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jueves, 1 de julio de 2021

Il figlio più piccolo - Pupi Avati (2010)


TÍTULO ORIGINAL
Il figlio più piccolo
AÑO
2010
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
100 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Pupi Avati
GUIÓN
Pupi Avati
MÚSICA
Pasquale Rachini
FOTOGRAFÍA
Pasquale Rachini
REPARTO
Christian De Sica, Laura Morante, Luca Zingaretti, Nicola Nocella, Sydne Rome, Massimo Bonetti, Marcello Maietta, Manuela Morabito
PRODUCTORA
Duea Film, Medusa Produzione
GÉNERO
Comedia. Drama | Familia

Sinopsis
Luciano Baietti es un hombre de negocios sin escrúpulos que sólo se acuerda de su hijo Baldo cuando está al borde de la quiebra y corre el riesgo de ir a la cárcel. Su asesor financiero le aconseja utilizar a Baldo como testaferro de sus empresas, como antes había hecho con la madre del muchacho, a la que abandonó el mismo día de la boda, dejándola con dos niños que criar. (FILMAFFINITY)
 
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"'Il figlio più piccolo' è la storia di un immobiliarista romano in crisi, interpretato da Christian De Sica, che ha perso molti soldi nel tracollo della sua holding, una struttura costruita su una serie di scatole vuote. Allora il suo commercialista, che è Luca Zingaretti, gli consiglia di intestare la società con tutte le perdite al figlio che vive a Bologna. È una storia molto dura, incentrata sul denaro e sulla ricerca del successo a qualsiasi costo, non a caso ambientata in Emilia, dove una persona conta per quello che ha”. Il regista, sceneggiatore e soggettista Pupi Avati


La triste evoluzione dei soliti ignoti
Un imprenditore truffaldino, mosso dal suo attaccamento al denaro, porta la sua holding verso il fallimento. Nel tentativo di salvare il salvabile, segue il consiglio del suo disonesto commercialista intestando al figlio la proprietà delle società in pericolo… [sinossi]
Salutato come un impietoso ritratto dell’Italietta dei furbacchioni realizzato da un maestro che non le manda certo a dire, Il figlio più piccolo rischia seriamente di passare alla storia come uno dei film più fraintesi degli ultimi anni. Pupi Avati infatti anche con questa sua ultima opera conferma un interesse assolutamente irrisorio ai fatti dell’Italia contemporanea, attratto come è unicamente da certi suoi punti cardine da sempre al centro della propria marca autorale (il ruolo centrale ed essenziale della famiglia, la nostalgia per un mondo provinciale e piccolo-borghese che non c’è più…). Appare dunque senz’altro difficile ipotizzare che un autore, almeno uno così “immobile” come Avati che a parte qualche rarissima eccezione negli ultimi venti anni ha praticamente girato le stesse cose, superata la soglia dei settant’anni divenisse tutto ad un tratto uno spietato cantore dell’italica disgrazia. Ma non c’è davvero nulla che possa far pensare a Il figlio più piccolo come ad un ritratto spietato dell’Italia di oggi, così come tanto per fare un esempio ne Il papà di Giovanna non c’era alcuna volontà di ragionare sopra al regime fascista, se non l’unica necessità di incasellare in qualche modo le proprie ossessioni registiche. Il cinema di Avati continua ad essere essenzialmente un cinema imbalsamato, ritratto di un Italia che non c’è più e che non ha nessuna intenzione di rapportarsi a quella di oggi.

Luciano, il protagonista di Il figlio più piccolo, non è dunque un lontano parente dei vari furbetti Coppola o Ricucci, ma solamente una maschera che racconta di come la vita, anche la più paradossale grottesca o luciferina, abbia intorno un amore cieco, familiare quindi, innato e genetico. Una maschera ancor più accentuata visto che ad interpretare questo fantoccio in mano ad azzecarbugli di varia risma è un Christian De Sica versione meno gigionesca e mignottara del solito, ma comunque sempre incline ad un “mortacci tua” o ad un “Forza Lazio”. Attraverso la parabola di Luciano, dunque, Avati non ha nessunissima intenzione di forzare il gioco, anzi, quando il tono del proprio film sembra quasi assumere quello di un’indagine su un cittadino, c’è sempre uno scarto che interrompe qualsivoglia effetto drammaturgico troppo ingombrante e pericoloso, evidentemente. La difesa dello status quo per Avati si porta avanti così, a colpi di sguardi che improvvisamente si voltano dall’altra parte, come se la “distrazione” fosse l’unica estetica possibile per questo autore. Alla fine sorge spontaneo un pensiero che forse è solo una provocazione: i personaggi de Il figlio più piccolo paiono l’evoluzione deviscerata de I soliti ignoti, così scalcinati come quelli, partiti anche loro umili e poveracci come Capannelle e tutti gli altri, improvvisatisi banchieri hanno assaporato il successo per poi vederselo (giustamente) portar via sul più bello, quando il mondo sembrava solamente aspettare d’esser comprato tutto.

Ecco che allora Luciano e tutta la Baietti Holding, partendo  da Bollino (interpretato da Luca Zingaretti che, una volta di più, dimostra d’esser capace di lavorare abilmente sui registri comico-grotteschi dei propri personaggi, restituendone uno davvero calibrato) per arrivare all’autista dai timpani sensibili, sembrano davvero l’evoluzione più triste della banda del buco, l’adeguamento a tempi oscuri e ad un dilagante cerchiobottismo.  La differenza sostanziale che separa i personaggi dei due film è il contesto, l’Italia. Una è quella scalcinata uscita con le ossa rotte dalla Guerra, l’altra è quella della videocrazia e del Billionaire e non è esattamente la stessa cosa. Ma ad Avati, come detto, tutto ciò non sembra interessare. Rimane sullo sfondo quest’Italia dei furbetti, in primo piano c’è l’Italia dei sentimenti  (ben incarnata dalla temibile canzoncina più volte propinata dalla povera Laura Morante…), dove anche il più incallito dei criminali o il più corruttore dei corrotti, ha avuto un’infanzia difficile, era povero e si sentiva in debito con la propria famiglia.
Ah, ovviamente, qualunque riferimento a persone vive, morte o governanti è assolutamente casuale. Avati questo ci teneva a dirlo.
Lorenzo Leone
https://quinlan.it/2010/02/19/il-figlio-piu-piccolo/


È un giorno d'estate del 1992 a Bologna. Il matrimonio di Luciano Baietti (Christian De Sica) e Fiamma (Laura Morante), già genitori di due bambini di pochi anni, si consuma affrettatamente. Appena il tempo di un brindisi nei bicchieri di carta e lo sposo parte in compagnia di uno strano personaggio e con un mazzo di documenti con i quali la sposa gli intesta i suoi beni immobili. Anni dopo, ai giorni nostri, i due bambini sono cresciuti: il maggiore, Paolo Baietti (Marcello Maietta), lavora in un locale del centro e odia quel padre scomparso nel nulla; il figlio più piccolo, Baldo Baietti (Nicola Nocella), buono e generoso, studia cinema e vive modestamente con la mamma e con Sheyla (Sydne Rome), percussionista americana neohippy, accompagnando le due donne nei loro patetici tentativi di carriera musicale e assistendo Fiamma nelle sue frequenti crisi esistenziali. Nel frattempo, nella campagna laziale, Luciano fa la bella vita nella sua lussuosissima villa: con i soldi della ex moglie e i consigli di Sergio Bollino (Luca Zingaretti), vera eminenza grigia della Baietti Enterprise, è presidente e uomo immagine di una holding che vive di loschi traffici e spudorate raccomandazioni e connivenze. Ma i tempi si fanno difficili e gli appoggi iniziano a vacillare pericolosamente: il matrimonio tra Luciano e una ricca figlia di papà è un primo passo per recuperare terreno, ma la grande idea è trovare un prestanome sufficentemente ingenuo e fiducioso su cui scaricare la responsabilità delle situazioni più compromesse. Qualcuno che non sappia e non possa dire di no, qualcuno facile da raggirare, magari facendo appello a improbabili ragioni del cuore: Baldo. Travolto da un vortice di avvenimenti, il giovane Baietti viene condotto alla villa, da quel padre che non ha mai fatto parte della sua vita. Mentre firma decine di documenti gli viene fatto balenare un inatteso futuro di prosperità, in cui realizzare ogni sogno suo e della sua famiglia, magari accanto a suo padre... A Bologna Fiamma si scatena in illusioni e Paolo in previsioni pessimistiche. Ma il sogno dura poco: Baldo dovrà aprire gli occhi, Luciano dovrà rendere conto dei suoi errori, Bollino cercherà di salvare il salvabile. Tutti i nodi verranno al pettine, nel modo più eclatante e doloroso. Qualcuno si rassegnerà, qualcuno andrà avanti comunque, qualcuno coronerà i suoi sogni. Come nella vita.
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Un tempo Pupi Avati amava scavare nei ricordi, ispirandosi soprattutto agli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, ripercorrendo vite di persone care, o quelli vissuti nella sua infanzia o giovinezza a Bologna. Ma ora, non vuole guardare indietro, il presente è troppo preoccupante e deve essere scavato, osservato, e denunciato attraverso il suo racconto per immagini. E così, con Il figlio più piccolo, da lui scritto e diretto, (autore, anche, dell’omonimo romanzo Il figlio più piccolo - "Uno straordinario ritratto dell’Italia di questi anni" Garzanti Editore) dal 19 febbraio nelle sale, vuole offrire un ritratto dell’Italia di oggi, quella dei “truffatori senza scrupoli” o dei “furbetti da quartiere”, quella che non guarda in faccia a niente e a nessuno pur di fare soldi facili.
Il figlio più piccolo comincia con la cacciata dal convento di padre Sergio (Luca Zingaretti), per la sua attività troppo terrena di consulente finanziario: tornato nel mondo, diventa l'anima di Luciano Baietti (Christian De Sica) che dopo aver sposato l’innocente Fiamma (Laura Morante) già madre dei due suoi figli, scompare con il diabolico e losco burattinaio che ancora, memore della sua prima vita in convento, con i piedi nudi porta sandali francescani. Anni dopo Luciano è diventato uno di quegli imprenditori immerso in una ricchezza abbagliante, appariscente, fatua ed imbrogliona. I suoi affari si reggono attraverso certi politici, loschi avvocati ed ambigui, servili porta borse, cinici nella loro esistenza e volgarmente ossequiati tra lusso e crimine. Luciano, per salvare gli interessi, sta per sposare una volgarona dell’ambiguo giro, ma ormai è troppo tardi e lo avvisano che il suo illegale impero sta per affondare. Si ricorda, a questo punto, della prima moglie, a cui con un raggiro aveva portato via i pochi beni che le appartenevano, ingenua, sensibile e senza rancore, l’aveva lasciata a Bologna con i figli ormai ventenni senza mai averli più rivisti. La vita di Luciano è circondata da ogni conforto, in una antica villa appariscente ed affrescata, in un'opulenza ricca di ogni ben di Dio. Mentre quella della moglie e dei figli è misera e piena di stenti. Fiamma, depressa e nevrotica, strimpella senza alcun successo canzoni folk con un’amica che suona il tamburello (Sydney Rome). Il figlio maggiore (Marcello Maietta) fa il barista e prova profondo rancore per il padre che li ha abbandonati. Il minore, Baldo (Nicola Nocella) ciccione, ingenuo come la madre, sogna di diventare regista di film horror truculenti, dove si divorano minestroni di membra umane. Quando il padre, dopo sedici anni, lo invita, sotto la regia complice di Zingaretti, nella sua reggia dorata, ma soltanto per intestargli tutte le sue fasulle società sull’orlo del fallimento, Baldo si lascia commuovere da quell’estraneo bugiardo, non comprendendo la truffa atroce a suo danno.
Luciano Baietti questa figura di uomo superficiale, senza dignità, un infame senza scrupoli Avati lo ha voluto affidare a Christian De Sica, sottraendolo per una volta ai ruoli comici e ai cinepanettoni. Pupi Avati è bravo a narrare e sa dirigere belle storie di tutti i giorni, soprattutto di provincia, ambientate in un passato non troppo lontano, dove la vivezza del racconto e della fantasia accompagna lo spettatore in quel suo mondo, quasi sempre autobiografico. Con Il papa di Giovanna, narrato con una stringata e severa sceneggiatura e con una crescente tensione psicologica, Pupi ha fatto vincere, meritatamente, il premio di migliore attore alla Mostra del Cinema di Venezia a Silvio Orlando, padre appassionato della figlia assassina. Avati sa entrare nel cuore delle persone, ne sa interpretare i sentimenti e le sfumature, meno efficaci sono le sue interpretazioni politico sociali. Lui stesso dice che il suo non è mai stato un cinema di denuncia, non fa parte della sua poetica. In quest’ultima opera Il figlio più piccolo, in cui ha sentito il bisogno di raccontare la scorrettezza umana, praticata con la massima indifferenza, la narrazione ha qualche impaccio e questa storia, in apparenza così attuale, con personaggi troppo macchiettistici, esasperanti nella loro ingenuità, non crea indignazione, e sfuggono anche, gli aspetti ironici che dovrebbero rendere più graffiante la storia. La narrazione sfocia in un montaggio piatto che non crea tensione nell’evolversi degli eventi malvagi, ma resta più l’elemento bozzettistico e inconcluso che porta ad un finale del tutto prevedibile. Bella, come sempre, la musica del fedele Riz Ortolani.
Con Il figlio più piccolo Avati ha terminato la trilogia della figura paterna. Il primo film era stato La cena per farli conoscere con Diego Abatantuono. In seguito la bella pellicola Il papà di Giovanna. Ci auguriamo che nella prossima produzione, che già sta girando, ritorni la sua graffiante poesia di chi sa cogliere l’animo umano nella “piccola provincia emiliana”.
Maria Paola Forlani
http://www.celluloidportraits.com/film/5468_1_Il_figlio_pi%C3%B9_piccolo.html


 
 

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