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martes, 24 de septiembre de 2013

La fine del gioco - Gianni Amelio (1970)


TITULO ORIGINAL La fine del gioco
AÑO 1970
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 58 min.
DIRECCION Gianni Amelio
INTERPRETES Y PERSONAJES
Gianni Amelio, Ugo Gregoretti, Luigi Valentino (Leonardo)
FOTOGRAFIA Giulio Albonico
MONTAJE Cleofe Conversi
PRODUCCION Tommaso Dazzi
GENERO Drama

SINOPSIS Dopo la visita a un riformatorio in Calabria per un'inchiesta sulla devianza minorile, un giornalista televisivo fa un viaggio in treno col dodicenne Leonardo, da lui scelto come rappresentante tipico della categoria. Non più condizionato dall'ambiente e dalla presenza dei mezzi tecnici (cinepresa, registratore), Leonardo parla con una sincerità che prima non aveva, ma trova nel giornalista soltanto un interesse professionale e gli si ribella. Prodotto da Tommaso Dazzi per il 2° ciclo "Autori nuovi" dei programmi sperimentali della RAI, il 1° film del 25enne calabrese Amelio ha una struttura binaria: due luoghi, due momenti nel rapporto tra i personaggi, due approcci diversi nella 1ª e nella 2ª parte, la capacità di far sembrare i personaggi come persone reali e viceversa, l'opposizione tra la TV e il mondo del bambino. Fotografia (16 mm) di Giulio Albonico. (Il Morandini)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Leonardo a Gregoretti: 
"Quando tu e la tv ve ne andrete tutto tornerà come prima e a nessuno importerà più di me.
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Intervistatore:
Pensa che 11 milioni di telespettatori ti vedranno, conosceranno i tuoi problemi, sapranno chi sei, dove vivi...
Bambino: 
Che me ne frega degli spettatori! Loro stanno a casa loro e io sto qui dove sono, tra un paio di giorni me ne torno dentro, voi ve ne andate, chi vi vede più, chi vi conosce...
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Ho sempre apprezzato il cinema di Gianni Amelio sebbene spesso manchi di quella "leggerezza" che amo ritrovare anche negli autori più impegnati. Mi piace il suo sguardo morale e la centralità che nelle sue opere hanno i rapporti umani, mi piacciono i suoi eroi marginali, di solito disadattati e fuori dalle dinamiche di potere, a volte bambini. Fra i tanti personaggi di questa varia umanità che il regista ci ha regalato ritroviamo il carabiniere de Il ladro di bambini le cui scelte dettate dalla semplicità di cuore lo mettono in conflitto con l'autorità che rappresenta; il ragazzo emigrato a nord di Così ridevano il cui legame con il fratello maggiore è tanto forte da sacrificare la sua giovinezza in prigione da innocente al posto suo; e ancora il padre che si ritrova a riallacciare i rapporti col figlio tetraplegico anni dopo averlo abbandonato (Le chiavi di casa).
Amelio inizia la sua carriera di regista negli anni 70 con la televisione. Fra le sue prime opere abbiamo:
La fine del gioco (1970), Il piccolo Archimede (1979) e I velieri (1983) che vista la loro difficile reperibilità proporrò qui su questo blog.
Tutti e tre i lavori sono legati al tema dell'infanzia, isola fragile di solitudine e creatività.

La fine del gioco

Un giornalista televisivo (Ugo Gregoretti) conduce un'inchiesta sulle condizioni dei  giovani ospiti di una casa di correzione del sud Italia. Dopo aver raccolto panoramiche dei luoghi dell'istituto, sceglie uno dei ragazzi del centro, Leonardo di 12 anni, per fare un'intervista. Qui la telecamera è distante e raccoglie da lontano le paure del piccolo di essere ripreso e le raccomandazioni del giornalista che lo invita a parlare in italiano corretto e senza pause, lo rassicura con i trucchi del mestiere, gli ripete la scaletta delle domande.
L'intervistatore e il ragazzino si incontreranno di nuovo sul treno diretto verso il paese materno di Leonardo al fine di per ultimare le riprese.
E in questo incontro il dodicenne calabrese, lontano dalla telecamera, dice le cose che in televisione non si possono dire e lo fà dapprima in dialetto, poi in un italiano difficoltoso, pieno di tentennamenti. E' la sua verità sul collegio e quando il giornalista prende in mano il registratore e lo sollecita a ripetere la storia appena raccontata, di nuovo la realtà si sottrae al tentativo di catturarla, Leonardo non ricorda, diventa sospettoso, si chiude.
E il film disvela tutto il suo carattere di riflessione meta-cinematografica, Amelio con un approccio finto-documentaristico si interroga sul metodo, sulle responsabilità e soprattutto sulla possibilità di fare televisione-verità.
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«Un regista televisivo, che sta filmando un’inchiesta sulle carceri minorili, prende come soggetto del suo programma Leonardo, un ragazzo calabrese di dodici anni, rinchiuso da tempo in un riformatorio del sud. Dopo le riprese e le interviste all’interno dell’istituto, i due partono insieme per completare il “servizio” nel paese di origine del ragazzo. Durante il viaggio in treno, fuori dai condizionamenti della telecamera Leonardo si apre un po’ di più verso il regista, testimoniando di una realtà ben più dura e inconfessata. Ma trova nell’altro soltanto un’attenzione freddamente professionale» (Arturo Invernici). «Leonardo fra l’intervistatore e Amelio sceglie Amelio […]. Perché sceglie Amelio? La risposta è tanto semplice eppure è misteriosa come un segreto (solo i vecchi e i bambini lo condividono con noi, apposta bisogna fare i film con loro). Leonardo sceglie il regista perché questi lo rispetta e lo lascia libero» (Ponzi). «In La fine del gioco, il sapere è anche potere, quello che il regista televisivo ha nei confronti di un ragazzino. Non è un caso che il regista si informi con un certo compiacimento di quello che nel riformatorio fanno nel campo dell’istruzione, che spinga il ragazzo a mostrare quello che sa in quanto scolaro; e che il ragazzino addirittura risponda citando una poesia di Ungaretti. Ma nello stesso tempo, questo signore è giornalista, intervistatore, regista, giudice supremo delle vite degli altri, perché le manipola, perché ha imparato a manipolare le vite degli altri in funzione delle immagini e del registratore. Accade che il sapere sia anche il sapere della lingua: parla in italiano così gli altri ti capiscono, gli dice prima dell’intervista. Breve, sii conciso, perché tutto deve avere un ritmo giornalistico. E, quando si ribella a lui, alla sua telecamera e al suo registratore, il ragazzo rifiuta il sapere e la prima cosa che dimentica è la lingua italiana» (Amelio). 
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Le buone cause del cinema di Gianni Amelio

Anche se rivolto al passato, prossimo o remoto, o se si sposta in paesi lontani o lontanissimi, il cinema di Amelio parla sempre del nostro tempo, del nostro destino individuale e collettivo. Vero cinema kolossal per il respiro dei temi affrontati, cinema errante per i luoghi e i momenti storici attraversati, e cinema intimista per la capacità di scavare nel privato, di mettere in scena i sentimenti, le emozioni, i dubbi e il rimosso che perseguita.
“Sono stato fortunato”, dice il protagonista di La stella che non c’è, ed è questa l’ultima battuta del film. Una battuta che conclude il lungo viaggio di Vincenzo Buonavolontà in Cina con una nota di ottimismo tutta privata: di fronte a lui, nella stazioncina isolata nel deserto, c’è Liu Hua, la ragazza cinese che lo ha accompagnato per giorni, che ad un certo punto ha perso e infine ritrovata, e che ora lo guarda in silenzio. Poi con un sorriso lei si gira di lato, a guardare l’orizzonte: davanti a loro c’è una nuova vita che presumibilmente affronteranno insieme. Sono sicuro che se per miracolo ritornasse indietro il treno appena partito loro uscirebbero di campo per salirci sopra, ma la macchina da presa resterebbe inchiodata ad inquadrare il vuoto. L’ultimo film di Gianni Amelio si chiuderebbe così esattamente come il primo, La fine del gioco (1970), quando Leonardo, il giovane protagonista di un’inchiesta televisiva condotta sui carceri minorili, scende dal treno e si dilegua, sottraendosi allo sguardo della macchina da presa per affrontare un territorio suo, sconosciuto a sé e agli altri, per ripartire da zero. Anche lì la macchina da presa sceglie di non seguirlo e continua a inquadrare il vuoto incorniciato dal finestrino. Sono passati quasi 40 anni da allora, in mezzo ci sono stati film, incontri, viaggi, storie, esperienze, ma la scelta di Amelio tra vita e rappresentazione, attenzione ai personaggi e rispetto, è sempre la stessa perché risponde per prima cosa ad un’esigenza etica, che non può essere messa in discussione. La vita è altrove, altra, privata, e riguarda i protagonisti del film al pari degli spettatori, che sono chiamati a riempire i vuoti e i silenzi, a prolungare, se ne hanno la sensibilità e la voglia, il mistero, i dubbi, le emozioni e le sfide evocate dallo stupore delle immagini. Mentre il cinema, secondo Amelio, è qui e serve solo a raccontare le premesse, le sospensioni, le conseguenze di ciò che capita nei destini individuali e collettivi, senza cercare e imporre risposte, senza rendere banalmente univoco e didascalico ciò che è complesso e sfuggente, senza chiudere mai ciò che invece resta aperto, vitale, necessariamente ambiguo. Una questione morale, quindi, prima che di linguaggio e di stile, portata fino alle estreme conseguenze, e che è la cifra più distintiva di un cinema alto, per le motivazioni da cui nasce, e controcorrente, rispetto alle modalità e alle attese indotte dal sistema mediatico corrente.
Al di là delle vicende narrate, i film di Amelio sono sempre spiazzanti proprio per il rapporto particolare che impongono allo spettatore, sollecitato a vincere certe abitudini e a riconoscersi invece soprattutto nei vuoti da colmare, nelle sospensioni di giudizio (il giudizio può esserci ma non è mai scontato), nelle apparenti reticenze dello schermo. E’ in questo scarto che il cinema di Amelio trova il suo momento più fertile e significativo: quando lo scorrere del racconto si interrompe sulla soglia di un evento, o di una scelta decisiva, in una specie di ideale fermo immagine, o prende improvvisamente un’altra strada, inattesa e misteriosa, oppure ricomincia più in là, dopo uno stacco temporale, in un’ellissi del racconto che però “non toglie” ma semmai arricchisce di senso, profondità, spessore narrativo. E’ uno sbilanciamento inatteso, come un gradino che il piede abituato non trova, quasi una pausa necessaria per evitare il rischio della soluzione scontata e a preludere invece un’azione inevitabile e più segreta. In una piccola stazione nel cuore della Cina più profonda (La stella che non c’è) o, all’alba, seduti su un marciapiedi, di fronte alla porta sbarrata di un riformatorio in Sicilia (Il ladro di bambini), o in una masseria del sud d’Italia, mentre il fascismo trionfa, a guardarsi negli occhi, sconfitti ma non rassegnati (Porte aperte), o su un treno che corre e sembra immobile grazie a un’inquadratura fissa che non “stacca” (Così ridevano), o lungo la costa di un fiordo norvegese, dove una frase detta dal figlio al padre rimette di nuovo tutto in gioco (Le chiavi di casa): le immagini di Amelio non sembrano consumate dall’uso e i suoi finali di film non sono mai concilianti, non servono mai a mettere un punto al discorso, semmai sono un viatico, un punto di partenza, un’opportunità da cogliere, prolungare, mettere a frutto. Anche se rivolto al passato, prossimo o remoto (la Sicilia degli anni Trenta, la Torino degli anni Cinquanta, la Milano degli anni di piombo, l’Italia di Tangentopoli), o se si sposta in paesi lontani o lontanissimi (l’Albania, la ex Jugoslavia sfregiata dalla guerra civile, la Cina “che non s’immaginava fosse così”, l’Argentina degli emigranti), il cinema di Amelio parla sempre del nostro tempo, del nostro destino individuale e collettivo. Vero cinema Kolossal per il respiro e l’ambizione dei temi affrontati, cinema errante per i luoghi e i momenti storici attraversati, ma allo stesso tempo anche cinema intimista per la capacità di scavare nel privato, di mettere in scena i sentimenti, le emozioni, i dubbi, il rimosso che perseguita. La capacità di mostrare sia i grandi scenari in cui si svolge la storia dei nostri anni (campi totali abitati da centinaia di comparse, orizzonti sterminati, metropoli spaventose, grattacieli “dove stanno ottomila persone” e deserti desolati, esodi, fiumi, porti presi d’assalto, navi), sia l’impasse degli individui, lo spaesamento emotivo, la necessità e la scommessa di rimettersi in gioco, tutto raccontato con uno stile documentaristico, nel senso più alto del termine, privo di preziosismi o compiacimenti ma pieno di curiosità e pudore, che prende tutto il tempo che ci vuole nel mostrare le cose, che a volte sembra attardarsi e deviare senza però essere evasivo, anzi allo scopo di approfondire, far intuire meglio i pensieri, i sentimenti, i dubbi, le paure.
Di film in film questa capacità di racconto e di rappresentazione si è perfezionata, in un processo di distillazione “a togliere” che nelle ultime opere è diventato quasi feroce. In Le chiavi di casa, il rapporto padre/figlio è il tema assoluto e quindi è costantemente tenuto in primo piano, addirittura scontornato rispetto a tutto il resto (Berlino, la clinica, i viaggi), rappresentato con uno stile da Kammerspiel. In La stella che non c’è l’andamento da “romanzo picaro” ha in realtà un ritmo stringente che prende alla gola, come un film di Hitchcock, e non c’è scena o inquadratura (anche quelle che “non mostrano nulla”) che non siano invece essenziali allo sviluppo del racconto. La notte sul battello di Liu Hua (girata senza parole, solo qualche sguardo, il rimpianto che aggredisce) equivale all’orrore muto di Vincenzo Buonavolontà di fronte ai bambini nella fabbrica di Chongqin o al suo pianto solitario sulla via del ritorno. «La strada diritta è sempre la più corta, e il binario è strada diritta», dice Liu Hua, ancora nell’ultimo dialogo del film, per spiegare il miracolo (e anche la segreta natura) di quell’incontro. E al possibilismo complice del compagno (“Più tardi forse”), replica decisa: “No, più tardi sicuro”. Piccole massime di saggezza quotidiana, che qui però riguardano il destino dei due protagonisti, e una nuova felicità da condividere.
Con La stella che non c’è Amelio non è andato in Cina per scoprire un paese così diverso, ma per capire meglio un lavoratore dell’Italia del 2007, uno che non accetta di farsi “dismettere” e che testardamente “resiste” con gli unici strumenti a disposizione: l’orgoglio per quello che si è stati e si è, la dignità del lavoro “fatto bene”, l’ostinazione a non dargliela vinta. In un mondo dove a vincere sembra essere la volgarità, la fretta e la disattenzione, il protagonista del film è davvero un pesce fuor d’acqua, l’unica persona che sente la responsabilità (e il bisogno) di compiere un gesto dovuto (aggiustare una macchina di cui conosce il guasto). Un gesto semplice, quasi ovvio, che però risulta ormai incomprensibile, sospetto, addirittura temerario. Sono i nuovi tempi che incombono, e che riguardano gli altoforni (la new-economy, le de-locazioni, la società liquida, ecc.) e i rapporti tra gli uomini. E anche il cinema. Fare migliaia di chilometri per portare una centralina idraulica a chi manifestamente non ne vuole sapere (così come fare un film controcorrente e prezioso come La stella che non c’è) non è un comportamento ingenuo e velleitario, viceversa è un atto di resistenza e dignità. Poi il viaggio in Cina di Vincenzo Buonavolontà acquista anche una dimensione privata, è l’occasione per vedere meglio in se stesso. Esattamente come capita nel film di Amelio, che inizia a mostrarci la Cina, con lo sguardo, lo stupore, l’entusiasmo del suo protagonista, e poi cambia direzione, ripiega in se stesso, parla di cose infinitamente più vicine, presenti e pressanti: l’incontro tra le persone, l’ingiustizia diffusa, le sconfitte comuni (quelle taciute di Vincenzo, i “probemi” elencati da Liu Hua: ha un figlio e non è sposata, ha tradito la fiducia dei genitori e del suo paese, è laureata e non ha lavoro), gli atti di solidarietà, il rispetto. La Cina di La stella che non c’è è un Moloch moderno, che ripete sotto altre sembianze le leggi eterne dello sfruttamento e della violenza. Ad un certo momento, nel peregrinare dei personaggi, nel loro girare a vuoto, nel loro impantanarsi, sembra quasi visualizzarsi uno scenario disumanizzato e surrealista: i “cavalieri dell’apocalisse” che bussano alla porta mentre tutti continuano a tapparsi le orecchie. Vincenzo Buonavolontà ha la forza (e forse la fortuna, come dice nel finale) di voler sentire e vedere, ed è questo l’unico motivo di ottimismo in un film che per il resto non sembra lasciare scampo.
Nell’intervista concessa a “Cinecritica”, Amelio confessa di aver sentito il bisogno, alla fine del film, di offrire una specie di risarcimento al suo protagonista dopo tutte le peripezie che ha dovuto affrontare, e infatti gli fa incontrare di nuovo la ragazza. In realtà, nel film c’è un risarcimento ancora più grande, e a suo modo crudele, quando Amelio fa credere al protagonista che la centralina idraulica che si è portata dietro da Napoli alla fine abbia raggiunto il suo scopo, mentre noi sappiamo che è andata a finire in mezzo ai rifiuti. Buonavolontà questo non lo sa e inizia così la sua nuova vita credendo ancora nella forza dei buoni propositi, e delle utopie. C’è dunque ancora un margine per lottare e resistere, in Italia come in Cina. In questo senso Buonavolontà è solo l’ultimo di una serie di personaggi che costellano il cinema di Amelio, che si assomigliano nel loro destino e nel sogno che inseguono (il carabiniere de Il ladro di bambini, il giudice di Porte aperte, il padre di Le chiavi di casa). Personaggi che ad un certo punto della loro vita, praticamente da soli, si trovano a lottare per cause disperate e senza esito. Buone cause.
Piero Spila


Titoli a pagina su fondo nero.

La rai,radiotelevisione italiana,presenta La fine del gioco,a cura del servi-zio programmi sperimentali.
La fine del gioco dichiara così le proprie radici televisive.Programmisperimentali,per l’esattezza.Televisione e sperimentazione.Era il 1970.Oggi sarebbe impensabile che la televisione sperimentasse.Perché oggi latelevisione è conservatrice e si appiattisce tutti i giorni sui dati Auditel. La  fine del gioco è diverso.C’è una ricerca dentro,che spinge,che muove ilfilm.Fin dalla prima inquadratura.
Una diagonale perfetta taglia in due il quadro.Transenne separano lapiazza.In alto a sinistra i bambini giocano a calcio,disordinati e chiasso-si corrono dietro a un pallone.In basso a destra entrano in campo i picco-li detenuti,in fila indiana,mani dietro la schiena,testa bassa,seguiti abreve distanza da una 128 bianca,che procede a passo d’uomo.È unmesto accompagnamento funebre capovolto,con l’auto alle spalle e il cor-teo in testa.

Quelli più grandi li fanno uscire da soli.A noi c’accompagna l’assistente conla macchina(1)

Inquadratura dall’alto,un campo lunghissimo,a piombo.GianniAmelio studia le formiche.Perché dall’alto i bambini sembrano formiche.Lo schermo è ancora diviso in due.
In alto c’è il disordine dei bambini che giocano a pallone.È il regnodel caos,dell’incontro fortuito,della posizione casuale,perché la palla sci- vola e i bambini la inseguono.In basso governa invece l’ordine repressivo,lo Stato che segrega,che divide.Una fila di formiche allineate e coperte,con l’incedere militare,mani dietro la schiena,testa bassa,al passo.(2)
La fine del gioco ègià tutto qui,in queste inquadrature positiviste, scientifiche, inevitabilmente armoniose. La diagonale che spezza in due lapiazza assolata,il mondo,la lavagna,tra buoni e cattivi.Perché ci sono ibuoni,i sani,i fanciulli vivi e vivaci nello slancio ingenuo e sfrontato delgioco del pallone;e ci sono i cattivi,i rei,che vanno raddrizzati,recuperati,salvati. Da questo concetto si comincia,da questa assurda messa inscena che si chiama educazione.

La domenica ci portano a vedere il cinema,ma solo quando non c’è la parti-ta;se no,ci mettono sulla terrazza dell’Istituto,perché da là si vede bene lo sta-dio.Ci viene anche il Direttore,l’Educatore e i parenti.Dicono che la partita si vede meglio da lì che nelle telecamere (3)

Radici televisive e cinematografiche dentro e fuori il comunicato.Giànell’incipit c’è il riferimento alle telecamere,all’essere soggetto che guar-da oppure oggetto ripreso.

Il giorno che siete venuto voi ci avevano portato a vedere un film di avventu-re nell’Africa.C’erano i cacciatori che acchiappavano gli animali feroci per por-tarli al giardino zoologico,dentro le gabbie. (4)

Reiterato carrello all’indietro,dalla luce della finestra giù in fondo finoasvelare il lungo corridoio dell’Istituto,sinistro,oscuro,sempre più oscu-ro,che ci allontana dalla luce,che ci inabissa nella struttura,nella fortez-zadell’Istituzione.
Una volta il cinema ce l’hanno fatto pure dentro l’Istituto,per il PrecettoPasquale:era un film che piangevano tutti,perché i leoni si mangiavano i cristia-ni… ma poi,quando è arrivato lo sceriffo col cavallo e ha sparato,ci siamo messitutti a ridere e a sbattere le sedie.Era una pellicola vecchia,che si rompeva sempre e chissà come l’avevanoimbrogliata.(5)

Note

(1) Voce fuori campo di Leonardo, protagonista di  La fine del gioco di Gianni Amelio, Italia, biancoenero, 56’,1970.
(2) Sull’episodio Il funeralino da L’oro di Napoli di Vittorio De Sica (Italia, bian-coenero, 132’, 1954),cfr.Chiara D’Amico, Shoe shine – la rappresentazione cinema-tografica dell’infanzia dal neorealismo al cinema sociale di Antonio Capuano ,tesi dilaurea in Scienze della Comunicazione,Facoltà di Lettere e Filosofia,Universitàdegli Studi di Catania,2006-2007,p.43 «il punto più alto raggiunto all’internodell’episodio è quello del lancio dei confetti.Il pacchetto che la madre aveva con-segnato a una vicina di casa nella scena iniziale,ritorna adesso tra le sue mani.Èl’elemento simbolico che rompe il silenzio,quasi metafisico,dominante nellaprima parte del tragitto;al cadere dei confetti si raccolgono rapidi,gruppi di scu-gnizzi,i compagni disposti in file perfette si lanciano anche loro a raccoglierequelle delizie,l’ordine del corteo s’infrange perdendo la sua ricercata compostez-za.Ma tutto accade volutamente,come se per ogni cosa sia stato stabilito untempo preciso,già predisposto in partenza.C’è un tempo che sublima l’infinitatristezza della vicenda,e uno che esalta la prorompente vitalità dei bambini cheliberi corrono per la strada.Interessati unicamente alla raccolta non si accorgonodi ciò che sta avvenendo dinanzi a loro,non si curano di quella morte che passaloroaccanto,quasi sfiorandoli.La morte si riconcilia alla vita,in un solo momen-to e nel medesimo spazio».
(3) Voce fuoricampo di Leonardo,protagonista di La fine delgioco
(4) Ivi 
(5) Ivi
 Alessandro De Filippo

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