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miércoles, 10 de abril de 2013

Il processo di Verona - Carlo Lizzani (1963)


TÍTULO ORIGINAL Il processo di Verona
AÑO 1963
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No 
DURACIÓN 120 min. 
DIRECTOR Carlo Lizzani
GUIÓN Sergio Amidei, Ugo Pirro
MÚSICA Mario Nascimbene
FOTOGRAFÍA Leonida Barboni
REPARTO Silvana Mangano, Frank Wolff, Vivi Gioi, Françoise Prévost, Salvo Randone, Giorgio De Lullo, Ivo Garrani, Andrea Checchi, Henri Serre, Claudio Gora, Andrea Bosic, Carlo D'Angelo, Umberto D'Orsi, Giovanni Di Benedetto, Gennaro Di Gregorio, Umberto Raho, Filippo Scelzo
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Duilio Cinematografica / Orsay Films
PREMIOS 1962: Premios David di Donatello: Mejor actriz (Silvana Mangano)
GÉNERO Drama | Basado en hechos reales 

SINOPSIS Conmovedora historia sobre Edda Ciano, la hija del dictador italiano Mussolini, que fue incapaz de evitar la ejecución de su marido por los nazis. (FILMAFFINITY)


Nel gennaio del '44 l'Italia è divisa in due; eserciti stranieri ne calpestano il suolo. Nelle strade, nelle città e sulle montagne del centro e del nord si combatte una guerra fratricida. Verona diventa improvvisamente protagonista. I puri e duri della Repubblica Sociale intendevano vendicare il 25 luglio (giorno della caduta del fascismo e dell'arresto di Mussolini) e punire i 19 gerarchi fascisti membri del Gran Consiglio del Fascismo che avevano aderito all'ordine del giorno Grandi. La Repubblica sociale con una mostruosità giuridica (il decreto 11/11/43, di fatto una norma penale con effetti retroattivi) aveva voluto dare la formalizzazione giuridica alla vendetta, costituendo per l'occasione anche un tribunale destinato solamente a giudicare coloro che avevano approvato l'ordine del giorno.
Peraltro solo sei dei diciannove ricercati erano stati arrestati: gli altri era riusciti a sottrarsi alla polizia fascista, che aveva però potuto mettere le mani sul personaggio più ambìto, Galeazzo Ciano, che non aveva esitato a cercare rifugio in Germania, convinto com'era che la sua parentela col Duce gli avrebbe assicurato l’impunità.
Pavolini aveva personalmente compilato la lista dei giudici per sottoporla all'approvazione del Duce: e già questa lista era significativa perché i giudici, come del resto era previsto dalle norme istitutive del Tribunale Speciale, dovevano essere "fascisti di provata fede" e in particolare erano da scegliersi fra quanti "avessero avuto a patire per la loro fedeltà all'idea". L'esito del processo era dunque scontato.
Il processo si celebrò dall'8 al 10 gennaio del 1944 nel maniero di Castelvecchio, nel quale solo pochi giorni prima il Congresso del neonato Partito Fascista Repubblicano aveva invocato a gran voce la morte dei "traditori dell'idea".
Cinque condanne a morte, per Ciano, Marinelli, Gottardi, De Bono e Pareschi e una condanna a trent'anni per Cianetti (che salvò la pelle per aver ritrattato il giorno successivo la sua adesione all'ordine del giorno Grandi) conclusero una cupa farsa giudiziaria.
La notte del 10 gennaio del 1944 le autorità della Repubblica Sociale si trovarono tra i piedi un ostacolo che non avevano previsto: le domande di grazia. Mancava, nel decreto istitutivo del Tribunale Speciale, la stessa previsione delle domande di grazia: a chi andavano dunque rivolte, qual era autorità che poteva ancora decidere della sorte dei cinque condannati? L'avvocato Cersosimo, istruttore del processo, suggerì a Pavolini, per analogia con le norme che regolavano il funzionamento del vecchio Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, di sottoporre le domande di grazia alla massima autorità militare territoriale, il generale Piatti del Pozzo, comandante dell'esercito a Padova. Questi però, con l'appoggio di un consulente legale, respinse seccamente l'incombenza e Pavolini, che aveva con sè le domande di grazia, iniziò una strana peregrinazione in compagnia di Cosmin, prefetto di Verona, di Fortunato, p.m. al processo e del capo della polizia Tamburini. Andò dapprima da Pisenti, ministro della Giustizia, che disse che avrebbe subito sottoposto le domande a Mussolini: esattamente ciò che Pavolini non voleva. Disse che della faccenda si era occupato esclusivamente il partito, e che il Duce non doveva essere posto di fronte ad una alternativa così dolorosa.
Ma proprio lui, Pavolini, come massima autorità del partito, si dichiarò incompetente a respingere le domande di grazia. Fu interpellato allora anche il Ministro dell'Interno, Buffarini Guidi, il quale a sua volta ebbe la pensata di scovare un comandante militare disposto ad assumersi la responsabilità dell'esame delle domande. Dopo varie telefonate ed altre peregrinazioni, Pavolini riuscì a mettere le domande in mano al console della milizia Italo Vianini, ispettore della V Zona, e quindi competente per territorio. Così, con una procedura contorta (le domande non furono espressamente respinte ma semplicemente "non inoltrate", e con lo stesso provvedimento Vianini ordinava l'esecuzione della sentenza) i cinque condannati furono avviati alla morte.
Pavolini avrebbe potuto salvarli: nessuno, nella Repubblica sociale, sapeva di preciso dove risiedesse l’autorità. Soprattutto avrebbe potuto salvare il suo grande amico, Ciano (gli altri imputati, con l'eccezione di De Bono, erano degli sconosciuti al grande pubblico), l'uomo contro il quale era di fatto celebrato il processo. Non si può certo ipotizzare che Pavolini nutrisse per Ciano l'odio, mai nascosto, che avevano tanti altri fascisti: il genero del Duce era considerato infatti un arrampicatore, un profittatore, tanto più meritevole di punizione ora, per i fascisti "puri e duri" della Repubblica Sociale. Assumendosi la responsabilità di accogliere le domande di grazia (era stato lui stesso a obiettare a Pisenti che "la faccenda era di competenza del partito") Pavolini avrebbe potuto mostrare che il nuovo stato fascista era in grado di punire, con la gravità della sentenza, ma anche di essere magnanimo.
La sentenza dei cinque condannati presenti, veniva eseguita la mattina dell’11 gennaio 1944.
http://www.storiaxxisecolo.it/rsi/rsiprocessohtm.htm


25 luglio 1943. Il Gran Consiglio del Fascismo, con il voto del conte Galeazzo Ciano e di altri gerarchi, approva l'ordine del giorno Grandi che decreta la fine del governo Mussolini e, di fatto, la caduta del fascismo. Come conseguenze dirette della decisione e nell'evolversi del quadro bellico, si susseguono eventi cruciali: l'arresto di Mussolini, l'armistizio, l'occupazione tedesca. La situazione precipita anche per Ciano, che si rende conto della gravità del suo gesto e del clima d'odio creatosi intorno a lui. Decide quindi di fuggire in Spagna insieme alla moglie Edda Mussolini e ai figli. Nel frattempo Mussolini è liberato dai nazisti, che lo mettono a capo della Repubblica Sociale Italiana. Ciano rie-sce soltanto a fare tappa a Monaco, dove può contrattare coi tedeschi la propria definitiva uscita di scena. Al conte restano due sole armi: la posizione di Edda, cui si deve un certo riguardo, e i diari che contengono importanti rivelazioni e che potrebbe consegnare agli inglesi. I tedeschi prendono tempo e lo dirottano a Verona, dove ad accoglierlo in stazione ci sono i fascisti, ma per arrestarlo e processarlo. Oltre a lui, sono imputati con la stessa accusa di tradimento alcuni di coloro che votarono la caduta di Mussolini. La sete di vendetta dell'ala più dura esigerebbe una soluzione immediata: un gruppo di fascisti si avvicina al carcere con propositi di linciaggio, ma sono gli stessi nazisti a imporre l'ordine affinché si svolga un processo esemplare il cui verdetto pare segnato. In carcere Ciano è avvicinato più volte da Frau Beetz, una spia che cerca di recuperare i diari e, attratta da lui, sembra interessarsi alla sua salvezza. Allo stesso tempo Edda, che già aveva messo al sicuro gli scritti, cerca di trovare una via d'uscita per il marito. Non riuscendo a incontrare il padre, chiede aiuto alla madre Rachele che però la respinge. Spiata e inseguita dai tedeschi, è disposta a cedere i diari, ma non c'è più spazio per le trattative. Il processo si sta concludendo e l'esito è di condanna a morte per Ciano e tutti gli altri meno uno. Edda telefona a Mussolini e gli dichiara il suo disprezzo. Pur volendo evitare che la domanda di grazia dei condannati sia consegnata al Duce, nessuno tra i capi fascisti vuole assumersi la responsabilità di respingerla. Infine un gerarca è costretto a porre la sua firma sul documento; la richiesta è negata. I condannati sono portati al poligono di tiro dove ha luogo l'esecuzione, mentre un cineoperatore riprende la scena. È l'11 gennaio 1944, manca poco più di un anno alla caduta della Repubblica Sociale Italiana, alla fine della guerra e alla morte di Mussolini.
Con Il processo di Verona appaiono per la prima volta nel cinema italiano, in qualità di protagonisti, alcuni tra i principali esponenti del regime fascista, e sono messe in scena vicende che li riguardano direttamente. I tentativi della famiglia Mussolini non riuscirono a impedire la realizzazione e la distribuzione del film, alla cui uscita la stessa Edda Ciano espresse giudizi sprezzanti; non mancarono nemmeno le reazioni di persone rappresentate e ancora viventi. Si scatenò quindi sulla stampa nazionale un dibattito durato alcuni mesi sulla liceità dell'operazione. Le dichiarazioni di Carlo Lizzani furono chiare: l'intento principale della sua opera, e di altre che avrebbe voluto portare a termine, era smascherare il mito del potere attraverso un "dramma di corte" in cui emergessero la personalità e la condotta di "personaggi che si muovono da protagonisti sulla scena della storia contemporanea".
Nel Processo di Verona il dramma spettacolare nasce e si sviluppa su una rigorosa documentazione storica. Fonti della sceneggiatura furono infatti diari, memorie private, documenti di diversa provenienza interpretati con l'ausilio di consulenti storici. Sul piano della costruzione scenica, inquadrature e scenografie vennero impostate a partire dallo studio delle fotografie d'epoca; la scelta dei luoghi delle riprese andò nella stessa direzione di fedeltà. La cronaca degli avvenimenti è completata da una didascalia iniziale e da alcune sequenze di repertorio, che fungono da contrappunto e integrazione alle parti ricostruite. Mussolini appare solo negli spezzoni di cinegiornali, a lui non è concessa rappresentazione, per meglio delineare l'ambiguità della sua condizione: ancora molto forte sul piano simbolico (si parla continuamente di lui), e allo stesso tempo assai debole sul piano dell'azione. Impossibilitato a decidere, Mussolini rimane il simulacro di un potere che va scomparendo e, ormai ridotto a fantoccio nelle mani dei tedeschi, non può che rimanere fuori campo. Nel climax finale, la telefonata di Edda al padre è un monologo: il Duce resta muto, completamente sommerso dalle parole della figlia, che lo priva definitivamente di autorità e dignità. Nel culmine del dramma, Silvana Mangano offre un'intensa interpretazione che le valse diversi premi come migliore attrice (David di Donatello 1962-63 e Nastro d'argento 1964). Il Ciano di Frank Wolff, più che stratega della situazione, risulta personaggio ingenuo e 'umanizzato' (di qui le accuse al film d'eccessiva indulgenza); gli altri gerarchi (Pavolini, Farinacci, ecc.) hanno soprattutto una funzione narrativa.
Il processo di Verona si apre con una sequenza che ricerca l'impressione di 'verità' (la concitazione dell'uscita dei gerarchi dal Gran Consiglio del Fascismo) e si chiude con la fucilazione dei condannati, anch'essa di simile taglio. In quest'ultima scena si svela l'intenzione di ricalcare le riprese originali dell'esecuzione (lo sfondo sonoro è dato dal ronzio della macchina del cineoperatore presente alla scena), e si fa chiara la funzione didattica del cinema: funzione attiva sia nel documentario di propaganda nazifascista (mostrare che cosa succede ai traditori), sia nella fictiondi impegno civile (mostrare come finiscono i potenti). Lizzani, che già aveva affrontato temi legati alla Seconda guerra mondiale in altri film, tra cui Il gobbo (1960) e L'oro di Roma (1961), tornerà ad occuparsi della stessa fase storica in Mussolini ultimo atto (1974): il Duce, con il volto di Rod Steiger, sarà questa volta al centro della rappresentazione.
Interpreti e personaggi: Silvana Mangano (Edda Ciano), Frank Wolff (Galeazzo Ciano), Françoise Prévost (Frau Beetz), Vivi Gioi (Rachele Mussolini), Claudio Gora (giudice Cersosimo), Henri Serre (marchese Cosma), Salvo Randone (pubblico accusatore Fortunati), Giorgio De Lullo (Alessandro Pavolini), Andrea Checchi (Dino Grandi), Ivo Garrani (Roberto Farinacci), Filippo Scelzo (Marinelli), Umberto D'Orsi (Gottardi), Gianni Di Benedetto (Pareschi), Andrea Bosic (Cianetti), Gennaro Di Gregorio (generale De Bono).
Paolo Simoni, Enciclopedia del Cinema (2004)
http://www.treccani.it/enciclopedia/il-processo-di-verona_(Enciclopedia-del-Cinema)/
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CRITICA:
"Un resoconto lucido, serrato, onesto, veritiero nella sostanza e nei particolari, appassionante come ogni storia d'intrighi. Il termine resoconto (...) per stabilire i limiti dell'opera che, seppur concorre a un nobile fine conoscitivo, non si affranca da un'impostazione eminentemente giornalistica." (Mino Argentieri, "Rinascita", 16.3.1963)

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