TITULO La cuccagna
AÑO 1962
SUBTITULOS No
DURACION 104 min.
DIRECTOR Luciano Salce
GUION Luciano Vincenzoni
ARGUMENTO Luciano Vincenzoni, Alberto Bevilacqua, Goffredo Parise, Carlo Romano
PRODUCCION Giorgio Agliani
MUSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFIA Erico Menczer
MONTAJE Roberto Cinquini
GENERO Drama
PROTAGONISTAS Donatella Turri, Luigi Tenco, Umberto D'Orsi, Franco Abbiana, Emilio Barrella, Anna Baj
SINOPSIS Rossella (Turri) vuole andarsene da una famiglia che è un concentrato di persone impossibili. Dapprima dattilografa, poi segretaria di un affarista inaffidabile, lavora poi con un pubblicitario che cerca anche di approfittare di lei. Altre vicissitudini presso un'ambigua agenzia fotografica e con un avvocato lunatico. Nel frattempo Rossella ha conosciuto Giuliano (Tenco), un contestatore arrabbiato più a parole che altro, ma che la convince quasi al suicidio.
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Che bei tempi erano i primi anni Sessanta.
Poteva succedere perfino che un regista estroso e intelligente, anche se non geniale, se ne infischiasse del Technicolor e girasse il suo bravo film in bianco e nero; che snobbasse il solito circo degli attori di grido o, magari, delle star internazionali imposte dalla produzione, per ingaggiare invece dei perfetti sconosciuti o dei giovani cantanti di talento, privi tuttavia di esperienza cinematografica; che si mettesse a fare un buon film con pochi soldi ma con molte idee, solido mestiere e una invidiabile freschezza.
Cosa ancor più straordinaria, poteva succedere che perfino la critica più esigente fosse costretta a fare i conti con questi film anomali, che poi non erano affatto delle rarità; e che il pubblico decretasse un buon successo a quel coraggioso regista che aveva lavorato senza budget miliardari, senza cast affollatissimi, senza effetti speciali e, addirittura, senza il colore: segno che il buon gusto era ancora una merce diffusa nelle sale nostrane.
Ma accadeva pure che si prendesse, questo regista, i tecnici più bravi, i migliori direttori della fotografia, i musicisti più originali per la colonna sonora: gente che lavorava anche per il guadagno, certo, ma non solo per quello; che aveva una grande, una grandissima passione e una voglia straripante di creare qualche cosa di bello, se non di nuovo.
E voilà, il gioco è fatto.
È così che Luciano Salce, romano, classe 1922 (scomparso nel 1989), che tutti ricordano non solo come regista, ma anche come attore brioso, ironico ed estremamente efficace, ha girato nel 1962 il film La cuccagna, graffiante (ma anche un po' dolente) ritratto in controluce dell'Italia del boom economico, degli imprenditori improvvisati, dei loschi finanzieri, dei capitalisti falliti, degli arrivisti senza scrupoli e di tutti i cialtroni, grandi e piccoli, che cercano di arrampicarsi su per la scala sociale, sfruttando il vento in poppa di una congiuntura favorevole.
Il punto di vista di questa "storia semplice", quasi minimalista, sullo sfondo della rampante corsa al benessere e allo stile "americano", è quello di una giovane ragazza della capitale, Rossella (l'esordiente Donatella Turri), che non ne può più della sua famiglia e che vorrebbe trovarsi un lavoro, per raggiungere l'agognata indipendenza economica.
In tasca ha solo un diploma di stenodattilografa, ma è decisa a trovare un impiego qualsiasi, perché non riesce più a sopportare un padre brontolone e di vedute ristrette, una madre insignificante, una sorella che piange sempre, un cognato missino che ostenta una fermezza ridicola e, per finire - ma è l'unica presenza con cui va un po' d'accordo - un fratello che oggi si direbbe gay, mentre allora si chiamava finocchio ed era la pietra dello scandalo.
In tanto squallore non c'è un solo raggio di calore umano, un solo rapporto interpersonale che sia soddisfacente; nessun amico o fidanzato con i quali sfogarsi: in breve, sembra che tutto il cinismo e tutta l'indifferenza di una piccola borghesia egoista e mediocre siano concentrati sul capo della povera fanciulla, per avvelenarle la vita giorno dopo giorno e per soffocare ogni sua aspirazione alla libertà e alla giovinezza.
La ricerca del posto di lavoro si rivela ben presto una autentica Odissea, un lungo e defatigante peregrinare, nella calura estiva della grande città, da una situazione assurda e deprimente all'altra, da una delusione all'altra. Tutta una galleria di palloni gonfiati, di personaggi improbabili e caratteriali, di arrivisti senza morale e di satiri vogliosi di approfittare di lei, si snoda davanti allo spettatore in un clima fra il satirico e il grottesco, strappandogli un sorriso venato, spesso, di malinconia, se non addirittura di amarezza.
La prima tappa della tragicomica Odissea di Rossella è quella di dattilografa in una copisteria, impiego che lascia ben presto per diventare la segretaria di un equivoco imprenditore, il dottor Giuseppe Visonà (l'attore Umberto D'Orsi) che partorisce innumerevoli progetti, più o meno campati per aria, e alla fine si ritrova in manette, con l'accusa di tentata corruzione nei confronti di un impiegato del ministero, senza peraltro smarrire la sua vena d'inesauribile, debordante vitalità istrionesca.
A Donatella, che lo vede portar via e rimane lì in ufficio, come istupidita, non resta altro da fare che riprendere la sua affannosa ricerca di un lavoro, passando successivamente dal ruolo di segretaria d'un agente pubblicitario che vorrebbe portarsela a letto, ma il cui ufficio, a un certo punto, viene chiuso; poi a quello di involontaria modella per riviste pornografiche, a causa delle subdole manovre della losca proprietaria di un'agenzia fotografica, che gioca sulla sua ingenuità e buona fede, facendola spogliare davanti all'obiettivo; infine a quello di segretaria di uno stranissimo tipo di avvocato, sgradevole e lunatico.
A questa serie impressionante di disavventure, Rossella reagisce con stoica forza d'animo, anche per mancanza di alternative. Nei frettolosi ritorni a casa, trova sempre la famiglia imbambolata davanti al televisore, a guardare, in religioso silenzio, Carosello e i giochi a quiz di Mike Bongiorno (quanto poco è cambiata l'Italia, in tutti questi anni…) e più che mai lontana dalle sue aspirazioni, dai suoi problemi e dalle sue frustrazioni.
L'unica nota diversa e, per certi aspetti, gratificante di tutto quel vagabondare, è la conoscenza con Giuliano (Luigi Tenco), un giovanotto solitario e misantropo, arrabbiato con il mondo intero, il quale ostenta un cinismo che non gli appartiene perché, in fondo, è una persona semplice e di buon cuore, che nasconde il suo disagio esistenziale e la sua cronica timidezza dietro la maschera del ribelle a tutto campo.
Nei suoi confronti Rossella nutre un sentimento contraddittorio: è, al tempo stesso, attratta e spaventata da quel ragazzo che non è come tutti gli altri; che ama la vita, pur dicendo di odiarla; che si presenta con disarmante autenticità, invece di nascondersi dietro le mille maschere suggerite dalla furbizia e dall’arrivismo. Anche Giuliano è attratto da Rossella, ma preferirebbe farsi spellare vivo, piuttosto che abbandonarsi a una confessione d’amore, lui che afferma di non credere in niente e che professa un nichilismo tanto estremistico quanto forzato.
Giuliano, che suona la chitarra con passione, ha ricevuto da poco la cartolina-precetto e dovrebbe andare sotto le armi; ma non ne ha alcuna voglia, anche perché ciò contrasta con tutte le sue convinzioni più radicate. Perciò, dopo un lungo peregrinare, con Rossella, come in cerca di qualcosa che sfugge loro, non senza una punta d’invidia per i ricchi borghesi tanto detestati (come nell’episodio in cui sui fermano ad ammirare uno yacht di lusso e chiedono al marinaio di poter salire a bordo per osservarlo meglio), entrambi delusi, giungono alla risoluzione di porre in atto un doppio suicidio.
Le modalità da loro scelte per compiere il gesto estremo sono involontariamente comiche e stemperano la tensione drammatica della scena, che oscilla sapientemente fra il tragico e il satirico: si metteranno distesi in un campo, dietro il bersaglio di un poligono di tiro militare, e aspetteranno così di morire insieme.
Ed ecco giungere un impettito e grottesco generale - impersonato dallo stesso regista del film, Luciano Salce -, che si sente una specie di Napoleone e ordina ai suoi uomini di aprire il fuoco nel corso di una esercitazione. È una scena assai gustosa e decisamente umoristica (non comica: umoristica nel senso pirandelliano del termine, perché induce anche a riflettere), che pare quasi un intervallo pubblicitario nel contesto della vicenda, mentre il pubblico si consuma nell’ansia per la sorte dei due giovani nascosti dietro il bersaglio.
Ma quando le granate cominciano a fischiare, Rossella e Giuliano comprendono, di colpo, di non avere affatto voglia di morire, perché in quelli che credevano gli ultimi istanti della loro vita si erano resi conto di amarsi. Perciò, rialzatisi, fuggono mano nella mano, e riescono ad allontanarsi senza venire colpiti.
In pratica non c’è un finale consolatorio; o, se si preferisce, il finale è aperto, condito in salsa agrodolce.
I problemi dei due giovani restano tutti lì, in sospeso, ma intanto essi hanno scoperto il segreto che potrebbe metterli in grado di superare qualsiasi ostacolo: l’amore reciproco, che è una forza più grande, forse, del mondo ostile o indifferente che li circonda.
Secondo Paolo Mereghetti (ediz. 2004, Milano, Baldini, Castold & Dalai editore, p. 597) si tratta di una
"briosa commedia sull'Italia del benessere che trova un limite nel bozzettismo ma azzecca una serie di figurine e frecciate per i tempi non scontate (la famiglia schiava del televisore, con figlio omosessuale [Dei] e genero missino). Anche se il vero punto di forza è lo stile di Salce, che con grande originalità gira quasi sempre en plen air, con ritmo scattante da Nouvelle Vague. "
Per Laura, Luisa e Morando Morandini (Il Morandini, edizione 2000, Bologna, Zanichelli, p. 329), in questo film "il pendolo della commedia oscilla tra amarezza e grottesco, parodia e satira, ma ha più di un momento divertente, più di una battuta che va a segno e un personaggio di spessore, quello di Tenco che canta La ballata dell'eroe di F. De André."
Cosa ancor più straordinaria, poteva succedere che perfino la critica più esigente fosse costretta a fare i conti con questi film anomali, che poi non erano affatto delle rarità; e che il pubblico decretasse un buon successo a quel coraggioso regista che aveva lavorato senza budget miliardari, senza cast affollatissimi, senza effetti speciali e, addirittura, senza il colore: segno che il buon gusto era ancora una merce diffusa nelle sale nostrane.
Ma accadeva pure che si prendesse, questo regista, i tecnici più bravi, i migliori direttori della fotografia, i musicisti più originali per la colonna sonora: gente che lavorava anche per il guadagno, certo, ma non solo per quello; che aveva una grande, una grandissima passione e una voglia straripante di creare qualche cosa di bello, se non di nuovo.
E voilà, il gioco è fatto.
È così che Luciano Salce, romano, classe 1922 (scomparso nel 1989), che tutti ricordano non solo come regista, ma anche come attore brioso, ironico ed estremamente efficace, ha girato nel 1962 il film La cuccagna, graffiante (ma anche un po' dolente) ritratto in controluce dell'Italia del boom economico, degli imprenditori improvvisati, dei loschi finanzieri, dei capitalisti falliti, degli arrivisti senza scrupoli e di tutti i cialtroni, grandi e piccoli, che cercano di arrampicarsi su per la scala sociale, sfruttando il vento in poppa di una congiuntura favorevole.
Il punto di vista di questa "storia semplice", quasi minimalista, sullo sfondo della rampante corsa al benessere e allo stile "americano", è quello di una giovane ragazza della capitale, Rossella (l'esordiente Donatella Turri), che non ne può più della sua famiglia e che vorrebbe trovarsi un lavoro, per raggiungere l'agognata indipendenza economica.
In tasca ha solo un diploma di stenodattilografa, ma è decisa a trovare un impiego qualsiasi, perché non riesce più a sopportare un padre brontolone e di vedute ristrette, una madre insignificante, una sorella che piange sempre, un cognato missino che ostenta una fermezza ridicola e, per finire - ma è l'unica presenza con cui va un po' d'accordo - un fratello che oggi si direbbe gay, mentre allora si chiamava finocchio ed era la pietra dello scandalo.
In tanto squallore non c'è un solo raggio di calore umano, un solo rapporto interpersonale che sia soddisfacente; nessun amico o fidanzato con i quali sfogarsi: in breve, sembra che tutto il cinismo e tutta l'indifferenza di una piccola borghesia egoista e mediocre siano concentrati sul capo della povera fanciulla, per avvelenarle la vita giorno dopo giorno e per soffocare ogni sua aspirazione alla libertà e alla giovinezza.
La ricerca del posto di lavoro si rivela ben presto una autentica Odissea, un lungo e defatigante peregrinare, nella calura estiva della grande città, da una situazione assurda e deprimente all'altra, da una delusione all'altra. Tutta una galleria di palloni gonfiati, di personaggi improbabili e caratteriali, di arrivisti senza morale e di satiri vogliosi di approfittare di lei, si snoda davanti allo spettatore in un clima fra il satirico e il grottesco, strappandogli un sorriso venato, spesso, di malinconia, se non addirittura di amarezza.
La prima tappa della tragicomica Odissea di Rossella è quella di dattilografa in una copisteria, impiego che lascia ben presto per diventare la segretaria di un equivoco imprenditore, il dottor Giuseppe Visonà (l'attore Umberto D'Orsi) che partorisce innumerevoli progetti, più o meno campati per aria, e alla fine si ritrova in manette, con l'accusa di tentata corruzione nei confronti di un impiegato del ministero, senza peraltro smarrire la sua vena d'inesauribile, debordante vitalità istrionesca.
A Donatella, che lo vede portar via e rimane lì in ufficio, come istupidita, non resta altro da fare che riprendere la sua affannosa ricerca di un lavoro, passando successivamente dal ruolo di segretaria d'un agente pubblicitario che vorrebbe portarsela a letto, ma il cui ufficio, a un certo punto, viene chiuso; poi a quello di involontaria modella per riviste pornografiche, a causa delle subdole manovre della losca proprietaria di un'agenzia fotografica, che gioca sulla sua ingenuità e buona fede, facendola spogliare davanti all'obiettivo; infine a quello di segretaria di uno stranissimo tipo di avvocato, sgradevole e lunatico.
A questa serie impressionante di disavventure, Rossella reagisce con stoica forza d'animo, anche per mancanza di alternative. Nei frettolosi ritorni a casa, trova sempre la famiglia imbambolata davanti al televisore, a guardare, in religioso silenzio, Carosello e i giochi a quiz di Mike Bongiorno (quanto poco è cambiata l'Italia, in tutti questi anni…) e più che mai lontana dalle sue aspirazioni, dai suoi problemi e dalle sue frustrazioni.
L'unica nota diversa e, per certi aspetti, gratificante di tutto quel vagabondare, è la conoscenza con Giuliano (Luigi Tenco), un giovanotto solitario e misantropo, arrabbiato con il mondo intero, il quale ostenta un cinismo che non gli appartiene perché, in fondo, è una persona semplice e di buon cuore, che nasconde il suo disagio esistenziale e la sua cronica timidezza dietro la maschera del ribelle a tutto campo.
Nei suoi confronti Rossella nutre un sentimento contraddittorio: è, al tempo stesso, attratta e spaventata da quel ragazzo che non è come tutti gli altri; che ama la vita, pur dicendo di odiarla; che si presenta con disarmante autenticità, invece di nascondersi dietro le mille maschere suggerite dalla furbizia e dall’arrivismo. Anche Giuliano è attratto da Rossella, ma preferirebbe farsi spellare vivo, piuttosto che abbandonarsi a una confessione d’amore, lui che afferma di non credere in niente e che professa un nichilismo tanto estremistico quanto forzato.
Giuliano, che suona la chitarra con passione, ha ricevuto da poco la cartolina-precetto e dovrebbe andare sotto le armi; ma non ne ha alcuna voglia, anche perché ciò contrasta con tutte le sue convinzioni più radicate. Perciò, dopo un lungo peregrinare, con Rossella, come in cerca di qualcosa che sfugge loro, non senza una punta d’invidia per i ricchi borghesi tanto detestati (come nell’episodio in cui sui fermano ad ammirare uno yacht di lusso e chiedono al marinaio di poter salire a bordo per osservarlo meglio), entrambi delusi, giungono alla risoluzione di porre in atto un doppio suicidio.
Le modalità da loro scelte per compiere il gesto estremo sono involontariamente comiche e stemperano la tensione drammatica della scena, che oscilla sapientemente fra il tragico e il satirico: si metteranno distesi in un campo, dietro il bersaglio di un poligono di tiro militare, e aspetteranno così di morire insieme.
Ed ecco giungere un impettito e grottesco generale - impersonato dallo stesso regista del film, Luciano Salce -, che si sente una specie di Napoleone e ordina ai suoi uomini di aprire il fuoco nel corso di una esercitazione. È una scena assai gustosa e decisamente umoristica (non comica: umoristica nel senso pirandelliano del termine, perché induce anche a riflettere), che pare quasi un intervallo pubblicitario nel contesto della vicenda, mentre il pubblico si consuma nell’ansia per la sorte dei due giovani nascosti dietro il bersaglio.
Ma quando le granate cominciano a fischiare, Rossella e Giuliano comprendono, di colpo, di non avere affatto voglia di morire, perché in quelli che credevano gli ultimi istanti della loro vita si erano resi conto di amarsi. Perciò, rialzatisi, fuggono mano nella mano, e riescono ad allontanarsi senza venire colpiti.
In pratica non c’è un finale consolatorio; o, se si preferisce, il finale è aperto, condito in salsa agrodolce.
I problemi dei due giovani restano tutti lì, in sospeso, ma intanto essi hanno scoperto il segreto che potrebbe metterli in grado di superare qualsiasi ostacolo: l’amore reciproco, che è una forza più grande, forse, del mondo ostile o indifferente che li circonda.
Secondo Paolo Mereghetti (ediz. 2004, Milano, Baldini, Castold & Dalai editore, p. 597) si tratta di una
"briosa commedia sull'Italia del benessere che trova un limite nel bozzettismo ma azzecca una serie di figurine e frecciate per i tempi non scontate (la famiglia schiava del televisore, con figlio omosessuale [Dei] e genero missino). Anche se il vero punto di forza è lo stile di Salce, che con grande originalità gira quasi sempre en plen air, con ritmo scattante da Nouvelle Vague. "
Per Laura, Luisa e Morando Morandini (Il Morandini, edizione 2000, Bologna, Zanichelli, p. 329), in questo film "il pendolo della commedia oscilla tra amarezza e grottesco, parodia e satira, ma ha più di un momento divertente, più di una battuta che va a segno e un personaggio di spessore, quello di Tenco che canta La ballata dell'eroe di F. De André."
La cuccagna è un film indubbiamente valido, anche se non è un capolavoro. Nella carriera di Salce regista, si colloca a mezza strada (e non solo cronologicamente) fra il memorabile La voglia matta, sempre del 1962, con Ugo Tognazzi e Catherine Spaak, e Le ore dell'amore, del 1963, con Ugo Tognazzi ed Emmanuelle Riva, formando una specie di trilogia sull'Italia del boom economico, sui suoi miti e sulle sue miserie nascoste (e non).
Alla sceneggiatura hanno collaborato Alberto Bevilacqua e Goffredo Parise; le bellissime musiche sono di Ennio Morricone, che già aveva collaborato con Salce al suo precedente Il federale(film-rivelazione di Ugo Tognazzi):
Le parole delle canzoni Fra tanta gente e Quello che conta sono dello stesso Luciano Salce, musicate da Morricone e interpretate, poi, per la Casa discografica Ricordi, che le incise nello stesso 1962.
La canzone di Fabrizio De André La ballata dell’eroe, eseguita da Tenco, accompagnandosi con la chitarra, in una delle scene più toccanti del film, fu quasi imposta al riluttante Salce dal giovane cantante-attore. Forse si deve al testo della canzone, apertamente anti-militarista, il fatto che la censura ministeriale decise di vietare la visione del film ai minori di quattordici anni (a meno che sia stato per la scena del mancato suicidio: ipotesi, l’una e l’altra, abbastanza deprimenti, tanto più che, nel film, non compaiono violenze o volgarità di sorta).
La protagonista, Donatella Turri, brava e convincente nella parte della ragazza oppressa da una famiglia ottusa e indifferente, è apparsa come una meteora nel panorama dei giovani attori italiani di quegli anni. L'abbiamo vista ancora un paio di volte appena: in Uno strano tipo di Lucio Fulci, film girato nel 1963 su misura per Adriano Celentano e (guarda caso) Claudia Mori, nel quale la Turri non è che un satellite fra quanti orbitano attorno al Molleggiato pigliatutto; e, qualche anno dopo, ne La legge dei gangsters, del 1969, del regista Siro Marcellini, dove quasi scompare in mezzo a un cast internazionale che comprende Klaus Kinski, Maurice Poli, Franco Citti, Max [Christian] Delys, Susy Andersen, Héléne Chanel; film entrambi assai mediocri, e il secondo peggio del primo.
Peccato, aveva mostrato di possedere una discreta stoffa di attrice e prometteva di regalarci qualche altra bella interpretazione.
Anche i caratteristi che affollano la galleria di mostri, cialtroni e mandrilli, con i quali deve sbrigarsela la povera Donatella, sono tutti molto azzeccati e perfettamente in sintonia con la vena comico-grottesca della storia.
Una menzione particolare spetta all'attore Umberto D'Orsi nei panni, riuscitissimi, di un industrialotto veneto che cerca di farsi strada distribuendo bustarelle, ma deve concludere in carcere la sua velleitaria scalata al potere: una via di mezzo fra il simpatico m stravagante signor Micawber del dickensiano David Copperfield e il solito palazzinaro d'assalto di cui son piene le cronache, anche di oggi. Con questa interpretazione, D'Orsi si è aperto la strada verso una carriera intensissima, fatta di decine di film più o meno di successo, nei quali ha imposto le sue buone qualità di caratterista.
Ma la vera rivelazione del film è il cantautore e jazzista Luigi Tenco, che interpreta la parte del ribelle introverso e anarcoide, ma dotato di un fondo di sano buon senso, con molta naturalezza, come se vi si trovasse perfettamente a suo agio.
Pare che fosse in predicato per interpretare il ruolo del protagonista, l'anno dopo, ne La ragazza di Bube di Luigi Comencini, tratta dall'omonimo romanzo di Carlo Cassola. Il provino era andato benissimo, ma poi la parte venne affidata a George Chakiris, accanto a Claudia Cardinale; e la carriera cinematografica di Tenco si fermò lì.
In quegli anni stava iniziando il mini-genere dei film costruiti per lanciare l'ultimo disco di questo o quel cantante di musica leggera. Aveva incominciato Domenico Modugno, che nel 1959 interpretava Nel blu dipinto di blu (Volare), con la regia di Piero Tellini; poi, ma su un altro e più modesto piano artistico, Adriano Celentano, sempre nel 1959, con un titolo che è tutto un programma: Juke box - Urili d'amore (regista Mauro Morassi),in cui fa una breve comparsata anche il bravo Giorgio Gaber. La serie avrebbe poi imperversato con una raffica di film girati per reclamizzare le canzoni di Gianni Morandi (primo della serie: In ginocchio da te, 1964), di Caterina Caselli (primo della serie: Nessuno mi può giudicare, 1966) e così via gigioneggiando, fino all'esaurimento del genere - senza troppi rimpianti - per la stanchezza del pubblico e per il mutato gusto della società.
Ebbene, la presenza di Tenco ne La cuccagna non ha nulla a che spartire con questo tipo di operazioni commerciali. È vero che, nel corso del film, Tenco prende in mano la chitarra e canta qualche pezzo con intensa, vibrante partecipazione; ma, anche se si tratti di alcuni dei "momenti forti" della pellicola, il significato di essa non risiede in quelle esecuzioni. Salce ha voluto Tenco quale protagonista maschile de La cuccagna, semplicemente perché aveva intuito che era la persona adatta, in tutti i sensi; e aveva visto giusto.
Per essere un esordiente (aveva solo interpretato, una volta, un fotoromanzo), il cantautore genovese, nato a Cassine, in provincia di Alessandria, nel 1938, e tragicamente scomparso, come tutti sanno, a Sanremo, nel 1967, si muove con una sicurezza e una intuizione scenica sorprendenti. In effetti, il personaggio di Giuliano gli stava addosso come un vestito cucito su misura: schivo, ribelle, amaro, pessimista, ma al tempo stesso generoso, idealista, sognatore e capace di sentimenti profondi e delicati.
Difficile dire che cosa sarebbe accaduto se Tenco, dopo la buona prova de La cuccagna, fosse stato notato da qualche valido regista e chiamato a interpretare un paio di film di successo. Forse la sua carriera avrebbe preso un'altra piega; ma questo, ovviamente, non lo sapremo mai.
Di fatto, dopo il 1962 egli si concentrò interamente sulla musica e ci ha lasciato una serie di canzoni bellissime, percorse da un soffio di malinconia struggente e piene di poesia, che rimangono come delle perle nella musica leggere italiana.
Ma di questo abbiamo già parlato in altri articoli (fra i quali Dalla sofferta poesia di Tenco ai lazzi furbeschi di Battisti-Mogol), ai quali rimandiamo per un approfondimento della personalità musicale di Luigi Tenco.
Oggi possiamo dire soltanto che, se non si fosse gettato anima e corpo nella musica, avrebbe potuto diventare un ottimo attore.
Ma, in tal caso, sarebbe stata un'altra storia.
Los enlaces estan borrados. Saludos
ResponderEliminarCambiados todos los enlaces. Espero que duren.
ResponderEliminarMolte grazie, Amarcord...
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