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sábado, 17 de julio de 2021

Contestazione Generale - Luigi Zampa (1970)


TÍTULO ORIGINAL
Contestazione generale
AÑO
1970
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
131 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Luigi Zampa
GUIÓN
Silvano Ambrogi, Leonardo Benevenuti, Piero de Bernardi, Alberto Silvestri, Rodolfo Sonego, Franco Verucci, Luigi Zampa
MÚSICA
Fred Bongusto, Piero Piccioni
FOTOGRAFÍA
Sante Achilli, Giuseppe Ruzzolini
REPARTO
Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Enrico Maria Salerno, Michel Simon, Marina Vlady, Milly Vitale, Sergio Tofano
PRODUCTORA
Ultra Film
GÉNERO
Comedia | Sátira. Película de episodios

Sinopsis
Compuesta por tres episodios: En "La bomba alla televisione", Gassman interpreta a un director de cine anarquista. En "Concerto a tre pifferi" Manfredi trabaja para un rico empresario cascarrabias y desagradecido. En "Il prete", Sordi interpreta a un párroco de pueblo al que acusan de tener una amante. (FILMAFFINITY)
 
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un altro sessantotto. a differenza di altre cinematografie, forse quella italiana ha raccontato meglio quest’epoca stando di lato, interpretando un momento complesso attraverso apologhi allegorici, storie di un quotidiano problematico, commedie dal sorriso al contrario. nel pensare a questo punto di svolta della società, vengono in mente i film di Bellocchio e Bertolucci e Pasolini e i Taviani anche al di là dei loro effettivi esiti. e poi Cavani, Maselli, Agosti, i sommersi Frezza, Da Campo, Bruno più o meno riconciliati… a noi interessa affrontare un cinema meno esplicito, più diagonale ed obliquo, oggi forse ancora capace di dirci qualcosa su quel grande cambiamento…

i film del 1968 (o giù di lì), in un percorso parallelo a quello consueto.


Nel 1968, Luigi Zampa diresse il campione d’incassi della stagione: era Il medico della mutua, una delle performance massime di Alberto Sordi, peraltro una delle commedie all’italiana più spietate e ciniche realizzate nel periodo. Essendo autore molto acuto nell’intercettare i cambiamenti che travolgono un popolo impreparato ad affrontarli, Zampa lesse il Sessantotto un paio di anni dopo, seguendo il modello prevalente del decennio precedente.

Il film ad episodi, lo sappiamo, è l’universo in cui il cinema italiano si è spesso misurato, bene o male, con temi abbastanza audaci, approfittando della breve durata per incidere con il senso satirico di uno sketch dirompente. Zampa non è stato tra i registi più attivi nel “cinema dei frammenti” fatto da più registi (l’unico caso è un episodio di I nostri mariti), cioè quelle raccolte legate da un elemento comune non sempre così forte da giustificare l’operazione.

Il suo cinema – specie quello degli anni sessanta – non di rado si presenta quale un’antologia di pezzi tenuti insieme da uno sguardo compatto e trasparente capace di amalgamare gli ingredienti. Pensiamo al corale Frenesia dell’estate o allo stesso Il medico della mutua (non è composto, in fondo, da una serie di visite?) o a Le dolci signore, che è sì un film ad episodi sullo schema de Le bambole ma diretti tutti da lui.

Contestazione generale è una raccolta di quattro sketch di durata varia che esprime il punto di vista di un regista maturo ed esperto sul calare del fermento sessantottino. Lo scarto sta nell’attenzione alla generazione dei quaranta-cinquantenni, ovviamente determinata dalla necessità di coinvolgere i moschettieri della commedia all’italiana ma comunque interessata a scandagliare un mondo davvero scopertosi incapace di decrittare serenamente il presente.

In realtà c’è uno sguardo sui giovani, attori principali della stagione, racconta in un frammento documentaristico che risente forse dell’evocazione di Amore e rabbia. Il segmento L’università, infatti, è da leggere in parallelo con Discutiamo, discutiamo di Marco Bellocchio e non va sottovalutato semplicemente alla stregua di un piccolo reportage sul campo. È quasi un’irruzione in un immaginario incendiario, l’ipotesi di un rigurgito neorealista, una parentesi che segna un passaggio di tono.

C’è da dire subito che Contestazione generale è nato a tre (più uno) episodi. Negli anni, il primo con Vittorio Gassman è in sostanza scomparso dalla circolazione, realisticamente per tagliarne la durata ai fini di una più facile messa in onda televisiva. Parliamo, dunque, di un film monco, che sembra un movie-movie con un inserto centrale in grado di definire l’aria del tempo, il contesto entro cui si muovono i personaggi del film. La contestazione generale, insomma.

Nel primo episodio, Concerto a tre pifferi, la star è Nino Manfredi, un dirigente che ha un rapporto conflittuale con il figlio ed è costretto a seguire il capo (l’irresistibile Michel Simon), dispotico e reazionario, in un viaggio a New York. Si tratta di una parabola fortemente tendente alla farsa fondata sullo smarrimento di un uomo di mezz’età sospeso tra la consapevolezza di essere un servo del potere e il dovere di incarnarlo agli occhi del figlio.

Il rapporto tra genitori e figli come cartina di tornasole della ribellione, la proiezione domestica della protesta in piazza che si risolve nella presa di coscienza dell’inesorabile subordinazione rispetto al capitalismo per sua natura trionfale rispetto al povero cristo. Niente di trascendentale, abbastanza gradevole specie sapendo che Leo Benvenuti e Piero De Bernardi pensarono l’industriale sul calco di Angelone Rizzoli, ma, insomma…

Dove Zampa rivela tutta la sua bravura nel tratteggiare un racconto intessuto di umorismo e civiltà è nel frammento Il prete, in cui Sordi mette a segno un altro dei suoi mirabili ritrattini ecclesiastici qui con una malinconia inesorabile. È il tristo parroco di un paesello (è Civita di Bagnoregio, “la città che muore”) che immagina di dare una piccola svolta alla sua vita quando s’illude che la bella cassiera del bar lo stia seducendo.

Con una delicatezza che confina con l’amarezza, Zampa mette in scena l’ottimo script di Rodolfo Sonego lasciando che la commedia si contami col dramma. Un anno prima de La moglie del prete, il problema del celibato ecclesiastico – apparentemente poco congruo alla temperie di un movimento giovanile ribollente – assume un valore emblematico, ponendo l’umile pretino al cospetto di un dilemma, una scelta di vita che è un atto rivoluzionario.

Come nel Concerto a tre pifferi, anche qui il potere è destinato a domare il povero cristo, imponendo un controllo che non è immune alla “chiusura di un occhio”: il matrimonio non è un tema sul quale si può discutere; d’altro canto, se vuoi coltivare una tua passioncella privata, fallo con discrezione. Il dramma del pretino è tutto in questa ipocrisia e nel suo non saper adeguarsi alla logica dell’ambiguità. Contestare per sopravvivere: ma a cosa, per chi?
https://lorciofani.com/2018/11/19/recensione-contestazione-generale-luigi-zampa-1970/


I episodio: La bomba alla televisione. Zelanti funzionari televisivi incaricano Riccardo, regista d'avanguardia, di girare un servizio altamente innovativo sulla contestazione. Il risultato è eccessivamente provocatorio e imbarazzante per i benpensanti dirigenti TV e non sarà mai trasmesso. Questo episodio faceva parte del film distribuito nelle sale cinematografiche ma in seguito venne completamente tagliato sia nelle rappresentazioni del film in televisione che nella successiva distribuzione del film su supporto audiovisivo. Di conseguenza in queste versioni del film sia Gassman che tutti gli attori che vi hanno partecipato non sono presenti.
II episodio : Concerto a tre pifferi. L'episodio narra del dott. Beretta, direttore dell'ufficio esteri nella fabbrica di un industriale milanese, e di suo figlio, giovane studente di architettura, pienamente immerso nel clima rivoluzionario e di contestazione dell'Università negli anni '70. Il dott. Beretta, che ha un rapporto conflittuale con il figlio, dovuto alle idee di quest'ultimo, deve partire per un viaggio d'affari a New York, con il suo anziano principale Umberto Gavazza, uomo profondamente conservatore e dispotico, verso il quale egli mantiene un atteggiamento servile. Durante il soggiorno contrassegnato dalle gaffes dell'anziano magnate milanese che stenta a comprendere il mondo e la lingua anglosassone, i due hanno un diverbio per questioni legate all'affare che sono venuti a trattare, e il dott. Beretta è per l'ennesima volta maltrattato dal suo capo, in un impeto di stizza decide di abbandonarlo lì al centro di New York, prima corre a telegrafare della "ribellione" al figlio, poi conclude l'affare alle sue condizioni e infine ritorna in albergo, ma qui misteriosamente il suo capo non è ancora rientrato. Dopo averlo fatto scarcerare e ascoltato, nello sfondo di una fredda New York mattutina, i motivi della sua incarcerazione, Beretta sembra essersi conquistato la fiducia del suo principale. Senonché questi, da principio convinto della sua buona fede nell'essersi allontanato il giorno prima, a suo dire per chiamare un taxi, inizia nel viaggio di ritorno a dubitarne, a Parigi prima, e poi ad accusarlo apertamente una volta in Italia, licenziandolo direttamente in macchina mentre tornano dall'aeroporto e facendolo scendere dalla vettura. Al Beretta, dopo un breve sfogo contro il figlio, che li seguiva in macchina, non rimane che suonare il piffero.
III episodio : L'università. Manifestazioni studentesche riprese all'interno di alcune Università italiane, genere semidocumentaristico.
IV episodio : Il prete. Alberto Sordi è il parroco di un piccolo paesino in provincia di Viterbo, Civita di Bagnoregio. La sua vita grama di paese, è caratterizzata dai continui spostamenti in corriera e in treno per provvedere alle esigenze dei suoi parrocchiani. La svolta a questa monotona quotidianità è data dalle attenzioni che la cassiera del bar della stazione, dove il parroco spesso si ferma, sembra riservargli e da alcuni biglietti anonimi che incomincia a ricevere, nei quali lo si accusa di avere incontri segreti con la suddetta. Il parroco verrà poi a scoprire che la cassiera ha sì un amante, ma è don Roberto, il parroco della città bassa, ben più ricco e potente di lui, e che le avances che gli muoveva servivano a depistare i sospetti da don Roberto. Nel viaggio che lo porta a conferire con il suo vescovo, il parroco inizia a riflettere su questa condizione del suo confratello e su quella di un ministro protestante che gli offre un passaggio nella sua costosa automobile e l'invita a cena in un dispendioso ristorante con la sua famiglia. Giunto in Curia, il vescovo gli comunica che la sua parrocchia è soppressa, e gli chiede cosa voglia in cambio e lui, ormai trasformato, chiede una parrocchia ricca e di potersi sposare.
https://www.pieropiccioni.com/film.php?movie=40


LUIGI ZAMPA, UN REGISTA DI (IN)SUCCESSO

«Zampa è un regista che ci interessa sempre, proprio per questa sua capacità di dare immagini tangibili agli umori, al moralismo pessimista dell’italiano medio, al suo giudizio su epoche recenti,
e creare maschere contemporanee comiche o drammatiche»

Italo Calvino, «Cinema Nuovo», n. 43, 25 settembre 1954.

Il Festival Internazionale del Cinema di Roma 2009 ha dedicato la retrospettiva a un grande regista del passato, Luigi Zampa (Roma, 1905-1991). Un Maestro senza più titoli, per convenzione annoverato fra le seconde linee del cinema italiano, alle spalle dei grandissimi, uno di quei nomi recitati come una formazione di calcio (Zampa, Castellani, Lattuada, Comencini, ecc.), ma prima della meritevole iniziativa del Presidente della Fondazione Cinema di Roma Gian Luigi Rondi e del curatore Mario Sesti mai studiato e approfondito fino in fondo, tanto da attendere ancora la consacrazione con un meritato “Castoro” (che, finita la gloriosa gestione di Fernaldo Di Giammatteo, ormai invece non si nega più nessuno).
Zampa è un autore fuori moda, un classico di cui continuiamo a vedere e rivedere i film, magari ignorando il suo nome (chi non conosce Il vigile, Il medico della mutua, Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, un trittico sordiano fra i più noti?), senza però godere fra i cinefili del necessario appeal. Forse perché uomo appartato, perfino severo nelle rare fotografie che circolano, poco interessato a chiosare la sua opera con dichiarazioni allettanti. Poteva funzionare più a Hollywood, da quel grande artigiano che era, capace di estrarre cinema da qualsiasi sceneggiatura e di imprimervi, comunque, il proprio marchio. Sicuramente oltreoceano avrebbero apprezzato di più le sue origini popolari, sempre rivendicate e su cui ha costruito il romanzo semi-autobiografico Il successo e, in fondo, anche i suoi film. Nell’intervista-testamento, l’ultima rilasciata prima di morire (contenuta nel volume di Francesco Bolzoni e Mario Foglietti Le stagioni del cinema. Trenta registi si raccontano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000), Zampa dichiarò: «Ho sempre preferito gli ambienti veri perché significa trovare la vita». Zampa era un regista che cercava la vita, ovvero una verità iscritta nei volti delle persone e nei luoghi in cui vivevano. Se è stato neorealista, anche oltre la stagione del neorealismo (che lui contribuì a superare, tanto da indurre Rondi a coniare, per Vivere in pace, l’etichetta “neorealismo rosa”), lo è stato per questa adesione (e condivisione) alla realtà. Zampa era in perfetta sintonia con le storie che raccontava, partecipava emotivamente alle vicende dei suoi personaggi, simpatizzando per le persone semplici («La gente che si alza la mattina e va a lavorare è l’umanità più ricca che ci sia»). Più vicino quindi allo spirito di ricostruzione, in tutti i campi, che animò il nostro Paese alla fine della seconda guerra mondiale, che agli intellettualismi anni Sessanta, quando il boom economico portò con sé disagi interiori prima sommersi nelle difficoltà quotidiane. Ecco perché si tende a identificare Zampa con l’epoca neorealista, malgrado nessuno dei suoi film, né Vivere in pace (1946), né L’onorevole Angelina (1947, nel quale lanciò come attore un certo Franco Zeffirelli), sia citato fra i capolavori di quel periodo. Forse per il suo ottimismo di fondo, che non gli consentiva di spingere il dramma fino al compiacimento. Troppo spesso poi ci si dimentica della straordinaria collaborazione con Vitaliano Brancati, una delle vette più alte nelle relazioni pericolose fra cineasti e letterati: «un incontro particolarmente fecondo tra due personalità che a diversi livelli propendevano verso una risentita osservazione della realtà italiana» (n. m. [Nicolò (Lino) Miccichè], Filmlexicon degli autori e delle opere, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1967). Insieme scrissero, fra gli altri, Anni difficili (1948), Anni facili (1953) e L’arte di arrangiarsi (1954) – ai quali va aggiunto il posteriore Anni ruggenti (1962), liberamente ispirato a Gogol’ – sul trasformismo tipicamente italico, storie di piccoli uomini costretti dalla Storia a indossare panni diversi a seconda delle circostanze, assurti a simbolo di un popolo sempre pronto a correre in soccorso del vincitore, come scrisse Bruno Barilli (battuta che Ennio Flaiano citò più volte, al punto di essergli attribuita). Satira che si prende gioco dei nostri punti deboli, offrendo una rappresentazione grottesca della società. Basterebbero questi film a fare di Zampa un autore con la a maiuscola, ma l’uomo, prima ancora del regista, era curioso e sensibile agli stimoli offerti dalla realtà, per cui in tempi non sospetti si permise, nel suo capolavoro Processo alla città (1952, su soggetto di Ettore Giannini e di Francesco Rosi), di trattare un argomento spinoso come quello della camorra, visto nelle sue origini storiche (un noto fatto di cronaca nella Napoli di inizi del Novecento), ma con un occhio ovviamente rivolto al presente (e purtroppo al futuro, vista la perdurante attualità del film). Secondo Morando Morandini «Non è solo il miglior film di Zampa, anche per merito dell’efficiente sceneggiatura (Suso Cecchi D’Amico, Ettore Giannini, Diego Fabbri, Turi Vasile) e uno dei rari drammi giudiziari riusciti del cinema italiano, ma anche una di quelle opere in cui le istanze civili e morali del neorealismo s’innestano sul robusto tronco di un melodramma popolare attento alla lezione del cinema americano d’azione», «il Morandini. Dizionario dei film»). Ma anche un film che anticipa il cinema di denuncia dello stesso Rosi, Petri e Damiani, filone al quale Zampa ritornerà più volte nella sua carriera, con Il magistrato (1959), altra pellicola giudiziaria, ambientata a Genova nell’ambiente del porto, e Gente di rispetto (1975), da un romanzo di Giuseppe Fava («Film rispettabile, ma non nel senso ironico del titolo col quale si allude come in Fatti di gente perbene alla solida reputazione che conferiscono, in un certo mondo, il delitto e l’intrigo. Bensì per il robusto senso dello spettacolo che, nell’ordine del decoro professionale cui Zampa mai si sottrae, presiede a una sorta di “giallo” che mentre da un lato stinge nel kafkiano, dall’altro fruga con amara coscienza civile una delle sacche più terrificanti della società italiana: l’oscura realtà di quella Sicilia dove la miseria s’intreccia al sopruso e alla paura, e genera un’immagine rabbrividente della vita», Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31 ottobre 1975). Dietro la “cultura” della mafia, diffusa in ogni strato sociale, si celano interessi e speculazioni edilizie: l’interesse del regista per la realtà sociale non sposta però la sua attenzione dal motore della vicenda, il denaro.
La curiosità e la capacità di Zampa di vivere la contemporaneità, senza rimanere fedele a concezioni predefinite, lo portano a cavallo degli anni Sessanta ad avvicinarsi anche alla commedia di costume, con film volutamente leggeri (Ladro lui, ladra lei, 1958, Il vigile, 1960, Frenesia dell’estate, 1963, Le dolci signore, 1967), alternati a ritorni di fiamma per la satira pungente (il citato Anni ruggenti) e per la grottesca rilettura della società, colta nelle sue espressioni più dolorosamente arcaiche (Una questione d’onore, 1965, una faida fra due famiglie in Barbagia nel quale viene invischiato il protagonista, interpretato da Ugo Tognazzi: «È un soggetto di sapore pirandelliano, con il tipico contrasto fra la vita e la forma, nel quale Ugo Tognazzi si muove come un grottesco e accusatorio eroe di Brecht (ma è evidente anche il modello di Germi)», Tullio Kezich, Il film sessanta. Il cinema degli anni 1962-1966, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1979). Per poi rialzare il tiro sull’onda del ’68, che non colse il regista impreparato. Il medico della mutua (1968) è un film (e un titolo) emblematico sull’arrivismo, anch’esso tipicamente italico, che può spingere un modesto medico a passare sulla testa (e sui cadaveri) di chiunque pur di far carriera. Beffardo ritratto della sanità pubblica, con toni da commedia che sfumano via via in un vortice di cattivi sentimenti, dal quale lo spettatore esce impotente. Bissato da Bisturi la mafia bianca (1973), che Kezich definisce «la versione drammatica» de Il medico della mutua, lodandone l’efficace progressione drammatica e la conclusione a sorpresa . Ma è con Contestazione generale (1970) che Zampa dimostra la sua modernità e la sua giovinezza di spirito: la ribellione al potere come chiave di lettura dei rapporti sociali, a qualsiasi livello e a qualsiasi età. Zampa trae dalla contestazione giovanile il monito per una riflessione più ampia, che investe il cosiddetto sistema, strutturato su rapporti di forza e convenzioni che vanno rispettate, pena l’esclusione sociale. Un regista che sconvolge l’ordine televisivo precostituito, un impiegato alle prese con un vulcanico datore di lavoro (costruito sul modello del produttore ed editore Rizzoli e sulla aneddotica che accompagnava le sue gesta), un prete posto di fronte al problema del matrimonio e al mutare dei costumi anche in campo ecclesiastico, oltre che un breve episodio dedicato all’occupazione dell’università, il più attuale, ma anche il meno impellente per il regista. Sono gli ultimi fuochi del cinema di Zampa, che l’anno successivo firmerà un altro titolo rimasto nell’immaginario collettivo, Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, con Sordi e Claudia Cardinale. Chiuderà la sua carriera, dopo il ritorno a temi cari con Gente di rispetto e Bisturi la mafia bianca, con Il mostro (1977, «un apologo sulla violenza. Il mostro, dice L. Zampa, non è questo o quel personaggio: è la violenza nella società, nei mezzi di comunicazione di massa, nella famiglia», «il Morandini. Dizionario dei film») e il film a episodi Letti selvaggi (1979, in cui compare anche Roberto Benigni), che se non aggiungono nulla alla sua filmografia, dimostrano fino all’ultimo il suo interesse per la realtà circostante.
Non bastasse tutto ciò, la grandezza di Zampa è testimoniata dai nomi degli sceneggiatori che hanno firmato i suoi film: oltre a quelli già citati, Aldo De Benedetti, Piero Tellini, Vincenzo Talarico Age & Scarpelli, Ruggero Maccari, Pasquale Festa Campanile & Massimo Franciosa, Benvenuti & De Bernardi, Sergio Amidei, Tonino Guerra, Rodolfo Sonego, Giorgio Bassani, Ennio Flaiano, Alberto Moravia, dal cui romanzo La romana ha tratto l’omonimo film del 1954, restaurato per l’occasione della Cineteca Nazionale in collaborazione con Sky Cinema. Per non parlare degli attori, a molti dei quali ha offerto l’occasione per interpretazioni particolarmente ispirate: Aldo Fabrizi, Raf Vallone, Peppino De Filippo, Nino Taranto, Gino Cervi, Salvo Randone, Amedeo Nazzari, Paolo Stoppa, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Frank Wolff, Enrico Maria Salerno, Gabriele Ferzetti, Anna Magnani, Carla Del Poggio, Valentina Cortese, Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida, Sylva Koscina, Sandra Milo, Bice Valori, Claudia Cardinale, Virna Lisi, Ursula Andress, Monica Vitti. Nell’opera di Luigi Zampa scorre il meglio del cinema italiano.
Luca Pallanch
https://cinemonitor.it/luigi-zampa-un-regista-di-insuccesso/


 

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