese il collegamento alla Guerra fredda, che ci era già stato suggerito da alcune scelte un po’ manichee del film, quali ad esempio quelle di tingere di biondo i bambini e gli attori che impersonificano gli sloveni, lasciando mori gli italiani.
Il film fu girato dopo lo scisma di Tito, che nel 1948 provocò la sospensione da parte dell’Urss di qualsiasi collaborazione economica con la Jugoslavia e la definitiva condanna con l’accusa di Deviazionismo e  di intesa segreta con gli imperialisti.
Con l’esclusione dalla Cominform, la dirigenza juogoslava cominciò a sperimentare una politica estera autonoma basata sull’equidistanza tra i due blocchi, ma si inasprirono i rapporti tra sloveni e croati da un lato e minoranze italiane dall’altro.
La percezione per gli emigrati e dei profughi della linea di frontiera, in questi anni è duplice. Dall’Italia verso la Francia il cammino si apre proprio come cammino della speranza (ricordiamo Fuga in Francia di Mario Soldati, del 1948e ancora con Raf Vallone il film di Germi, del 1950, Il cammino della speranza) verso una terra promessa  dove  fuggire  e  ritrovare  la  libertà  perduta,  dall’altra  parte  verso  la Jugoslavia si chiude, percepita solo come meta che i profughi italiani in Istria cercano di varcare per ricongiungersi alla madrepatria.
Il film parte da presupposti reali, basti pensare che il protagonista dell’intera pellicola è la linea bianca, il confine appunto, perno materiale e simbolico di tutta la storia. 
È  uno  dei  rari  film  in  cui  il  confine viene  visto  e  guardato. Si  vede  come  lo costruivano e misuravano, si vedono i paletti, la vernice bianca pitturata al suolo, il filo spinato. Sicuramente in questo la realtà è stata rispettata, anzi fin dall’inizio del film, la prima macro-sequenza che descrive il paese, non ha nulla da invidiare ai cinegiornali dell’epoca.
Anche la scelta scenografica è una scelta realistica, le riprese infatti non da studi di Cinecittà, ma per la maggioranza, e per gli esterni, da sfondo al film è il Carso triestino, nella zona che va da Santa Croce e Monrupino e gli stessi bambini, attori non professionisti, sono stati scelti, come si faceva all’epoca, un po’ per la strada un po’ attori del luogo, se si nota hanno uno spiccato accento dialettale, a marcare e sottolineare la verosimiglianza della zona di cui si sta parlando nell’intera pellicola.
Si deduce quindi che i presupposti realistici ci siano, ma il film non può essere considerato un film neorealista tout court e si dubita anche che questa fosse stata la volontà del regista e della sceneggiatura stessa.
Il titolo è emblematico, allude ai cuori del bambini, che innocenti non capiscono il motivo di tanta agitazione attorno al problema del confine, ma vivono forse più di altri il dramma del distacco e della separazione oppure allude ai cuori del triangolo amoroso di Donata, Stefano e Domenico?
Non lo sapremo mai, ma quale che sia la risposta, il sapore melodrammatico del film impregna numerose sequenze e  dialoghi impedendo alla  trama  di decollare  e  di convincere appieno lo spettatore. La scelta stessa di modificare il titolo del film, da La linea Bianca a Cuori senza frontiere denota un cambiamento di registro che non va trascurato. Da un protagonista “fisico” come un confine di stato, che avrebbe potuto far molto discutere e che sarebbe potuto essere motivo di realismo quasi documentaristico si passa a un titolo dal sapore melò se non melenso.
E’ chiaro e palese che i costumi cambiano e che riguardare una pellicola sessant’anni dopo può far sorridere chi non sa come le questioni sociali e familiari venissero gestite all’epoca. Ma una vera opera d’arte resta perenne e immutata negli anni.
Il dramma di un film neorealista sia per la scarnità del suo racconto che per la verità che esso cela non si smentisce mai.
Un film, come questo che si nutre di dialoghi un po’ troppo teatrali e melodrammatici o che manifesta le emozioni dei protagonisti solo con un riduttivo gioco di sguardi degne di un fotoromanzo non può essere annoverato, se non per il  coraggio di affrontare il tema del confine italo-jugoslavo, spesso bistrattato, in un film da ricordare.

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