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lunes, 17 de mayo de 2021

La ragazza che sapeva troppo - Mario Bava (1963)

 

TÍTULO ORIGINAL
La ragazza che sapeva troppo
AÑO
1963
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Incorporados)
DURACIÓN
83 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Bava
GUIÓN
Mario Bava, Sergio Corbucci, Ennio De Concini, Eliana De Sabata, Mino Guerrini, Franco Prosperi
MÚSICA
Roberto Nicolosi
FOTOGRAFÍA
Mario Bava (B&W)
REPARTO
Leticia Roman, John Saxon, Valentina Cortese, Titti Tomaino, Luigi Bonos, Milo Quesada, Robert Buchanan, Gustavo De Nardo, Lucia Modugno, Mario Bava
PRODUCTORA
Galatea Film, Coronet
GÉNERO
Thriller. Intriga. Terror | Giallo

Sinopsis
La joven americana Nora Davis (Leticia Roman) va a visitar a su tía enferma en Roma. La misma noche de su llegada la anciana muere y, al no funcionar el teléfono, decide ir a buscar ayuda a la calle, donde un hombre la atraca y la hace perder el conocimiento. Nora recobra el conocimiento durante varios segundos, suficientes para ver cómo una mujer es asesinada a pocos metros. Al día siguiente nadie creerá a Nora, aunque ella, ayudada por el médico de su tía, decidirá encajar las piezas de todo lo que ocurrió esa noche... (FILMAFFINITY)

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“Gli assassini non leggono libri gialli”

Dopo il sapiente esordio con il gotico “La maschera del Demonio”, Mario Bava, ad appena un anno di distanza, ritorna dietro la macchina da presa, questa volta per girare quello che poi diventerà la pietra miliare del giallo all’italiana.

Fin dalle prime inquadrature il regista intende chiarire, con l’ironia drammatica che diverrà la sua cifra per eccellenza, che questo non sarà il racconto di una favola alla “Roman Holiday”: Nora Davis (Leticia Roman), giovane ventenne americana in viaggio verso Roma per la villeggiatura, è tutta presa da uno dei tanti libri gialli di cui è fedele “divoratrice”: “The Knife”, si legge sulla copertina.

Povera fanciulla: appena arrivata già assiste all’arresto del vicino di volo per una valigia di sigarette allucinogene, che, peraltro, le sono state offerte dall’uomo poco prima di atterrare.

Poco male, questo è niente: perché nella notte piovosa e tempestosa – quasi viene da immaginarsi Bava dietro la macchina da presa sghignazzante che si frega le mani – la gentile ospite romana ha un malore e Nora, spaventata a morte alla vista della vecchina già in  rigor mortis, deve correre ad avvertire Marcello Bassi (il giovane dottore un po’ patinato interpretato da John Saxon), attraversando una Trinità dei Monti deserta e quasi spettrale.

Succederà tutto all’improvviso: il ritmo serrato, conferisce uno dei caratteri essenziali al primo thriller psicologico della storia del cinema.

L’azione, sempre accompagnata da una musica priva di asprezze che si affida all’armonica e incisiva capacità dei violini e delle viole di accrescere la sensazione di sospensione, prosegue senza inciampi: la giovane assiste ad un assassinio, ma è stordita e sviene. Temendo di essere considerata una visionaria, Nora deciderà di scoprire la verità.

L’indagine si muoverà tra momenti di gustosissimo humor, fuori fuoco ansiogeni e liquidi, rumori enfatizzati, inquadrature dal basso che amplificano il senso del misterioso e dell’incerto, particolari di porte chiuse (che ricordano tanto le raccomandazioni del celeberrimo e terribile Barbablù), borotalco e spago, ingressi melodrammatici di personaggi sacrificati dalla sceneggiatura non sempre all’altezza della fotografia livida di Bava, capace di alternare luce e oscurità, in cui le sensazioni e le situazioni sono perfettamente correlate alle luci, e tra tutti gli espedienti narrativi davvero originali le ellissi non colmate, rese possibili grazie alla geniale intuizione di affidare ad elementi abbastanza marginali nella scenografia il compito di mostrare lo scorrere del tempo.

Bava ha davvero influenzato il cinema dei suoi successori: lo stesso Dario Argento, nel suo “L’uccello dalle piume di Cristallo” adotterà molte soluzioni del regista ligure.

Marcello che invita Nora ad ammirare Trinità dei Monti nella luce del mattino mentre esplodono le risa spensierate della gente, il buon Marcello che stringe Nora in stile commedia romantica nella scena finale dalla terrazza del Pincio, sembra anticipare di cinquant’anni buoni la Roma de “La Grande Bellezza” dall’aria limpida e solare, meravigliosa, terribile e dispersiva.

Ed ancora, attraverso personaggi come quello interpretato da Valentina Cortese, Bava sottolinea l’orrore della coscienza umana sconvolta: il mostro è da cercare ancora una volta dentro di noi.
Irene Gianeselli
https://oubliettemagazine.com/2014/07/19/la-ragazza-che-sapeva-troppo-la-prima-proiezione-della-retrospettiva-dedicata-a-mario-bava-bari/

Il giallo, all’interno del panorama cinematografico italiano, è già presente in alcune pellicole minori degli anni Cinquanta. Quello che però viene comunemente riconosciuto come primo film giallo italiano è La ragazza che sapeva troppo, diretto da Mario Bava, uno dei maestri del thriller e del fantastico del cinema nostrano. Uscita nel 1962, è una pellicola che forma tutti i principali aspetti caratteristici del giallo all’italiana, genere portato al successo internazionale dai successivi film degli anni Settanta firmati da Dario Argento. Il titolo di questo film omaggia in maniera diretta L’uomo che sapeva troppo, uno dei tanti capolavori di Alfred Hitchcock, ma la collocazione della vicenda è tipicamente italiana.

La città di Roma è il teatro per una serie di omicidi efferati, caratterizzati dall’ordine alfabetico del cognome delle vittime. Nora Davis, interpretata da una divina Letícia Román, è una turista venuta in viaggio in Italia, ma la sua permanenza nella capitale si trasforma presto in un incubo. Assiste, dopo aver battuto la testa, a un delitto: una donna viene uccisa con un coltello davanti a lei. Una serie di circostanze fanno diventare Nora una testimone inattendibile agli occhi della polizia, al punto da farla passare per ubriaca o pazza. La ragazza quindi continua le indagini per conto suo, aiutata dal dottor Marcello Bassi, invaghitosi di lei fin dal primo incontro.

Già dal nucleo narrativo si possono individuare elementi tipici di questo genere: il ruolo centrale di un testimone oculare, l’inettitudine e la marginalità della polizia, l’assassino che uccide con un coltello. La stessa follia dell’assassino, manifestata soltanto durante le uccisioni e mai durante la vita “normale”, è un elemento tipico di questo filone cinematografico. L’elemento centrale nell’intera pellicola però è lo spazio, inteso come mezzo principale attraverso cui costruire la suspence e la tensione.

Esistono due dimensioni spaziali in questa pellicola: quella esterna e quella interna. La prima è rappresentata essenzialmente dalla scalinata di Trinità dei Monti, ed è visivamente slanciata in verticale, grazie a delle inquadrature particolarmente ricercate da Bava. Basti pensare alla ripresa iniziale dello scippo che subisce Nora, a cui seguirà la visione dell’omicidio, oppure la scena in cui la ragazza va a prendere un taxi, in cui lo spettatore è posto al livello dei gradini della scalinata e vede la scena da lontano, nella parte alta dello schermo. Piazze, strade e scalinate diventano quindi luoghi di terrore. La seconda dimensione spaziale è invece quella interna, come detto, e si sviluppa essenzialmente in orizzontale. Ad esempio la casa dei Craven-Torrani, che ospitano Nora durante il suo soggiorno in città, o ancora l’appartamento vuoto e desolante del giornalista Landini, il cui corridoio si allunga in profondità, moltiplicando all’infinito la sensazione di angoscia e pericolo rappresentata dalle porte aperte che conducono alle varie stanze.

Bava, grazie a queste due dimensioni contrapposte, riesce a legare la città di Roma a sensazioni di paura e angoscia. Il confronto tra le scene con componenti thriller e quelle tranquille in cui Nora fa la turista accentua questa sensazione. È lo stesso dottor Bassi che a un certo punto si rivolge alla ragazza descrivendo la vera Roma, quella conosciuta a tutti come meta turistica e affascinante luogo ricco di monumenti e felicità. Il dottore dice, riferendosi alla sua città: “un sogno forse, mai un incubo”. La realtà che invece emerge durante la visione è che l’incubo si annida proprio all’interno della vita cittadina romana, sotto agli occhi di tutti. Celato nell’ombra, in contrapposizione alla luce delle giornate estive e turistiche. Da questo punto di vista la scelta del bianco e nero è funzionale alla sensazione di tensione che il regista costruisce pian piano durante lo svolgersi della vicenda.
Mario Bava dirige quindi un film storico, nel contesto cinematografico italiano. Una pellicola imperdibile per qualità tecnica e riprese di notevole impatto emotivo. Un film che ogni appassionato di cinema di genere deve aver visto almeno una volta nella vita.
Gianluca Santini
https://nerocafe.net/profondo-nero/la-ragazza-che-sapeva-troppo/

 

A tre anni da La dolce vita, film che lanciò nel mito Roma e i suoi frivoli ambienti borghesi, nel 1963 esce La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava, che ne sembra invece il contraltare dark e angosciante. E non solo perché nel suo film il regista sanremese fa girovagare i personaggi in una Capitale tetra e deserta, svuotata dei jet set chiassosi e calcata da figure solitarie e poco raccomandabili, da ombre e chiaroscuri; ma anche per i riferimenti diretti alla pellicola di Fellini – dal nome di uno dei personaggi (Marcello) alle citazioni di Via Veneto – ribaltati e filtrati dalla lente di uno sguardo onirico puntato sulla città e sul mondo che ne abita i vicoli, le piazze, le case.

La pellicola di Mario Bava ha però ben altri meriti, a cominciare dalla paternità del thriller all’italiana di cui ha codificato i primi topoi, con la centralità della visione, l’uso degli spazi notturni, fino al killer in preda a turbe psichiche, influenzando non poco un certo cinema italiano successivo, come sarà per esempio il primo di Dario Argento.
Nonostante la trama di La ragazza che sapeva troppo paia bizzarra e al limite del credibile, “disturbata” nella sua tensione da una manciata di scenette da commedia rosa, essa assolve in realtà a una funzione ben precisa nella sua ostentata inverosimiglianza. Nel film seguiamo le vicende romane di Nora (Leticia Roman), americana appassionata di letteratura gialla, che giunge a Roma in visita a un’anziana amica di famiglia, che muore poco dopo il suo arrivo. La ragazza, in un delirio emotivo notturno, si ritrova casualmente testimone di un omicidio, e tuttavia nessuno sembra crederle. Ospitata da un’ambigua signora (Valentina Cortese) nella sua abitazione che dà su Trinità dei Monti, oscuro teatro di omicidi seriali, Nora si ritrova così coinvolta nel misterioso caso del killer dell’alfabeto, come viene battezzato dalla stampa, che forse desidera proprio lei come prossima vittima.
La narrazione colleziona scene poco credibili, ma è proprio grazie a queste che il film costruisce un clima tanto allucinato da rasentare il sogno (non è un caso probabilmente che alla fine Nora si domandi se la sua disavventura sia stata frutto di un’allucinazione onirica). E’ però la fotografia il vero cardine del film di Bava, che si era già imposto come maestro in questo campo, dai trucchi visivi di I vampiri di Freda sino all’esordio brillante di La maschera del Demonio. E qui entriamo nell’ambito che principalmente interessa questo blog, perché l’atmosfera di mistero e angoscia, principale intento della pellicola per destabilizzare la percezione del reale, si fonda proprio sullo stile noirish della sua estetica.

I chiaroscuri e le ombre minacciose che invadono gli spazi e inquietano la protagonista fanno capo ai noir americani dei decenni precedenti, e così le inquadrature wellesiane oblique e angolate che rimandano alla Vienna notturna di Il terzo uomo. Anche gli interni, ricchi di dettagli e zone d’ombra, con profondità di campo spinte, non sono affatto un rifugio sicuro; sono anzi pieni di segreti e amplificano il senso di disagio allo stesso modo degli ambienti di molti noir anni ’40, che trovavano negli interni opprimenti un peculiare punto di forza. Bava pare insomma aver fatto tesoro delle sue visioni cinematografiche per rivestirle di uno stile proprio, e dedica un’attenzione particolare anche a Hitchcock, che ritroviamo già nel titolo che fa riferimento a L’uomo che sapeva troppo, ma anche in una certa ironia che emerge nel gioco metalinguistico del giallo nel giallo e soprattutto nella scenetta finale con i preti, dal gusto sardonico tipico del regista inglese. Di Sir Alfred, Bava prende in prestito in particolare qualche soluzione di montaggio, come accade in un raccordo tra due sequenze: uno stacco netto a collegare due baci, in una ellissi che non può non ricordare quella al termine di Intrigo internazionale.


LA SEQUENZA
La fuga notturna di Nora dopo i primi dieci minuti è il momento più allucinato del film, e motivo di innesco di tutto il thriller. Sconvolta dalla morte dell’anziana amica della madre, esce di casa e scende le gradinate deserte di Trinità dei Monti. Un ladro le scippa la borsetta, Nora cade e perde i sensi, si risveglia poco dopo. L’immagine comincia allora a sfumare e tremolare, la realtà si distorce e dall’ombra sbuca una donna con un coltello conficcato nella schiena. Un uomo la raggiunge, si guarda intorno circospetto, e si libera del corpo senza notare la povera Nora. Tutto il momento è racchiuso tra due parentesi, quelle dell’effetto ottico che deforma l’immagine, che conferisce alla scena i contorni dell’allucinazione, complice anche la fotografia che ammanta i visi di oscurità lasciandoli nell’ombra, come sagome indistinte di un incubo. La casualità dell’avvenimento è un nodo narrativo propriamente noir, e andrà a cristallizzarsi tra i tratti distintivi del thriller italiano successivo.
https://www.lastradascarlatta.it/2017/05/14/la-ragazza-sapeva-mario-bava/



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