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sábado, 10 de julio de 2021

Un uomo In Ginocchio - Damiano Damiani (1979)

 

TÍTULO ORIGINAL
Un uomo in ginocchio
AÑO
1979
IDIOMA
Italiano
SUBTITULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
106 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Damiano Damiani
GUIÓN
Nicola Badalucco. Historia: Damiano Damiani
MÚSICA
Franco Mannino
FOTOGRAFÍA
Ennio Guarnieri
REPARTO
Giuliano Gemma, Eleonora Giorgi, Michele Placido, Tano Cimarosa, Ettore Manni, Luciano Catenacci, Nello Pazzafini, Fabrizio Forte, Nazzareno Zamperla, Giovanni Giancono
PRODUCTORA
Rizzoli Film
GÉNERO
Thriller

Sinopsis
Nino, un trabajador de clase media, descubre que han contratado a un asesino a sueldo para matarle porque están eliminando a todos los involucrados en el secuestro de una rica mujer. Pero Nino no tiene nada que ver con el secuestro, así que tendrá que adivinar quién ha enviado a los asesinos contra él y por qué antes de que sea demasiado tarde. (FILMAFFINITY)

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Un uomo in ginocchio" è il titolo di un film girato a Palermo da Damiano Damiani, nel 1979. Questo vede come principali attori Giuliano Gemma e Michele Placido. In esso si racconta la drammatica vicenda di Nino Peralta (interpretato da Gemma), padre di due figli e costantemente condizionato da una situazione economica precaria, nonchè da un passato di ex-galeotto. Peralta, gestisce un chiosco aperto con i soldi della moglie, e ad aiutarlo nel mestiere provvedono anche il figlioletto ed un amico altrettanto squattrinato di nome Colicchia. Un giorno, vicino al chiosco da lui gestito viene rinvenuta la prigione di una donna sfuggita al sequestro di una banda mafiosa, e durato alcune settimane: la signora è però moglie di uno dei più importanti capi di Cosanostra della città di Palermo, don Vincenzo Fabbricante. Le cose si complicano ulteriormente quando la polizia trova una tazzina appartenete al bar gestito da Peralta, che faceva consegne nel locale del sequestro, e del quale non conosceva la drammatica verità. Con il rinvenimento della tazzina, Fabbricante aggiunge anche il suo nome alla lista, connandolo a morte certa credendolo complice dei sequestratori, e inviando così per ucciderlo un tale dal nome Platamona (Placido). Peralta, tempestivamente spronato dall'amico Colicchia scopre il volto e l'identità di questa persona, aprendo la porta ad una fitta trama di interessi e giochi di potere che lo costringeranno a dover risalire la crina per garantirsi di sopravvivere e di non vedere distrutta la propria famiglia, tal volta costringendolo a dover fare i conti con il proprio passato di criminale e con la propria coscienza, devastata dall'incubo della miseria e della sudditanza omertosa.

Questo film, sebbene praticamente snobbato dalla critica dell'epoca e dallo stesso pubblico, è stato invece rivalutato con il passare del tempo, specialmente con l'evolversi dei tragici eventi che tristemente hanno infestato le cronache della stampa nostrana in materia di mafia: la sua grandezza a mio avviso è il labirintico intreccio con cui Nino Peralta deve confrontarsi, costantemente teso e frustrato verso la ricerca della salvezza del corpo e dell'anima, minacciati da un potere, quello mafioso, che insieme gli deteriorano la vita, la famiglia, e la propria dignità. E' questo infatti un film molto oscuro, caratterizzato da una fotografia eccezionale ed un cast assolutamente degno di nota sebbene non impeccabile. Memorabili risultano essere in particolare i dialoghi fra Giuliano Gemma e Michele Placido, specialmente quello finale, su un invernale e tetro altipiano che meglio caratterizza la canalizzazione ultima di un film costantemente apprensivo, decadente ed allo stesso tempo volto a celare una strisciante speranza di redenzione spirituale.

Nella pellicola in questione, è l'Uomo ad essere messo in analisi al microscopio, e non un uomo qualunque, ma bensì quello siciliano, in una Sicilia brutalmente controllata dalle mafie, che tengono a sè il controllo di ogni cosa, da quella materiale, alle stesse persone: esseri umani costretti a fungere da pedine, di un gioco più grande di loro, ed in mano a pochi e ingordi assassini. Sia Giuliano Gemma che Michele Placido ebbero modo di mettere in mostra le loro straordinarie doti, anche se in maniera differente con questa prova cinematografica: il primo, specialmente per aver riportato su di sè le luci dei riflettori, grazie ad una prestazione ai limiti del caretterista, perfettamente riuscita e tale da aggiungere ancor più fama alla straordinaria capacità di attore che già si era creato con personaggi mitici quali Ringo, e tutti gli spaghetti-western che ne sembravano aver decretato una carriera quasi al termine; il secondo invece, per essersi definitivamente consacrato a ruoli impegnativi, grazie ai quali verrà impiegato negli anni successivi per girare film tv e film veri e propri, che lo renderanno poi noto al grande pubblico una volta in definitiva (si pensi a La Piovra). Degne di nota anche le parti di Tano Cimarosa nel ruolo dello sgangherato ma fedele Colicchia, e di Manni, perfetto capomafia; un poco sottotono, sebbene non per niente malvagia, quella della bellissima Eleonora Giorgi, comunque brava a non uscire dal ruolo difficile di moglie e madre, riuscendo a regalare maggiore tensione emozionale alla pellicola.

Per concludere, questo è un film dalle grandissime capacità descrittive rispetto ad una realtà che può sembrare morta e sepolta, ma che in realtà ancora "striscia" in ginocchio, in un Italia che crede di aver "superato" le stragi di mafia e i terrorismi di infausta memoria.
Mr.Moustache
https://www.debaser.it/damiano-damiani/un-uomo-in-ginocchio/recensione

 

Un uomo in ginocchio: la mafia prima de "La Piovra"

Un uomo in ginocchio (1979) è la prova di come non si possa neppure parlare di cinema di mafia prescindendo da quel colosso che è stato Damiano Damiani.

Opera di passaggio prima dell’approdo in tv che sarebbe culminato con La Piovra, questo film ha una peculiarità: manca quasi del tutto l’aspetto politico del fenomeno mafioso. Nino Peralta (un Giuliano Gemma in gran forma) è un ex ladro d’auto ed ex carcerato che tenta di vivere onestamente gestendo un chiosco bar nei pressi del centro di Palermo con l’aiuto del figlio (interpretato da Fabrizio Forte, l’enfant prodige lanciato dai fratelli Taviani in Padre Padrone) e di Sebastiano Colicchia, un altro piccolo pregiudicato (l’indimenticabile Tano Cimarosa).

Come tutti i piccoli esercenti, Peralta si barcamena come può, tra le attenzioni occhiute di un ufficiale di Polizia (il bravo Luciano Catenacci nel ruolo per lui non consueto dello sbirro) e, naturalmente, di alcuni mafiosi, in particolare del boss Patranca (il gigantesco caratterista Nello Pazzafini), a cui deve pagare il pizzo.

Quest’equilibrio precario, garantito anche dai sacrifici della moglie Lucia (una brava Eleonora Giorgi, in un ruolo atipico e castigato), salta, nel momento in cui, in seguito a un equivoco, si trova coinvolto nel rapimento della moglie di un avvocato importante, ordito da Patranca, che fa scattare la vendetta del clan rivale.

Peralta finisce nel mirino di Antonio Platamone (Michele Placido, all’inizio della sua fortunata partnership artistica con Damiani), un killer ingaggiato dal boss don Vincenzo Fabbricante (l’ex bello Ettore Manni) per lavare nel sangue l’oltraggio del rapimento. E in effetti la vendetta avviene puntualmente nei confronti di tutti, tranne di Peralta che viene taglieggiato da Platamone fino al punto di essere costretto a vendere il chiosco.
Fin qui è il classico drammone siciliano a cui Damiani, a partire dallo sciasciano Il giorno della civetta, aveva abituato il pubblico. I successivi colpi di scena, orchestrati nella solidissima sceneggiatura solidissima scritta a quattro mani dallo stesso Damiani e dall’ex giornalista d’inchiesta Nicola Balduccio, danno lo spunto alla consueta riflessione sul potere, del quale la mafia è solo un aspetto, tipica del regista friulano.

Significativo, al riguardo, il dialogo tra Peralta e don Fabbricante: «Tu a quest’ora dovevi essere morto e invece è morto un amico tuo. Come me lo spieghi?», chiede il boss. «E a me lo chiedete?», risponde Peralta. «Io sono Vincenzo Fabbricante, mi conosci?». «E io sono un poveraccio qualsiasi, quelli che contano non li conosco». «Chi non conosce quelli che contano deve stare doppiamente attento. E tu devi stare attento adesso, perché già l’immagini quello che dirai per salvarti».

Fabbricante gioca sull’equivoco e umilia Peralta costringendolo a inginocchiarsi e a baciargli l’anello: «E di te che ne facciamo, Peralta? Almeno provassi un po’ di pentimento… Lo provi questo pentimento? Sì o no? E come lo dimostri? Una volta ci si inginocchiava: era un bel gesto, pieno di significato».

La morale di Un uomo in ginocchio è tutta in questo passaggio terribile: il potere schiaccia, uccide e mortifica chiunque, anche chi, come Peralta, non vuole averci a che fare. Il potere è una spirale a cui non ci si può sottrarre, come scoprirà nella fortissima sequenza finale l’attonito commerciante, finito a dover subire la protezione del boss e costretto a una pesante resa dei conti, commentata dalla colonna sonora a base di tarantelle funky composta da Franco Mannino, con il killer Platamone, caduto in disgrazia agli occhi di Fabbricante.

Dopo Un uomo in ginocchio, Damiani si staccherà temporaneamente dalla tematica mafiosa che riprenderà a partire dal 1984 con La Piovra, grazie alla quale la Palermo cupa e livida del cineasta friulano entrerà nell’immaginario collettivo degli italiani e non solo.
Saverio Paletta
https://www.indygesto.com/indymovies/250-un-uomo-in-ginocchio-la-mafia-prima-de-la-piovra

TRAMA
Nino Peralta, marito di Lucia e padre di Paolo e Serena, è gestore di un chiosco-bar nei pressi della Cattedrale di Palermo. Un giorno, messo sull'avviso dal suo socio, Sebastiano Colicchia, si accorge d'essere pedinato da un certo Platamone, probabile sicario a pagamento. Prima ancora che riesca ad affrontarlo direttamente, Nino viene a sapere di essere nella lista di persone da eliminare di una cosca mafiosa e si rende conto che la catena di uccisioni sta procedendo inarrestabile. Peralta cerca invano chi lo possa aiutare a scagionarsi poiché, a quanto sembra, la sua condanna a morte è stata decisa per il fatto che una tazzina del Bar Splendor era stata rinvenuta nel nascondiglio-prigione della moglie di un grosso mafioso e l'indizio lo legherebbe alla cosca nemica. Nino, messosi in contatto con Platamone, si trova costretto a vendere il chiosco. Ma, dopo l'uccisione di Colicchia, lo stesso mandante di Platamone, Don Vincenzo Fabbricante, si presenta a Nino e cerca di legarlo al proprio carro. Il giovanotto, disperato e deciso a stare alla larga dalla mafia, uccide don Vincenzo e cerca di convincere Platamone a inalberare con lui la bandiera della indipendenza..

CRITICA
"I 'quaquaraquà', nella gerarchia dei valori umani concepita dalla filosofia mafiosa, rappresentano i 'paria'. Lo abbiamo appreso nel 'Giorno della civetta' di Sciascia, il capomafia don Mariano dice: 'Quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e quaquaraquà'. Nel 1968 Damiano Damiani riportava integralmente questa frase nella sua riproduzione per lo schermo del romanzo, poi isolava i due 'uomini' della vicenda - lo stesso don Mariano e il capitano dei carabinieri Bellodi - e li faceva scontrare in una maschia tenzone. Così, egli finiva per forzare la visione dello scrittore, adeguandola alla sua. Damiani, infatti, da 'Quien sabe?' in poi, ha sempre teso ad estrarre dal coro due personaggi, a gonfiare la loro personalità, a conferir loro un rilievo tragico. Il resto ha sempre contato poco per lui, anche se il resto era addirittura il 'tema' del film e Damiani, a parole, s'è sempre dichiarato un regista impegnato su di esso. In questo processo di isolamento dei due 'uomini' egli abbandonava la realtà optando per il mito, cioè si lasciava trasportare dalla propria visione del mondo, che era appunto una visione mitica, quasi da 'vecchia frontiera'. Il suo ultimo film, invece, 'Un uomo in ginocchio', pur tenendo fede allo schema, ne ribalta il significato abituale. Si presenta quasi come risarcimento nei confronti del mondo reale, tanto più complesso e, insieme, più prosaico, di quello mitico: il mondo reale, dove gli 'uomini', al momento della verità, diventano quasi sempre degli 'ominicchi'. Ebbene, in 'Un uomo in ginocchio', i due personaggi che Damiani isola, non sono due 'uomini' nell'accezione mafiosa e nemmeno 'mezz'uomini' o 'Uminicchi', ma un 'pigliainculo' e un 'quaquaraquà'. (...) Lo scontro finale, quindi, avviene non fra due 'uomini', ma fra due 'schiavi', due 'quaquaraquà', per l'appunto, di cui uno s'è già ribellato alla sua condizione, uccidendo il 'pezzo da novanta'. L'altro non avrà la forza di seguirlo sulla stessa strada e soccomberà. Film completamente metaforico, 'Un uomo in ginocchio' ci sembra uno dei migliori del regista e s'avvale di una robusta interpretazione di Giuliano Gemma nel ruolo di Rino e, soprattutto di Michele Placido, in quello di Platamone."
(Callisto Cosulich, 'Paese Sera')
http://cinema.ilsole24ore.com/film/un-uomo-in-ginocchio/

 

"Comunque vada, l’autore si trova rimestato in un crogiolo di definizioni, di interpretazioni, di classificazioni, di aggettivi, un tutto che… assume qualche volta la conturbante fisionomia dell’epitaffio"
Damiano Damiani
 
Si spegneva il 7 marzo all’età di 91 anni a Roma il grande regista e sceneggiatore Damiano Damiani, uno dei protagonisti del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. Prendiamo a prestito alcuni frammenti della prefazione del bel volume di Alberto Pezzotta Regia Damiano Damiani (Centro Espressioni Cinematografiche, Cinemazero, La Cineteca del Friuli, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, 2004) utili a delineare un profilo non banale del cineasta: «Regista di fatti, solido narratore: “il più americano” dei registi italiani, un po’ per le ascendenze da lui stesso dichiarate, un po’ secondo un’etichetta critica che per anni verrà declinata con diverse sfumature, a volte sottilmente limitative: il narratore di storie, artigiano ma non artista. Regista amato da molti critici francesi, che di fronte a film come Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica e L’istruttoria è chiusa: dimentichi, conoscono un “cinema politico, maggiorenne e vaccinato”, tanto più audace del loro cinema “sinistro e lugubre”. Senza dimenticare che il nome di Damiani, nel 1971, significa anche successo, investimento sicuro per i produttori, garanzia di spettacolo per il pubblico. Confessioni di un Commissario di Polizia incassa due miliardi di allora, ed è dodicesimo in una classifica di film italiani dominata da Continuavano a chiamarlo Trinità e Il Decameron. “Sei il solo dei registi impegnati che io ammiro sinceramente” gli scriveva Ennio Flaiano in quegli anni. “E sai perché? Per il tuo stile ‘naturale’, ‘scritto male apposta’, per il tuo rifuggire da tutte le leziosaggini e dall’ornato, dal male di tutti i nostri registi”. “Sei un amaro moralista assetato di vecchia purezza”, gli scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1968. Testimonianze che piace riportare non solo e non tanto per esibire un’investitura prestigiosa, ma per dare un’idea della stima di cui godeva Damiani in quegli anni tra i più belli e vivaci della storia del nostro cinema. Per tutti gli anni Settanta Damiani è un regista di punta accanto a Petri e Rosi: quando si tratta di discutere della posizione del cinema italiano civile dopo l’omicidio di Moro, sono loro tre che interpella L’Espresso. Molto contava, certamente, l’opera di Damiani all’interno dell’ANAC, le ripetute battaglie contro la censura, a partire da quella in occasione della legge Corona, nel 1965: tutte cose di cui oggi si è persa la memoria. […] Al di là delle incognite e delle oscillazioni del gusto, la posizione di Damiani nella storia del cinema italiano è salda e incontestabile. Micciché […] lo inserisce […] a fianco di Bolognini, Comencini, Lattuada, Lizzani […]. Per Brunetta, […] Damiani è uno degli “eredi legittimi” dei padri fondatori: meno caratterizzato di Bellocchio e dei fratelli Taviani, ma pur sempre in compagnia di Maselli, Montaldo, Petri, Pontecorvo, Rosi. […] Più di altri registi, tuttavia, Damiani ha patito una sorta di isolamento. Con la critica il rapporto è stato difficile, spesso diffidente, inficiato dall’applicazione pigra di etichette cristallizzatesi da decenni. E anche se non sono mancati apprezzamenti puntuali e prestigiosi […], si è trattato di una relazione mai data per scontata, ridefinita a ogni singola opera, e comunque incapace di creare quella museificazione in vita che è arrisa (si fa per dire) ad altri suoi colleghi. E soprattutto, sono mancati gli strumenti di analisi adatti a cogliere l’originalità e l’importanza di un cinema fatto sulla realtà, un cinema popolare e civile, che scivola tra le rassicuranti aspirazioni all’arte e i cedimenti alle pratiche basse, diventati oggi altrettanto suggestivi».
https://www.fondazionecsc.it/evento/tra-morale-e-purezza-il-cinema-di-damiano-damiani/


 
 

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