TÍTULO
Io la conoscevo bene
AÑO
AÑO
1965
IDIOMA
IDIOMA
Italiano
SUBTITULOS
SUBTITULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
DURACIÓN
99 min.
DIRECTOR
DIRECTOR
Antonio Pietrangeli
GUIÓN
GUIÓN
Antonio Pietrangeli, Ruggero Maccari, Ettore Scola
MÚSICA
MÚSICA
Benedetto Ghiglia & Piero Piccioni
FOTOGRAFÍA
FOTOGRAFÍA
Armando Nannuzzi
REPARTO
REPARTO
Stefania Sandrelli, Mario Adorf, Jean-Claude Brialy, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Robert Hoffmann, Joachim Fuchsberger, Enrico Maria Salerno, Karin Dor, Franco Fabrizi, Franco Nero, Veronique Vendell
PRODUCTORA
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Alemania del Oeste-Francia; Les Films du Siècle / Roxy Film / Ultra Film
GÉNERO
GÉNERO
Drama
Sinópsis
Cuenta la historia de una muchacha del campo que se traslada a Roma en busca de fortuna, a ser posible en el soñado mundo del espectáculo. Adriana va de amante en amante y de oficio en oficio, desde los anuncios hasta pequeños papeles en el cine. Es ingenua y muy guapa, lo que provoca que muchos hombres no duden en aprovecharse de ella. (FILMAFFINITY)
Premios
1966: Festival Mar del Plata: Mejor Director
Con te si sta bene perché sei una ragazza riposante.
Già nel suo film d'esordio e nei pochissimi altri non dettati da ragioni prettamente mercantili (non più di un paio in tutto, fra i quali va annoverato sicuramente La visita e, forse, La parmigiana, per quanto irritante e scombinatissimo), Pietrangeli ha mostrato un interesse acuto e persistente per un certo tipo di personaggio femminile. Al punto che i suoi due o tre film che vale la pena di ricordare si risolvono, in fondo, in altrettanti ritratti di donne che hanno un dato comune: l'estrazione paesana e provinciale che non riescono, malgrado tutto, a lasciarsi dietro le spalle nell'esperienza, quasi sempre infelice, dell'inurbamento, anche se hanno sofferto e continuano magari a soffrire e respingere le angustie mortificanti della loro origine. La Celestina de Il sole negli occhi e la Pina de La visita sono, in tal senso, due volti della stessa medaglia.
Con Io la conoscevo bene Pietrangeli vorrebbe andare molto oltre, su questa strada, seguendo uno dei suoi personaggi prediletti da uno spopolato paese dell'Appennino toscano alle esperienze abbaglianti e lusingatrici della grande città coi suoi miti falsi e bugiardi prodotti e consumati con crescente voracità, sino a un tragico esito. Protagonista del ritratto è Adriana, via via pettinatrice, mascherina di un cinema all'Eur, aspirante attrice, che riceve e incassa, con una resistenza fatta di disarmante passività e incoscienza, tutta una serie di umiliazioni, batoste e disillusioni l'una peggiore dell'altra, considerata da quanti la incontrano e la spremono impietosamente non più che una scemetta e una puttanella qualsiasi, disponibile come un oggetto da prendere e buttare senza troppi scrupoli.
Con Io la conoscevo bene Pietrangeli vorrebbe andare molto oltre, su questa strada, seguendo uno dei suoi personaggi prediletti da uno spopolato paese dell'Appennino toscano alle esperienze abbaglianti e lusingatrici della grande città coi suoi miti falsi e bugiardi prodotti e consumati con crescente voracità, sino a un tragico esito. Protagonista del ritratto è Adriana, via via pettinatrice, mascherina di un cinema all'Eur, aspirante attrice, che riceve e incassa, con una resistenza fatta di disarmante passività e incoscienza, tutta una serie di umiliazioni, batoste e disillusioni l'una peggiore dell'altra, considerata da quanti la incontrano e la spremono impietosamente non più che una scemetta e una puttanella qualsiasi, disponibile come un oggetto da prendere e buttare senza troppi scrupoli.
Un prodotto standard da consumare in fretta in una pausa nella giornata, un oggetto-pop direbbero i più smaliziati. E il regista non a caso ha inteso servirsi di un vastissimo repertorio di motivi musicali tratti dai "Juke-box", che si susseguono con persistenza martellante e ossessiva, a sottolineare l'educazione sentimentale" del personaggio e l'inautenticità dei suoi incontri e rapporti. Ma bisogna subito aggiungere che, su questa via, più che sviluppare un discorso autonomo e personale, Pietrangeli sembra suggestionato da tutta una serie di precedenti, piuttosto eterogenei, che vanno dalla "ragazza con la valigia" di Zurlini alla Cecilia di Moravia mediata attraverso le brutte e inutili immagini del film di Damiani. Per non dire delle ascendenze "retrospettive" del pedinamento zavattiniano del personaggio - le pause vuote di certi pomeriggi in casa, lontano dalla illusoria vitalità dei "Party" e degli amplessi occasionali - e di un certo fellinismo che costituisce un po' il risvolto "originario" e stupefatto di questa Gelsomina '65 scaraventata dalle contrade remote di un'Italia arcaica e provinciale nel frastuono alienante dell'Italia metropolitana e neocapitalistica dell'oggi (si veda in particolare la sequenza dell'incontro notturno col povero pugile "bietolone" e suonato, e il trepido riconoscersi di due "piccole" anime umiliate e offese, ma non guastate, dalla brutalità dell'esistenza e dalla carognaggine del prossimo).
Questo per dire che l'Adriana di Pietrangeli, nella quale pure si potrebbero ritrovare riscontri innumerevoli dal punto di vista di una sociologia approssimativa, è poi un personaggio tutto di testa, costruito se vogliamo con generoso moralismo, documentato fin troppo da quell'incredibile finale, ma con scarsa persuasione interna, soprattutto nella descrizione dei rapporti con quanti sono causa e strumento della sua alienazione. Qui viene fuori infatti la solita galleria di mostri e mostriciattoli a cui ci hanno ormai abituato, sino alla noia, i Risi, i Rossi, i Petri, per ricordare soltanto i meno corrivi. Il "press-agent" da quattro soldi, il "public-relation" senza scrupoli, l'attore arrivato e cinico, il giovane di buona famiglia più ipocrita e spietato del ladruncolo che abbandona la ragazza in un motel senza pagare il conto, lo scrittore famoso e inaridito, e altri ancora, rientrano in una casistica ormai logora, e qui particolarmente diluita od estenuata, in cui gli scampoli della cattiva letteratura di largo consumo piccolo-borghese si sposa al gusto deteriore della trovata e della battuta del cinema volgare degli anni '60.
Non mancano, in verità, episodi e momenti riusciti, di una cattiveria pungente e rattristata (la festa in casa Paganelli e la penosa esibizione del Baggini, impersonato da un Tognazzi mortificato e imbolsito che non dimenticheremo facilmente) e certe pause di vuoto e di sconforto della vita di Adriana vengono descritte con sincera, anche se un po' abbandonata, adesione. Comunque, se è certo che Pietrangeli, il cui ultimo film se non ricordiamo male è addirittura Il magnifico cornuto, ha voluto riguadagnare, sia pure tardivamente, i margini di un discorso che gli appartiene, è altrettanto certo che egli non è riuscito ad arrivare molto lontano, rimanendo sempre al di qua di quel traguardo di spietata rappresentazione che doveva essere nei suoi propositi. Le vie del cinema mercantile, si sa, sono facili da imboccare, ma difficilissime da abbandonare, anche contro le migliori intenzioni.
Adelio Ferrero
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005
Los infortunios de la inocencia
“El vacío es como un espejo delante de mí”, dice el personaje de Max Von Sydow en El séptimo sello de Ingmar Bergman. Adriana (Stefania Sandrelli), la protagonista de Io la conoscevo bene (Yo la conocía bien), nunca diría una frase como esta, pero el director de la película, Antonio Pietrangeli, utiliza a menudo el recurso de los espejos para expresar visualmente esa sensación, para abrirse a la subjetividad de la protagonista en medio de la descripción objetiva del mundo en que se desenvuelve.
La película tiene una estructura muy moderna, fragmentaria, acorde con la forma que tiene Adriana de dirigir su vida; está formada por episodios inconexos, que en su mayor parte se adscriben al género de la picaresca, cuyas raíces más profundas están en autores como Petronio o Marcial, que parecen contemporáneos nuestros; sin ir tan lejos, y en el ámbito de aquellos años dorados del cine italiano (que coincidieron también con los de la canción popular), la película surge en un paisaje de fondo en el que convivían, entre otras muchas especies, las sátiras trascendentales o plebeyas (La dolce vita, Il sorpasso, Risate di gioia), la estilización de lo popular de Pasolini o De Seta, las elegías juveniles de Zurlini y los frisos existencialistas de Antonioni; en mundos muy distantes, y al margen de las diferencias de sus destinos, Adriana tiene una antepasada en Thymian (Louise Brooks), la protagonista de Tres páginas de un diario de Pabst. En oposición a esta, o la Cabiria de Fellini, o la Romy Scheneider de Il lavoro de Visconti, Adriana nunca cae en la prostitución, del mismo modo que la película rehúye la tentación de lo sentimental, de la denuncia fácil y reconfortante.
La película de Pietrangeli oscila insensiblemente entre lo objetivo (la comedia de costumbres) y lo subjetivo (el drama moralista); a medida que transcurre comprendemos que su motivo es la tristeza de vivir, y de forma específica la tristeza de la juventud, que se expresa en forma de movimiento perpetuo: el mundo se divide en desaprensivos y desgraciados, y su metáfora es la cancha de boxeo (aquí instalada dentro de un teatro de ópera), en la que la estrategia para no recibir una paliza consiste en elegir a un contrincante más débil. No estamos lejos de las peripecias de algunas heroínas de Sade, aunque aquí no hay tesis aparente, y la búsqueda del detalle verista prima sobre lo discursivo.
Adriana nunca recurre a estos juegos de poder, y no porque sea incapaz de planificar su vida más allá de sus impulsos primarios –que se revelan a través de decisiones instintivas, visiones instantáneas, recuerdos cuyos detalles no se explican; o mediante recursos formales, como el giro de la cámara en la escena en que asiste a una clase de interpretación dramática (que parece al principio un divertimento vanguardista del director ante una repetición incesante, pero culmina con el desmayo de Adriana, que descubre que está embarazada), o el enfático final. Simplemente, ella carece por completo de ambición.
La imperfección de la película contribuye a hacerla viva, llena de riesgo, de decisiones instintivas, visiones instantáneas… Es significativa, tratándose de Italia, la ausencia de la religión; salvo en la referencia a la trágica historia de la hermana, esta solo se hace visible como trasfondo, en la arquitectura de las iglesias –como en el bello plano nocturno de Adriana ante la fachada del duomo de Orvieto, que sirve como contraste de la fealdad cotidiana que la rodea. La película no condena el vacío y la gratuidad de la existencia de Adriana (que se resume en la descripción artificiosa que hace de ella el escritor, Joachim Fuchsberger, un personaje que parece escapado de una película de Antonioni, y también en la canción de Sergio Endrigo Mani bucate), sino a ese mundo que la rodea, en el que no hay lugar para la inocencia
https://navegandohaciamoonfleet.wordpress.com/2018/04/28/io-la-conoscevo-bene-antonio-pietrangeli/
“El vacío es como un espejo delante de mí”, dice el personaje de Max Von Sydow en El séptimo sello de Ingmar Bergman. Adriana (Stefania Sandrelli), la protagonista de Io la conoscevo bene (Yo la conocía bien), nunca diría una frase como esta, pero el director de la película, Antonio Pietrangeli, utiliza a menudo el recurso de los espejos para expresar visualmente esa sensación, para abrirse a la subjetividad de la protagonista en medio de la descripción objetiva del mundo en que se desenvuelve.
La película tiene una estructura muy moderna, fragmentaria, acorde con la forma que tiene Adriana de dirigir su vida; está formada por episodios inconexos, que en su mayor parte se adscriben al género de la picaresca, cuyas raíces más profundas están en autores como Petronio o Marcial, que parecen contemporáneos nuestros; sin ir tan lejos, y en el ámbito de aquellos años dorados del cine italiano (que coincidieron también con los de la canción popular), la película surge en un paisaje de fondo en el que convivían, entre otras muchas especies, las sátiras trascendentales o plebeyas (La dolce vita, Il sorpasso, Risate di gioia), la estilización de lo popular de Pasolini o De Seta, las elegías juveniles de Zurlini y los frisos existencialistas de Antonioni; en mundos muy distantes, y al margen de las diferencias de sus destinos, Adriana tiene una antepasada en Thymian (Louise Brooks), la protagonista de Tres páginas de un diario de Pabst. En oposición a esta, o la Cabiria de Fellini, o la Romy Scheneider de Il lavoro de Visconti, Adriana nunca cae en la prostitución, del mismo modo que la película rehúye la tentación de lo sentimental, de la denuncia fácil y reconfortante.
La película de Pietrangeli oscila insensiblemente entre lo objetivo (la comedia de costumbres) y lo subjetivo (el drama moralista); a medida que transcurre comprendemos que su motivo es la tristeza de vivir, y de forma específica la tristeza de la juventud, que se expresa en forma de movimiento perpetuo: el mundo se divide en desaprensivos y desgraciados, y su metáfora es la cancha de boxeo (aquí instalada dentro de un teatro de ópera), en la que la estrategia para no recibir una paliza consiste en elegir a un contrincante más débil. No estamos lejos de las peripecias de algunas heroínas de Sade, aunque aquí no hay tesis aparente, y la búsqueda del detalle verista prima sobre lo discursivo.
Adriana nunca recurre a estos juegos de poder, y no porque sea incapaz de planificar su vida más allá de sus impulsos primarios –que se revelan a través de decisiones instintivas, visiones instantáneas, recuerdos cuyos detalles no se explican; o mediante recursos formales, como el giro de la cámara en la escena en que asiste a una clase de interpretación dramática (que parece al principio un divertimento vanguardista del director ante una repetición incesante, pero culmina con el desmayo de Adriana, que descubre que está embarazada), o el enfático final. Simplemente, ella carece por completo de ambición.
La imperfección de la película contribuye a hacerla viva, llena de riesgo, de decisiones instintivas, visiones instantáneas… Es significativa, tratándose de Italia, la ausencia de la religión; salvo en la referencia a la trágica historia de la hermana, esta solo se hace visible como trasfondo, en la arquitectura de las iglesias –como en el bello plano nocturno de Adriana ante la fachada del duomo de Orvieto, que sirve como contraste de la fealdad cotidiana que la rodea. La película no condena el vacío y la gratuidad de la existencia de Adriana (que se resume en la descripción artificiosa que hace de ella el escritor, Joachim Fuchsberger, un personaje que parece escapado de una película de Antonioni, y también en la canción de Sergio Endrigo Mani bucate), sino a ese mundo que la rodea, en el que no hay lugar para la inocencia
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Tessere di un puzzle, frammenti di uno specchio andato in pezzi: Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli è il frutto di un raffinato lavoro di composizione, opera tipicamente pura in quanto capace di parlare da sé, come un testo che si fa leggere disvelando ogni volta un significato diverso, una porta su un senso ultimo di ri-definibile esplicitazione.
C’è un’unità di fondo in quest’operazione di scrittura per il cinema, sebbene ogni singolo fotogramma e cambio di prospettiva si pongano come implacabili tentativi di diffrazione, quasi a rimarcare l’utilità di un’operazione complessa eppure – al tempo della storia – strettamente necessaria.
Una spiazzante quotidianità
La vicenda di Adriana (Stefania Sandrelli), giovane pistoiese approdata a Roma nella speranza di sfondare nel cinema è, in termini di pura trama, un racconto di spiazzante quotidianità. Non suscitano scalpore le sue ingloriose peripezie e gli ingenui incontri d’amore mancato appaiono piuttosto un residuo melodrammatico, stilemi di «narrativa minore»[1] adattati a un discorso di nausea dell’esistenza.
Eppure l’indicibile sinossi con la sua impossibilità di traduzione all’infuori del confine filmico è, nell’opera di Pietrangeli, caratteristica funzionale alla messa in scena di una storia che si consuma in un tempo incerto, storicamente e narrativamente sfuggente.
Il tempo sospeso
Gli anni Sessanta in cui la vicenda si colloca vengono rivelati, in uno sfacciato gioco di deduzione, da una serie di dettagli che costellano l’opera sin dal suo inizio, quando Adriana dopo aver preso il sole in spiaggia si dirige ridente verso un negozio da parrucchiera, non prima di aver chiesto a un uomo di allacciarle il costume e aver flirtato, con maliziosa ingenuità, con un altro passante che l’annaffia per strada.
Il cambio sequenza mostra l’improvvisa rottura di una boccetta di smalto quando un flashback, rapido e spiazzante, restituisce Adriana alle prese con un’altra caduta, quella di una bottiglia di vetro che le scivola dalle mani mentre è impegnata a respingere l’assalto di un rozzo spasimante.
Fragilità e visione parziale
Non c’è, né qui né altrove, alcun riferimento concreto all’effettiva durata della storia e il contesto, pur se volutamente riconoscibile, è racchiuso nello spazio di una narrazione sospesa, che procede per segmenti brevi legati tra loro eppure fortemente autonomi, tanto da indurre lo spettatore a ricercare – se mai lo volesse – il valore “d’inizio” di ciascun tratto, tessera imprescindibile ma non cronologicamente ordinata del mosaico esistenziale della protagonista.
Il duplice richiamo al vetro infranto, tra l’altro, racchiude in sé un senso ben più profondo della semplice corrispondenza costruttiva; come un recipiente che si rompe, Adriana è un oggetto fragile destinato a spezzarsi, mentre le schegge delle sua vita narrata e ri-vissuta si pongono come strumenti di una visione parziale, ognuno portatore di uno sguardo diverso e drammaticamente esterno.
I volti di Adriana
In tal senso, pertanto, ha valore parlare – come in apertura di articolo – di frammenti di uno specchio andati in pezzi, tanto più che Pietrangeli confeziona una delle ultime, feroci sequenze, come una panoramica sul volto di Adriana, seduta davanti a uno specchio che le restituisce l’immagine moltiplicata per tre, secondo diversi primi piani che rappresentano le sfaccettature della sua personalità, appiattita dagli altri e apparentemente «senza interiorità»[2].
La prospettiva che ogni ritaglio del film restituisce è quella, sempre manchevole e rivedibile, di una protagonista approcciata mediante gli occhi di un personaggio altro, che quasi nella totalità dei casi è un individuo di sesso maschile: fidanzati squattrinati e uomini di successo, un agente spietato e – nello spezzone più tragico – uno scrittore insensibilmente schietto.
Sguardo maschile e contraddizioni del “boom”
Dai loro sguardi – sapientemente introiettati dalle colleghe-maschere di Adriana e dall’amica a cui racconta dell’aborto – emerge una descrizione della ragazza come soggetto “appendicolare”, preda facile e agevolmente domabile perché calata con precisione nel desiderio del suo tempo, quello di un’epoca di repentine trasformazioni in cui il nuovo ciclo di produzione e i bisogni indotti dal “boom” non fanno in tempo a innestarsi con grazia sul tronco tradizionale della società contadina.
Il mondo in cui Adriana s’immerge è popolato da cinici cacciatori di denaro, crassi viveur pronti a tutto pur di guadagnarsi un posto in società: lo testimonia Paolo (Nino Manfredi) col suo suggerimento di posare nuda per attirare i registi, e lo rimarca soprattutto Bagini (Ugo Tognazzi), laido “caratterista” costretto a divertire una disumana platea di attori e stelline.
La critica alla società dei consumi
Quando Adriana è con questi personaggi il suo carattere, per ammissione dello stesso Pietrangeli, è ingenuamente e spontaneamente «riposante» («Le va tutto bene. Dove la mettono resta. Dove la portano va»[3]) ma non c’è dubbio che, nel raccogliere insieme i frammenti dello specchio, il regista sappia bene come illuminarli.
L’impietosa critica da lui avanzata, sotto la superficie, alla società del “miracolo”, dello scambio e del profitto restituisce infatti, in controluce, una sincera tenerezza per la sua giovane e isolata protagonista.
Estraneità di Adriana
Come la costruzione, che procede per tappe interagenti e intimamente connesse, così i contenuti della pellicola si affiancano e moltiplicano in un testo infinito, i cui livelli di lettura non cessano di aprire porte a interpretazioni che conducono tutte a un punto centrale: l’estraneità di Adriana a un sistema di cui si crede – e appare – parte.
Di contro alla vacuità che la perdita dei valori tradizionali porta con sé (in alcune sequenze la giovane è mostrata nella sua casa paterna in campagna, con un fratello malato e una sorella che si sa suora), la protagonista di Io la conoscevo bene mostra un candore d’animo quasi naïf, incredibilmente fuori posto in una società che pure la sfrutta per la sua attitudine alle tenerezze.
Un soggetto imprevisto
Innamorata senza interessi, disposta a concedersi nell’incapacità di sfruttare la propria avvenenza, la ragazza – personaggio tragico – è, in tale ottica, persino un soggetto autonomo o meglio imprevisto, secondo la definizione di Carla Lonzi ripresa con pertinenza da Lucia Cardone[4].
Le relazioni affettive che Adriana coltiva ne fanno un’inconsapevole antesignana della rivoluzione sessuale iniziata col Sessantotto – beffardamente anno di morte di Pietrangeli che avrà nel figlio Paolo il suo principale cantore.
«Io la conoscevo bene»: tra femminismo e utopia
Soltanto anni dopo, tuttavia, le donne prenderanno coscienza dell’enorme peso scaricato dalla sessualità libera sulle loro coscienze e spalle. Tenute a soddisfare i loro uomini nonostante il mutamento dei ruoli, le femministe lavoreranno moltissimo su una visione del sesso svincolata dalla funzione patriarcale di riproduzione e servizio.
Adriana Astarelli, in questo senso, precorre involontariamente i tempi di una riflessione a venire, e non è un caso che il suo ritratto più dolcemente veritiero emerga nella gratuità degli incontri con il pugile sconfitto e il garagista del suo stabile.
Indimenticabile figura della filmografia del Novecento, questa giovane fuori dalla norma conclude il suo viaggio gettandosi dalla finestra, in un ultimo estremo atto di desuetudine. Che sia un gesto di disperazione o ribellione non è dato saperlo, e in fondo ai fini del racconto non costituisce necessità. Il finale è soltanto una scheggia di un corpo sfrangiato, l’ennesimo frammento di specchio da raccogliere in pezzi.
Note:
[1] P. Bianchi, Io la conoscevo bene, in “Il Giorno”, 2 dicembre 1965.
[2] R. De Gaetano, Il romanzesco di Io la conoscevo bene, in “Fata Morgana Web”, 28 gennaio 2019.
[3] A. Pietrangeli, Il secondo soggetto, in L. Miccichè (a cura di), Io la conoscevo bene. Infelicità senza dramma, Torino, Lindau, 1999, p. 87.
[4] L. Cardone, Donne impreviste. Segni del desiderio femminile nel cinema italiano degli anni Sessanta, in “Cinergie”, 5, 2014, p. 23.
Ginevra Amadio
https://www.npcmagazine.it/io-la-conoscevo-bene-pietrangeli/
C’è un’unità di fondo in quest’operazione di scrittura per il cinema, sebbene ogni singolo fotogramma e cambio di prospettiva si pongano come implacabili tentativi di diffrazione, quasi a rimarcare l’utilità di un’operazione complessa eppure – al tempo della storia – strettamente necessaria.
Una spiazzante quotidianità
La vicenda di Adriana (Stefania Sandrelli), giovane pistoiese approdata a Roma nella speranza di sfondare nel cinema è, in termini di pura trama, un racconto di spiazzante quotidianità. Non suscitano scalpore le sue ingloriose peripezie e gli ingenui incontri d’amore mancato appaiono piuttosto un residuo melodrammatico, stilemi di «narrativa minore»[1] adattati a un discorso di nausea dell’esistenza.
Eppure l’indicibile sinossi con la sua impossibilità di traduzione all’infuori del confine filmico è, nell’opera di Pietrangeli, caratteristica funzionale alla messa in scena di una storia che si consuma in un tempo incerto, storicamente e narrativamente sfuggente.
Il tempo sospeso
Gli anni Sessanta in cui la vicenda si colloca vengono rivelati, in uno sfacciato gioco di deduzione, da una serie di dettagli che costellano l’opera sin dal suo inizio, quando Adriana dopo aver preso il sole in spiaggia si dirige ridente verso un negozio da parrucchiera, non prima di aver chiesto a un uomo di allacciarle il costume e aver flirtato, con maliziosa ingenuità, con un altro passante che l’annaffia per strada.
Il cambio sequenza mostra l’improvvisa rottura di una boccetta di smalto quando un flashback, rapido e spiazzante, restituisce Adriana alle prese con un’altra caduta, quella di una bottiglia di vetro che le scivola dalle mani mentre è impegnata a respingere l’assalto di un rozzo spasimante.
Fragilità e visione parziale
Non c’è, né qui né altrove, alcun riferimento concreto all’effettiva durata della storia e il contesto, pur se volutamente riconoscibile, è racchiuso nello spazio di una narrazione sospesa, che procede per segmenti brevi legati tra loro eppure fortemente autonomi, tanto da indurre lo spettatore a ricercare – se mai lo volesse – il valore “d’inizio” di ciascun tratto, tessera imprescindibile ma non cronologicamente ordinata del mosaico esistenziale della protagonista.
Il duplice richiamo al vetro infranto, tra l’altro, racchiude in sé un senso ben più profondo della semplice corrispondenza costruttiva; come un recipiente che si rompe, Adriana è un oggetto fragile destinato a spezzarsi, mentre le schegge delle sua vita narrata e ri-vissuta si pongono come strumenti di una visione parziale, ognuno portatore di uno sguardo diverso e drammaticamente esterno.
I volti di Adriana
In tal senso, pertanto, ha valore parlare – come in apertura di articolo – di frammenti di uno specchio andati in pezzi, tanto più che Pietrangeli confeziona una delle ultime, feroci sequenze, come una panoramica sul volto di Adriana, seduta davanti a uno specchio che le restituisce l’immagine moltiplicata per tre, secondo diversi primi piani che rappresentano le sfaccettature della sua personalità, appiattita dagli altri e apparentemente «senza interiorità»[2].
La prospettiva che ogni ritaglio del film restituisce è quella, sempre manchevole e rivedibile, di una protagonista approcciata mediante gli occhi di un personaggio altro, che quasi nella totalità dei casi è un individuo di sesso maschile: fidanzati squattrinati e uomini di successo, un agente spietato e – nello spezzone più tragico – uno scrittore insensibilmente schietto.
Sguardo maschile e contraddizioni del “boom”
Dai loro sguardi – sapientemente introiettati dalle colleghe-maschere di Adriana e dall’amica a cui racconta dell’aborto – emerge una descrizione della ragazza come soggetto “appendicolare”, preda facile e agevolmente domabile perché calata con precisione nel desiderio del suo tempo, quello di un’epoca di repentine trasformazioni in cui il nuovo ciclo di produzione e i bisogni indotti dal “boom” non fanno in tempo a innestarsi con grazia sul tronco tradizionale della società contadina.
Il mondo in cui Adriana s’immerge è popolato da cinici cacciatori di denaro, crassi viveur pronti a tutto pur di guadagnarsi un posto in società: lo testimonia Paolo (Nino Manfredi) col suo suggerimento di posare nuda per attirare i registi, e lo rimarca soprattutto Bagini (Ugo Tognazzi), laido “caratterista” costretto a divertire una disumana platea di attori e stelline.
La critica alla società dei consumi
Quando Adriana è con questi personaggi il suo carattere, per ammissione dello stesso Pietrangeli, è ingenuamente e spontaneamente «riposante» («Le va tutto bene. Dove la mettono resta. Dove la portano va»[3]) ma non c’è dubbio che, nel raccogliere insieme i frammenti dello specchio, il regista sappia bene come illuminarli.
L’impietosa critica da lui avanzata, sotto la superficie, alla società del “miracolo”, dello scambio e del profitto restituisce infatti, in controluce, una sincera tenerezza per la sua giovane e isolata protagonista.
Estraneità di Adriana
Come la costruzione, che procede per tappe interagenti e intimamente connesse, così i contenuti della pellicola si affiancano e moltiplicano in un testo infinito, i cui livelli di lettura non cessano di aprire porte a interpretazioni che conducono tutte a un punto centrale: l’estraneità di Adriana a un sistema di cui si crede – e appare – parte.
Di contro alla vacuità che la perdita dei valori tradizionali porta con sé (in alcune sequenze la giovane è mostrata nella sua casa paterna in campagna, con un fratello malato e una sorella che si sa suora), la protagonista di Io la conoscevo bene mostra un candore d’animo quasi naïf, incredibilmente fuori posto in una società che pure la sfrutta per la sua attitudine alle tenerezze.
Un soggetto imprevisto
Innamorata senza interessi, disposta a concedersi nell’incapacità di sfruttare la propria avvenenza, la ragazza – personaggio tragico – è, in tale ottica, persino un soggetto autonomo o meglio imprevisto, secondo la definizione di Carla Lonzi ripresa con pertinenza da Lucia Cardone[4].
Le relazioni affettive che Adriana coltiva ne fanno un’inconsapevole antesignana della rivoluzione sessuale iniziata col Sessantotto – beffardamente anno di morte di Pietrangeli che avrà nel figlio Paolo il suo principale cantore.
«Io la conoscevo bene»: tra femminismo e utopia
Soltanto anni dopo, tuttavia, le donne prenderanno coscienza dell’enorme peso scaricato dalla sessualità libera sulle loro coscienze e spalle. Tenute a soddisfare i loro uomini nonostante il mutamento dei ruoli, le femministe lavoreranno moltissimo su una visione del sesso svincolata dalla funzione patriarcale di riproduzione e servizio.
Adriana Astarelli, in questo senso, precorre involontariamente i tempi di una riflessione a venire, e non è un caso che il suo ritratto più dolcemente veritiero emerga nella gratuità degli incontri con il pugile sconfitto e il garagista del suo stabile.
Indimenticabile figura della filmografia del Novecento, questa giovane fuori dalla norma conclude il suo viaggio gettandosi dalla finestra, in un ultimo estremo atto di desuetudine. Che sia un gesto di disperazione o ribellione non è dato saperlo, e in fondo ai fini del racconto non costituisce necessità. Il finale è soltanto una scheggia di un corpo sfrangiato, l’ennesimo frammento di specchio da raccogliere in pezzi.
Note:
[1] P. Bianchi, Io la conoscevo bene, in “Il Giorno”, 2 dicembre 1965.
[2] R. De Gaetano, Il romanzesco di Io la conoscevo bene, in “Fata Morgana Web”, 28 gennaio 2019.
[3] A. Pietrangeli, Il secondo soggetto, in L. Miccichè (a cura di), Io la conoscevo bene. Infelicità senza dramma, Torino, Lindau, 1999, p. 87.
[4] L. Cardone, Donne impreviste. Segni del desiderio femminile nel cinema italiano degli anni Sessanta, in “Cinergie”, 5, 2014, p. 23.
Ginevra Amadio
https://www.npcmagazine.it/io-la-conoscevo-bene-pietrangeli/
Sarebbe meraviglioso un upload de "La visita"
ResponderEliminarps:Amarcord, il tuo blog è una gemma!
Hola, los enlaces están caídos o eliminados. Si no es mucha molestia se podrían re subir. Muchas gracias por anticipado y por el trabajo de compartir buen cine.
ResponderEliminarCambiados todos los enlaces. Espero que duren.
ResponderEliminarCambiados todos los enlaces (Nuevamente).
ResponderEliminarAmarcord, todo off!
ResponderEliminarCanbiados los enlaces.
Eliminarnew links please .Thx.
ResponderEliminarCambiados los enlaces
Eliminarmuchas gracias !!!
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