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viernes, 27 de julio de 2012

La strada di Levi - Davide Ferrario (2005)


TITULO ORIGINAL La strada di Levi
AÑO 2006
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 92 min.
DIRECCION Davide Ferrario
GUION Davide Ferrario e Marco Belpoliti
REPARTO Umberto Orsini
FOTOGRAFIA Gherardo Gossi, Massimiliano Trevis
MONTAJE Claudio Cormio
MUSICA Daniele Sepe
PRODUCCION Rossofuoco, Rai Cinema
GENERO Documental

SINOPSIS Nel 1945 Primo Levi, autore di "Se questo è un uomo", veniva liberato dal campo di concentramento di Auschwitz. Dopo dieci mesi, dozzine di deviazioni, molti ritardi e centinaia di chilometri, è tornato a Torino. Durante il viaggio ha attraversato la Polonia, l'Ucraina, la Moldavia, la Romania, l'Ungheria, la Slovacchia, l'Austria, la Germania per arrivare finalmente in Italia. Ha raccontato poi questo viaggio nel libro "La tregua", portato sullo schermo da Francesco Rosi. Sessanta anni dopo, Davide Ferrario e lo scrittore Marco Belpoliti ripercorrono lo stesso itinerario nell'Europa post comunista. Il film ricostruisce l'avventura di Levi mostrando la condizione dell'Europa moderna: i resti dell'impero sovietico, Chernobyl, i raduni neo-nazisti, i villaggi dei poveri migranti. La strada di Levi è un road-movie senza attori ma costruito su un'esigenza di ricerca.

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Dopo la liberazione dal campo di sterminio di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, Primo Levi intraprese un lungo viaggio attraverso l’Europa per tornare a casa, in Italia. Davide Ferrario e Marco Belpoliti ripercorrono quei seimila chilometri che separavano Levi da Torino, confrontando l’Europa descritta nelle sue pagine con quella contemporanea. Una strada lunga dieci mesi, formalizzata ne "La Tregua", uno dei suoi romanzi più celebri sulla Shoah, sulla sopravvivenza e sul ritorno, seguito di "Se questo è un uomo".
Levi percorse l’Europa nell’intervallo compreso tra la fine del Secondo conflitto mondiale e la Guerra Fredda, Ferrario e Belpoliti compiono la stessa strada in un tempo questa volta sospeso tra la caduta del Muro di Berlino e l’undici settembre 2001. Il progetto di Ferrario, pure nobile e commovente, mostra limiti evidenti nella realizzazione confusa che non spiega la relazione e il passaggio di senso tra Ground Zero e l’Europa prostrata dell’Est. Qual è il nesso tra il fondamentalismo islamico e l’acciaieria di Nowa Huta in Polonia, costruita dal regime comunista e visitata in compagnia di Andrzej Wajda? E ancora, tra le guerre preventive di “liberazione” e l’ignobile assassinio del cantante ucraino Igor Bilozir, del gulag di Novograd-Voljinsky in Bielorussia, della centrale esplosa di Chernobyl appena al di là del confine con l’Ucraina, del cammello di Mogylev-Podilskji, degli emigranti diretti in Italia dalla Moldavia, delle aziende italiane in Romania, dei neo-nazisti negazionisti della Germania e di Mario Rigoni Stern sull’altopiano di Asiago? Perché cercare nei luoghi di Levi risposte a questioni moderne e sconosciute alla vecchia Europa? Nell’infinito peregrinare di questo road-movie senza attori e in compagnia della sola voce off, Davide Ferrario si confronta ovviamente con la rappresentazione della Shoah, riaprendo il discorso sul linguaggio cinematografico impiegato per rendere immaginabile l’inimmaginabile, rivelando ancora una volta tutta la difficoltà del cinema a riferire di questo evento e di rappresentarlo nella sua unica oggettività storica e morale.
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=43680
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La Giornata della Memoria, data che intende ricordare le persecuzioni etniche e politiche compiute dai nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale, è stata fissata il 27 gennaio perché quella è la data (27 gennaio 1945) dell'entrata ad Auschwitz dell'Armata Rossa e della liberazione dei prigionieri sopravvissuti.
Anche per Primo Levi, registrato in quel campo di concentramento con il numero 174 517, quello fu il primo giorno di libertà da quando, il 22 febbraio 1944, con altri 650 ebrei, era giunto ad Auschwitz.
Di quei 650, dopo meno di un anno, solo 20 erano i sopravvissuti.
Come tutti sanno il periodo della prigionia e la tragica realtà di Auschwitz sono al centro di Se questo è un uomo, un libro che è oggi uno dei fondamenti della letteratura concentrazionaria europea.
Dalla fine di gennaio all'ottobre successivo Levi percorre il  viaggio di ritorno a Torino, attraversando la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia, la Romania, l’Ungheria, la Slovacchia, l’Austria, la Germania per giungere, finalmente, in Italia. Lungo, travagliato percorso che è al centro de La tregua (che vince il Premio Campiello nel 1963) e che, sessant'anni dopo, Ferrario e Belpoliti ripercorrono, attraversando l'Europa del post-comunismo .
Il film, contenuto nel cofanetto, ricostruisce il percorso di Primo Levi e, attraverso le sue parole, ma con lo sguardo della contemporaneità, osserva le contraddizioni di quell'Europa ancora fresca di un nuovo trauma, il crollo di regimi che per tanti decenni li avevano tenuti in pugno: quelli che vediamo sono le macerie di un impero, quello sovietico.
Ed ecco le parole dei due autori: “Noi, come Primo Levi allora, viviamo oggi al termine di una tregua... Per Levi si trattava della tregua tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda; per noi è quella tra la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre 2001. Nel nostro film non abbiamo trovato la risposta a cosa ci aspetta. Ci siamo solo messi in viaggio, per incontrare persone,  senza preconcetti, per comprendere i paradossi in cui noi europei stiamo vivendo ” 
Da Auschwitz, inevitabile punto di partenza, lo spettatore viene portato, in compagnia di Andrzej Wajda, a visitare l’immensa acciaieria di Nowa Huta vicino a Cracovia, in Polonia: il senso di abbandono è angosciante tra rovine spettrali e chiese di nuova costruzione.
In Ucraina, a L’viv, il film racconta la morte misteriosa di Igor Bilozir, un  artista ucraino assassinato nel 2000 da giovani russofoni a causa delle sue canzoni popolari. Si segue poi il percorso di Levi a est. A Zmerenka, lo scrittore rimase a lungo cercando qualche possibilità di riprendere il viaggio verso casa. Il cammino ha poi un percorso imprevedibile: punta a nord, verso la Bielorussia e, prima di entrare in questo mondo a parte, viene filmato ciò che resta del gulag di Novograd-Voljinsky.
Qui non sembra che il "muro" sia caduto, ecco infatti una fattoria  collettiva, ma il KGB del posto ferma regista e sceneggiatore. Dopo un intervento del Ministero italiano, il clima cambia radicalmente: lo stesso incaricato del KGB accompagna i due in una “visita guidata” del kolkhoz, e la descrizione dell'intero episodio è veramente grottesca.
Levi non era passato da Chernobyl, ma se ne era solo avvicinato. Il carattere fortemente emblematico di quel luogo però induce Ferrario a introdurlo in questa particolare road movie. Qui, nella città fantasma di Prypiat', c'è l'incontro con un sopravvissuto. Il percorso vira poi a sud: ecco Kazatin e il ricordo della storia d'amore di Levi con una ragazza russa. La Moldavia, il Paese più povero d'Europa, tappa successiva del viaggio, significa anche emigrazione: un autobus pieno di migranti diretti in Italia e la loro storia di miseria e di disperazione. Quindi la Romania e le sue odierne contraddizioni tra povertà e imprenditori italiani che hanno delocalizzato la produzione.
Ungheria, Slovacchia, Austria, Germania vengono rapidamente attraversate con rapidi cambiamenti di paesaggi e di stati d'animo (rileggendo La tregua, sarà proprio questa l'emozione che sa suscitare nel lettore). La descrizione di un meeting neo-nazista rapportata alle parole di Levi appare davvero sconvolgente. Infine l'Italia, il punto d'arrivo, il luogo a cui lo scrittore aspirava per trovare pace, ma che non ha mai saputo cancellare una tragedia insopportabile, tanto che nel 1987 è stato un suicidio a porre fine al tormento della memoria.  Ad attendere i due autori del film, un vecchio amico di Primo Levi, lo scrittore Mario Rigoni Stern che sarebbe scomparso nel 2008 e che, nonostante tutto, sapeva aprirsi ancora alla speranza.
http://www.wuz.it/recensione-libro/4106/strada-levi-cofanetto-libro-dvd-giornata-della-memoria.html
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Era da tanto che volevo vedere questo film, per un motivo o per l'altro mi era sempre sfuggito, complice senz'altro la pigrizia mammuthiana. Ebbene, ha confermato e ribaltato le attese. Mi aspettavo un film più sfilacciato e creativo, e quindi per me enormemente più piacevole. Mi aspettavo un piccolo film, che sfruttasse la sua marginalità innata. Ché perso per perso, vale sempre la pena osare. Invece, a queste cose non ci penso mai in principio, è un film compatto, con un'idea fortissima perseguita costantemente, fino alla fine. Senza quasi mai digressioni; o meglio, le digressioni sono inserite nel racconto, un racconto incredibile, assolutamente inverosimile, doloroso perché insensato. Dice che è successo davvero. Questa cosa, in un film così, emerge, si innalza sopra ogni cosa. Forse è la prima volta in cui l'eccesso didascalico non mi sembra di troppo. O almeno, in cui l'eccesso didascalico trova realmente una giustificazione, perfino nella sciattezza della grafica, nelle ripetizioni. L'idea di fare un viaggio del genere, senza alcuna possibilità reale di controllarne la rotta, mi ha realmente commosso. In questo è un film riuscito.

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In questo fotogramma del film si vede parte del percorso, poi si completa, il film lo illustra bene, tornando finalmente a Torino. Levi ci ha messo poco meno di un anno per percorrere tutta questa strada, ma il tempo per fare tutta questa strada è infinito nella coscienza e nella memoria di un uomo. E questa immagine è dolorosissima, straziante. La guerra è finita, finite le persecuzioni, ma non si torna a casa. Si può impazzire.
Questa è la potenza del film, che si conserva, intatta, nonostante il racconto poi parli quasi sempre d'altro. Perché, ed è l'altro tema portante del film, lo specchio del viaggio di Levi è adesso il paesaggio dei paesi ex comunisti. Il film, tutto il film, è talmente chiaro, lineare, piano, da far rinunciare subito a qualsiasi interpretazione macchinosa. La strada di Levi è come si presenta: la riproposizione del viaggio di Levi attraverso parte dell'Europa per tornare a casa. In questa volontà d'ingenuità, in questa scoperta vocazione alla chiarezza c'è del coraggio.
Il limite, i limiti del film non vanno quindi individuati nella linearità del racconto, o nel didascalismo di fondo costante, ma piuttosto nell'interpretazione di alcuni degli avvenimenti raccontati. I paesi dell'ex blocco sovietico forse non meritavano questo trattamento così superficiale. La condanna del passato comunista è comprensibile, ma un minimo di approfondimento in più, nelle immagini, o anche nell'approccio didascalico seguito in tutto il film, avrebbe giovato. Soprattutto alla luce dello scopo del film, che è inequivocabilmente quello di "istruire". E allora perché non insistere su questa linea? Perché rinunciare a spiegare meglio cos'è stato vivere in Ucraina, per esempio, negli anni della costruzione del paesaggio che ci viene mostrato? Senza questo approfondimento, resta una denuncia inattaccabile e stonata, che non riesce ad aggrapparsi alle immagini devastate che vediamo. E, dispiace dirlo, perché il film è bello, ma l'intermezzo comico con la censura bielorussa ci poteva essere risparmiato ampiamente.
La scelta di usare poco materiale di repertorio e in particolare la straniante camminata di Levi in visita ad Auschwitz denota grande sensibilità; quella di far recitare a Orsini alcuni passi de La tregua mostra invece poco orecchio. Quella voce, nel contesto de La strada di Levi, non c'entra nulla, è posticcia come Shakespeare, recitato da Orsini, in un film di Nino D'angelo. E soprattutto si sente male.
In un paio di punti la lacrima scappa anche a me che con i film non piango mai, ma il film non è mai ricattatorio. Per fortuna è lontanissima l'idea de La vita è bella. Qui tutto è limpido e duro, e quello che non si capisce, a parte la voce di Orsini, è solo l'orrore di una storia incredibile, che sembra aliena.
Non so se il film è stato girato già con l'intenzione di mostrarlo nelle scuole, probabilmente questo pensiero non è stato del tutto estraneo. E le scuole sono in effetti il migliore pubblico possibile per La strada di Levi. In una scuola, un film così, regala davvero uno sguardo diverso, la possibilità di abbracciare più decenni di storia in poco tempo, senza il ricatto del film su Auschwitz, ma con una chiarezza esemplare. Dà l'opportunità di scoprire un modo diverso di fare cinema, con umiltà, qualche errore, ma con umiltà; di scoprire meglio due scrittori, ché nel film c'è anche Rigoni Stern, triste e camminatore, che cerca di regalare la montagna a Levi. Mai a scuola ho visto un film così, e le mie letture, i miei pensieri sarebbero stati migliori se l'avessi fatto.
http://mammuthgiallo.blogspot.com.ar/2012/02/la-strada-di-levi-davide-ferrario.html
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Il mondo ci sembra avanzare verso una qualche rovina e ci limitiamo a sperare che l’avanzata sia lenta (da "La tregua", di Primo Levi)
Lo sguardo rivolto al passato si fa sentire più necessario e indispensabile quando il presente non offre le risposte alle sue profonde contraddizioni. Si cerca nel passato la possibile soluzione all’enigma che il tempo contemporaneo ci pone. Nella piena crisi che ha stravolto le categorie dei valori, cancellato anni di contrapposizioni politiche per sostituirle con altre, capovolto l’ordine delle priorità, compresso i concetti elementari dei rapporti solidali tra gli uomini, in questi tempi così confusi perfino da un quasi sconosciuto nuovo assetto geografico che ha ridisegnato i confini fisici dei paesi europei, c’è una forte esigenza di radici convincenti, di concetti primordiali da riaffermare.
Davide Ferrario e Marco Belpoliti l’hanno cercato nel libro La tregua di Primo Levi e da quelle pagine sono partiti per il lungo viaggio che li ha portati da Ground zero di New York fino alla porta di casa dello scrittore torinese, passando per l’est europeo lungo lo stesso itinerario che dopo il 25 gennaio 1945, giorno della sua liberazione da Auschwitz, lo scrittore percorse per tornare a casa.
Il documentario La strada di Levi, parte da questi assunti per snodare o riannodare i temi di una comunicazione interrotta, per ricominciare una narrazione dei fatti durante una nuova tregua, quella del tempo presente, tra la caduta del Muro e la tragedia dell’11 settembre, tra le guerre di difesa preventive e i disastri ecologici che mettono a rischio le nostre esistenze. Ma sempre dentro una tregua che diventa condizione esistenziale di una profonda precarietà che le parole di Levi ci hanno così nitidamente raccontato.
Ferrario e Belpoliti, come precisano, con le parole dello scrittore e i loro occhi, si sono rimessi in viaggio sulla strada che Levi percorse durante gli otto mesi del lungo ritorno. Il ripercorrere gli stessi itinerari significa ritrovare i luoghi, ma anche saggiarne la consistenza attuale. Il panorama è complesso, drammaticamente complicato, laddove la saturazione delle ideologie nella quotidiana vicenda umana, ha lasciato, il posto, dopo il loro annientamento, ad un vuoto che ciascuno ha necessariamente dovuto riempire così come poteva. Da qui la dissoluzione di qualsiasi ipotesi di progresso, da qui la disgregazione senza progetto per un futuro che Ferrario e Belpoliti raccontano attraversando l’Ucraina ricordando la morte incredibile del cantante Bilozir o la contaminazione desertificante di Chernobyl, o la Bielorussia come congelato modello sovietico, la Moldavia, la città polacca di Nowa Huta dove si intrattengono con Andrzej Waida nella dismessa fabbrica che vide protagonista il suo L’uomo di marmo e dove oggi lavorano ottomila operai contro i quarantamila degli anni d’oro.
Poi il ritorno al passato negli occhi di Mario Rigoni Stern che fu amico e confidente di Levi e che dal suo Altopiano di Asiago insegnava ancora al mondo un modo possibile di abitarlo in sintonia con il trascorrere del tempo. A Rigoni Stern è affidata forse la pagina più autenticamente commovente del film nel racconto della vicenda umana dello scrittore torinese, pochi sguardi, ma intensi, poche parole e tra queste quelle del ricordo struggente di una visita natalizia promessa e non mantenuta dall’amico Primo.
Il cinema di Ferrario conferma, ancora una volta, la sua forte volontà di comprendere il presente, di studiarlo nella sua corrente esplicazione. La strada di Levi  quindi riafferma la poetica del regista cremonese e nella sua incalzante narrazione non fa rimpiangere una nuova pellicola che non sia fiction, nella certezza che il racconto del nostro tempo passa anche e soprattutto attraverso un occhio che vada a ricercare l’origine delle mutazione dei tempi.
Primo Levi fu trovato morto l’11 aprile del 1987 nella tromba delle scale della propria abitazione. 
La collana torinese Chiarelettere ha pubblicato il documentario in dvd con in allegato un libro curato dallo stesso Belpoliti in collaborazione con Andrea Cortellessa. Un testo ricco, affascinante, estremamente stratificato e perfettamente speculare al film. Da una tregua all'altra, Aschwitz-Torino sessant'anni dopo è il titolo di un lavoro che da subito manifesta la sua intenzione di viaggio nella memoria critica e storica. Un testo diviso in tre parti principali (Primo Levi, Mario Rigoni Stern e La strada di Levi), ognuna della quali è a sua volta caratterizzata da capitoli, testimonianze e saggi firmati non soltanto dai due autori ma anche da Lucia Sgreglia, Mario Rigoni Stern, Massimo Raffaeli e lo stesso regista Davide Ferrario. Un libro che - come è scritto nella premessa - "è un nodo di nodi" che intende attraversare geografie territoriali e storiche insieme, lungo confessioni, analisi, articoli e... grande letteratura.
http://www.sentieriselvaggi.it/260/36705/(doc)_La_strada_di_Levi,_di_Davide_Ferrario_e_Marco_Belpoliti_(DVD_+_Libro).htm


Intervista a Davide Ferrario sul film La Strada di Levi

Il regista Davide Ferrario parla del suo documentario road-movie "La Strada di Levi", girato nei nostri tempi sul cammino percorso da Primo Levi alla fine della seconda guerra mondiale per tornare in Italia.

Come ha avuto l’idea di "La Strada di Levi?
Davide Ferrario: A dire il vero, è stato Marco Belpoliti a propormela. Ci conoscevamo da qualche tempo e Marco aveva apprezzato i miei documentari “on the road”. I miei documentari si aprono al non previsto, agli incontri, agli avvenimenti inattesi. Belpoliti pensava che potessi essere il regista adatto per qualcosa che aveva in mente fin da quando aveva iniziato il lavoro di curatore delle opere di Primo Levi per Einaudi: un viaggio lungo il percorso compiuto da Levi com’è raccontato ne "La Tregua".

E qual è stata la sua reazione alla proposta?
Davide Ferrario: Ne fui emozionato, e al contempo intimidito. È difficile prendere uno scrittore come Levi alla leggera. Sebbene, in un certo senso, Levi riesca a essere leggero anche nelle scene più spaventose. In ogni caso, si trattava di una grande sfida. Ciò che mi ha convinto è stata la considerazione che anche noi, oggi, ci troviamo in un periodo di tregua, come Levi quando scrisse il romanzo. Come lui allora, noi possiamo guardare a quanto è accaduto in Europa dalla caduta del comunismo e osservare come persone e culture stiano entrando in un nuovo secolo di incertezza. Ho compreso che il film avrebbe potuto essere su Levi e allo stesso tempo su di noi - ed è stato questo fatto a convincermi davvero. Nei titoli di testa è molto chiaro che lei ha prodotto e diretto il film, che però è presentato come “un film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti”...
Sì, da un punto di vista strettamente professionale l’intervento di Marco non è quello di un coregista o di un co-realizzatore “tecnico”... Ma, a parte suggerire l’idea ed essere l’esperto di Levi, Marco è stato un complice intellettuale, un compagno di viaggio, un’ispirazione culturale. Si può dire che, cinemato-graficamente parlando, il film è mio. Ma intellettualmente è di tutti e due. Questo spiega l’apparente contraddizione.

È molto interessante vedere come le parole di Primo Levi si integrino quasi alla perfezione con le immagini. C’era una sceneggiatura alla base delle riprese ed è poi andato alla ricerca di immagini adatte? O, semplicemente, dopo le riprese, si sono rintracciate le parti del romanzo più adatte ?
Davide Ferrario: Questo è un argomento particolarmente interessante. Io stesso non saprei dire cos’è venuto prima. Dopo aver trovato le locations, Marco ed io abbiamo concepito un’idea generale della struttura del film: avere un “tema” specifico per ogni paese attraversato, ad esempio. Ma in realtà, quando abbiamo girato, le cose sono accadute al di là di una rigida pianificazione. Avevo sempre con me il libro di Levi e le due esperienze, vedere e leggere, sono state quasi sempre simultanee e dialettiche. E io credo al destino. Un esempio: c’erano due temi che volevo affrontare in Bielorussia: la bellezza della natura, che fece riconciliare Levi con l’universo dopo l’esperienza di Auschwitz; e il controllo politico del regime sulla vita delle persone, oggi. Il modo più semplice e banale avrebbe potuto essere quello di filmare un paesaggio meraviglioso e poi intervistare un dissidente che ci raccontasse come le cose, sotto Lukacenko, vadano male. Ma quando siamo stati portati via dal KGB del posto, mentre ci trovavamo in un villaggio visitato da Levi, mi resi subito conto che quello sarebbe stato il modo di raccontare la storia, girando cioè quello che stava accadendo alla troupe, in vero stile cinéma-verité. Niente avrebbe potuto illustrare meglio la situazione. Allo stesso tempo, dopo aver passato qualche giorno con gli abitanti del villaggio, inclusi i rappresentanti del KGB, tutti noi concordavamo assolutamente con quanto aveva scritto Levi su di loro. Anche noi eravamo commossi dalla loro bontà d’animo, il che rendeva surreale la loro condizione. E questo è qualcosa che non avrei mai potuto pianificare. La maggior parte delle cose, nel film, sono accadute in questo modo, semplicemente stando sempre pronti ad afferrare la chance di una storia o di un incontro. E poi, per armonizzare tutto, è stata come sempre essenziale la collaborazione con Claudio Cormio, un montatore senza il quale mi è ormai difficile immaginare di lavorare.

Dopo questo film, qual è la sua idea di Europa?
Davide Ferrario: Molto contraddittoria. Dove il capitalismo (e a volte la democrazia) sta mettendo radici, tutto ciò che ha a che fare col passato viene spazzato via. La globalizzazione rende tutto identico, ovunque. Le persone possono essere più libere, ma perdono la loro identità. Possono essere libere di spostarsi, ma dove vanno se non appartengono più a nessun posto? In Europa, dove ogni paese, persona, città ha una storia individuale molto precisa, questo fatto è drammatico. È stato particolarmente interessante osservare le reazioni dei nostri interpreti e delle nostre guide. Ci volevano mostrare cosa c’era di nuovo; e rimanevano sconcertati quando si rendevano conto che noi eravamo interessati all’esatto contrario. Andavamo in cerca di quelle radici che si stanno velocemente dimenticando. È questa dialettica che darà forma alla nuova Europa.

Il suo film si avvale di un impegno produttivo maggiore di quanto accada, di solito, per un documentario, specialmente in Italia.
Davide Ferrario: Mi sono detto, in quanto regista/produttore, che avevamo in mano un grande progetto e che di conseguenza era necessario pensare in grande. Non solo per la presenza di Levi, ma anche perché le locations erano veramente meravigliose. Allo stesso tempo non avevamo abbastanza denaro per girare tutto in pellicola. Così abbiamo combinato alle riprese in pellicola quelle in digitale, cercando di tradurre ciò in forma artistica. C’è un livello di immagini più “meditate”, generalmente quelle in pellicola; e poi molte cose catturate nel momento in cui accadevano, generalmente su nastro. Alla fine, il formato anamorfico dà a tutto uniformità. Il rapporto con i due direttori di fotografia, Gherardo Gossi (che si è anche occupato delle elaborazioni digitali) e Massimiliano Trevis è stato fondamentale. Spero davvero che questo film possa segnare la rinascita della produzione documentaristica italiana. Abbiamo una grande tradizione che negli ultimi anni è stata tristemente e colpevolmente trascurata da chi ha retto le sorti del cinema italiano. Eppure in Italia ci sono dei documentaristi molto bravi. Bisognerebbe dar loro la possibilità di esprimersi e, soprattutto, di essere visti dal pubblico.

Anche la musica svolge un ruolo importante...
Davide Ferrario: Sì, come sempre nei miei film. Ho utilizzato due tipi di musica: una colonna sonora originale di Daniele Sepe, che era stato il co-autore anche di quella di Dopo mezzanotte, e musica locale. Daniele ha lavorato principalmente su due temi, uno per pianoforte e un altro che deriva da una vecchia canzone anarchica. Per quanto riguarda la musica locale avevo abbastanza orrore dell’idea di usare musica folk o “etnica” per illustrare un certo territorio. Così ho cercato qualcosa che fosse un po’ un cortocircuito musicale. Per esempio, a Leopoli ho scoperto i fratelli Karamazov, un gruppo che fa del blues-rock eccellente cantato in russo. Oppure ancora Felix Lajko, un violinista ungherese che fa della fusion virtuosistica. Ma non l’ho usato per l’Ungheria, bensì per l’entrata in Ucraina. Insomma, la musica ha un senso preciso rispetto al viaggio, ma cerca di non essere mai didascalica.

Si considera più un regista di film di finzione o di documentari?
Davide Ferrario: Di entrambi. Ma devo confessare di preferire i documentari. A mio parere, riflettono la vera natura del cinema: ai tempi dei Lumière, tutto è cominciato con alcune riprese di operai e di un treno in arrivo. Era documentario, ma anche fiction, era percepito dal pubblico in quel modo, ad esempio, come una storia. Questa è esattamente la dimensione che mi piace: creare una sorta di finzione partendo da un materiale documentario, e usare una tecnica documentaristica quando giro un film di finzione. Film e documentario non sono così separati. Il documentario è più onesto, tutto qui.
http://www.cinemaitaliano.info/news/00039/intervista-a-davide-ferrario-sul-film-la.html

1 comentario:

  1. Qué interesante se ve esta Pelí. Siempre tuve ganas de leer a primo levi y para esto está perfecto para empezar. Gracias por compartirla.

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