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miércoles, 18 de septiembre de 2013

Ybris - Gavino Ledda (1984)


TITULO ORIGINAL Ybris
AÑO 1984
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 124 min. (ed. cinematografica); 184 min. (vers. tv)
DIRECCION Gavino Ledda
ARGUMENTO Gavino Ledda
GUION Gavino Ledda
FOTOGRAFIA Pietro Morbidelli
MONTAJE Tullio Cordati
MUSICA Pietro Sassu
ESCENOGRAFIA Pietro Morbidelli

INTERPRETES Y PERSONAJES
Gavino Ledda: Se stesso
Giuseppe Lepori: Tziu Pulinari
Giuseppe Becciu
Marisa Fabbri
Giampaolo Poddighe
Claudio Misculin

GENERO Drama

SINOPSIS Lo scrittore-regista ritorna nei suoi luoghi d'origine, ma viene trattato dai suoi compaesani come fosse un estraneo. Ammalatosi d'ulcera, viene preso da attacchi di delirio durante i quali riceverà le apparizioni rispettivamente degli Amuntadores, folletti della tradizione sarda (che attribuiranno la sua malattia al fatto di essersi allontanato dalle sue tradizioni natie), dell'amico Leonardo, da lui trasfigurato in Leonardo da Vinci, e della dea Atena. Alla fine riuscirà a ritrovare se stesso.

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G. Ledda (1938), autore di Padre padrone (1975) e di Lingua di falce (1977), esordisce nel cinema con un poema allegorico di impervia decifrazione e di complessa struttura. Racconta come, dopo il servizio militare e la ribellione al padre, lui ritorni alla natia Siligo (Sassari), trovando l'ostilità della sua gente: ciò lo induce a trovare il suo rapporto con la terra, con la natura, le sue radici. Si ritira a studiare nella capanna del vecchio pastore Thio Pulinari. L'interiore contraddizione del suo essere bifronte (pastore e scienziato) lo mette a confronto simbolicamente con Leonardo da Vinci, il grande che ha saputo sposare arte e scienza. Il risultato è in linea con la poliedrica parola greca del titolo (turbamento, oltraggio, conflitto, ferita, violenza, audacia, selvatichezza): un succedersi magmatico di parole, immagini, ricordi, sogni, fantasie in una chiave lirica, mistica, simbolica che può richiamare sia Carmelo Bene sia Pasolini, non esente da stridori, ridondanze, cadute nel grottesco involontario, superfetazioni. Esposto in concorso a Venezia 1984. Un'edizione più lunga fu mandata in onda in 4 puntate dalla RAI tra il settembre e l'ottobre 1986. (Il Morandini)
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Gavino Ledda
È nato a Siligo, in Provincia di Sassari, il 30 dicembre 1938.
Avviato sin da piccolo alla dura vita del pastore, consegue, ormai ragazzo, la licenza elementare da privatista secondo la promessa del padre. La licenza media la ottiene a Pisa nel 1961, ancora da privatista, durante il servizio militare. Nell’Esercito diviene sergente radiomontatore presso la scuola di trasmissioni della Cecchignola, a Roma. Nel 1962 si congeda e torna in Sardegna, per continuare a studiare. Si diploma al liceo classico nel 1964. 
Iscrittosi all'Università “La Sapienza” di Roma si laurea in Glottologia nel 1969. 
Nel 1970 viene ammesso all'Accademia della Crusca con Giacomo Devoto. 
Nel 1971 è nominato assistente di Filologia romanza e Linguistica sarda a Cagliari.
Inizia a scrivere in quel periodo Padre Padrone. L'educazione di un pastore, opera che completa nel 1974, per pubblicarla l’anno successivo da Feltrinelli. 
Il romanzo è un successo; ottiene il Premio Viareggio ed è tradotto in quaranta lingue. 
Nel 1977 i fratelli Taviani portano la storia sullo schermo con un film premiato a Cannes con la Palma d’oro. 
Negli anni successivi continua nel suo lavoro di linguista e glottologo e pubblica il seguito di Padre padrone, sempre con Feltrinelli, con il titolo Lingua di falce (1977).
Anche ispirandosi a questa seconda fatica letteraria, nel 1984 realizza il film Ybris, “Premio Cinema Nuovo, miglior opera prima”, alla Mostra del Cinema di Venezia, di cui è autore regista e interprete. 
Da allora ha continuato a scrivere e pubblicare poesie, tra cui Aurum tellus (Scheiwiller, Milano1992) e racconti, tra cui I cimenti dell'agnello (Scheiwiller, Milano 1995). 
Nel 2007 ha vinto il prestigioso Premio Nonino. 
Attualmente sta riscrivendo Padre padrone in lingua italiana e sarda; tra i suoi progetti, anche quello di rifare il film, a maniera sua, in sardo e da sardo.
Gavino Ledda ha trovato, con Padre padrone la sua consacrazione ma anche, un po’  la sua condanna. 
Quel monumento nella storia letteraria e sociologico-culturale del nostro paese ha impedito di continuare a seguirne l’attività artistica che pure si è espressa con numerose altre valide prove.
Per quel che ci riguarda, in questa sede, sicuramente la ricerca sulla lingua ha avuto numerosi acuti di straordinario interesse a cominciare a quell’Aurum Tellus, opera sulla natura e sul tempo, che lo ha assorbito per ben sei anni  e che rappresenta una sperimentazione nella composizione della scrittura, come nella lingua.
Un poema controcorrente, in cui il linguaggio letterario abituale è soppiantato da nuove sperimentazioni che lo scardinano completamente, fino a travisarlo. 
Gavino Ledda cerca nuove strade, si ribella anche in questo caso ai canoni della tradizione, a volte stereotipati, dello scrivere, per farsi promotore di una nuova espressività al cui centro si pone una nuova lingua inventata, quasi a dare conforto alla promessa del suo saggio pubblicato in appendice all’edizione Rizzoli di Padre padrone dal titolo “Morte della lingua euclidea”: “Ora, qui, vobis vobisque praesentibus, noi di fronte a voi, affermiamo che la lingua dell’uomo euclideo è morta. E con ciò diciamo che tutte le lingue e tutte le scritture della specie umana sono morte contemporaneamente nei confronti della complessità espressiva della scienza moderna... Ecco però, in minimo contributo, i germi e i germogli per una lingua più umana e più intima, finalmente materissìa, acquissìa, amorissìa, per guarire di scienza e di natura”.
La lingua di Aurum Tellus subisce traumi che la liberano nella sua convenzione linguistico-semantica. 
Si ricompone, biblicamente, la babele delle lingue, passando dal latino all’italiano, dal greco al sardo, dal tedesco al francese, da una lingua convenzionale a una che non lo è, con l’invenzione di vocaboli che giocano con fusione e innovazione, suffissale e prefissale, in una ricerca di intrecci e legami in cui sale a dirigere l’orchestra la congiunzione “e”, in un’iperbole nella quale trionfa l’anelito di congiungere l’uomo all’infinito, nello stesso modo in cui si vuole congiungere tra di loro le cose terrene. 
Alchimista della lingua, Gavino Ledda si è solidamente costruito un personale percorso artistico che lo consacra come fenomeno del tutto originale e che ne fa un sicuro punto di riferimento non solo per chi si occupa di lingue.
Anche se questa, per lui resta un’urgenza, cui ha dedicato decenni della sua vita.
La lingua dell’uomo, annota Ledda, linguisticamente ancora aristotelico è morta e con ciò affermiamo la morte contemporanea di tutte le lingue e di tutte le scritture della specie umana davanti alla complessità espressiva della scienza moderna.
Ecco perché occorre trovare nuove fonti, nuove strade, nuove espressività creative che consentano di comunicare modernamente e che siano maggiormente in sintonia con il flusso della natura. 
Provare, insomma a inventare una nuova lingua.
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"Ybris"
Gavino Ledda, autore di Padre padrone (1975) e di Lingua di falce (1977), esordisce nel cinema con un poema allegorico di impervia decifrazione e di complessa struttura.
Racconta come, dopo il servizio militare e la ribellione al padre, lui ritorni alla natia Siligo (Sassari), dove incontra l'ostilità della sua gente: li ha traditi, ha studiato, ha preso strade che soltanto i "don" (i signori) possono percorrere.
L'ostilità della comunità lo induce a trovare il suo rapporto con la terra, con la natura, le sue radici. Si ritira a studiare nella capanna del vecchio pastore thio Pulinari.
L'interiore contraddizione del suo essere bifronte (pastore e scienziato) lo mette a confronto simbolicamente con Leonardo da Vinci, il grande che ha saputo sposare arte e scienza.
Il risultato è in linea con la poliedrica parola greca del titolo: Ybris (1984), in sardo “alabru” (turbamento, oltraggio, conflitto, ferita, violenza, audacia, selvatichezza): un succedersi magmatico di parole, immagini, ricordi, sogni, fantasie in una chiave lirica, mistica, simbolica, che può richiamare sia Carmelo Bene sia Pasolini, non esente da stridori, ridondanze, cadute nel grottesco involontario, superfetazioni.
Gavino Ledda ha fatto due lunghi viaggi nella sua vita, il primo parte dalla nascita a Siligo, attraversa l’infanzia del pastorello analfabeta, e approda allo scrittore di un libro di grande successo; l’altro riparte da questa sua “seconda nascita” come scrittore: un viaggio che continua tutt’oggi.
Del primo sappiamo qualcosa da “Padre Padrone”, poco del secondo. È per questo che Gavino Ledda scrive di nuovo la sua storia, interamente in sardo nella sua lingua materna: autore, regista e interprete del suo premiato film “Ybris".
Battista Saiu


Dopo nove anni dal successo del romanzo “Padre Padrone”,  divenuto soggetto dell’omonimo film dei fratelli Taviani,  Gavino Ledda si cimenta nel ruolo del regista. E’ il 1984 quando con  il film “Ybris racconta la propria visione della Sardegna. Immagini della terra per raccontare il conflitto del  pastore analfabeta che manifesta  le proprie ambizioni attraverso l’istruzione. Tra antico e nuovo, tradizione e scienza, povertà e cultura, “Ybris” rappresenta una doppia dimensione: quella di pastore e al tempo stesso di studioso. Abbiamo incontrato il regista di Siligo ad Oristano, in occasione della manifestazione “Laboratorio Cinema”.
  
Come definisce il suo film “Ybris”?
La  rivolta dell’individuo contro gli dei e contro le proprie origini, il peccato più grave  che un uomo possa compiere. Così definisco il mio film, che è stato un esperimento autobiografico nato per la terza rete Rai, che, all’epoca investiva sui giovani talenti.

Nell'etimologia greca Ybris significa conflitto, turbamento. Perché questo titolo?
Nel film si racconta il mio ritorno a Siligo, dopo il servizio militare, e dove trovo la gente ostile. Quest’ostilità mi porta a  riscoprire il  rapporto con la  natura. Studio nella capanna del vecchio pastore Thio Pulinari. Da una parte c’è il conflitto e dall’altra si susseguono immagini di ricordi, sogni. Le scene sono interamente sarde, gli attori sono tutti sardi, le immagini sono tutte prese dall’ovile, dove ho vissuto veramente, sono immagini che hanno un forte senso evocativo.

 C’è un connubio tra “Ybris” e “Padre Padrone”?
“Ybris” regge il confronto con “Padre Padrone”, è il corrispettivo di “Padre Padrone” per il cinema. Con il film dei fratelli Taviani ebbe in comune solo il tema del patriarcato. “Padre Padrone” non ha avuto giustizia dal cinema, un domani spero di avere la forza  di interpretarlo io stesso in sardo. “Ybris” è stato visto poco in Sardegna, però ha avuto l’approvazione dei critici europei , infatti nel 1984 ha vinto alla Mostra del Cinema di Venezia il Premio “Cinema Nuovo” come miglior opera prima.

Letteratura o cinema, cosa preferisce?
La letteratura è più difficile, il cinema mi piace molto, avrei fatto altri film, ma sono molto orgoglioso e siccome “Ybris” ha avuto problemi, mi sono ritirato nella scrittura. Sono un pastore, questo è un grande aiuto, e dove c’è arte sto bene, di qualsiasi campo si tratti.

Cosa pensa del cinema in Sardegna oggi?
Ha un grande limite, non ha attori, come il teatro, non esiste. Se si svegliano i bambini forse un giorno si potrà fare cinema. De Seta è un regista in gamba che con “Banditi ad Orgosolo” ha fatto una cosa bella, ma non è sardo, quindi anche il film non è sardo. Mi spiego meglio: solo un bandito di Orgosolo può raccontare effettivamente quella sofferenza.

E del cinema italiano cosa ne pensa?
Mi piace, ma non tutto. Apprezzo molto Visconti, anche se per Pasolini è stato il massimo. Purtroppo nel 1975, quando sono nato come scrittore, lui è morto e non sono riuscito a incontrarlo. Gli italiani, poi, sono bravissimi nel doppiaggio.

Che progetto ha in cantiere?
Sto completando il libro in sardo “Padre Padrone”. Uscirà a breve.
Maria Elena Tiragallo

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