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miércoles, 12 de diciembre de 2012

L'America a Roma - Gianfranco Pannone (1998)


TITULO ORIGINAL L'America a Roma
AÑO 1998
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 80 min.
DIRECCION Gianfranco Pannone
GUION Gianfranco Pannone, Marco Fiumara
REPARTO Guglielmo Spoletini, Remo Capitani, Luigi Marturano, Paolo Magalotti, Giovanni Cianfriglia, Carlo Lizzani
FOTOGRAFIA Tarek Ben Abdallah
MONTAJE Babak Karimi
MUSICA Alessandro Molinari
PRODUCCION Mario Mazzarotto, Gianfranco Pannone, Sabatino Garrano para Rai-Interfilm, Effetto Notte
GENERO Documental

SINOPSIS Il regista Pannone vuole realizzare un documentario sui cosiddetti western all'italiana. Quando lo viene a sapere Guglielmo Spoletini, attore dimenticato che ne ha interpretati parecchi, lo invita per presentargli i suoi ex-colleghi. Lo porta in pellegrinaggio sui luoghi dove sono stati girati questi film: villaggi e fattorie che ora non esistono più. Grazie alla passione e alla nostalgia di Spoletini, Roma si trasforma in una America che non c'è più e anziani colleghi e produttori si ritrovano in un'osteria...


CRITICA:
"Un bel lavoro sulla memoria, anche se le dichiarazioni dei vari attori sono superiori alla voce fuori campo che fa da cornice personale della vicenda. Soprattutto, un'ulteriore dimostrazione delle grandi potenzialità offerte dalla storia orale del cinema italiano: quando se ne accorgerà anche la televisione?" (Stefano Della Casa, 'Annuario del Cinema Italiano 1999-2000')

NOTE:
- NEL FILM CI SONO BRANI DI "REQUIESCANT" (1967) DI CARLO LIZZANI, "L'UOMO VENUTO PER UCCIDERE" (1967) E "...E INTORNO A LUI FU MORTE" ENTRAMBI DI LEON LIMOVSKY.- PRESENTATO AL FESTIVAL DI LOCARNO 1998.
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Gianfranco Pannone (Napoli, 1963) è un regista italiano di documentari e autore di un lungometraggio di fiction, Io che amo solo te  (2004). Dal 1991 al 1998 ha ideato e diretto una trilogia sul sogno americano in Italia: Piccola America, Lettere dall'America e L'America a Roma. Nel 1999, in collaborazione col produttore Carlo Cresto-Dina, ha realizzato Pomodori, viaggio nell'identità italiana. Nel 2007 con Paolo Santoni ha realizzato per Rai Tre la miniserie Cronisti di strada. Insegna al Dams dell'Università degli studi Roma Tre, alla Scuola Zelig di Bolzano ed alla Act Multimedia, Accademia del Cinema e Televisione, a Cinecittà in cui è il curatore del corso di Regia del Documentario. Dall'autunno del 2001 tiene una rubrica mensile sul portale del cinema documentario ildocumentario.it. Nel 2008presenta al Festival internazionale del film di Locarno il documentario Il sol dell'avvenire, tratto da un libro di Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini incentrato su alcuni esponenti delle Brigate Rosse .
Gianfranco Pannone, rievocando la memoria cinematografica della sua infanzia, intraprende una ricerca sugli anni d'oro dello "spaghetti western" e va a trovare Guglielmo Spoletini, ex stuntman e attore col nome di William Bogart. Riuniti come ai vecchi tempi, Guglielmo e i suoi amici si lasciano andare ai ricordi della giovinezza. Con loro il regista ripercorre la Roma degli anni Sessanta fino ai giorni della contestazione giovanile, rispolverando anche un vecchio western italiano, Requiescant di Carlo Lizzani, con Pier Paolo Pasolini nei panni di un prete messicano rivoluzionario. In fondo la storia dei borgatari di Roma non è così diversa da quella dei messicani protagonisti di quei film girati in pochi giorni e a basso costo, sulle orme dei film di Sergio Leone. Carico di entusiasmo, Guglielmo ha l'idea di realizzare un western: la storia di tre cavalieri messicani che si perdono tra i palazzoni della Roma di oggi. E l'autore, convinto che l'idea del vecchio stuntman non sia del tutto irrealizzabile, riserva una sorpresa finale… «L'America a Roma è molto più di una piacevole sorpresa. In una palude di titoli che dovrebbero sancire il Rinascimento del cinema italiano… al giovane regista napoletano va senza dubbio il titolo di "cinerabdomante". Perché? Per il semplice motivo che Pannone con la sua cinepresa fiuta ciò che è sincero, intenso e reale nella vita di Guglielmo Spoletini, ex stunt-man e attore di western con lo pseudonimo di William Bogart e a lui si aggrappa, quasi lo vampirizza» (Umberto Sebastiano, «Nocturno Cinema»).
www.uniroma2.it/.../Gianfranco_Pan...


Intervista a Gianfranco Pannone
di Sara Criscuolo

Autore di film documentari, tra cui ricordiamo Piccola America, Lettere dall’America, L’America a Roma – una trilogia sul sogno americano in Italia - e i più recenti Pomodori, Viaggio intorno alla mia casa, Latina/Littoria, Gianfranco Pannone rappresenta nella ristretta famiglia del documentario italiano uno dei membri più appassionati ed impegnati. Socio fondatore di Doc/it, insegna regia alla NUCT di Roma e alla Zelig di Bolzano e collabora con la Scuola Nazionale di Cinema e con l’Università Roma Tre. Abbiamo discusso con lui della sua condizione di autore e delle possibilità espressive di cui dispone il cinema documentario.

Come è nata la tua collaborazione all’ideazione e alla realizzazione de “L’idea documentaria”?
Il libro è a cura di Marco Bertozzi ma è stato ideato da Doc/it. In particolare un gruppo di autori, che da anni lavora al documentario di creazione, ha ritenuto giusto pensare ad un libro che fosse una riflessione sul documentario italiano oggi; forse incoraggiati anche dal fatto che una parte della critica ha riconosciuto ad alcuni di noi lo status di registi di cinema al pari dei registi che fanno fiction – cosa che non succedeva prima. Era dunque importante che riflettessimo sul nostro lavoro ponendoci una serie di interrogativi: cosa facciamo, come ci rivolgiamo alle persone, qual è il nostro approccio nei confronti della realtà, cosa significa fare documentari d’autore o di creazione. E a questi interrogativi sono stati chiamati a rispondere non solo i registi ma anche i produttori, i critici cinematografici e tutte le persone che lavorano nel documentario, operatori, fonici, montatori. Ne è nato un libro a più voci, voci diverse e a volte contrastanti, che danno l’idea di un panorama ricco e in continua evoluzione. È stato pensato come un progetto orientato verso la riflessione, dunque dove si parlasse non solo di contenuti ma anche di linguaggio, e anche in rapporto con le cinematografie altre. Questo per rompere il guscio creato dal pregiudizio che c’è nella televisione pubblica, tra alcuni produttori e persino tra qualche cineasta nei confronti del documentario come forma d’arte. Anche noi documentaristi però dovremmo uscire dalla nicchia del mondo a parte. Il mio saggio scherzosamente l’ho intitolato ispirandomi a Nanni Moretti “Sono diverso ma sono uguale”, perchè facciamo un cinema che è un po’ diverso ma comunque lavoriamo con il linguaggio cinematografico e quindi dobbiamo porci questo problema al di là d’ogni chiusura. Questo sguardo non elitario è ancora più importante se pensiamo al documentario come approfondimento, racconto, poesia, e non solo al “qui e ora”. Da questo equivoco è necessario che si esca. Il libro spero contribuisca a creare le condizioni per una diversa collocazione del cinema documentario in Italia.

Il libro mette quindi in luce l’esigenza di creare un dialogo tra chi lavora nell’ambito del documentario...
È fondamentale non perdersi di vista e dialogare insieme per cercare di migliorare la situazione del cinema documentario in Italia. Lo spirito di far dialogare le varie componenti del documentario è proprio di Doc/it fin dalla nascita, ed è interessante osservare che Doc/it è fin dall’inizio nata come associazione di autori e produttori. Ci siamo detti: siamo pochi, siamo anche poco ascoltati, probabilmente noi autori abbiamo istanze diverse da quelle dei produttori e viceversa, però dobbiamo lavorare insieme, anche a costo di scontrarci - perché è anche vero che a volte le posizioni non coincidono. I produttori sono più prudenti, devono fare i conti con i soldi. Noi autori magari vogliamo attaccare la Rai più conservatrice come se fosse la Bastiglia e loro sono meno propensi a farlo per motivi ovviamente comprensibili. Però queste anime diverse che convivono fanno ricchezza. Non è un caso che dentro Doc/it oltre a produttori e registi ci siano dentro anche festival, fondazioni, scuole…

Per un autore il fatto di doversi relazionare al mercato televisivo e quindi di dover rispettare determinate logiche produttive non rischia di condizionare, di limitare la sua libertà rispetto ai contenuti e al linguaggio?
Oggi c’è una sorta di normalizzazione del documentario, nel senso che di fronte ad una forte necessità di fare documentari in Italia e in Europa, sempre più spesso corrisponde una richiesta da parte delle televisioni e delle istituzioni di fare documentari che siano comprensibili. Il che è lecito perché il documentario deve rivolgersi anche ad un pubblico vasto; ma il rischio è che si tenda a produrre sempre di più documentari di tipo didattico-divulgativo o di evasione piuttosto che documentari indipendenti sul piano del linguaggio. Ci sono codici che sono quello della voce fuori campo, dell’intervista oppure quello del reportage spettacolo che stanno togliendo spazio al documentario di creazione. La battaglia reale va fatta proprio sulla possibilità di espressione e sulla creatività. In Italia rispetto a questo tipo di documentario mancano ( specie dopo la scomparsa di Tele+) punti di riferimento. La Rai non risponde ai nostri appelli, non ci sono finanziatori privati, grandi case di produzione che possano finanziare i progetti autonomamente, non c’è la possibilità (e la volontà) di creare un cinema indipendente ricco. Non c’è il terreno per fare documentari di qualità, di scavo e critica alla società, dove un autore possa esprimersi in modo libero.

Il documentario dovrebbe invece poter esercitare uno sguardo libero, per poter essere come è nella sua natura un mezzo di riflessione e di approfondimento della realtà…
In Italia questo non accade. In televisione c’è un predominio dei giornalisti che impongono una visione diversa da quella che deve caratterizzare il cinema documentario, la parola prevale sull’immagine. Questo predominio è problematico perché ci impedisce di trovare degli spazi adeguati, specie sulla tv pubblica. Questo mi fa pensare che bisognerebbe pensare un po’ più in grande, sull’esempio di Moore e Philibert, che il documentario dovrebbe andare al cinema, perchè il cinema ci permetterebbe di essere più liberi dal punto di vista linguistico, di essere meno convenzionali, di fare un cinema di racconto, di poesia, così come la televisione ci impedisce sempre più spesso di fare.
Visto che in Italia mancano i riferimenti necessari per fare documentari, sembra indispensabile sia per gli autori che per i produttori confrontarsi con la realtà europea. Qual è stata la tua esperienza a questo riguardo?
Io senza l’Europa non avrei fatto la maggior parte dei miei lavori. La Francia (che sia Planet o Arte), ma anche la Germania, il Belgio, la Svezia, l’Olanda con le loro televisioni, sono tutti riferimenti importanti e vitali per fare documentari con un budget decente. Oggi è un po’ più difficile convincere le tv estere, perché stranamente ad un Europa che, seppure a fatica, allarga i propri orizzonti corrisponde una incredibile chiusura delle Rai a forme ormai indispensabili di partnerariato; e se non porti denaro dal tuo paese le tv straniere ti danno meno ascolto. Ma il rapporto con l’Europa è fondamentale non solo da un punto di vista economico, perché gli altri paesi hanno molto da insegnarci, specie sul documentario di creazione. Ed è un peccato che l’80% dei film che si fanno all’estero ogni anno, visibili sulle tv di tutta Europa o nei festival di Amsterdam, di Marsiglia, di Nyon, e che noi possiamo vedere solo in parte ai festival nostrani, i giovani non li possano vedere. Drammatico questo, drammatico non potere vedere film documentari d’altri paesi, perché anche attraverso la loro visione si impara a far cinema. Non poter vedere questi film ci impedisce di crescere e ci porta a fermarci molto spesso al reportage, all’impressione della realtà e non alla sua interpretazione. È come se un medico italiano non avesse la possibilità di provare nuove terapie già collaudate all’estero!

A questo proposito, secondo te, cosa si può fare per favorire una diffusione del documentario in Italia?
Premetto che quando parlo di documentario, piuttosto che di prodotti di divulgazione (beninteso rispettabilissimi), parlo di opere di creazione, quelle più penalizzate dal mercato. Detto ciò, non ho molta fiducia nelle strade tortuose dell’autarchia. Credo, piuttosto, che il potenziamento dei circuiti cinematografici e home video, anche attraverso forme di defiscalizzazione, possa dare un forte incentivo alla diffusione del documentario. E poi la tv pubblica dovrebbe finalmente decidersi a creare appuntamenti fissi settimanali col cinema del reale, italiano e internazionale. Tuttavia nulla mi toglie dalla testa che il problema vada risolto a monte e, cioè, dalla scuola. Solo inserendo nei programmi scolastici lo studio teorico e pratico del linguaggio cinematografico, potremo pensare anche a una maggior diffusione del documentario di qualità, perché un pubblico più colto ed esigente può condizionare positivamente anche il mercato più stantio. E questo credo che prima o poi accadrà.
*Gianfranco Pannone per L’idea documentaria ha scritto “Sono diverso ma sono uguale. (La natura ambigua del documentario)”.
http://www.altrocinema.it/archivio/archivi/ideadocumentaria/gianfrancopannone.htm

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