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jueves, 18 de noviembre de 2021

E' caduta una donna - Alfredo Guarini (1941)

TÍTULO ORIGINAL
È caduta una donna
AÑO
1941
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN
72 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Alfredo Guarini
GUIÓN
Alfredo Guarini, Ugo Betti, Sandro De Feo, Ercole Patti (novela), ver 4 más
MÚSICA
Edgardo Carducci
FOTOGRAFÍA
Ubaldo Arata (B&W)
REPARTO
Isa Miranda, Rossano Brazzi, Claudio Gora, Luigi Pavese, Carla Martinelli, Tilde Mercandalli, Vittorina Benvenuti, Giulio Panicali, Anita Farra, Carlo Tamberlani
PRODUCTORA
Scalera Film
GÉNERO
Drama

Sinopsis
Una muchacha queda embarazada, abandonada por su seductor, y se casa con un joven médico. Al cabo de un tiempo, da la impresión de que el marido no le perdona su pasado. Entonces, entrega la hija a la suegra y se marcha... (FILMAFFINITY)
 
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Alfredo Guarini nasce a Sestri Ponente nel maggio 1901. Lavora nel cinema inglese come assistente di Alexander Korda; si trasferisce in seguito negli USA dove conosce e sposa l’attrice Isa Miranda. L’esordio nel cinema italiano in qualità di regista avviene solo nel 1940 con Senza cielo, film avventuroso interpretato dalla Miranda ed ambientato nel Mato Grosso. Subito dopo Guarino gira E’ caduta una donna (ottobre 1941; 72 min), pellicola melodrammatica liberamente tratta dal romanzo omonimo di Milly Dandolo (sceneggiatura del regista, Ugo Betti, Cesare Zavattini e altri) che racconta le peripezie di Dina (una Isa Miranda artificiosa e bamboleggiante), sedotta e abbandonata la quale, scopertasi incinta e in preda a una cupa disperazione, fugge a Milano dove pensa di abortire. Il dottore Mario (Rossano Brazzi), al quale chiede l’illecito intervento, si rifiuta e la rimprovera scandalizzato: “Voi temete la maternità - siete una sciagurata”. La donna si riprende, si prende cura del piccolo, lavora come indossatrice e infine sposa il ricco medico. Nella nuova fastosa abitazione le cose tuttavia precipitano: l’uomo, così solerte nell’invitarla a tenere il bambino, ora non ne sopporta la presenza poiché perseguitato da una feroce gelosia retrospettiva. La debole donna è nuovamente sconvolta: pensa allora di mandare il piccolo a vivere dalla nonna paterna; in extremis però viene colta da ripensamento e mentre corre alla stazione, per evitare la partenza del bimbo, viene investita da un auto e muore.
Intorno all’innocente creatura Guarini organizza un girotondo di eventi esecrabili affidati a figure meschine. Il fondale é quello di una Milano fredda e fatua, ben illustrata tuttavia attraverso immagini di piazza Duomo, piazza San Babila e della Stazione Centrale. Due punti essenziali della dottrina fascista trovano perfetta esplicazione nella narrazione: la difesa della maternità connessa alla nota massima mussolinana “il numero é potenza” e l’attacco all’egoismo “smidollato” dell’alta borghesia che alligna soprattutto nelle grandi metropoli.

La povera Dina, sola e di origini popolane, giunge smarrita a Milano e, fuori di sé, decide di abortire. Il dottore dapprima dice le cose “giuste” e la fa recedere dall’insano tentativo; quando però si tratta di accettare la creatura di un altro in casa propria l’uomo cade preda del demone della gelosia, vedendo nel piccolo il frutto del cedimento della moglie a un altro uomo. Intorno alle tre figure principali la descrizione degli ambienti milanesi è dura e impietosa: night con musica di ispirazione jazzistica, milionari in cerca di facili avventure, un atelier di moda dove prevale uno stilista gay ritratto con evidente sarcasmo e nel quale passano clienti ricche, sciocche e capricciose e al culmine l’abitazione “regale” del dottore dove perfino la governante consiglia Dina di liberarsi del bambino. A questo punto la vicenda, raccontata fino a quel momento con una scrittura descrittiva e lineare, si inabissa nei vortici del più puro melodramma, ribabendo ancora una volta la continuità tra opera lirica e cinema italiano. Di colpo la donna ordina alla governante di partire in treno a mezzanotte (!!) col bimbo per portarlo dalla nonna mentre lei é alla Scala; poi durante l’ascolto di un’allegra opera settecentesca il rimorso più lacerante la attanaglia cosicché ella lascia precipitosamente il teatro e, nella notte nebbiosa e fredda, corre alla stazione per evitare la partenza e viene investita.
Non c’è alcun senso logico in tutto questo finale: l’irrealtà estremista dell’universo operistico si impadronisce del film e lo conduce verso una conclusione tanto frettolosa quanto drammatica e coinvolgente sul piano emotivo. Il particolare più assurdo è ovviamente quello della repentina e notturna partenza del piccolo (mai si è visto orario più assurdo per intraprendere un viaggio con un bambino di pochi anni), partenza decisa e posta in atto senza neppure avvisare la nonna; ma in generale è tutto l’insieme a vacillare a qualunque indagine logica. Anche l’apparizione della tormentosa gelosia del marito è subitanea e immotivata, semplice espediente per portare a compimento un dramma annunciato.
La svolta “operistica” del film di Guarini serve ad accentuare i conflitti in atto, a immergere la narrazione del tormento della protagonista in un contesto incandescente e a smascherare (attraverso la distanza che automaticamente la scrittura filmica crea tra Dina e gli altri) un universo metropolitano dedito a un’esistenza sentita dall’autore come riprovevole, tra feste, spettacoli mondani e cene conviviali. La mollezza dell’Italia borghese, accusata dal regime mussoliniano di lassismo e scarso amore per i figli, trova dunque un’esemplificazione completa e accesa in una pellicola che può permettersi il lusso di toccare argomenti scottanti e sgraditi al fascismo (l’aborto, la presenza omosessuale) poiché il senso complessivo dell’opera é fortemente allineato alla visione ideale del duce. Ne consegue con naturalezza che in questa Milano “smidollata” la guerra non esiste: se ne sente un vago accenno solo quando la nonna paterna del piccolo fa visita a Dina per dirle che suo figlio è morto, senza specificarne le cause. Nessuna tensione patriottica, nessuna preoccupazione bellica, nessun pensiero “collettivo” e “nazionale” anima la quotidianità dell’universo milanese.
Infine Guarini dimostra di sapere girare con eleganza e originalità; si notano infatti alcune pagine “virtuosistiche” come la sequenza in cui Dina ripensa al proprio dolente percorso esistenziale rievocando una serie di immagini le quali si sovrappongono al volto della donna inquadrato attraverso un vetro inondato da una pioggia che materializza una sorta di pianto interiore; oppure nella magnifica sequenza nel teatro in cui le note spensierate dell’opera settecentesca di uniscono al primo piano assorto e lacerato di Dina che sta rimeditando intorno alla sciagurata decisione presa intorno alla partenza del piccolo. In questi episodi anche la tipica recitazione sopra le righe della Miranda funziona poiché si lega a una cornice estremamente melodrammatica.
...

Mélo dalla trama curiosa (lo spunto è preso dal romanzo di Milli Dandolo) ma risolto in modo convenzionale, s’inserisce perfettamente in filone che cercava di distaccarsi dalla rassicurante mediocrità dei telefoni bianchi per avvicinarsi ad una dimensione di più ampio respiro non lontana dal cinema americano. La Milano tetra e fredda in cui è ambientata la triste storia ben rappresenta l’anima irrequieta di questo dramma sentimentale ed irrimediabilmente senza speranza.

Alfredo Guarini sa dove mettere la macchina da presa e riesce ad infilare almeno una scena memorabile: l’ingresso di Isa Miranda riflesso in uno specchio circolare. Ed è proprio Isa Miranda il valore aggiunto del film, con la sua recitazione tesa, malinconia e mai di maniera. Al suo ruolo ambiva anche una famosa diva fascista, che si vendicò alla prima del film ingaggiando fischiatori professionisti.

https://lorciofani.com/2013/07/16/italian-retro-e-caduta-una-donna-1941/

La prima diva italiana lanciata dai rotocalchi Isa Miranda, 
il fascino della malinconia
di Pierfranco Bianchetti

A Milano la sera di giovedì 29 novembre 1934 i portici di piazza Duomo sono affollati di signore e signori elegantissimi che guardano ammirati in una delle vetrine della famosa pasticceria Motta il ritratto formato gigante di Isa Miranda, l’interprete del film “La signora di tutti”.
Le sue foto sono esposte ovunque in città insieme alla Coppa del ministero delle Corporazioni vinta dalla pellicola diretta da Max Ophüls nel mese di agosto alla Mostra del cinema di Venezia, quale “film italiano tecnicamente migliore”. La pellicola sta per essere presentata in anteprima nel vicino cinema Odeon a due passi dalla Rinascente. L’attrice in un certo senso “gioca in casa”, perché i milanesi ammirano la loro affascinante concittadina da mesi al centro di una intelligente e mirata campagna pubblicitaria lanciata sulle riviste di attualità di proprietà di Angelo Rizzoli, un editore illuminato venuto dal nulla (era un modesto tipografo ex martinitt) che ha intuito la potenzialità della stampa popolare in grado di catturare una fascia di lettori fino allora ignorati. È una vera e propria rivoluzione della società italiana, che scopre come la stampa, la radio e il cinema siano nuovi strumenti di comunicazione e di impiego del tempo libero. Nel 1927 il giovane Rizzoli rileva alcune testate della Mondadori in passivo come i mensili “La Donna”, “Commedia”, il settimanale “Il Secolo Illustrato” e il quindicinale “Novella” per trasformarli in rotocalchi popolari di grande successo introducendo nel mercato anche i romanzi a puntate, una novità editoriale assoluta. Non contento, fonda il periodico “Cinema illustrazione” e “Lei”, rivista dedicata alle donne avendo intuito quanto il cinema, i divi e la loro vita pubblica e privata appassionino la gente. Nel ’33 nasce “Novella‐Film”, una casa di produzione cinematografica che inizia la sua attività con la trasposizione sul grande schermo di un romanzo di Salvator Gotta già pubblicato nei suoi rotocalchi dal titolo “La signora di tutti”. È un progetto intelligente e innovativo che mira a collegare la prima moderna industria del cinema italiano con i mass media copiato da Hollywood e incentrato sulla vita delle star di celluloide. Per scegliere la protagonista del film, diretto dal raffinato regista francese Max Ophüls, nel gennaio 1933 viene indetto un concorso al quale possono partecipare ragazze non superiori a venticinque anni dalle presunte doti fisiche e culturali adatte al personaggio del feuilleton di Gotta. Duemila signorine spediscono le loro fotografie alla sede della Rizzoli in piazza Carlo Erba, ma solo diciannove sono selezionate per il provino finale. La vincitrice del concorso è Isa Miranda, affascinante donna di ventinove anni (ridotti poi a diciannove dagli stessi organizzatori con un piccolo imbroglio), nata a Milano il 5 luglio 1905, figlia di poveri genitori contadini il cui vero nome è Ines Isabella Sampietro. La futura diva del cinema italiano a soli dodici anni ha iniziato a lavorare come piccinina, nome dato alle giovanissime apprendiste assunte dopo la Scuola d’Avviamento nelle sartorie e nelle fabbriche legate all’abbigliamento per imparare il mestiere di sarte. Bella, austera, elegante di natura, la ragazza si impiega poi come commessa e, dopo un corso serale, diventa stenodattilografa assunta in diversi studi di avvocati. Nel ‘23 si sposa con Riccardo Casali da cui si separa due anni dopo. Nel 1928 è modella per alcuni pittori e si iscrive all’Accademia Filodrammatici, diplomandosi nel 1930. Il suo tirocinio sul palcoscenico lo fa con la “Compagnia della Piccola Scena” di Milano e due anni dopo debutta nel cinema in parti secondarie assumendo il nome d’arte di Isa Miranda. “Creature della notte” di Amleto Palermi e “Il caso Haller” per la regia di Alessandro Blasetti sono le sue prime esperienze sul set. La grande occasione arriva nel ‘34 con “La signora di tutti” nel ruolo di Gaby Doriot, un’attrice famosa che rivede la sua vita tra luci e ombre dopo un tentativo di suicidio. Isa Miranda è così promossa prima diva del cinema italiano. Il 30 novembre i quotidiani entusiasti riferiscono del successo ottenuto dall’esordio della “Novella Film”. Sul “Corriere della Sera” il critico Filippo Sacchi scrive “tutta l’attesa era per Isa Miranda, attrice di cui già da un anno una pubblicità in grande stile aveva reso popolari il nome e il volto in tutta Italia.
Il rivederla ha confermato l’impressione ch’essa aveva fatta a Venezia. Isa Miranda ha grandi e sostanziali possibilità fotogeniche, una recitazione che ha solo bisogno di perdere gli squilibri dell’inesperienza, per diventare adeguata e vitale. Già qui, certe sue inflessioni sono di una spontanea giustezza. E tutti i suoi primi piani hanno intensità e vibrazione….”. La sua carriera ormai la porta in poco tempo sui set di mezza Europa. Recita nel melodramma sentimentale “Come le foglie” (1935) di Mario Camerini; in “Passaporto rosso” (1935) di Guido Brignone, una storia di emigrazione; “Il fu Mattia Pascal” di Pierre Chenal e il kolossal “Scipione l’Africano” di Carmine Gallone. Nel ’39 la Bavaria Film le offre due produzioni tedesche, ma lei preferisce trasferirsi a Hollywood con il produttore e regista Alfredo Guarini che sposerà a Tucson in Arizona, dopo aver ottenuto l’annullamento del matrimonio precedente. Questa scelta provocherà l’imbarazzo e l’ostilità sia del regime fascista che di quello nazista. Giunta in California e accolta con tutti gli onori, è messa sotto contratto dalla Paramount per due film “Hotel Imperial”, uno spionistico di Robert Florey (mai arrivato nei cinema italiani) al fianco di Ray Milland, e l’ avventuroso “ La signora dei diamanti”, regia di George Fitzmaurice. Il progetto è quello di lanciarla sul mercato Usa come la risposta italiana a Marlene Dietrich, ma le difficoltà di adattamento allo star system hollywoodiano e lo scoppio della seconda guerra mondiale la spingono a rientrare precipitosamente in Italia, preoccupata anche per la salute della madre. Al suo arrivo a Napoli nessuno va ad accoglierla. I giornali di regime hanno ricevuto l’ordine di ignorare il suo ritorno a causa della scelta di preferire il cinema americano a quello tedesco e anche per un’intervista rilasciata agli uffici stampa della Paramount nella quale lei si diceva dispiaciuta per gli ebrei uccisi durante l’occupazione di Varsavia. Un incontro con Mussolini a Roma al Centro sperimentale di cinematografia in occasione di una cerimonia l’aiuta però a uscire dall’isolamento. Nel febbraio 1941 è diretta dal marito Alfredo Guarini in “È caduta una donna”, prodotto dalla Scalera Film e tratto dal romanzo omonimo di Milly Dandolo, al fianco di Rossano Brazzi, storia di una ragazza messa incinta dal fidanzato che poi sposa una donna ricca. Le riprese si svolgono a Milano all’ippodromo di San Siro, in piazza San Babila e in via dei Cappuccini. La sera di giovedì 4 settembre ’41 la pellicola viene presentata in anteprima al cinema Metro Astra in Corso Vittorio Emanuele alla presenza dell’autrice del libro. La serata è turbata dal boicottaggio organizzato dalla rivale Assia Noris, la diva più coccolata dal fascismo amante del gerarca Pavolini. “Alla prima di ‘È caduta una donna’, a Milano ‐ racconta lei stessa ‐, volli andare e portai mia madre insieme a mia sorella e a mio cognato. Era una prima importante perché vi assistevano il prefetto, il federale di Milano, il podestà e non so quanti altri. Pieno. Si fa buio in sala, si illumina lo schermo, appare la scritta ‘La Scalera Film presenta’: fischi. Appare il titolo del film: fischi. Comincia il film: fischi. Fischiarono fino alla fine del film, mia madre svenne, io mi alzai e la raggiunsi, esplose lo scandalo anche perché il federale mi porse il mazzo di fiori nello stesso momento in cui gli voltavo le spalle per raggiungere mia madre. L’indomani mi convocò alla Casa del Fascio, non dico come mi trattò, e lo sa perché fischiavano tanto? Perché due terzi dei biglietti, ciò fu apparato dalla polizia, erano stati comprati da una celebre attrice fascista di cui non voglio fare il nome perché è ancor viva e non voglio darle questa vergogna.Mi aveva fatto fischiare perché voleva interpreta Mi aveva fatto fischiare perché voleva interpretare quel film, le amiche dei gerarchi riuscivano quasi sempre a prendersi le parti migliori” (“L’avventurosa storia del cinema italiano” ‐ Feltrinelli). Nel ’42 è nuovamente davanti alla macchina da presa in “Documento Z3” diretto sempre da Alfredo Guarini; “Malombra” dal romanzo di Fogazzaro di Mario Soldati e “Zazà” di Renato Castellani e l’anno successivo in “La carne e l’anima” di Wladimir D. Strichewsky. Dopo l’8 settembre lei rifiuta di trasferirsi nella Repubblica di Salò preferendo recitare in teatro soprattutto in tournée organizzate per le truppe anglo ‐ americane che stanno liberando l’Italia dal fascismo. Nel dopoguerra Isa alterna il palcoscenico a molte produzioni cinematografiche estere recitando in varie lingue (“La ronde” di Ophüls; “Summertine” di David Lean; “La noia” di Damiano Damiani; “Un mondo nuovo”; “Lo chiameremo Andrea” di Vittorio De Sica). Nel ’49 con “Le mura di Malapaga” per la regia di René Clément, insieme a Jean Gabin, vince il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Cannes.
La sua vita professionale molto intensa le preclude la possibilità di avere figli, un rimpianto poi confessato pubblicamente. La televisione la chiama per recitare in
diversi sceneggiati e telefilm costretta però sempre di più a ruoli secondari. All’inizio degli anni Ottanta la sua salute peggiora e dopo un lungo periodo in ospedale “la piccinina di Milano”, “la diva del cinema italiano” muore a Roma l’8 luglio 1982 dimenticata e triste come molti dei personaggi infelici che lei ha interpretato nella finzione.



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