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viernes, 1 de abril de 2011

Voci nel Tempo - Franco Piavoli (1996)


TÍTULO Voci nel tempo
AÑO 1996
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 86 min.  
DIRECTOR Franco Piavoli
GUIÓN Franco Piavoli
MÚSICA Alfredo Catalini, Franco Ghigini
FOTOGRAFÍA Franco Piavoli
REPARTO Documentary, Marzia Rossi
PRODUCTORA Zefiro
PREMIOS
1996: Festival de Venecia: Premio FEDIC
GÉNERO Documental

SINOPSIS Un documental íntimo sobre las etapas de la vida, los juegos de la infancia, las maravillas y las angustias de la adolescencia, la alternancia de generaciones. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
 
 "Voci nel tempo", il terzo lungometraggio di Franco Piavoli, sembra essere la summa dei suoi primi due lavori. Nel raccontarci la vita di Castellano, il comune della provincia mantovana dove è stata girata la pellicola, Piavoli prende l'attenzione per la natura che era onnipresente ne "Il pianeta azzurro" e la trasforma in una materia forse meno fredda e più coinvolgente, unendola a quell'attenzione per l'uomo che è alle basi di "Nostos - Il ritorno". La commistione tra natura e uomo non è casuale: "Voci nel tempo" è un racconto poetico delle stagioni, sia quelle climatiche che quelle umane. La metafora è semplice e non di certo originalissima, ma Piavoli immerge il tutto in un'atmosfera dove l'immagine, più che rappresentare il qui e l'ora, rappresenta un'ideale altrove, dove tra nostalgia e passione per il passato, rivivono i riti dell'uomo. Non è un caso che l'approccio al sonoro sia questa volta orientato verso il rituale della parola, che rivive in filastrocche, canzoni popolari, litanie, spalmandosi sull'immagine e sporcandola con i suoni ambientali, l'indistinto vociare, il lontano suono della natura.
Accanto alle immagini del passare delle stagioni, Piavoli analizza i riti e i passaggi obblligati dell'essere umano, dai primi passi del bambino (non a caso su una scala) al mistero della morte, ponendo particolare attenzione sulla primavera dell'uomo: l'adolescenza, che qui rivive nei rituali del corteggiamento (i maschi che ronzano con le motociclette attorno alle ragazze, il ballo), nella scoperta del proprio corpo e, solo alla fine, nella presa di coscienza di un sentimento.
Nel suo particolare stile che alterna i primissimi piani con dei campi lunghi, Piavoli intesse un film sulla circolarità della vita, sul continuo ritorno dell'uomo e della natura ad un punto di partenza (che sia nascita o inverno), dove la morte, pur scuotendo per un attimo le fronde autunnali di un albero, non è solo che un tassello, un particolare del ciclo della vita.


INTERVISTA A FRANCO PIAVOLI
di Matteo Contin
A Varese, dal 22 al 25 ottobre 2009, durante la prima edizione della Settimana del Documentario (festival organizzato dall'associazione culturale FreeZone), il pubblico ha potuto assistere a numerose anteprime e proiezioni, oltre che riscoprire film appartenenti ad un genere che in Italia ha avuto fra i suoi più interessanti esponenti il bresciano Franco Piavoli. C'era anche Pellicola Scaduta ed ecco il resoconto della nostra chiacchierata con lui.

Cosa spinge un ragazzo della provincia bresciana durante gli anni '50 a provare a fare il regista?
Non è stata una decisione, ma una scelta spontanea. Avevo iniziato a fare fotografie da quando ero ragazzo: mi piaceva fissare gli sguardi, gli atteggiamenti dei miei compaesani, dei campagnoli che abitavano a Pozzolengo. Fotografavo soprattutto la domenica, quando le ragazze, dopo aver indossato l'abito nuovo, volevano farsi fotografare.
Il cinema però mi aveva da sempre affascinato. Il primo film che ho realizzato (se così possiamo chiamarlo) è stata un'animazione: ero riuscito a farmi dare uno scarto di pellicola dal proiezionista del cinema di Pozzolengo, e con questa pellicola mi sono divertito a disegnare un uccello che volava. Poi mi è capitata tra le mani una 8mm smarrita sul battello del lago che il battelliere mi ha regalato perché non sapeva nemmeno che farsene. Quindi ho iniziato a riprendere i miei vicini di casa, la gente di paese e così facendo ho iniziato a realizzare diversi documentari. Ho fatto un documentario su un fabbro, uno su un cacciatore e uno anche sulle persone che frequentavano l'ambulatorio medico di mio papà, che era il medico condotto del paese. Con questo documentario avevo voluto fissare gli atteggiamenti di sospensione e di attesa che caratterizzavano le persone che aspettavano di entrare nell'ambulatorio: mio papà cavava i denti anche senza anestesia, quindi il volto di questi pazienti era anche terrorizzato. Nel 1953 poi ho presentato questo documentario, "Ambulatorio", al festival di cortometraggi di Montecatini, ed ha avuto un buon successo. Poi finalmente è arrivato il momento in cui sulla pellicola si trovava il nastro magnetico per la colonna audio e ho iniziato così a lavorare anche sul suono.

Una peculiarità del suo cinema è proprio la sperimentazione nel rapporto tra immagini e suoni, dove spesso anche le parole dei suoi protagonisti hanno più un senso musicale che un senso lessicale. Perché questa scelta di evitare il significato a favore del suono, dei rumori e di un tessuto musicale?
Una volta, nell'esplorare le realtà nei miei immediati dintorni, ho voluto filmare il pomeriggio domenicale nella balera. Allora si andava a ballare soprattutto nelle aie con delle orchestrine improvvisate e ho voluto fare "Domenica sera", un cortometraggio in cui si vedevano questi ragazzi che si incontravano. Il ballo era all'epoca un punto di incontro importante per gli approcci tra ragazze e ragazzi e quindi ho voluto documentare questi momenti magici in cui nascevano delle simpatie. Allora si ballava principalmente a coppie dove, tra balli veloci e i lenti, si aveva la possibilità di abbracciarsi e di stringersi, di mettersi alla prova in modo spontaneo, istintivo. Si scoprivano anche le affinità fisiche e da lì spesso nascevano rapporti di coppia che si affinavano proprio con il ballo. Poi a sera, finito il ballo, ci si appartava e ci si baciava e, insomma, si scopriva l'amore. Già da "Domenica sera" ho comunque preferito, pur utilizzando i suoni ambientali, aggiungerne di esterni per restituire l'atmosfera e le sensazioni che si manifestavano in questi incontri.
Poi, andando all'università, passavo sempre dalla stazione di Milano per andare a Pavia e allora lì ho spostato l'obiettivo sui viaggiatori: volevo fare un documentario sull'uomo in viaggio, sull'uomo che passa da un luogo ad un'altro. In particolare mi avevano colpito le figure degli emigranti nazionali, ovvero gli abitanti del sud Italia ma anche del nord-est. Allora ho puntato l'attenzione su questo disagio, su questo stato di precarietà in cui si venivano a trovare. Il loro momento più drammatico è quando dovevano prendere le coincidenze e soprattutto gli emigranti più anziani non sapevano orientarsi. Capitava che più di uno, persa la coincidenza, passava la notte in sala d'aspetto. Allora ho voluto costruire nel cortometraggio proprio questa situazione, anche qui però affidandomi più ai suoni che alle immagini. C'erano i suoni dell'ambiente, gli altoparlanti che ribadivano continuamente gli orari delle partenze, che era martellante e sconvolgente, che creava confusione in questa gente un po' - come dire - sprovveduta.
Ho trovato sempre molto più efficace usare la parola nella sua valenza fonica, cosa che è avvenuta anche in "Evasi", che registra invece la fuga dell'uomo che, quando vive in condizioni disagiate e faticose, va allo stadio per scaricare questa energia, come avveniva allora e avviene anche oggi. Iil tifo è anche una cosa positiva ma quando trascende causa scontri e scatena l'aggressività. Anche lì ho usato come elemento sonoro le urla di questi spettatori, cosa che sottolinea proprio l'aspetto selvaggio che c'è in ognuno di noi.

La sua ricerca sul suono sembra raggiungere una solidità espressiva e narrativa con "Nostos - Il ritorno". Com'è nata l'idea di usare la parola in modo così sonoro?
Ho scritto la sceneggiatura con i dialoghi, che però ho voluto tradurre in una lingua che non restituisse i significati specifici del momento ma che restituisse il senso di fondo. Quella di "Nostos - Il ritorno" è una lingua che ho ricostruito io, un po' per gioco e un po' per passione, con il greco antico mescolato al latino, all'inglese, al russo, perché volevo che fosse il tono della voce, il volume, le pause a sottolineare le situazioni in cui si veniva a trovare questo reduce della guerra, che aveva il desiderio di ritornare a casa ma che, durante i vari passaggi del suo viaggio di ritorno, aveva l'occasione di rivivere la guerra e di ripensarla. Ci sono due o tre scene in cui Nostos esprime la sua aggressività, la sua violenza: Ulisse era anche un distruttore di città, astuto ma anche crudele, almeno fino a quando l'incontro con una ragazzina che veglia il cadavere del fratellino morto, lo blocca. A questo punto il mio eroe fa tutto un percorso a ritroso, pieno di rimorsi, di ripensamenti verso la violenza, tant'è vero che il suo desiderio in fondo è quello di tornare a casa. Durante l'ultimo naufragio lui è disperato e invoca la luna come ultimo riferimento luminoso, e nuota in acqua finchè entra nella luna: lo faccio vedere in campo lungo come fosse uno spermatozoo che raggiunge l'ovulo materno. Ma quando è sulla luna, la sua città è distrutta e vede dei teschi in primo piano ritrovandosi faccia a faccia con la morte. Nel finale c'è poi una sorta di lieto fine, in cui lui approda alla sua Itaca, alla sua terra, e ritrova la moglie fedele che dopo vent'anni di attesa (anche se qualche tradimento coi proci ci sarà pur stato...) custodisce ancora le vesti di Ulisse e le ripone nella cassapanca in segno di fedeltà e di amore profondo.
Quello che stupisce di "Nostos – Il ritorno" è la rilettura radicale che lei compie sul personaggio dell'Ulisse omerico: il protagonista del suo film non sogna la partenza ma il ritorno.
Sì, "Nostos – Il ritorno" mette proprio l'accento sul ritorno. E difatti c'è proprio questo continuo tentare di entrare nel ventre materno, nella grotta (anche se questo c'è anche nell'Ulisse di Omero), cercando sempre il segno di riferimento che è la Madre Terra.

E' particolarmente interessante notare nei suoi film come la rappresentazione del mondo sia spesso affidata a campi lunghissimi o a dettagliatissimi particolari. Da cosa deriva questa scelta?
Mi piace molto accostare lo stacco tra campo lungo e primi piani, in modo da generare - come dire - anche una particolare prospettiva, non soltanto di sguardi, ma soprattutto mentale.

Un'altra caratteristica del suo modo di girare è l'ampio uso della camera fissa. Cosa la affascina di questo modo di inquadrare il mondo?
La camera fissa mi piace perché mi aiuta a sottolineare i movimenti minimali che ci sono nel mondo che ci circonda. In particolare questa cosa si nota ne "Il pianeta azzurro", che è proprio nato per il grande schermo, visto che sul grande schermo si notano maggiormente le variazioni minime non solo dei movimenti ma anche delle luci.

Da "Il pianeta azzurro", suo primo lungometraggio, a "Al primo soffio di vento", il suo ultimo lavoro, sono passati ventun anni. Cosa è cambiato nel suo cinema e cosa è cambiato nell'uomo?
Non credo sia cambiato tanto, nel senso che il mio stile di ripresa e di montaggio sono grosso modo gli stessi. Unica cosa forse nel mio ultimo film ho lasciato trapelare qua e là qualche battuta che ho lasciato volutamente intendere, perché avevo il bisogno di far venire a galla alcuni passaggi fondamentali nella storia di queste persone che, pur convivendo (e quindi conoscendosi a fondo), parlano ma non riescono a comunicare tra di loro. E' questo il problema dell'esistenza, la difficoltà di comunicazione tra persone che convivono, proprio perché anche tra i conviventi si mantengono differenze caratteriali, differenze di sensibilità che non possono essere trasmesse all'altro, per cui se c'è una convivenza costante, accanto agli aspetti positivi come la crescita comunitaria, vengono a galla anche delle insofferenze.
Con il tempo la solitudine sembra essere mutata ed anche nei suoi film si nota questo cambiamento.
Accanto alla solitudine domestica c'è una solitudine degli stranieri che sono stati costretti per necessità di sopravvivenza, ad andare in paesi lontani, diversi dal loro. Quindi anche loro hanno un sentimento di nostalgia, di solitudine. Tuttavia in "Al primo soffio di vento" ho voluto mettere in constrasto l'istinto naturale di questi africani che, pur vivendo in una solitudine obbligata, trovano un'energia di solidarietà, trovando dopo la stanchezza del lavoro, la forza di sorreggersi a vicenda quando, al tramonto, si mettono a ballare.

Quanto la pittura, la letteratura e la fotografia hanno influenzato il suo modo di pensare il cinema?
Credo che più o meno è un discorso che possa valere per tutti. Tutti abbiamo interessi diversi: i registi non guardano solo film, ma leggono, vanno alle mostre, ascoltano musica. Ho assorbito molti elementi da tutte le arti, in particolare dalla pittura e dalle arti visive, così come la musica, che in qualche modo è la madre del cinema, perché la musica è innanzitutto basata sui tempi, sulla divisione in strutture ben precise. Proprio, appunto, come il cinema.

Un'altra attività che porta avanti da qualche anno è quella di regista di opere liriche. Cosa accomuna il Piavoli regista cinematografico e il Piavoli regista operistico?
Ben poco. E' tutto successo un po' per caso. Dopo il successo de "Il pianeta azzurro" e la conoscenza di Olmi, il direttore del maggio musicale fiorentino, ha affidato a me, ad Olmi e a Monicelli, il trittico di Puccini, formato dal Tabarro, dal Gianni Schicchi e da Suor Angelica (quest'ultimo diretto da me). Io non avevo esperienza in materia, ma ho accettato, anche per provare a fare il regista nel senso classico del termine, impostando la regia, la scenografia, le luci, il suono. Ho fatto un'esperienza piacevole, alternativa. Dopo aver fatto la Suor Angelica, il teatro di Brescia mi ha proposto di fare La forza del destino e poi ancora la Norma. Poi è successo che anche il teatro di Macerata e l'Arena di Verona volevano che allestissi altre opere, ma ho declinato gli inviti per dedicarmi con più tempo e con più calma alla realizzazione dei miei film perché, mentre "Il pianeta azzurro" era stato prodotto da Silvano Agosti, degli altri ho curato da solo l'intera organizzazione.

Il suo ultimo lavoro è il cortometraggio "L'orto di Flora" che Ermanno Olmi ha voluto per il suo "Terra madre". Come è nata questa collaborazione?
Con Olmi c'è un'antica amicizia, ci sentiamo e ci vediamo spesso. Siccome lui conosce bene il mio carattere, quando gli è stato proposto questo progetto, è passato a salutarmi e mi ha detto [ride]: «Franco, devi darti una mossa! Tu stai a guardar le stelle ma non lavori! Devi darmi un contributo per questo documentario!».
Nasce quindi la storia di questo ortolano, per restituire il senso di rapporto diretto fra l'uomo e la terra, che è sì il lavoro, ma anche dall'amore per la terra. Questo per dare l'idea che nell'uomo è implicito questo rapporto, questo rapporto che bisogna risvegliare, perché non basta la tecnologia per salvare il mondo, ma ci vuole anche l'amore che l'uomo ha per la terra. Allora mi sono messo al lavoro, girandolo in un anno circa (con tutti i miei tempi).
Olmi si lamentava appunto dei suoi tempi biblici per la realizzazione di un film...
Sì, questi tempi lunghi sono dovuti certamente alla pigrizia, ma anche al fatto che ho sempre fatto dei film assolutamente indipendenti, nel senso che li ho fatti come piacevano a me (quindi fuori dai canoni ufficiali). Per questa ragione ho sempre avuto difficoltà a trovare finanziamenti. Poi naturalmente la cosa dipendeva anche dal fatto che facendo tutto da solo con mia moglie - dalla regia, alla fotografia, dalla scelta dei luoghi al montaggio - c'è sicuramente bisogno di un tempo maggiore rispetto alla realizzazione di un film con una troupe vera e propria.
Ha detto prima: «Faccio pochi film perché sono pigro». Non crede che la pigrizia, in qualche modo, sia servita per la realizzazione dei suoi film?
Un pochino sì, nel senso che mi dà il tempo per poter maturare idee. Poi i pigri quando partono per una cosa che li interessa diventano più attivi. Come tutti i vizi e tutte le virtù, anche la pigrizia ha due facce.

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