TÍTULO La donna scimmia
AÑO 1964
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 92 min.
DIRECTOR Marco Ferreri
GUIÓN Rafael Azcona & Marco Ferreri
MÚSICA Teo Usuelli
FOTOGRAFÍA Aldo Tonti (B&W)
REPARTO Ugo Tognazzi, Annie Girardot, Linda de Felice, Antonio Cianci, Walter Giller
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; C.C. Champion / Les Films Marceau; Productor: Carlo Ponti
GÉNERO Comedia. Drama | Comedia negra
SINOPSIS Antonio conoce a María, que vive recluida en un asilo regentado por monjas. Vive así porque está avergonzada de cómo es: tiene pelos en cara y brazos. Antonio la convence para que se vaya con ella, ha visto un gran negocio: exhibirla como si fuera una mujer simia que encontró en la selva africana. (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
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Antonio, che vive a Napoli di espedienti vari, fa casualmente la conoscenza di Maria, una donna completamente ricoperta di peli. Capisce di aver trovato la sua gallina dalle uova d’oro e decide di esporla al pubblico come fenomeno da baraccone, come una leggendaria donna scimmia scoperta in una fittizia esplorazione nelle foreste africane. Per poterla tenere con sé sarà costretto a sposarla e quando la donna rimarrà incinta qualcosa andrà storto per gli affari di Antonio, anche se non per molto…
Uno dei film più rappresentativi del cinema allegorico e metaforico di Ferreri, “La donna scimmia” risulta molto interessante e coinvolgente proprio per i sottotesti che lo attraversano e che strisciano potentemente fino alle menti degli spettatori, intrattenuti nel frattempo da una serie di trovate narrative che raggiungono volutamente il grottesco nel raccontare il cinismo e la meschineria dell’essere umano.
Uno dei film più rappresentativi del cinema allegorico e metaforico di Ferreri, “La donna scimmia” risulta molto interessante e coinvolgente proprio per i sottotesti che lo attraversano e che strisciano potentemente fino alle menti degli spettatori, intrattenuti nel frattempo da una serie di trovate narrative che raggiungono volutamente il grottesco nel raccontare il cinismo e la meschineria dell’essere umano.
Tramite la storia di questo squattrinato che sfrutta la povera donna per guadagnare sempre più soldi, in realtà ci viene raccontata tutta un’umanità dalla quale molto probabilmente nessuno di noi è escluso. Perché è difficile riuscire a capire chi sia il vero mostro, al di là del fatto che si può escludere ovviamente l’innocente donna-scimmia che ne ha solo le apparenze. E’ Antonio, lo sfruttatore, o sono tutti quelli che accorrono in massa a vedere la donna rinchiusa in una gabbia all’inizio, o la ragazza succinta a metà film, o la salma imbalsamata alla fine? Con un pionierismo non indifferente, infatti, Ferreri ha dipinto perfettamente una società che oggi ci sembra più vivida e reale che mai, travolti come siamo da un estremo voyerismo e da un’attenzione al morboso che non ha eguali.
Tranciato e spezzato in maniera criminale dalla censura di allora “La donna scimmia” rappresenta anche una pesante critica alle ipocrisie e alle assurdità della morale cattolica, così come dimostrano i vari interventi degli esponenti di quel mondo, soprattutto quello in cui una suora accetta di far andare via Maria con Antonio a patto che la sposi, nonostante sia a conoscenza degli abusi dell’uomo nei confronti della ragazza. L’importante, insomma, è mantenere la facciata ed essere puliti agli occhi degli altri, anche se all’interno del nucleo familiare avviene di tutto. Del resto è proprio l’istituzione del matrimonio ad essere presa di mira dal regista che ce ne mostra la vacuità e, soprattutto, la falsa consistenza. Ci si sposa, spesso e volentieri, per motivi utilitaristici o perché costretti dalla società, anche se non si prova amore e rispetto per l’altra persona. Altro grave taglio, un vero e proprio scempio che colpisce l’anima e la vera essenza della pellicola, è quello che riguarda il controverso finale, stravolto nella sua natura sarcastica e cattiva e reso melenso, buonista e retorico fino alla dissacrazione vera e propria dell’opera d’arte, a causa di una scelta facile e poco coraggiosa del produttore Carlo Ponti che impose questa decisione infelice. Laddove Ferreri ci aveva lasciato amaramente con un Antonio ancora sfruttatore della sua famiglia, nonostante la tragedia, si è voluto concludere il tutto con un lieto fine che capovolge il senso della pellicola.
Non risparmia nessuno, come sempre, Ferreri e ci racconta questa storia inusuale e coinvolgente ponendo tutta la sua attenzione sui due personaggi principali, lasciando sullo sfondo un’ambientazione volutamente indefinita, proprio perché a partire dallo studio delle due personalità si è in grado di allargare lo sguardo e di abbracciare non più il particolare, ma il generale. Del resto se non ce lo dicessero non ci accorgeremmo che da Napoli i due si trasferiscono a Parigi per lavorare in un night club. Perché non importa il luogo di provenienza o di arrivo, ciò che importa è come ci si comporta, come si vive in qualsiasi luogo.
Come sempre fantastico Ugo Tognazzi, riesce a dare tutte le giuste sfumature al suo personaggio, un po’ cialtrone, un po’ meschino, un po’ sfaccendato, un po’ italiano insomma. Anche la Girardot è perfetta nell’esprimere tutta l’ingenuità e l’incapacità di opporsi e di difendersi di Maria, anche se quando si raggiungono determinati limiti (Antonio addirittura pensa di cederla ad uno scienziato che vuole farla “accoppiare” in cambio di soldi), assume una fierezza non indifferente.
Del resto è la dignità quella che sembra mancare ad Antonio ed essere, invece, vivamente presente in Maria. Una dignità che pare quasi essere in via d’estinzione, posseduta piuttosto dalla donna scimmia, che dall’”umano” Antonio e da tutti coloro che accorrono per non perdersi un così inusuale spettacolo.
Alessandra Cavisi
http://www.livecity.it/2010/12/01/recensione-la-donna-scimmia-di-marco-ferreri-1964/
http://www.livecity.it/2010/12/01/recensione-la-donna-scimmia-di-marco-ferreri-1964/
Azcona, otro de los nuestros
Rafael Azcona ha ido a reunirse con la mujer barbuda embalsamada y su hijo metido en un frasquito. El espectáculo no sólo debe continuar, sino que continúa.
Azcona era poeta y aspirante a torero en su Logroño natal Cuando llegó a Madrid a principios de la década de los cincuenta dejó los versos y se metió a humorista. Trabajaba en “La Codorniz”, la escuela del humor. De los artículos pasó a las novelas y un avispado representante italiano, Marco Ferreri, decidió que aquellas podían convertirse en películas. Intentaron primero “Los muertos no se tocan, nene” y terminaron haciendo juntos El pisito y El cochecito, dos títulos emblemáticos del esperpento en la España del predesarrollismo. Luego, en Italia, siguen desarrollando esta visión al aguafuerte del mundo, en un juego de espejos entre deformidades físicas y morales multiplicado grotescamente que da lugar a Se acabó el negocio (La donna scimmia / Le mari de la femme à barbe, 1963).
El origen de esta película es la biografía de la mexicana Julia Pastrana, que sufría una enfermedad conocida como hipertricosis. Como el “científico” de la película, los médicos de la época diagnostican que tal fenómeno sólo era posible por el cruce contra natura entre un ser humano y un orangután. Julia viaja a Estados Unidos en 1854 donde la exhiben como la “Mujer Oso”. Abolida la esclavitud, el empresario Theodore Lent sólo encuentra una solución para hacerse con el fenómeno… casarse con ella. Comienza así la explotación de Julia en una doble vertiente: para públicos populares, la exhibición pura y dura en la que la mujer pasa por un ser agreste y analfabeto; para la buena sociedad, tertulias en su casa, donde brilla con sus conocimientos de idiomas y su interés por la literatura. El mayor empresario del circo de su tiempo, P. T. Barnum, asegura que aquello es “demasiado para el circo”. Seis años después, de gira por Rusia, Julia queda embarazada, pero el parto se complica y la madre y el hijo –cubierto de pelo, como su madre- fallecen en poco tiempo. Lent agota los últimos cartuchos y vende entradas para presenciar la agonía de Julia. Luego, hace embalsamar los cuerpos y los vende a la Universidad de Moscú, pero al enterarse de que las momias son exhibidas públicamente, reclama los cuerpos y vuelve a poner el negocio en marcha. En este último tramo, Azcona y Ferreri se atienen a la realidad histórica casi punto por punto.
El origen de esta película es la biografía de la mexicana Julia Pastrana, que sufría una enfermedad conocida como hipertricosis. Como el “científico” de la película, los médicos de la época diagnostican que tal fenómeno sólo era posible por el cruce contra natura entre un ser humano y un orangután. Julia viaja a Estados Unidos en 1854 donde la exhiben como la “Mujer Oso”. Abolida la esclavitud, el empresario Theodore Lent sólo encuentra una solución para hacerse con el fenómeno… casarse con ella. Comienza así la explotación de Julia en una doble vertiente: para públicos populares, la exhibición pura y dura en la que la mujer pasa por un ser agreste y analfabeto; para la buena sociedad, tertulias en su casa, donde brilla con sus conocimientos de idiomas y su interés por la literatura. El mayor empresario del circo de su tiempo, P. T. Barnum, asegura que aquello es “demasiado para el circo”. Seis años después, de gira por Rusia, Julia queda embarazada, pero el parto se complica y la madre y el hijo –cubierto de pelo, como su madre- fallecen en poco tiempo. Lent agota los últimos cartuchos y vende entradas para presenciar la agonía de Julia. Luego, hace embalsamar los cuerpos y los vende a la Universidad de Moscú, pero al enterarse de que las momias son exhibidas públicamente, reclama los cuerpos y vuelve a poner el negocio en marcha. En este último tramo, Azcona y Ferreri se atienen a la realidad histórica casi punto por punto.
Haciendo gala de una economía narrativa magistral, Azcona escaleta la película en apenas diecisiete escenas. Sólo un par de ellas está compuesta por más de una secuencia; el resto se reduce a diálogos a dos o tres bandas. La simplicidad aparente del método deja a la vista un mecanismo de relojería en el que cada nueva elipsis supone un salto en el vacío en la degradación de Antonio Focaccia (Ugo Tognazzi) en su afán por explotar al fenómeno (Annie Girardot). Nada sobra; acaso la crueldad innecesaria de la marcha nupcial en la que María canta aquello de “blanca y radiante va la novia…” asediada por la gente. Sin caer nunca en la babosería, María va ganando a nuestros ojos en dignidad al tiempo que Antonio claudica.
Durante la negociación para que María haga striptease en un club parisino el empresario insiste: “ah, l’argent! L’argent!”. He aquí el quid, el meollo, el intríngulis. Al contrario de lo que afirma el título español, el negocio no se acaba. Azcona y Ferreri exponen claramente a lo largo del relato que todas las relaciones son económicas. Antonio pide a María el dinero que esconde bajo el colchón para poder pagar el árbol donde ella tendrá que hace de mujer-mona; la urge a realizar su papel porque cuanto antes empiecen, antes recuperará su inversión; la supuesta investigación científica –que no busca otra cosa que la desfloración de un monstruo- se trata en términos de compensación empresarial; cuando María se marcha quiere recuperar su maleta y su cartilla de ahorros; y cuando Antonio quiere recuperarla, lleva un donativo a las monjas; el sacristán de la capilla a la que van a rezar por la salud de su futuro hijo exige un nuevo óbolo.
La amputación de la última secuencia por parte del productor italiano pretendía dar gato por liebre, porque la muerte de María y su bebé podía ser leída en clave de redención de Antonio. Ferreri decía ofendido que esto convertía su película en un drama romántico decimonónico, pero no hay tal. La escena del Museo, cuando va a recuperar los dos cadáveres, es brutal en su abulia burocrática. Para la última, la exhibición de los fenómenos embalsamados en una barraca, no hay adjetivos. Desoladora sabe a poco. La aberración ha tocado fondo pero, como siempre en Azcona, es perfectamente lógica. La lógica de los personajes, no la del cine. Auténtico hombre de espectáculo, Antonio asume la máxima norteamericana: “the show must go on”.
La historia del cine ofrece curiosas simetrías. En su gira europea Julia Pastrana imita a Lola Montes. ¿No existen, salvando las distancias, parecidos razonables entre este final de La donna scimmia y el de la última película de Max Ophuls?
Sr. Feliú
http://www.circomelies.com/2008/04/azcona-otro-de-los-nuestros.html
La amputación de la última secuencia por parte del productor italiano pretendía dar gato por liebre, porque la muerte de María y su bebé podía ser leída en clave de redención de Antonio. Ferreri decía ofendido que esto convertía su película en un drama romántico decimonónico, pero no hay tal. La escena del Museo, cuando va a recuperar los dos cadáveres, es brutal en su abulia burocrática. Para la última, la exhibición de los fenómenos embalsamados en una barraca, no hay adjetivos. Desoladora sabe a poco. La aberración ha tocado fondo pero, como siempre en Azcona, es perfectamente lógica. La lógica de los personajes, no la del cine. Auténtico hombre de espectáculo, Antonio asume la máxima norteamericana: “the show must go on”.
La historia del cine ofrece curiosas simetrías. En su gira europea Julia Pastrana imita a Lola Montes. ¿No existen, salvando las distancias, parecidos razonables entre este final de La donna scimmia y el de la última película de Max Ophuls?
Sr. Feliú
http://www.circomelies.com/2008/04/azcona-otro-de-los-nuestros.html
No tendras por casualidad "L'ape regina" del mismo director?. Un abrazo.
ResponderEliminarTrataremos de conseguirla.
ResponderEliminarGracias por esta joya...
ResponderEliminarHola, Amarcord
ResponderEliminarMe preguntaba si sería posible que repusieses en zippyshare esta película, de argumento cuanto menos jugoso.
Como es de rigor, gracias por este blog. Y que no decaiga.
Saludos cordiales
Cambiados todos los enlaces.
Eliminar¡Muchas gracias, Amarcord!
ResponderEliminarUn abrazo