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domingo, 2 de diciembre de 2012

Diario di un vizio - Marco Ferreri (1993)


TÍTULO ORIGINAL Diario di un vizio
AÑO 1993 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 94 min. 
DIRECTOR Marco Ferreri
GUIÓN Marco Ferreri, Liliane Betti (Historia: Liliane Betti)
FOTOGRAFÍA Mario Vulpiani
REPARTO Jerry Calà, Sabrina Ferilli, Valentino Macchi, Laetitia Laneri, Anna Duska Bisconti, Luciana De Falco, Cinzia Monreale, Doriana Bianchi, Maria Rosa Moratti, Massimo Bucchi
PRODUCTORA Società Olografica Italiana (SOI) S.r.l.
PREMIOS 1993: Festival de Berlín: Sección oficial de largometrajes
GÉNERO Comedia. Drama | Comedia negra. Prostitución 

SINOPSIS Benito escribe un diario sobre sus fantasías y deseos sexuales. Como resultado de su inestable relación con la bella e insaciable Luifia, sus pensamientos a lo largo de esas líneas cada vez se han vuelto más bizarros. (FILMAFFINITY)



Andreazza Fabio
Prove di virilità in Diario di un vizio di Marco Ferreri (pdf)
http://www36.zippyshare.com/v/99820310/file.html


Benito, quarantenne rappresentante di un linea di detergenti per sanitari, trascina la propria misera esistenza tra umilianti avventure erotiche, squallide pensioncine di periferia prima di sparire improvvisamente nel nulla, lasciando solo un diario, un diario di un vizio...

Con Diario di un vizio siamo nel 1993, al penultimo film di Marco Ferreri, più precisamente tra La casa del sorriso del 1991 e Nitrato d'Argento del 1996. Sul film in sé, nei vari giudizi critici emessi nel corso del tempo si è detto (quasi) di tutto: sgangherato, imperfetto, non all'altezza dei precedenti capolavori di questo autore controcorrente. Tutto vero: perchè, ovviamente, del film non si può tacere come la struttura tecnica e narrativa sia palesemente sgangherata e quasi involuta, in cerca non di una progressiva raffinazione ed evoluzione bensì, al pari del personaggio impersonato da un convincente e finanche straziante Calà, di una graduale scomparsa dal mondo, dal mondo tout court e dal mondo del cinema e dell'arte più precisamente.
Lo stile di quest'opera non poteva non essere così, sul sottile crinale dell'allucinazione e dell'amatorialità tecnica: quasi una risposta-simbiosi con una cinema e con un'Italia targata anni '90 che va lentamente sempre più verso una deriva etica e politica che si riflette nelle derive dei singoli individui. Più che un film da intendersi classicamente, Diario di un vizio è quasi l'ultimo rantolo-ruggito di un autore incazzato con l'universo, con un universo che lo ha sostanzialmente sempre emarginato e etichettato con definizioni di comodo, una zampata al contempo stanca e giammai doma; il personaggio di Calà non è altro che il regista stesso, in lotta con i limiti imposti da produttori-strozzini e ammaliato-disgustato dalla decadenza da suburra della televisione. Ferreri non cerca altro che annullarsi proprio come il protagonista, non prima però di essersi abbandonato ad un benefico (?) e anarchico girovagare per una Roma attraente e respingente con il suo squallore rivelato: un vagabondare che, specularmente, ricorda quasi al centro del film d'esordio di Tinto Brass, Chi lavora è perduto del 1963.
E poi come non tacere dell'ulteriore simbiosi tra un regista che sente di essere arrivato quasi alla fine, quasi all'Apocalisse che immaginava toccasse al (suo)mondo, come ben enunciato nella sua filmografia precedente, e un attore ex comico di successo che pare quasi riassumere il proprio declino nella figura di un fallito venditore di detergenti sanitari: quasi l'incontro tra due perdenti, falsi vincenti per le regole ipocrite dello show business non solo italico. Come non ammettere la fusione sia tra la figura di Ferreri, di Calà e, in definitiva, del film stesso: quest'ultimo, infatti, è al pari dei primi, un film zoppicante e vitalissimo, perlomeno se confrontato con il p(i)attume odierno, sublimemente sporco, deragliato e lucidissimo, feroce e sentimentale, un vero e proprio diario di un vizio (quale vizio, se non la libertà di vivere liberamente?), che si fa carne di ragazze trucide  e sangue, immagini rozze e poesia nichilista.
Alberto Decostanzi
http://www.nocturno.it/recensioni/diario-di-un-vizio?AspxAutoDetectCookieSupport=1
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Il vizio che affligge il malinconico Benito (un bravissimo Jerry Calà), non è solo quello del tabagismo. Oltre alla tangibile (e banale) dipendenza fisica, caratteristica comune a tantissime persone, quest’uomo è assuefatto alla vita, al sesso, al sogno.
Ed è per questo che passa le sue giornate vivendo (e sognando) in una perenne annotazione. Talmente scrupolosa da registrare ogni minimo movimento fisico, concreto o astratto che sia, per soffermarsi su quel sussulto interno che più lo fa soffrire, quello del cuore. Vive d’amore Benito, vive per amare. Sfoga i suoi inconfessabili pruriti edipici con lascive passanti, soffrendo allo stesso tempo per un affetto corrisposto saltuariamente dall’avvenente Luigia (Sabrina Ferilli).
“Diario di un vizio” non è un film credibile per trama e non pretende di esserlo. E’ un film coerente per emozione (giusta o sbagliata che sia), trova la sua realizzazione in una scarna rappresentazione di un irreale talmente banale da lasciare indifferenti e da passare inosservato.
La favola moderna di un sognatore scostumato, mai cresciuto realmente e forse per questo impreparato agli eventi e sempre in cerca di una figura femminile (ma soprattutto materna), di un necessario ma colpevole contatto.
Marco Ferreri dirige la storia, non gli attori e questo si vede, ma non è una novità. Nella spontaneità di una recitazione inconsapevole risiede l’essenza di questo film e tutta la sua morbosità.
Bellissima interpretazione di Jerry Calà, che nella sue mille imperfezioni rende giustizia alla (sporca) purezza di un inquieto grafomane.
http://cinedelia.blogspot.com.ar/2007/06/diario-di-un-vizio.html

Il sogno impossibile nel cinema di Marco Ferreri
Il cinema è morto inghiottendo Marco Ferreri nelle viscere del suo stesso successo. Sono passati quasi dieci anni dalla scomparsa del regista e la sua esperienza artistica è quasi caduta nell’oblio. Non c’è da stupirsi se si pensa al fatto che negli anni della sua maggiore produzione e dopo gli scandali nati intorno a film quali Una storia moderna : L’ape regina (1963), La grande abbuffata (1973), L’ultima donna (1976), l’attenzione della critica e del pubblico si è spostata più sul personaggio, polemista-ideologo, che sulla sua ricerca artistica, producendo un numero spropositato di definizioni di cui Ferreri non si è mai più liberato. E’ stato considerato un provocatore paradossale, uno spirito graffiante, un iconoclasta, un misogino, un fustigatore di costumi, un moralista. Inoltre si è continuato a lungo a parlare di “casino narrativo” e di “sciatteria formale” come se le sue opere venissero create per caso, con trascuratezza e non con una personale ricerca di stile. Tra le altre definizioni, poi, una ha marcato maggiormente e forse ingiustificatamente l’opera del regista sin dai suoi esordi con i film spagnoli, quella di “humour nero”.
Ferreri, nato a Milano nel 1928, si avvicina al cinema promuovendo una serie di operazioni culturali destinate inevitabilmente a fallire: con l’apporto di collaboratori d’eccezione (tra cui si ricordano Zavattini, Visconti, De Sica, Fellini, Rosi e Antonioni per il cinema, Moravia, Guttuso e Sinisgalli per le altre arti) avvia il progetto di realizzare delle riviste filmate e film-inchiesta sulla evoluzione del cinema italiano nei primi anni Cinquanta. Non riuscendo a portare a buon fine quei lavori, si trasferisce in Spagna dove incontra Raphael Azcona, lo sceneggiatore che sarà fedele collaboratore di molti suoi film. Dopo l’intensa bohème intellettuale del periodo spagnolo, durante il quale, a stretto contatto con la realtà sociale iberica, produce film che estremizzano grottescamente l’umore acre di quella realtà, e per i quali a torto si è parlato di neorealismo ferreriano, il regista nel 1961 torna a fare cinema in Italia.
Con le sue prime opere italiane si conquista quella fama di cineasta scandaloso, anarchico e trasgressivo che, tra molti equivoci e qualche verità, lo accompagnerà a lungo. Tra il 1963 e il 1964 la personalità ferreriana si impone con due importanti lungometraggi (Una storia moderna : L’ape regina e La donna scimmia) e un episodio (Il professore) del film Controsesso, dividendo le opinioni della critica. Per questi film non si può parlare di vera e propria “commedia all’italiana” o “commedia di costume”, poiché queste nozioni sono lontane dalle intenzioni ideologiche del regista. Certo è che con questi lavori Ferreri, incurante della moralità e del senso del pudore che la censura dell’epoca impone, inizia a proporre alla pubblica opinione argomenti considerati tabù come il sesso e a dissacrare le istituzioni consolidate: il matrimonio e la famiglia, temi che poi svilupperà nelle opere successive, quando condannerà abitudini e situazioni tipiche della società capitalistico-borghese. Nel 1966 con Marcia Nuziale porta agli estremi la propria contestazione dei valori borghesi, esasperando il discorso relativo ai rapporti di coppia e, soprattutto, ai ruoli dei sessi.
Ma è con Break up che si crea una vera rottura. Il film, già girato nel 1965 con il titolo L’uomo dei cinque palloni (poi distrutto, smembrato e rimontato diversamente dal produttore Carlo Ponti), rappresenta una folgorante anticipazione delle caratteristiche proprie della più matura poetica ferreriana. Con quest’opera il linguaggio del regista si trasforma avvicinandosi ai risultati dei film successivi. Anticipando uno stile che avrebbe trovato la sua sistemazione in Dillinger è morto, Ferreri adotta una forma antinaturalistica e antirealista per sviluppare il tema dell’irrazionale che irrompe nell’ovvietà della civiltà dei consumi. Il film, a causa dei tagli e degli innumerevoli interventi sul montaggio, si presenta frammentario; gli atti del protagonista non sembrano legati secondo una relazione di causa-effetto. Eppure la ripetizione ossessiva delle sue azioni, l’immobilità allucinata con la quale compie meccanicamente i suoi gesti, il comportamento artificioso scandito da un ritmo che non coincide con quello naturale della vita, rende perfettamente le intenzioni del regista, anzi avvicina questo film a quello che sarà il risultato più perfetto del discorso ferreriano.
Con Dillinger è morto, la filmografia dell’autore assume un nuovo aspetto. E’ il periodo in cui rientrano quei film caratterizzati “dall’annullamento dell’uomo”, “dalla distruzione della Storia” e “dalla negazione del racconto”. Dal 1969 (Dillinger è morto) al 1986 (I love you) Ferreri non smette di manifestare il suo drammatico pessimismo alternando film capaci di leggere e anticipare gli umori di un tempo, le sue immagini, le sue mitologie, le sue paure, a film di altro genere quali, ad esempio, Non toccare la donna bianca (1974),L’ultima donna (1976), Chiedo asilo (1979), Storie di ordinaria follia (1981), Il futuro è donna (1984). Come i primi, però, anche questi ultimi film presentano momenti in cui il problema dell’incomunicabilità, l’analisi grottesca del reale, il rapporto tra uomo e donna, una possibile soluzione “al femminile”, diventano tematiche presenti anche se già contaminate da nuovi elementi. Traspaiono qui, infatti, una stanchezza e un calo di tono che caratterizzeranno le opere successive al 1986.
Gli ultimi film di Ferreri, seppure rivalutati dalla critica più recente, perdono quella tensione dissolutrice che di altri aveva fatto dei capolavori. Non sono più l’alienazione o la reificazione dell’uomo contemporaneo, il degrado della società dei consumi i temi che ne compongono le trame, perché diverse sono le condizioni socio-economiche in cui l’autore si trova a operare. Da Come sono buoni i bianchi (1988), passando attraverso La casa del sorriso (1990), La carne (1991), Diario di un vizio (1993), Faietz ce que vouldras(1994), mediometraggio da Rabelais inedito in Italia, per giungere a Nitrato d’argento (1997), Marco Ferreri continua a “scavare” nei meandri delle relazioni intersoggettive, ma la sua ricerca conduce a ben poco. Forse perché tutto è stato già detto. Forse perché per l’autore stesso l’uomo è già da tempo morto.
Il cuore espressivo della filmografia ferreriana
Il nucleo narrativo attorno al quale ruota questa riflessione è costituito dunque da sette film (in una filmografia composta da ben trentacinque titoli) che sembrano presentare caratteristiche omogenee non solo rispetto alle tematiche sviluppate dall’autore, ma anche in nome di un comune orientamento stilistico come tratto distintivo del regista. Nell’intento di cercare un percorso ideologico che li comprendesse tutti, è stato sorprendente aver intravisto nel discorso ferreriano la capacità di non sganciarsi mai da se stesso, di intrecciare storie sempre e comunque somiglianti, fino a raggiungere quel mirabile risultato espressivo che è l’autocitazione del primo film (Dillinger è morto, opera in tal senso programmatica) nell’ultimo (I love you, angosciante conclusione di questo labirintico percorso).
Dillinger è morto rappresenta il film di Ferreri, l’opera che si discosta da tutto il precedente lavoro dell’autore (recuperandone solo gli aspetti innovativi dell’immaginario ferreriano) ed esibisce già compiutamente tutte le tematiche che singolarmente saranno sviluppate nei film successivi e una forma tanto lucida quanto personale che rispecchia perfettamente il contenuto di quelle opere.
«Il film non deve essere un’operazione rassicurante» ha sostenuto Ferreri in un’intervista ad Adelio Ferrero. Il suo intento, infatti, è stato sempre quello di lasciare lo spettatore di fronte a una visione incerta di cui restano solo immagini fluide che persistono in lui, creandogli un senso di disagio fisico. Le inquadrature di Ferreri producono una freddezza della visione che genera dinamismi concettuali insinuati ma non detti. Dillinger è morto è il film che esibisce, come un manifesto, la concezione che Ferreri ha del cinema e i tratti tipici della sua scrittura. Maurizio Grande ha parlato per questo autore di “scrittura celibe” in cui il montaggio è congiuntivo senza essere additivo: le inquadrature si accostano l’una all’altra senza fondersi, si legano seguendo una linea di contiguità in cui sempre è evidente lo scarto tra la realtà rappresentata e la soggettività dell’autore. Ferreri guarda il mondo e lo adatta alla visione fredda dello spettatore; quasi che le immagini ferme del suo cinema ritornino alla realtà senza essere state registrate.
Le immagini restituite alla realtà non rendono dunque il senso di una presa effettiva sul reale: la scrittura per immagini serve a Ferreri per allontanarsi da questo reale dopo averlo ridotto a «simulacro del vivente», ad «oggetto inorganico della visione». Si potrebbe dire che la vita e l’uomo appaiono reificati da un cinema antidrammatico che riduce la rappresentazione dei rapporti umani ad aneddoti del gesto e del comportamento. La comunicazione visiva è ciò che interessa all’autore, la capacità (e la volontà esibita) di togliere peso alle parole in film dove si parla sempre meno e dove le immagini che reagiscono chimicamente fra loro diventano la vera materia narrativa.
Sempre ad Adelio Ferrero il regista ha dichiarato: «noi siamo il prodotto di duemila anni di storia, siamo fatti in un certo modo, secondo certi criteri di autorità e di gerarchia che sono saltati, messi in discussione, rifiutati. Non è pensabile che si possa cambiare tutto questo senza un cambiamento nella società, nel costume, nella storia, nella “struttura” profonda dell’uomo. Ma c’è l’isolamento, la paura di dover cambiare, l’istinto di conservazione. E la solita paura della morte. Di qui un sentimento di angoscia, di disperazione, che nel film si dovrebbe avvertire. Certo che è difficile, tremendamente difficile, dire queste cose con il cinema. Per questo io ho detto in passato, con una battuta, che il cinema non serve a niente».
Tra l’uomo e la Storia ci sono le opere di Ferreri, apologhi senza morali perché raccontano storie vere sotto le sembianze di favole moderne, con la consapevolezza di non essere in grado di cambiare il mondo. Ferreri fotografa il reale portando sullo schermo personaggi intimamente lacerati dal dramma dell’impossibilità di trovare soluzioni ai problemi determinati da una società in degrado. L’uomo in questo contesto socio-economico supera la forma dell’alienazione e senza asservirsi alle cose diventa egli stesso cosa tra le cose. Il protagonista di Dillinger è morto cercherà di venir fuori da questa realtà costituita ormai soltanto da oggetti e corpi inerti, ma i suoi tentativi andranno nella direzione dell’autoinganno. Una prima volta il designer cercherà, in una significativa e bella sequenza, di entrare nel mondo finto creato sulla parete da un proiettore (che ripropone le immagini delle sue vacanze estive in Spagna), schiacciandosi sulle stesse immagini per rendere il senso di una impossibile via d’uscita, anche se data dalla finzione del filmato. Una seconda volta tenterà la fuga verso Tahiti a bordo di un veliero, ma l’orizzonte verso cui questo si dirige è falsato dal viraggio cinematografico che rende il paesaggio finto, colorato di un rosso artificiale. La fuga verso il sogno esotico «sembra impossibile» (sono le battute finali pronunciate dal protagonista); la conferma la darà un altro protagonista, quello di I love you, un altro uomo che inseguendo la libertà affogherà in quello stesso mare rosso, senza neanche riuscire a salire sulla nave dei sogni.
Il primo film lasciava intravedere una speranza, una probabile via d’uscita nella forma del mito e del sogno. Ne Il seme dell’uomo(1970) Cino e Dora, i due protagonisti, si sono rifugiati sull’isola deserta per scampare alla fine del mondo, affidandosi, però, solo ai miti e alla violenza. Volendo riscrivere la Storia attraverso la creazione di un “museo della civiltà” e credendo che la procreazione possa garantire il futuro, Cino si illude di poter trovare soluzioni possibili alla sua egoista e cieca esistenza. La sua compagna capirà in anticipo che non vi sono strade possibili, mostrando la paradossale condizione rappresentata con questo film in cui si giunge al ribaltamento, al rifiuto della vita, al seme inteso come morte. Perché dopo la violenza compiuta da Cino che feconda l’addormentata e inconsapevole Dora, il film si chiude con l’esplosione dei loro due corpi sulla spiaggia. La stessa spiaggia che, lungi dall’essere Eden felice, ha anticipato questo dramma lacerante nella sequenza del ritrovamento di un enorme cetaceo contaminato. L’ittico feticcio, la balena bianca, Moby Dick, così come accadrà alla grande scimmia di Ciao maschio (1978), consumandosi nel tempo, vanifica l’illusione di speranza in un mito artificioso (perché fatto di gomma !).
Su un’altra spiaggia e allo stesso modo di Cino e Dora, i protagonisti de La cagna (1972) cercano di sopravvivere aggrappandosi ad un nuovo mito, quello del buon selvaggio, dell’isolamento. L’aereo rosa con cui Giorgio e Lisa desiderano decollare anticipa la partenza fallita del protagonista di I love you. Mastroianni e la Deneuve resteranno aggrappati al sogno lieve di un volo verso la libertà. Forse è un caso, forse no, Mastroianni dopo un anno scenderà da un aereo per incontrare un gruppo di amici e dividere con loro un banchetto mortale. Accade ne La grande abbuffata (1973), il film fisiologico di Ferreri, in cui si impongono, in maniera esplosiva, temi quali il nutrimento, la sessualità, la corporeità; questi elementi, piuttosto che salvare l’uomo riconducendolo a uno status naturae, lo condannano all’inazione e alla staticità.
A Ferreri non servono sovrastrutture ideologiche perché non si è mai riproposto di cambiare il mondo con i suoi film. Già dai tempi di Dillinger è morto era solito sostenere che «è sempre meglio fare invece di una cattiva opera rivoluzionaria un’opera negativa al massimo, un’opera che voglia distruggere». Questo film, considerato «l’ultimo dei classici antiborghesi» (di poco precedente è il bunueliano Il fascino discreto della borghesia) è specchio di un mondo che si autodistrugge. I quattro protagonisti (Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret e Ugo Tognazzi) sono i volti più frequenti nel cinema ferreriano; di loro al regista interessa il corpo: i personaggi hanno tutti il nome dell’attore che li interpreta. E ognuno rappresenta un aspetto caratteristico della società borghese. Riunitisi per un cerimoniale banchetto di morte, i commensali mangeranno a oltranza, negando il ruolo primario assegnato al nutrimento ed esasperandolo fino a fare del cibo uno strumento di morte. Consumando il corpo fino all’accesso, usando cibi donne e sesso, Ferreri oppone materialità a immaterialità, armonia a dissonanza, procedendo nella direzione dell’esibizione della inevitabile decadenza corporale (deformazione, mutazione, disfacimento, malattia, morte). Ad accompagnare i protagonisti lungo questo cammino è una figura femminile, quella di Andrea (Ferreol), la maestra, il cui corpo esageratamente candido tradisce la primaria funzione materna: sarà lei ad aiutare i quattro a morire, ponendosi al loro fianco, quasi “angelo della morte”.
L’unica possibilità reale di fuga è concessa, forse e di nuovo, alla donna. E’ inevitabile assimilare il corpo femminile al corpo della Madre Natura, con cicli, stagioni e ritmi biologici tanto somiglianti. Storia di Piera (1983) è allora, contro tutte le accuse di misoginia, il film della fuga reale, l’unica possibile perché tutta al femminile. Eugenia, la protagonista, è la madre di Piera degli Esposti (di cui il film è un tentativo di biografia). Rappresentata come un gigantesco corpo panteistico della natura, in lei regnano un’animalità pura e un’altrettanto assoluta libertà, senza leggi e senza morali. Vive al di là della Storia, al di là del tempo e dello spazio. A Ferreri interessa mostrare come il ritorno alla forma del mito sia concesso solo alle donne, in virtù della loro naturale predisposizione a vivere fuori dagli schemi sociali. L’uomo da tutto questo non può che restare escluso. Alla naturalità femminile il regista contrappone la teatralità, la finzione come conclusione dell’utopia maschile (Marcello Mastroianni, padre di Piera, vestito di raso bianco come un attore del varietà, suona con la fisarmonica “Bandiera Rossa” per la figlia). L’uomo ha demolito così anche il sogno comunista americanizzandolo; Piero Spila ha definito Mastroianni come «l’uomo che si è messo in aspettativa mentre nelle viscere della donna fermenta il futuro». Ma Storia di Piera è un film solo apparentemente fiducioso nel futuro. L’equilibrio raggiunto nel finale non è un happy end, ma la consapevolezza della sconfitta della ragione. Se è vero che la donna salva se stessa, essa però vive in una circolarità in cui non c’è speranza di ricongiunzione con l’altro sesso. Uomini e donne sono condannati da Ferreri all’incomunicabilità. Il protagonista di I love you, per “comunicare” con un viso di donna fatto di porcellana, sarà costretto a fischiare in un piccolo portachiavi. Al suono della sua voce questo replica “I love you”. Fino al momento in cui il protagonista (si chiama Michel come il Piccoli che interpretava Dillinger è morto) scopre che il surrogato femminile non funziona più, non è più in grado di rispondergli, che gli è negato anche relazionarsi al feticcio. Conscio della nuova beffa che gli muove il destino, decide che l’unica soluzione possibile è la fuga. Mentre in televisione scorrono le sequenze finali del film Dillinger è morto, in cui Piccoli uccide la moglie con la pistola rossa a pois bianchi, Michel con il martello distrugge la sua donnina di porcellana. L’autocitazione, che è continuità tematica, chiude, attraverso una ricercata circolarità, il progetto di un uomo di cinema che, voce isolata, scruta il reale elevando smisuratamente il livello di tossicità dei suoi film diretti ad un mondo di perfetti cretini, di cui denuncia l’ormai inevitabile condizione di reificazione e incomunicabilità. Definitivamente il sogno esotico verso cui il protagonista del primo film si era proiettato non si realizzerà. Dopo aver visto in televisione la fuga di Piccoli verso il mare, Michel decide di compiere lo stesso percorso. Si lancerà con la motocicletta verso lo stesso mare, dove ha scorto all’orizzonte lo stesso veliero su cui si era imbarcato il protagonista dell’altro film. C’è una donna sul veliero che non riesce a sentire il suo richiamo…è sempre più lontana, miraggio di chi è condannato ad affogare.
Il percorso ferreriano verso la fine dell’umanesimo è compiuto. Partendo dalla possibilità di riscatto concessa all’uomo con il sogno, il mito, l’utopia, si è giunti alla consapevolezza dell’impraticabilità di questa strada. Ferreri appare dunque cinico e spietato, ma da veggente quale è stato, dobbiamo dargli atto che non si era del tutto sbagliato.
Angela Bianca Saponari
http://www.cinecriticaweb.it/panoramiche/il-sogno-impossibile-nel-cinema-di-marco-ferreri

1 comentario:

  1. Gracias por subir cine de Marco Ferreri y por repostear recientemente La carne, Il seme dell'uomo y Controsesso!! ;)
    (Tienes alguna pista sobre La casa del sorriso, con la que ganó el Oso de Oro de Berlín? resulta inencontrable)

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