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lunes, 12 de agosto de 2013

Maledetti vi amerò - Marco Tullio Giordana (1980)


TITULO ORIGINAL Maledetti vi amerò
AÑO 1980
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 84 min.
DIRECCION Marco Tullio Giordana
GUION Vincenzo Caretti, Marco Tullio Giordana
FOTOGRAFIA Pino Pinori
MUSICA Franco Bormi
MONTAJE Sergio Nuti
PRODUCCION Soc. Coop. Jean Vigo R.L. - Film Alpha S.P.A./Raidue
INTERPRETES Flavio Bucci (Riccardo), Agnes De Nobecourt (Guya), Stefano Manca (Carlino), Anna Miserocchi (la madre), Alfredo Pea (Vincenzo), Biagio Pelligra (il commissario), Micaela Pignatelli Cendali (Letizia), David Riondino (Beniamino)
GENERO Drama
SINOPSIS Rientrato in Italia dopo cinque anni di assenza, Svitol comincia un viaggio attraverso la memoria collettiva della generazione che aveva vent'anni nel 1968. Ne uccide più la depressione che la repressione. (Film Scoop)

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Trama:
Riccardo, detto "Svitol", nel '68 era un ventenne e fervente "compagno". Nel 72, però, era esulato nell'America Latina alla ricerca di idee e di futuro. Tornato in Italia a Milano, cinque anni dopo, non possedeva più né denaro né passaporto. Alla mamma che gli chiedeva: "allora, com'è questo Sud America?", non riusciva a rispondere. Un commissario di polizia, del quale diverrà in certo qual modo amico, gli dichiara: "Non sta più in piedi nemmeno una delle tue fottutissime opinioni". Riccardo allora si mette a vagare attraverso la metropoli lombarda, alla ricerca degli amici e compagni, nonché alla scoperta dell'Italia nuova. Ma gli amici sono irriconoscibili: uno muore per droga, un altro è divenuto milionario grazie a fortunate operazioni in Borsa, altri vivacchiano mediante piccoli commerci. L'Italia postsessantottesca è in piena dissoluzione: i giovani rivoluzionari hanno spianato la strada all'eversione e alla criminalità politica; si trovano sulla coscienza i cadaveri scomodi di Moro e di Pasolini anzi, quasi ogni giorno, debbono contare su di una vittima più o meno illustre del brigatismo di vario colore. Lo scoraggiamento è nell'animo di tutti e pare avere coinvolto persino le cose. Un altro amico, redattore di "'Lotta continua", gli dichiara: "dei compagni ne uccide di più la depressione che la repressione": Svitol non riconosce più nulla e non ritrova se stesso. Del tutto abbattuto moralmente, denuncia all'amico commissario un attentato presso i Santi Giovanni e Paolo di Roma e, dopo una peregrinazione a luoghi deputati (via Caetani, piazza del Gesù e via Botteghe Oscure), si fa trovare all'alba nella piazza deserta ove, con premeditata messa in scena, si fa uccidere dal commissario.

Critica 1:
Si parlerà di '68 in questa scheda e allora, per evitare equivoci, varrà la pena che chi scrive chiarisca brevemente che cosa intende con questo numero cabalistico. Intanto il '68 non è un anno ma quasi un decennio; non è una festa primaverile troppo prolungata ma l'avvio di un momento di riflessione sui vari ruoli e sui rapporti che tra essi intercorrono; non è una rivoluzione (fallita) ma l'avvio di un processo di mutamento che nonostante le apparenze - continua e che - nonostante le reazioni - potrebbe anche essere considerato inarrestabile; non è il folklore dei pochi che subito dimenticano e si volgono ad altri folklori ma l'inizio di una serie di lacerazioni dolorose quanto benefiche e drammatiche quanto vitali; non è la partecipazione ad atti ed eventi emblematici ma la conseguenza che quegli atti e quegli eventi hanno provocato proprio fra i non partecipanti (individui o strati) o fra i partecipanti marginali; non è ciò che oggi è facile negare ma ciò che da sempre ogni sussulto incide nella coscienza e nella memoria collettiva. Intorno, come sempre, sta il coro rabbioso dei detentori dei potere: ammutoliti per un istante, capaci subito di tornare a ringhiare, pronti a cogliere a loro favore ogni minimo sbandamento, soprattutto disposti a balzare sulla preda quando il banchetto non sia più contrastato e la normalità - questa sì, sanguinosa - sia tornata a regnare, infine abilissimi nel levare il loro latrato quando il pericolo sia svanito e l'avversario si sia disperso da solo.
Riflessioni banali ma forse non dei tutto inutili, specie se nascono - oltre che in relazione a una situazione generale - in rapporto a un momento particolare, quello appunto rappresentato dall'esistenza di un film come Maledetti vi amerò, dalla sua genesi e dalla sua sostanza, dall'accoglienza di critica e di pubblico a esso riservata, dalla ripresa (ora gaglioffa, ora pavida, ora sinceramente autocritica e propositiva) di un discorso sul '68. Quest'ultimo, seppellito frettolosamente e maldestramente un paio d'anni fa - e con un cinismo e uno spirito mercantilistico che fecero meditare - da alcuni dei suoi stessi promotori e interpreti, torna a galla, o meglio conosce una nuova fase di analisi e di ripensamento, proprio grazie all'opera prima di Marco Tullio Giordana.
Il rapporto è diretto (ma non, per fortuna, nel senso in cui l'intende Luigi Comencini con il suo Voltati Eugenio), il modo esplicito (in termini impliciti esiste il felicissimo, quanto arduo da decrittare, precedente di Chiedo asilo), le radici profonde (a differenza di quanto si verificava nel più settantasette Ecce Bombo di Nanni Moretti), anche se si potrebbe altrettanto ragionevolmente sostenere che Maledetti vi amerò è più un film sulla memoria della giovinezza e sulla transizione d giovinezza alla “maturità” che non un film sul '68 tout court. Ancora un'affermazione. Assieme a Immacolata e Concetta (non a caso laureato a Locarno nel 1979 come Maledetti vi amerò lo è stato quest'anno dopo essere transitato da Cannes) il film di Giordana costituisce l'unico esordio del biennio che assuma rilevanza e autenticità. Se ne sono accorti un po' tutti, ciascuno a suo modo, come dire che non è molto, ogni senso. Non è molto perché i risultati sono perfettibili, esitazioni ancora tante, le difficoltà - alcune derivanti da problemi di produzione e/o distribuzione - palesi. Non è molto anche perché i film che piacciono e convincono in più direzioni, che godono al tempo stesso di una sorta di elasticità e capacità di assorbire gli urti, o recano in sé in germe il baco del prodotto “furbo” o fanno di certa loro gracilità l'arma più forte per ottenere la tenerezza del consenso (e questo è capitato - a un livello secondo e inferiore - anche al Maurizio Nichetti di Ratataplan). Ma veniamo ai fatti. (...)
La vicenda dei film muove da una finzione metaforica (la lunga quanto improbabile “assenza” di un giovane sessantottino, Riccardo detto Svitòl, dal teatro degli avvenimenti politici, sociali e di costume dei nostro paese) e si sviluppa su tre piani alternati: il crudo impatto con la realtà del vecchio - nuovo potere e dei guasti un po' da tutti operati; la ricostruzione, ora con stupore ora con rabbia, di eventi non vissuti e delle conseguenze che a tali eventi si sono volute imporre; il percorso della memoria, sia per ritrovare le proprie radici sia per comprendere dove stia andando il mondo (e a esso offrire, sempre a livello di finzione metaforica, una disperata quanto provocatoria risposta). L'“assente” Svitòl non tarda a connotarsi come l'unico “presente”: profondamente solo, osservatore spesso disincantato, interlocutore silenzioso di ex amici o di ex nemici troppo colloquianti, animatore ironico e un tantino ingenuo di situazioni che lungi dal decantarsi si sono vieppiù intorpidite e immalinconite, spettatore di lugubri celebrazioni o di lerci ripiegamenti. Inesistente la famiglia (cui istintivamente ritorna ma che incruentemente subito abbandona), fragilissima la possibilità di allacciare o di riallacciare una relazione erotico-sentimentale (anche la donna è praticamente “assente” da tutto il contesto: v'è solo il bellissimo personaggio della bambina, testimone e tramite), restano i rapporti da una parte con i compagni, dall'altra con l'avversario di sempre.
Quest'ultimo, impersonato da un astratto commissario di polizia, compare sin dalla prima immagine, sotto il fascio di luce di una lampada dietro un anonimo tavolo di questura, riappare lungo tutto il percorso nelle circostanze più significative e nei luoghi più emblematici (una fabbrica abbandonata, una saletta di cineteca), ha in mano addirittura il finale: complice, esecutore e vittima di una macchinazione pur sempre metaforica ma che viene posta in scena sui luoghi dei reale (nella fattispecie quelli che videro la conclusione dell'affaire Moro). Il commissario, singolarmente (ma non si tratta di un ripiegamento: cerchiamo di dimenticare sia i film poliziotteschi sia i film politici falso-impegnati), scandisce i momenti determinanti della riflessione, assume quasi il ruolo di una coscienza critica: con il potere i conti bisogna pur farli e a nessuno come a chi rappresenta il potere è più agevole spiegare le proprie mosse, le proprie certezze e le proprie esitazioni (non ci si comprenderà, ma la logica che guida chi agisce, sui due fronti, è la medesima). E poi, quando la determinazione è quella dei perdente (che vuole vincere a ogni costo, persino a costo della propria autosoppressione), occorre innestare il meccanismo adeguato, e solo dai tardi riflessi dei potere è possibile ottenere udienza: specie se, momentaneamente accantonata la volta di classe, si può condurre il gioco unicamente in termini di “provocazione”, di un far-parlare-di-sè che sia al tempo tesso nemesi, sacrificio e innesco di una nuova agitazione.
Finalizzando tutto il film alla sua conclusione (che, del resto, è implicita sin dall'inizio), non solo ci si libera della supposta “equivocità” politica attribuita al rapporto Svitòl-commissario, non solo si sottende semmai una larvata “equivocità” interpersonale (che Giordana, da sue dichiarazioni, avrebbe in un primo momento persino voluto spingere sino al sospetto omosessuale), ma soprattutto si è in grado di comprendere quando il film medesimo costituisca un contributo al viaggio nella memoria collettiva di una generazione e dintorni e quanto esso acquisti e consenta di acquistare in termini di “autenticità” non-realistica. Allora il commissario è anche lo stimolo a comunque agire in una società dell'inazione, dell'indifferenza, della rinuncia; è il polo (non peggiore di altri) da cui si diparte lo scontro; proprio perché non peggiore di altri (ma sempre altro-da-sè) è colui che va coinvolto e rovinato. Che assassinio-suicidio finale significhi per il poliziotto un premio oppure una punizione, non conta: conta il caso di coscienza; che il giorno dopo la stampa possa parlare della soppressione di un pericoloso terrorista colto in flagrante o che invece debba parlare dell'ennesimo ed evitabile “incidente sul lavoro” della repressione, non conta: conta, comunque, il caso.
caso è ciò che aggrega anche i ritrovati quanto disparati compagni, l'incontro con i quali punteggia non più il percorso dinamico bensì il percorso statico dei film: una serie di stazioni, di “luoghi deputati”, di situazioni ormai stagnanti e semplicemente riproducenti se stesse. L'ultima Utopia (ma vi sono tracce anche di quella precedente: l'antifascismo resistenziale e i suoi miti) ha creato e ora stancamente perpetua una serie di strutture (il giornale extraparlamentare, la boutique alternativa), possiede i suoi monumenti (la fabbrica, certe strade, la Statale), conosce i suoi riti di accumulazione ludica e di collezionismo stravagante e irreverente, ha liberato - senza poi più riuscire a contenerne le conseguenze, anzi talora pagandole in prima persona - una serie di cose costrette (dalla coppia alla maternità, dal femminismo alla lotta violenta, dall'omosessualità alla droga). Svitòl le frequenta e vi si confronta, ma il panorama è ormai irrimediabilmente sconsolante, quando non tragico, quando non grottesco: la droga picchia pesantemente, i nuovi compagni picchiano indifferentemente, a cronaca picchia metodicamente; pare persino che la violenza esercitata da tutti e su tutti possa accomunare Moro e Pasolini, terroristi e magistrati, neri e rossi; tutti sono stanchi, anche i luoghi e gli oggetti. Il binomio delusione - illusione è tornato a essere il binomio illusione - delusione; le case - bene in cui non si era “invitati a merenda dai compagni di scuola” e dove, poi, “si è entrati nel '68 a scopare la sorella o a preparare occupazioni coi fratello minore” sono tornate a essere ostili o impenetrabili; gli “omologati” sono sempre più omologati e i “disadattati” sempre più disadattati. Non resta che il “gesto”, più o meno esemplare, dopo di che tutti - si presume i personaggi, si pensa agli spettatori - si ritroveranno più maturi, più vecchi, taluni più felici per aver rimosso il passato, talaltri ancor più disperati per averlo definitivamente perso.
E a proposito di pratiche narrative - forse è curioso - viene in mente Gide, il Gide profeta di certe correnti di pensiero antiautoritario e antirepressivo che Giordana si suppone abbia letto, per esempio quello de Le segrete del Vaticano. Sfogliandone una vecchia traduzione Rizzoli (1955), si colgono dalla prefazione di Oreste Del Buono alcune annotazioni che ben si attagliano anche a Maledetti vi amerò: l'una relativa al protagonista, che “avrebbe dovuto opporsi alle manie, cercare d'esser libero, di respingere lontana da sé l'imbecillità generale” mentre, “alla fine, non riesce a primeggiare sull'imbecillità degli altri e, in compenso, l'imbecillità degli altri non risulta così schematica, arida come ci si poteva aspettare”; l'altra relativa al testo che “non è scritto in un solo stile: satira, appendice poliziesca, romanzo effettivo, è un'arlecchinata di
stili. Ogni personaggio possiede il suo, come una sua musica, una sua fanfara particolare. Le frasi sono brevi o lunghe secondo i caratteri, secondo i caratteri ricorrono certe parole o altre, secondo i caratteri sono tentati certi accostamenti o altri, secondo i caratteri il tono cambia. La partecipazione dell'autore si modifica secondo i personaggi che egli tratta: la cauta neutralità si alterna al colore più acceso. E, tra uno stile e l'altro, egli ha instaurato accordi sottili, legami leggeri ma convincenti che basterebbero a provare la sua abilità. insomma, questa “farsa” possiede una complessità, una profondità ragguardevoli, e si capisce come l'autore abbia penato nella stesura, in questa ambiziosissima prova non meno d'abilità tecnica che di conoscenza e comprensione umana”. Ovviamente, troppa grazia Marco Tullio (l'abilità tecnica è di là da venire, anche se può venire; la conoscenza e la comprensione umana appaiono ancora acerbe), ma in quanto a pratiche narrative non vi sono dubbi e la “farsa” è farsa proprio in quella accezione.
Autore critica: Lorenzo Pellizzari
Fonte critica Cineforum n. 199

Critica 2:
Discusso e apprezzato a Cannes, premiato a Locarno, invitato a San Francisco, questo film dell'esordiente Giordana è destinato a suscitare curiosità e interesse all'estero per il suo approccio disperato (qua e là perfino piagnucoloso) a certi aspetti del "caso italiano". Da noi rischia di fare meno strada, viste le scarse simpatie di cui godono generalmente coloro che non si danno pace perchè non sono riusciti a fare la rivoluzione. (...) Nell'insieme un film generazionale"velleitario, d'ispirazione tetra, ma ben costruito: il giovane regista, insomma, ha le qualità per andare avanti e fare meglio. Nella guida degli attori, poi, rivela già molta sicurezza.
Autore critica: Paolo Fabrizi
Fonte critica: Il Settimanale

Maledetti Vi Amerò: ne ammazza più la depressione, che la repressione  
Francesca Mautino
   
Nel 1980, Marco Tullio Giordana, al suo esordio come regista, gira il film Maledetti vi amerò, ambientandolo nel 1978, poco dopo l'uccisione di Aldo Moro, lo spartiacque degli eventi, che, a discapito di chi quella morte l'ha effettivamente provocata, ha portato all'annientamento ed eliminazione di qualsiasi forma di protesta, verso un allineamento progressivo delle coscienze. Riccardo, detto Svitol (interpretato da Flavio Bucci), ritorna in Italia dopo cinque anni di esilio in Venezuela. È un “compagno”, uno che, come si usa dire, “ha fatto il '68” ed è stato costretto a scappare per evitare una denuncia per rissa che, scoprirà, non è mai nemmeno stata emessa. Svitol è un astronauta che torna sulla terra dopo essersi perso in un buco nero e scopre che il tempo ha davvero cambiato le cose, che le conseguenze delle azioni si fanno sentire e la paura ha preso il sopravvento. Le lotte, le proteste, la rivoluzione cercata dai compagni del '68 non sono servite a nulla: solamente un gioco finito male.
Ancor prima dei titoli di testa, vediamo Svitol aggirarsi in una fabbrica abbandonata, tra i macchinari fermi. Balla e batte le mani come si faceva per accompagnare i cori nelle manifestazioni e celebra così un mondo passato, ormai in rovina. Il suo richiamo, “Classe!”, rimbomba tra le mura vuote, mentre abbandona le inquadrature e lo sguardo si sofferma sulle macchine, sui muri scrostati e sull'assenza di persone: i luoghi assumono importanza se noi diamo a essi importanza, e la fabbrica, ormai, da luogo cruciale e punto di partenza per un rinnovamento in positivo delle cose, si è trasformata in accumulo di macerie e ferri inutilizzabili. Non rimane che rincontrare quelle figure contro le quali aveva combattuto, per ritrovare un senso di sé nella lotta: la Madre e il Commissario, che non hanno nome proprio, essendo simboli, archetipi.
La Madre è l'istituzione della famiglia, che lo accoglie in casa e sul cui grembo piange. La donna è ossessionata dalle Brigate Rosse, e ascolta in continuazione la registrazione delle voci degli assassini di Moro. La famiglia, il fondamento dello Stato, teme, ormai ossessivamente, per la sua sicurezza e Svitol parla con lei guardandola attraverso uno specchio: la paura della donna è lontana anni luce dallo straniamento del figlio che necessita di schermi di protezione per comunicare, quasi non la potesse, o non osasse più, dopo quanto successo, guardarla direttamente negli occhi. Poi c'è il Commissario, il nemico di un tempo, il potere dello Stato che si esprime attraverso la repressione e l'arresto. Le conversazioni tra Svitol e il Commissario scandiscono il film. Il vecchio nemico è diventato l'unico che sappia davvero illuminare le cose e renderle per quelle che sono, senza che vengano ingarbugliate dalle maglie dell'ideologia. I due sono seduti l'uno di fronte all'altra, in un'atmosfera fumosa e opaca da film noir, separati da un continuo campo-contro campo: è un confronto alla pari, il loro. Ed è lo stesso Commissario che lo porta a chiedersi che fine hanno fatto “i compagnucci” di un tempo che, a quanto dice il poliziotto, dopo l'assassinio di Moro si sono differenziati, chiamandosi fuori dalle conseguenze di ciò che erano stati in grado solamente di ipotizzare.
Svitol parte così alla ricerca, casuale in gran parte, dei vecchi amici e non può che rimanerne deluso: alcuni si drogano, avendo trovato nel “buco” un mezzo di evasione dal reale, altri sono in procinto di partire, lasciandosi alle spalle l'Italia, come fa l'amico che gli affida la casa e che sostiene di volersene andare perché “qua le cose si decompongono”. Dopo avere capito che è ormai diventato inutile combattere, ci si abbandona a se stessi, si scappa oppure ci si allinea. Così come fanno, inconsapevolmente, tutti gli altri. Invitato a una festa in un'antica villa di campagna, Svitol osserva da vicino la Decadenza. I dissidenti di un tempo ora si nascondono, estranei al mondo, e si esprimono come se fossero personaggi di un film scritto male, per modi di dire, plagiato. E procedono annoiati, offrendo cocaina (la droga dei ricchi) definendola “le ceneri di Gramsci”, quasi come se lo sniffare quella polvere rappresentasse davvero un funerale: il funerale della coscienza. E Svitol, da parte sua, non può fare altro che soffiare in direzione dell'obiettivo, buttandola in faccia allo spettatore. Come un bambino di fronte a un giocattolo che desidera ardentemente, si fa regalare da un partigiano “la scatola dei colori del compagno Di Vittorio” e la mostra poi come l'oggetto più prezioso che possiede, un cimelio, che lo rappresenta, così come ha visto fare all'amico partito per Londra che, indicando le cose di casa sua, affermava essere rappresentazioni di tutta la sua vita. Allo stesso modo Svitol cerca degli appigli nel reale, qualcosa a cui aggrapparsi, un sistema di valori nuovo, ma del quale possa anche lui fare parte. È per questo che si ritrova a classificare le “cose di destra e quelle di sinistra” (classificazione che verrà ripresa da Gaber in una celebre canzone) in v.o mentre lo vediamo aggiustare una bicicletta e, come un bambino intento al gioco, ad auscultarne l'ipotetico cuore con uno stetoscopio. Non è scegliere di fare una cosa o non farla che ti determina ormai, ma è l'apparenza che le si attribuisce, che determina l'appartenenza a l'uno o l'altro schieramento.
Ma, è vero, “ne uccide di più la depressione che la repressione” e Svitol, incapace di vivere in questo mondo che ha compreso fin troppo bene e incapace di trovare in esso un ruolo, un'appartenenza, compie l'unica scelta possibile: far tornare le cose com'erano un tempo. In un duello finale con il Commissario, che ricorda un western (non a caso le scene con il Commissario sono, per così dire, “di genere”, almeno nella mente di Svitol), si fa uccidere, fingendo di volere uccidere lui, per primo. E riducendo le lotte e le proteste a quello che diceva il partigiano che, affermava essere la Resistenza solo “puzza, paura e buche di fango.” Facendosi eliminare dal potere, ritrova un posto nella società. Assumerà agli occhi di tutti il ruolo di dissidente, di terrorista, ma almeno si tratta una scelta, sicura, netta, senza sfumature, opacità o nebulose disquisizioni politiche. Maledetti Vi Amerò mostra un problema di identità, in una continua analisi del proprio io, della necessità di definire se stessi attraverso gli altri, attraverso ciò che gli altri vedono di noi. Un film costruito sugli archetipi: potere, famiglia, amici, nemici, in cui l'individuo spaesato si guarda intorno e deve tracciare il proprio ruolo e non avendo alternativa si fa uccidere, dandosi un senso nella morte. Svitol diventerà una di quelle figure ritratte sul suo “muro dei fantasmi”, sopra il quale ha ricalcato le sagome dei morti di quegli anni (Moro, comunisti, fascisti, senza distinzione) per le quali ha deciso di provare pietà perché nella morte, loro, sono diventati davvero tutti uguali. 


Quando esce il suo film d'esordio, nel 1980 Marco Tullio Giordana ha 30 anni. Il suo film Maledetti vi amerò arriva 5 anni dopo il delitto Pasolini e appena 2 anni dopo il delitto Moro, entrambi due eventi che hanno modificato il paese e la mente degli italiani.
L'esordio di Giordana è una repentina, quasi sconclusionata requisitoria su quello che rimane del comunismo, sulla paura per il terrorismo sempre dietro l'angolo, su una società che si domanda in quale direzione stia andando, sulla possibilità inesausta di dare un senso al vivere, al pensare, al farsi o meno da parte quando i due grandi maestri se ne sono andati.
Giordana procede in maneira ameboidale nella narrazione che, più che essere tale è un disarmante flusso di coscienza che implica da parte dello stralunato protagonista, un processo all'intero sistema socio-politico-culturale italiano.
In Maledetti vi amerò siamo a Milano, il protagonista non ci torna da circa 5-6 anni, dopo essere stato in Sud America, vede una città cambiata, che non riconosce, forse non riconosce neppure se stesso, si domanda dove quale direzione prenderà questo paese devastato dal terrorismo e comandato da un sistema di potere che si insinua come una piovra nei gangli, nei neuroni di una società che non è più la stessa dopo i morti e i cambiamenti repentini.
Giordana gioca con gli stereotipi del tempo come nella sequenza celebre della differenza su cosa sia di sinistra e cosa sia di destra, lo fa con puntiglio insieme didascalico e fanciullesco e, a distanza di 33 anni, questa scena mette una triste tenerezza, come fosse un rimasuglio smarrito di una mentalità che faceva a botte con un potere che non capiva e che odiava profondamente.
"Stavi gironzolando (in maniera sospetta n.d.r.) vicino alla sede della Democrazia Cristiana" gli dice il questore, e il protagonista gli fa: "neanche sapevo ci fosse una sede della DC da quelle parti, (...) ma oggi una Democrazia Cristiana non esiste più". Giordana invoca disperatamente la fine prematura di un'epoca, si divincola dalle situazioni paradossali mettendo sul volto del suo protagonista la maschera di una provocatorietà fasulla ed energica, che getta un alone surreale sull'intera vicenda.
Maledetti vi amerò è una commedia politica, un grottesco privato, scegliendo la soglia non più percorribile di un rivelatorio tormento, facendo così Giordana annaspa dentro il suo film senza senso, tenta di prendersi una rivincita su quei tempi che forse ha odiato e amato allo stesso modo, concedendo al suo protagonista una morte silenziosa, fasulla, buffa e onirica, com'è onirico tutto il film, di un onirismo codardo e corsaro, che vorrebbe fare di più, vorrebbe dimostrare l'insondabilità di quei tempi e si rifiuta di accettarne la morale ricattatoria.
Così l'esordio di Giordana si stampa nella memoria come un film insondabile che vive di attimi strategicamente surreali, nuotando nel dubbio e tentando la decodificazione del reale attraverso lo sberleffo di un comunista che ha capito che quel tempo dei "compagni" è finito nella tragedia.
Ma una tragedia col sorriso. Non è poco, poteva essere di più, ma si sa che Giordana non è mai stato una cima. Tanto vale per una volta accontentarsi.

3 comentarios:

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