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jueves, 10 de febrero de 2011

Teorema - Pier Paolo Pasolini (1968)


TÍTULO Teorema
AÑO 1968 
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 93 min.
DIRECTOR Pier Paolo Pasolini
GUIÓN Pier Paolo Pasolini
MÚSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA Giuseppe Ruzzolini
REPARTO Terence Stamp, Silvana Mangano, Laura Betti, Massimo Girotti, Anne Wiazemsky, Ninetto Davoli
PRODUCTORA Euro International Films
PREMIOS
1968: Venecia: Copa Volpi mejor actriz (Laura Betti)
GÉNERO Drama | Religión. Surrealismo

SINOPSIS A una familia de clase media alta italiana, compuesta por un matrimonio, un hijo y una hija, llega un misterioso joven que irá alterando el comportamiento de todos ellos. Polémica película -fue declarada inmoral por la Iglesia- del siempre controvertido Pier Paolo Pasolini. (FILMAFFINITY)


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Subtítulos


Le lacerazioni e i fermenti che sconvolgono la società italiana e le istituzioni del potere, la classe dominante e i suoi antagonisti formali e potenziali, sembrano così diventare, nel cinema e non soltanto in questo, terreno di riserva per operazioni manipolatrici spesso scoperte al limite dell'impudenza, mentre d'altra parte i richiami, anche i meno prescrittivi e paternalistici, a una tensione critica e negatrice dell'arte contro l'esistente appaiono sospetti e fortemente contestati.
Si dovrà dunque convenire con Adorno quando afferma che «nella letteratura impegnata anche il genocidio diventa un bene culturale e quindi diventa più facile continuare insieme il gioco nella civiltà che lo ha prodotto»? Alla «rozza esigenza dell'impegno» egli oppone la necessità di «salvare dal crollo, senza tante chiacchiere, quel che è inaccessibile per la politica». Ma, a parte le generalizzazioni "apocalittiche" e i discutibili entusiasmi per Beckett cui fanno riscontro gli irrigidimenti su Brecht, Adorno muove pur sempre dal presupposto che «non c'è nessun contenuto, nessuna categoria formale d'una poesia che, per quanto trasformati misteriosamente, per quanto nascosti a se stessi, non derivino dalla realtà empirica da cui si sono staccati con un'aspra lotta. In tal modo, come attraverso il riordinamento dei momenti attraverso la sua legge formale, la poesia si rapporta alla realtà».
Ma è proprio quel momento di "aspra lotta", di lacerazione e rottura, che spesso si cerca invano nelle punte più risentite del nostro cinema e negli esordi dei giovani registi (nella maggior parte dei casi, almeno). Certo non si pretende una mobilitazione massiccia sul terreno di questa o quella forma di dissenso, ma si vuol verificare se e fino a che punto un dissenso sia presente e quale misura critica e negatrice assuma. Perché è proprio qui che la lettura dell'esistente e il rapporto con esso vanno spesso al di là del necessario approccio individuale per inglobare la realtà, tutta la realtà o quasi, in una affabulazione autobiografica estremamente riduttiva.
È il caso di Pasolini il quale, esaurita la stagione sottoproletaria come ricerca di un corrispettivo altro alla propria lacerazione personale e irregolarità ideologica, e scontata anche la falsa alternativa del "terzo mondo", dai miserabili villaggi asiatici ai ghetti negri ribollenti di furore e di collera, come mitica proiezione di un nuovo sottoproletariato del mondo, torna a chiudersi in se stesso, ad ascoltare i richiami e le suggestioni della sua irriducibile "diversità" sentita, a un tempo, quale disperante esclusione e orgogliosa fedeltà al proprio destino di "reietto". Il sentimento di crisi da cui nascevano i versi più confessati e sconcertanti de Il glicine («qualcosa ha fatto allargare / l'abisso tra corpo e storia, m'ha indebolito, / inaridito, riaperto le ferite...») diventa in Teorema la nota dominante e incontrastata della poetica pasoliniana.
Ma quanto il discorso si fa immediato e personalissimo, tanto più l'autore avverte l'esigenza di una mediazione, costituita in questo caso da una improbabile borghesia e dalla sua crisi. La verità è che tutti i "personaggi" del film sono le provvisorie e trasparenti proiezioni di una metafora lirico-autobiografica di cui è protagonista assoluto l'autore stesso. Il quale però non avendo - o non avendo ancora - l'audacia di ambientare l'apologo, come sarebbe giusto, fuori di ogni spazio e tempo determinati, e di farlo recitare davanti a fondali neutri, si vale appunto del tramite di una situazione da "teatro della minaccia", di un ambiente e di un "milieu" che rimandano all'Antonioni del Deserto rosso, di personaggi con una parvenza di psicologia. Ma bastano i pochi rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa su cui si apre il film, che figurativamente è forse il più composto e dominato di Pasolini, a far intendere allo spettatore che quella cui sta per assistere è una sorta di "allucinazione", non meno di Edipo re.
Non a caso le alternative cui l'autore approda risultano più apparenti che reali: la "scandalosa" rottura col proprio mondo, il rifiuto del potere nella fabbrica e nella casa, l'esodo verso un deserto dove si ritrovano, sempre e soltanto, la solitudine e il nulla. Se Edipo concludeva il suo vagabondaggio con la sconsolata consapevolezza che «la vita finisce dove comincia», il protagonista di Teorema ritrova l'unica possibile autenticità nell'angoscia e nell'urlo, un urlo «dentro a cui risuona, pura, la disperazione». Dietro la compostezza delle immagini, più accorate che estetizzanti del resto, preme una carica di dolore, un senso di impotenza e di fine, - «scandalo per gli integrati, stoltezza per i dissenzienti»tale da escludere ogni indulgenza retorica e, se mai, fin troppo ripiegato e ossessivo.
Adelio Ferrero
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005

Un giovane misterioso quanto avvenente, annunziato con capriole e danze da un lieto postino, “visita” una famiglia borghese in una città della Lombardia. La famiglia “visitata” è quella che si chiama di solito una famiglia “normale”, intendendo per normalità il modo di intendere la vita proprio della classe media. La visita del giovane sconvolge questa “normalità” o meglio ne rivela il carattere fittizio. Il giovane, pieno di compassione e di leggerezza, fa l’amore con tutti i membri della famiglia: con la domestica, con il figlio, con la figlia, con la madre, con il padre. Fa l’amore cioè soddisfa la finora ignorata sete d’amore dei cinque personaggi. Ma, ecco, torna il postino saltabeccante e caprioleggiante. Un telegramma fa partire il giovane. La sua partenza provoca il crollo della famiglia. La domestica, avvertendo, con sicuro istinto contadino, il carattere sovrumano del visitatore, se ne torna al paese, diventa una specie di santa, fa dei miracoli, finisce per immolarsi a favore dell’umanità industriale, lasciandosi seppellire nella voragine di uno sterro da una scavatrice. Il ragazzo, che è pittore, deraglia completamente in direzione della più velleitaria sterilità mascherata da arte di avanguardia. La figlia piomba in una irrigidita immobilità catatonica e viene trasportata in una clinica per malattie mentali. La madre si scopre ninfomane e va a caccia di uomini. Infine il padre, dopo essersi spogliato della propria fabbrica a favore degli operai, si spoglia letteralmente e corre ignudo, urlando il suo dolore, per le lave atrocemente buie e morte di un pendio vulcanico. Pier Paolo Pasolini, come già in Edipo Re, ha voluto raccontarci la fiaba del miracolo che si verifica nel dissacrato mondo moderno. Il giovane misterioso è un dio; e il film racconta il miracolo dell’apparizione di un dio nella vita dei mortali. Ma che dio è il dio di Pasolini? A prima vista si penserebbe a una resurrezione decadentistica del pagano dio Amore; ma gli effetti della “visita” smentiscono questa ipotesi. Il sesso in Teorema è un mezzo, non un fine. In altri termini in Teorema il sesso è un modo di rapporto con la realtà; tanto è vero che l’effetto della scomparsa del dio è di fare impazzire i membri della famiglia, di far loro smarrire il rapporto con il reale. Si dovrebbe dunque arguire che il dio di Pasolini è un dio psicanalitico-marxista la cui partenza scatena, infatti, le furie dell’alienazione sociale e della derealizzazione psicotica. D’altra parte, egli ha fatto una curiosa e significativa opérazione: ci ha presentato, condensata nello spazio di pochi giorni, una vicenda che, storicamente, si è svolta per l’arco di parecchi secoli. Dio se n’è andato via da un pezzo; la famiglia di Pasolini è stata abbandonata da Dio già da alcune centinaia di anni. Ma Pasolini si è messo fuori della storia, nel clima, come abbiamo già accennato, della favola. Con Teorema, Pier Paolo Pasolini ha fatto il suo film se non più impetuoso, certo più rigoroso, più essenziale, più coerente e più spoglio. Sono stati fatti i nomi di Antonioni, di Bresson, di Bergman; ma sono indicazioni di comodo per definire uno sviluppo assolutamente originale dell’autore di Accattone. Teorema è un film del tutto pasoliniano così nello stile raffinatamente e giustamente manieristico come nel tema ambiguamente oscillante tra il tremore religioso e quello sessuale. Si potrebbe dire, a questo punto, che la visita del dio nasconde più che non spiega le determinazioni oggettive del crollo della famiglia. In altri termini, se è vero, come crediamo che sia vero, che la visione del mondo nell’opera d’arte è un prestito che la società fa alla sensibilità dell’artista, si potrebbe dire che Pasolini, in questo film, ha espresso l’aspirazione oggi diffusa a una proiezione della crisi storica sul piano religioso. Ma sarebbe, crediamo, poco illuminante: un artista va giudicato sui risultati. I quali, come abbiamo detto, sono ampiamente positivi. Oltre agli sfondi della campagna lombarda, tutti bellissimi, bisogna soprattutto ricordare le sequenze, nella prima parte, degli incontri del dio con la domestica e poi con la figlia; nella seconda, la disperazione dell’artista e quella della madre. Il motivo della lava dell’Etna che si alterna agli episodi, conferma il carattere poetico del film. Pasolini, come non ha voluto essere narratore naturalistico nel romanzo, così ha saputo non esserlo nel film. L’interpretazione, molto difficile in un simile film privo di motivazioni psicologiche, è ottima. Terence Stamp è un giovane dio dai felici atteggiamenti rinascimentali; Laura Betti ci dà con notevole efficacia il senso della religiosità rustica; Anne Wiazemsky sembra uscita da un quadro di Vermeer; Andrés José Cruz è un artista velleitario molto convincente; Silvana Mangano e Massimo Girotti formano una coppia neocapitalista piena di verità.
Alberto Moravia
Da Al cinema, Bompiani, Milano, 1975


 

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