AÑO 1949
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 111 min.
DIRECTOR Augusto Genina
GUIÓN Suso Cecchi d'Amico, Augusto Genina, Fausto Tozzi (Historia: Elvira Psorulla)
MÚSICA Antonio Veretti
FOTOGRAFÍA Aldo Graziati (B&W)
REPARTO Rubi D'Alma, Michele Malaspina, Domenico Viglione Borghese, Inés Orsini, Assunta Radico, Giovanni Martella, Mauro Matteucci, Francesco Tomalillo
PRODUCTORA Arx / Film Bassoli
PREMIOS 1949: Venecia: Premio OCIC
GÉNERO Drama
SINOPSIS Storia di Maria Goretti (1890-1902), contadinella marchigiana uccisa da un giovane che l'aveva insidiata e ne era stato respinto. Proclamata santa (festa: 6 luglio). Neorealismo in chiave cattolica. Il film conta soprattutto per il bianconero del grande G.R. Aldo, la coerenza pittorica delle inquadrature, l'atmosfera delle paludi pontine, il clima affocato che precede lo stupro. (Il Morandini)
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TRAMA:
La famiglia di Luigi Goretti, bracciante agricolo, composta di padre, madre e sei figli, viene alloggiata per intercessione dei proprietari, nel casolare abitato dai coloni Serenelli, padre e figlio, nella malsana zona paludosa, vicino a Nettuno. I Serenelli accolgono con aperta ostilità i nuovi venuti. Luigi Goretti è un lavoratore instancabile, ma ben presto la malaria l'uccide. La famiglia, rimasta priva del suo capo, è esposta più che mai alle prepotenze dei Serenelli. Il vecchio, ubriacone e dissoluto, fa una corte assidua alla vedova; ma viene da questa risolutamente respinto. Il figlio Alessandro è preso da una passione morbosa per la figlia maggiore Maria, ancora quasi bambina. Da prima cerca d'attirarla con qualche piccolo dono, poi tenta d'usarle violenza. Ma la piccola gli resiste decisamente e gli sfugge, eccitando sempre più le malvagie brame del giovane, che giunge al punto di minacciarla. In un giorno di luglio, nell'ora più calda, mentre tutti sono fuori a lavorare. Alessandro obbliga Maria ad entrare in casa ed accecato dall'ira per la ferma resistenza della fanciulla, la colpisce replicatamente con un punteruolo. Trasportata all'ospedale, la poveretta muore dopo atroci sofferenze sopportate con ferma fede e dopo aver perdonato al suo assassino.
NOTE:
HANNO COLLABORATO AL SOGGETTO: SUSO CECCHI D'AMICO E FAUSTO TOZZI. - HANNO PARTECIPATO TRA GLI INTERPRETI CONTADINI DELLA CAMPAGNA ROMANA. MUSICHE DIRETTA DA: A. PEDROTTI. PREMIO DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI PER IL MIGLIOR FILM ITALIANO E PREMIO INTERNAZIONALE PER LA REGIA ALLA X MOSTRA DI VENEZIA (1949). NASTRO D'ARGENTO PER LA MIGLIORE REGIA (1950).
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=24410&film=CIELO-SULLA-PALUDE
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Di fronte alla aggressività della cinematografia laica il mondo cattolico decide di reagire filmando la vita “esemplare” della beata Maria Goretti in Cielo sulla palude (agosto 1949; 114 min.). Il regista Augusto Genina, inattivo dai tempi di Bengasi (1942; vedi), una volta entusiasta sostenitore dei destini del fascismo, diviene l’umile e sincero cantore della struggente vicenda della bambina Goretti. Quest’ultima, nativa di Corinaldo (Marche), aveva solo nove anni quando, nel 1899, si trasferì con la famiglia nella cascina di Ferriere, nelle paludi pontine, dove lavorava nelle terre del conte Mazzoleni. Il padre muore di malaria nel 1900 e lascia la madre con sei figli. Il nucleo condivide l’abitazione con i Serenelli, padre e figlio. Quest’ultimo di nome Alessandro, circa ventenne, ossessionato dalla presenza di Maria, tenta più volte di convincerla a cedergli. Infine tenta di violentarla il 5 luglio 1905; la ragazzina gli resiste, in nome della fede cristiana, e il govane la ferisce a morte con numerose coltellate. Il giorno dopo Maria muore nell’ospedale di Nettuno. Fin da subito un’onda di commozione circonda l’evento: i funerali vedono una massiccia partecipazione popolare cui segue la beatificazione della Goretti (1947, dopo un lungo processo iniziato nel 1935) e la creazione di un vero e proprio culto intorno alla sua salma condservata nel santuario di Nettuno. Il film di Genina, estremamente fedele ai fatti storici e salutato da un vasto successo, anticipa di poco l’evento della santificazione, avvenuta con enfasi nel giugno 1950 ad opera di Pio XII in una piazza San Pietro gremita fino all’inverosimile (non meno di 300000 persone; tra le autorità presenti si ricordano il presidente Einaudi, il capo del governo De Gasperi e il ministro degli interni Scelba).
La pellicola, sceneggiata da Augusto Genina e curata nei dettagli storici da Alberto Bargelesi, ripercorre le peripezie della famiglia Goretti dall’arrivo nella cascina dei Mazzoleni fino alla morte di Maria (Ines Orsini). La scelta stilistica è audace e forse polemica poiché l’autore sceglie di filmare la vicenda secondo i canoni tanto discussi del “neorealismo”: esterni nei luoghi reali, attori tutti non professionisti, stile corale volto a illuminare più un insieme di persone immerse nel paesaggio che i singoli protagonisti. Sono scelte coraggiose che rischiano di punire un film tutt’altro che popolare e “facile”; eppure l’esito è pienamene godibile e gli incassi premiano il coraggio degli autori. Il film, presentato alla mostra di Venezia, ottiene inoltre il Premio della Presidenza del Consiglio dei ministri per il miglior film italiano, ulteriore riconferma del totale appoggio del mondo politico cattolico.
La prima metà del racconto è volto a descrivere la durissima esistenza dei contadini dell’agro pontino, immersi in un insalubre paesaggio di terra e acqua, in cui le zanzare diffondono fatalmente il morbo della malaria tra genti mal nutrite, sfinite dal duro lavoro materiale e dimoranti in baracche segnate da pessime condizioni igieniche. In questo inferno materiale la fede cristiana finisce col divenire l’unica, esile fiamma, l’unica speranza cui ancorarsi per sopportare un simile calvario. La bambina Goretti, dopo la morte del padre, deve lavorare e badare ai molti bimbi piccoli; la sostiene la scoperta semplice della fede attraverso un banale corso di catechismo finalizzato alla prima comunione, corso che neppure le sue coetanee prendono sul serio. Tra le pagine più importanti del film c’è la sequenza in cui una ragazza spiega all’ingenua Maria come bisogna evitare di commettere atti impuri e come si può tener testa alle insidie maschili; prima ancora che la lezione sia terminata la coetanea di Maria lascia l’amica per congiungersi con un corteggiatore, così negando immediatamente nei comportamenti ciò che andava spiegando a parole. Per tale via Genina vuole ricordare che anche agli inizi del secolo (così come nel 1949) erano diffusi gli esempi negativi, leggeri e improntati al soddisfacimento delle esigenze del corpo e che tuttavia il comportamento esemplare, cristiano, capace di fare del proprio corpo un tempio di purezza, rimane sempre lo stesso. Dunque anche ora, nell’epoca dei torbidi melodrammi con Silvana Mangano e delle scollacciate riviste di Totò, chi conosce la verità cristiana deve mantenersi puro anche se intorno tutto sembra muoversi in altre direzioni.
La Chiesa comprende bene che il diffondersi del laicismo nei costumi, ora possentemente incentivato dall’arrivo del consumismo edonistico-ateo americano, è un evento mortale che può modificare la società italiana finendo col minare la centralità della Chiesa fino a renderla marginale (come in effetti avverrà a partire dalla rivoluzione culturale degli anni sessanta). Pertanto film solenni e ammirevoli come Cielo sulla palude costituiscono l’estremo disperato tentativo di arginare il nuovo promuovendo gli antichi valori e gli austeri modelli di comportamento di un’epoca ormai superata dagli eventi. Giova inoltre ricordare che uno degli elementi che contrappongono in quegli anni il conservatore Pio XII e il più duttile e realista De Gasperis è proprio la pressante richiesta di una legge restrittiva della libertà di stampa e di espressione, legge volta a ridare forza e centralità all’istituto della censura preventiva. Non se ne farà niente poiché il primo ministro democristiano si rende conto che i magistrati (da lui definiti complessivamente di tendenza laico-liberale) non l’avrebbero applicata.
La seconda parte dell’opera si concentra sui due protagonisti, Alessandro (Mauro Matteucci) e Maria, e sui ripetuti tentativi dl primo di possedere la seconda. Il volto della bambina è sempre illuminato da una dolce luce mentre quello tormentato del futuro assassino tradisce una passione incontrollabile e demoniaca. Nell’epilogo tragico, descritto senza l’ausilio della colonna sonora (altrove presente con il proprio carattere ad un tempo misurato e melodrammatico), gli eventi si susseguono in un disperato, forte realismo che accentua la crudeltà dei gesti. Le dolci note musicali riprendono solo per commentare le immagini di Maria morente in ospedale.
Sebbene la morale complessiva sia scarsamente condivisibile (il sacrificio della vita in omaggio ai dogmi cattolici e in spregio alle norme dell’istinto naturale che pone innanzitutto l’esigenza dell’autoconservazione fisica), la sincera compassione che emerge in ogni momento da una pellicola di ammirevole classicità coinvolge e stupisce. Il taglio delle immagini è sempre elegante, sapendo coniugare sguardo documentaristico e composizione pittorica mentre i numerosi movimenti di macchina (carrelli e panoramiche) valorizzano il paesaggio, lo scrutano e lo percorrono donando profondità, ampiezza e verità al dramma dei Goretti. La severa bellezza delle immagini viene sottolineata dalla frequente presenza di un colto commento sonoro (creato da Antonio Veretti) di taglio lirico, privo di facili e roboanti effetti mentre i dialoghi riportano in vita un universo semplice e popolare, fatto di miserie ed egoismi come pure di ricerca di un accordo capace di andare oltre la grettezza individuale per cercare forme di utile collaborazione. Nulla suona falso o artefatto, soprattutto grazie all’attenta, incisiva direzione degli attori dilettanti, sebbene qualche momento di eccessiva, compiacente ingenuità sembra fare capolino di tanto in tanto.
Sebbene Cielo sulla palude possa considerarsi uno degli esiti più alti dei tentativi della poetica “neorealistica” e nonostante la mancanza di quelle forzature ideologiche e antirealistiche che viziavano i conclamati “capolavori” di De Sica, Rossellini, Visconti e De Santis (si veda in tal senso quanto scritto intorno a Roma città aperta, La terra trema, Sciuscià, Ladri di biciclette e Riso amaro), la critica militante, presa in contropiede, rifiuta di valutare il fim di Genina nel suo valore artistico e si trincera dietro banali scuse (uno per tutti: Giuseppe Ferrara in Il nuovo cinema italiano, 1957, parla di Genina come di “un abilissimo falsario... ”, di “linguaggio così abilmente preso a prestito - un linguaggio in origine sorto per difendere e capire le ragioni dell’uomo soffocato dall’ingiustizia...”). Il settore culturale laico-marxista guarda dunque con sospetto ed evidente fastidio a questo intruso, capace di descrivere la verità delle classi popolari e la loro sofferenza con una forza documentaristica superiore a quella presente nelle pellicole degli autori “consacrati”. Ciò che poi appare imperdonabile è che la situazione di miseria e sfruttamento di quelle popolazioni non sfoci nell’odio tra le classi ma che venga accettata come una situazione difficilmente modificabile nella quale è soprattutto la fede cristiana a rendere sopportabile l’esistenza. In ogni caso anche quella nelle paludi pontine è vita che offre qualche soddisfazione come mostrano ad esempio le serene sequenze delle fiere.
André Bazin, a sorpresa, elogia il lavoro di Genina (Un saint ne l’est qu’après, Cahiers du cinéma n 2, 1951; poi in Che cosa è il cinema?, Garzanti 1973) a patto però di stravolgerne completamente il senso attraverso una “sofisticata” e molto “francese” interpretazione: “....la condotta di Maria non è ancora convincente, poiché capiamo che Maria peraltro ama Alessandro... la povera vita di una ragazzina stupidamente infranta...”. Così la tragedia della palude diviene un’enigmatica storia d’amore (!!), ostacolata da incomprensibili remore morali. Le cose non sono mai ciò che sembrano, secondo un artificioso atteggiamento tipico degli commentatori più “avveduti” che ambiscono ad avere l’ultima parola sul senso “recondito” (e molto spesso decifrabile solo da loro) delle narrazioni artistiche, e dunque anche la storia della Goretti si può ricondurre alla tesi dell’amore universale che tutto spiega e giustifica. Siamo al ridicolo.
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http://www.giusepperausa.it/_il_grido_della_terra__il_lupo.html
La pellicola, sceneggiata da Augusto Genina e curata nei dettagli storici da Alberto Bargelesi, ripercorre le peripezie della famiglia Goretti dall’arrivo nella cascina dei Mazzoleni fino alla morte di Maria (Ines Orsini). La scelta stilistica è audace e forse polemica poiché l’autore sceglie di filmare la vicenda secondo i canoni tanto discussi del “neorealismo”: esterni nei luoghi reali, attori tutti non professionisti, stile corale volto a illuminare più un insieme di persone immerse nel paesaggio che i singoli protagonisti. Sono scelte coraggiose che rischiano di punire un film tutt’altro che popolare e “facile”; eppure l’esito è pienamene godibile e gli incassi premiano il coraggio degli autori. Il film, presentato alla mostra di Venezia, ottiene inoltre il Premio della Presidenza del Consiglio dei ministri per il miglior film italiano, ulteriore riconferma del totale appoggio del mondo politico cattolico.
La prima metà del racconto è volto a descrivere la durissima esistenza dei contadini dell’agro pontino, immersi in un insalubre paesaggio di terra e acqua, in cui le zanzare diffondono fatalmente il morbo della malaria tra genti mal nutrite, sfinite dal duro lavoro materiale e dimoranti in baracche segnate da pessime condizioni igieniche. In questo inferno materiale la fede cristiana finisce col divenire l’unica, esile fiamma, l’unica speranza cui ancorarsi per sopportare un simile calvario. La bambina Goretti, dopo la morte del padre, deve lavorare e badare ai molti bimbi piccoli; la sostiene la scoperta semplice della fede attraverso un banale corso di catechismo finalizzato alla prima comunione, corso che neppure le sue coetanee prendono sul serio. Tra le pagine più importanti del film c’è la sequenza in cui una ragazza spiega all’ingenua Maria come bisogna evitare di commettere atti impuri e come si può tener testa alle insidie maschili; prima ancora che la lezione sia terminata la coetanea di Maria lascia l’amica per congiungersi con un corteggiatore, così negando immediatamente nei comportamenti ciò che andava spiegando a parole. Per tale via Genina vuole ricordare che anche agli inizi del secolo (così come nel 1949) erano diffusi gli esempi negativi, leggeri e improntati al soddisfacimento delle esigenze del corpo e che tuttavia il comportamento esemplare, cristiano, capace di fare del proprio corpo un tempio di purezza, rimane sempre lo stesso. Dunque anche ora, nell’epoca dei torbidi melodrammi con Silvana Mangano e delle scollacciate riviste di Totò, chi conosce la verità cristiana deve mantenersi puro anche se intorno tutto sembra muoversi in altre direzioni.
La Chiesa comprende bene che il diffondersi del laicismo nei costumi, ora possentemente incentivato dall’arrivo del consumismo edonistico-ateo americano, è un evento mortale che può modificare la società italiana finendo col minare la centralità della Chiesa fino a renderla marginale (come in effetti avverrà a partire dalla rivoluzione culturale degli anni sessanta). Pertanto film solenni e ammirevoli come Cielo sulla palude costituiscono l’estremo disperato tentativo di arginare il nuovo promuovendo gli antichi valori e gli austeri modelli di comportamento di un’epoca ormai superata dagli eventi. Giova inoltre ricordare che uno degli elementi che contrappongono in quegli anni il conservatore Pio XII e il più duttile e realista De Gasperis è proprio la pressante richiesta di una legge restrittiva della libertà di stampa e di espressione, legge volta a ridare forza e centralità all’istituto della censura preventiva. Non se ne farà niente poiché il primo ministro democristiano si rende conto che i magistrati (da lui definiti complessivamente di tendenza laico-liberale) non l’avrebbero applicata.
La seconda parte dell’opera si concentra sui due protagonisti, Alessandro (Mauro Matteucci) e Maria, e sui ripetuti tentativi dl primo di possedere la seconda. Il volto della bambina è sempre illuminato da una dolce luce mentre quello tormentato del futuro assassino tradisce una passione incontrollabile e demoniaca. Nell’epilogo tragico, descritto senza l’ausilio della colonna sonora (altrove presente con il proprio carattere ad un tempo misurato e melodrammatico), gli eventi si susseguono in un disperato, forte realismo che accentua la crudeltà dei gesti. Le dolci note musicali riprendono solo per commentare le immagini di Maria morente in ospedale.
Sebbene la morale complessiva sia scarsamente condivisibile (il sacrificio della vita in omaggio ai dogmi cattolici e in spregio alle norme dell’istinto naturale che pone innanzitutto l’esigenza dell’autoconservazione fisica), la sincera compassione che emerge in ogni momento da una pellicola di ammirevole classicità coinvolge e stupisce. Il taglio delle immagini è sempre elegante, sapendo coniugare sguardo documentaristico e composizione pittorica mentre i numerosi movimenti di macchina (carrelli e panoramiche) valorizzano il paesaggio, lo scrutano e lo percorrono donando profondità, ampiezza e verità al dramma dei Goretti. La severa bellezza delle immagini viene sottolineata dalla frequente presenza di un colto commento sonoro (creato da Antonio Veretti) di taglio lirico, privo di facili e roboanti effetti mentre i dialoghi riportano in vita un universo semplice e popolare, fatto di miserie ed egoismi come pure di ricerca di un accordo capace di andare oltre la grettezza individuale per cercare forme di utile collaborazione. Nulla suona falso o artefatto, soprattutto grazie all’attenta, incisiva direzione degli attori dilettanti, sebbene qualche momento di eccessiva, compiacente ingenuità sembra fare capolino di tanto in tanto.
Sebbene Cielo sulla palude possa considerarsi uno degli esiti più alti dei tentativi della poetica “neorealistica” e nonostante la mancanza di quelle forzature ideologiche e antirealistiche che viziavano i conclamati “capolavori” di De Sica, Rossellini, Visconti e De Santis (si veda in tal senso quanto scritto intorno a Roma città aperta, La terra trema, Sciuscià, Ladri di biciclette e Riso amaro), la critica militante, presa in contropiede, rifiuta di valutare il fim di Genina nel suo valore artistico e si trincera dietro banali scuse (uno per tutti: Giuseppe Ferrara in Il nuovo cinema italiano, 1957, parla di Genina come di “un abilissimo falsario... ”, di “linguaggio così abilmente preso a prestito - un linguaggio in origine sorto per difendere e capire le ragioni dell’uomo soffocato dall’ingiustizia...”). Il settore culturale laico-marxista guarda dunque con sospetto ed evidente fastidio a questo intruso, capace di descrivere la verità delle classi popolari e la loro sofferenza con una forza documentaristica superiore a quella presente nelle pellicole degli autori “consacrati”. Ciò che poi appare imperdonabile è che la situazione di miseria e sfruttamento di quelle popolazioni non sfoci nell’odio tra le classi ma che venga accettata come una situazione difficilmente modificabile nella quale è soprattutto la fede cristiana a rendere sopportabile l’esistenza. In ogni caso anche quella nelle paludi pontine è vita che offre qualche soddisfazione come mostrano ad esempio le serene sequenze delle fiere.
André Bazin, a sorpresa, elogia il lavoro di Genina (Un saint ne l’est qu’après, Cahiers du cinéma n 2, 1951; poi in Che cosa è il cinema?, Garzanti 1973) a patto però di stravolgerne completamente il senso attraverso una “sofisticata” e molto “francese” interpretazione: “....la condotta di Maria non è ancora convincente, poiché capiamo che Maria peraltro ama Alessandro... la povera vita di una ragazzina stupidamente infranta...”. Così la tragedia della palude diviene un’enigmatica storia d’amore (!!), ostacolata da incomprensibili remore morali. Le cose non sono mai ciò che sembrano, secondo un artificioso atteggiamento tipico degli commentatori più “avveduti” che ambiscono ad avere l’ultima parola sul senso “recondito” (e molto spesso decifrabile solo da loro) delle narrazioni artistiche, e dunque anche la storia della Goretti si può ricondurre alla tesi dell’amore universale che tutto spiega e giustifica. Siamo al ridicolo.
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