ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS



Si alguién piensa o cree que algún material vulnera los derechos de autor y es el propietario o el gestor de esos derechos, póngase en contacto a través del correo electrónico y procederé a su retiro.




martes, 11 de diciembre de 2012

La Legge della Tromba - Augusto Tretti (1960)


TITULO ORIGINAL La legge della tromba
AÑO 1960
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 85 min.
DIRECCION, ARGUMENTO Y GUION Augusto Tretti
FOTOGRAFIA Carlo Pozzo, Franco Bernetti
MONTAJE Mario Serandrei
MUSICA Angelo Paccagnini, Eugenia Tretti Manzoni
ESCENOGRAFIA Josef Bassan
EFECTOS SONOROS Marino Zuccheri
REPARTO Maria Boto (gendarme, generale, industriale, scienziato, leone M.G.M.), Angelo Paccagnini (Celestino), Diego Peres (Faccia d’Angelo), Carlo Muzzi (il Conte), Guido Bassi (Dum Dum), Giovanni Gusmeroli (Ufficiale), Vittorio Tato (primo consigliere)
PRODUCCION Augusto Tretti – Botofilm

SINOPSIS Attraverso le squinternate vicende del giovane, ingenuo Celestino (Paccagnini) e dei suoi poveri amici, prima rapinatori goffi, poi operai maldestri o disoccupati, il veronese esordiente Tretti, la testa più matta tra gli irregolari del cinema italiano degli anni '60, apre un discorso sul sistema che costruisce trombifici per la povera gente per poi trombarla sistematicamente. Lo continua con Il potere (1971). Ne è protagonista la 64enne Boto, per trent'anni domestica in casa Tretti, che interpreta il leone della M-G-M, il gendarme, il generale, l'industriale e uno scienziato spaziale. Almeno 2 sequenze memorabili: le manovre militari e il corteggiamento di Liborio. Girato nel 1960, ebbe una limitata circolazione nell'ambito dei cineclub solo 2 anni dopo. (Il Morandini)


Tretti esordì al cinema come aiuto-regista di Fellini nel film Il bidone, e debuttò alla regia nel 1960 con La legge della tromba, storia surreale piena di umorismo che sconvolse i codici della scrittura filmica. L'esordio di Tretti dietro la macchina da presa venne salutato da lodi entusiastiche:

"E' una piccola lezione di cui ammiro il candore e l'astuzia" (Ennio Flaiano),

"E' il film più strabiliante che abbia mai visto" (Florestano Vancini),

"Vengono in mente le fantasie di Charlot, i film di Tati, intere sequenze sono rette da un meraviglioso equilibrio di ironia e lirismo" (Valerio Zurlini),

"In questo giovane e nel suo film c'è estro da vendere" (Michelangelo Antonioni).
---
Il presente articolo è parte della prima puntata dello speciale Augusto Tretti o dell’anarchica innocenza di un irregolare del cinema italiano; a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa.

La legge della tromba
di Alessio Galbiati

Assai più che per Il potere, La legge della tromba merita d’essere raccontato minuziosamente per via della sua ancor più difficile reperibilità. Sarebbe forse più corretto utilizzare il termine ‘visionabilità’, che poi, per un film, è la condizione necessaria per vivere (o morire continuamente alla velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo), per essere. Un film deve essere visto, deve avere la possibilità di essere alla portata degli occhi e della mente delle persone, altrimenti non avrebbe nemmeno senso metterli al mondo questi film, perché un’opera composta da una successione di immagini in movimento e da una colonna audio, lontano dagli occhi, semplicemente non è. Un film vive se può vagare nei ricordi delle persone ma per farlo è necessario che sia visto. Questo articolo e più in generale l’intero speciale che Rapporto Confidenziale sta componendo vuole essere uno strumento che possa donare nuovamente la via del pubblico ai film di AUGUSTO TRETTI, o dell’anarchica innocenza di un irregolare del cinema italiano.

Sinossi dettagliata.

Didascalia 1. “Prologo”
La signora Maria Boto, seduta ad un tavolo da cucina, con alle spalle il fuoco di un camino che scalda una pentola, si rivolge alla macchina da presa parlando in prima persona.
«Signore e Signori io sono Maria Boto, di professione cuoca. In tutta la mia vita non ho mai visto un film, non me ne intendo; nonostante questo mi hanno pregato di lavorare nel cinema, ho accettato e sono andata in un teatro di posa: ho visto i riflettori, la macchina da presa, con la paralasse, gli attori, l’operatore, gli elettricisti, gli archi. Cose interessantissime, però… Troppa confusione! e poi sempre pasticci. Ve ne dico una: mentre stavamo lavorando, fermano il film! i produttori non volevano più dare un soldo perché dicevano che io non ero commerciale. (ride) Ho sgobbato, ma sono contenta di aver fatto anche questa esperienza. Ed ora cari Signore e Signori, vi saluto, perché devo preparare il pranzo.»

Didascalia 2. “Cinque poveri diavoli, spinti dal bisogno, organizzarono la più audace delle rapine”
Celestino insieme ai suoi quattro scalcagnati amici – Faccia d’angelo, il Conte, Dum Dum e Bimbo – provano a rapinare un gracchiante furgoncino portavalori della Banca del Popolo. Tutto procede per il verso giusto, bloccano il furgone nel mezzo di una desolata campagna, fanno scendere le guardie armate dal mezzo a motore e si avventano sul bottino ma, una volta aperta una valigetta scoprono che invece dei milioni ci sono solamente cambiali, un quintale di carta senza alcun valore. Le guardie riprendono il controllo e, armi alla mano, ed apostrofandoli come “Lazzaroni”, li disarmano ed immobilizzano.

Didascalia 3. “Celestino e i suoi amici furono rinchiusi in un penitenziario”
I cinque in cella intonano canti che inneggiano alla libertà ed alla speranza di un lavoro: «Noi vogliam la libertà / Né catene Né soldat / noi vogliamo del lavoro per campar / e la nostra vita in pace terminar / Libertà, libertà, libertà».

Didascalia 4. “Ogni giorno, viene concessa ai forzati, un po’ di ricreazione”
In un desolante cortile, sotto il controllo armato delle guardie, i cinque trascinano le pesanti catene che hanno legate alle gambe e fanno conversazione fra loro, vaneggiando e fantasticando. Il Conte narra la sua storia ed il sogno di ottenere una carica nobiliare, gli altri si intrattengono a commentare la bellezza di un fiore: un ranunculus vulgaris. «Svelti che si va a cena!» grida una guardia. Un attimo dopo li vediamo, da dietro alle sbarre, seduti ad tavolo come nel celebre affresco leonardesco. Ai cinque viene servita la cena dal cuoco e dai suoi assistenti come se si fossero ad un ristorante di lusso e prima di lasciare la stanza li saluterà con impeccabile professionalità: «Ed a nome della direzione, buon appetito!». Durante la cena Faccia d’angelo apprende da Celestino che per la mezzanotte è prevista l’evasione.
Calata la notte metteranno in atto il loro piano, segheranno le sbarre e, palla al piede nelle mani, se la daranno a gambe levate.
Ma proprio mentre i cinque sono evasi, arriva al meridionalissimo direttore del carcere la notizia che a seguito della nascita del figlio a lungo atteso del Governatore è stata concessa una amnistia a tutti detenuti.

Didascalia 5. “All’alba gli evasi correvano ancora”
Celestino ed i suoi compari si infilano senza rendersene all’interno di un territorio dall’aspetto lunare entro il quale si stanno svolgendo delle bellicose “manovre militari”. Le truppe, il generale e tutti i soldati sono un branco di vecchietti squinternati dotati di un cameratismo assai greve e di un acume assai poco sottile. L’arrivo del generale sul campo delle operazioni darà il via ad uno scontro a fuoco fra le due fazioni, fra esplosioni che suonano come pernacchie e lampi di fuoco assai più simili ad innocue scintille. In mezzo a tutto questo caos i cinque cercheranno di non lasciarci le penne totalmente ignari che quello a cui stanno assistendo sia in realtà una poverissima simulazione. Con mezzi di fortuna, un sidecar e dei muli, riusciranno anche questa volta a scappare, lasciando il generale ed i suoi sottoposti all’inseguimento del suo cappello che a seguito di un’esplosione ha incominciato a rotolare senza sosta per le campagne circostanti.
Il Conte, attardatosi dai compagni di fuga, incrocia un gruppo di contadini che sta tornando sul terreno delle esercitazioni per seminare.

Didascalia 6. “Celestino e i suoi amici si diedero convegno nel vecchio covo”
La banda è nuovamente in libertà e trascorre il tempio nell’ozio. Celestino li raggiunge e comunica a loro quel che un tempo gli disse il colto e facoltoso Signor Liborio, capo tromba del suo reparto nell’esercito: «Se avrai bisogno di qualcosa nella vita, vieni pure da me!».

Didascalia 7. “Nell’appartamento del Signor Liborio, Presidente dall’Universal Mondial Company”
Il Signor Liborio siede alla scrivania intento nella lettura di un trattato di Filosofia del Diritto, seduto di fronte a lui, in abiti dimessi, c’è un remissivo Celestino, giunto in udienza per una intercessione che lo aiuti a trovare un’occupazione onesta per sé ed i suoi amici. Non senza averlo istruito sulla retta via che un buon uomo dovrebbe seguire, il ricco industriale offrirà quel che chiede, un lavoro presso la nuova industria che la sua società ha da poco deciso di fondare: una enorme fabbrica di trombe. Ma, «dato i vostri precedenti: nessun contratto. Vi darò mezza paga. Però vi prometto un lavoro sicuro e col tempo, forse, una partecipazione agli utili».
Il giorno seguente sono già al lavoro per l’edificazione della fabbrica, tutt’altro che grandioso, il trombificio pare più che altro una trasandata stalla rimaneggiata ad officina industriale.

Didascalia 8. “Celestino, desideroso di far carriera, nelle ore di libertà, frequentava le prove del circolo Amici della musica. Lì, conobbe una ragazza per bene”
In un piccolo teatro un’orchestra d’una dozzina di elementi strimpella una acuta melodia, Celestino assiste in una sala deserta seguendo l’esecuzione sul proprio spartito. Una ragazza si siede accanto a lui ed attacca a conversare, non senza essersi presentata. Celestino si offre di accompagnare a casa la signorina Marta che però rifiuta, dal momento che Celestino ancora non possiede l’automobile.

Didascalia 9. “(ogni lavoro da i suoi frutti) INAUGURAZIONE DEL TROMBIFICIO!”
Fra squilli di trombe una folla di persone attende l’arrivo del Ministro sopraggiunto il quale avrà inizio la cerimonia del taglio del nastro nel giubilo generale di tutte le autorità convenute. Il Signor Liborio in persona passerà in rassegna le capacità produttive del nuovo trombificio nazionale, che in realtà altro non sono che una scalcinata messa in scena per gli occhi incompetenti dell’anziano Ministro il cui discorso solenne si concluderà con una sonora caduta dal podio.
Il lauto banchetto organizzato per celebrare l’evento è l’occasione durante la quale Celestino manifesta a Marta i suoi sentimenti ed i progetti che ha per il loro futuro, «la televisione, la macchina ed anche la cameriera» replica cinguettante la ragazza. Ma non appena l’avrà presentata al Signor Liborio questo, riconoscendola come la figlia di un suo conoscente emigrato in Argentina, proprietario di una miniera nel Tartagal, si comporterà in maniera affabulante nei confronti della ragazza che non appena si saranno salutati si informerà sulla situazione sentimentale del ricco industriale e sull’entità del suo patrimonio.
Intanto il Signor Liborio si accorda con il Ministro.
Sui muri delle città compaiono dei manifesti che riportano le nuove disposizioni volute dal Ministro dei rumori e dei suoni che obbligano tutti i cittadini, le forze pubbliche, gli uffici pubblici ed i musicisti all’obbligo dell’utilizzo delle trombe. I capitreno li usano per far partire i treni, la polizia come sirene, gli spazzini come campane per la raccolta, i vigili per dirigere il traffico.

Didascalia 10. “Il Paese fu così definitivamente intrombato.”
Celestino lavora freneticamente alla sua scrivania coordinando le spedizioni internazionali e gestendo la produzione ma la sua testa è interamente dedicata al suo amore per Marta.

Didascalia 11. “Mentre Celestino viveva il suo sogno d’amore, Liborio riuniva il Consiglio d’Amministrazione dell’Universal Mondial Company.”
Attorno ad un tavolo un gruppo di anziani vestiti di tutto punto fa il punto della situazione del proprio business: +100%. Il Signor Liborio ammonisce però i suoi sulla saturità del mercato delle trombe, dal momento che ognuno possiede almeno una tromba i margini del settore si sono ormai assottigliati dunque è divenuto necessario trasferire il trombificio in un paese straniero, ed il Tartagal con le sue miniere di ottone sarebbe la meta perfetta dove trasferire la produzione, abbattendo così i costi della materia prima. Il Signor Liborio, ricordandosi che il padre della signorina Marta possiede proprio una miniera in quella terra lontana, decide si sposare la ragazza per impossessarsi senza spendere un quattrino di ciò di cui la sua società ha necessità per l’aumento dei profitti. Un brindisi immersi nello scoppiettio delle bollicine della gazzose offerte ai suoi commensali suggellerà l’accordo intercorso nel nuovo CDA.
Venuto a sapere dei suoi gusti il Signor Liborio ricopre di attenzioni la signorina Marta, le regala fiori, la porta a passeggio…

Didascalia 12. “Liborio conquistò Marta con la finezza d’animo…”
Marta e Liborio seduti su di una panchina giocherellano con un gatto.

Didascalia 13. “…con lo sport…”
Marta e Liborio tirano di scherma.

Didascalia 14. “…con l’eloquenza e la cultura…”
Liborio declama ad un’estatica Marta i versi di Giacomo Zanella: «Ba ba bababa, ba ba bababa/ ba ba bababà / ba ba bababà / ba ba bàbà…».

Didascalia 15. “…con lo spirito di corpo…”
Liborio bersaglierizzato vaga per le strade saltellante e strombazzante, nel passo tipico dei Bersaglieri.

Didascalia 16. “…con l’osservanza religiosa.”
Liborio e Marta sono genuflessi sui banchi di una chiesa riempita da una nenia sgrammaticata cantata da una voce troppo oltremodo acuta, alla quale tutti ritmicamente rispondo ad intervalli regolari con suoni gutturali.

Didascalia 17. “…con la musica…”
Marta suona al pianoforte mentre Liborio intona uno sdolcinato e stucchevole canto a lei dedicato concluso con un bacio sul capo.

Didascalia 18. “…e infine… con i regali e con l’alcole!”
Un disco diffonde un coinvolgente lento, Marta e Liborio fra sigarette e bicchieri d’alcol si intrattengono quando Liborio estrae dalla tasca un anello con brillante da donarle. Il momento è suggellato da un brindisi con champagne e dall’ubriacatura di entrambi. Quando Liborio sollecitato da Marta, dichiarerà di volerla sposare, lei gli si concederà biblicamente ed i due ubriachi fradici suggelleranno il loro “amore”.

Didascalia 19. “Arrivò così per Liborio il momento di trasferirsi con il trombificio a Tartagal. Ignari di questi piani, Celestino e i suoi amici si godevano un meritato riposo.”
Seduti in riva al fiume gli amici si svagano cantando e suonando dei flauti e delle ocarine, Celestino si allontana per telefonare a Marta voglioso di sentire la sua innamorata ma lei è già intenta a preparare i bagagli per la partenza e non si fa trovare dal povero Celestino. Amareggiato riaggancia il ricevitore e si mette a passeggiare per l’uggiosa città quando un suo collega gli comunica che i lavori di smantellamento della trombificio sono ultimati e che tutto è stato portato al porto pronto per essere imbarcato per il Tartagal.
La scalcinata nave ormeggiata con tutti i capitali del Signor Liborio in groppa è pronta a salpare, con in poppa la futura sposa Marta.
Celestino sopraggiunge proprio quando la nave ha preso il mare, vede svanire di fronte ai propri occhi sbarrati, ed in un colpo solo, l’amore ed il lavoro.

Didascalia 20. “Per consolarsi e per dimenticare, Celestino e i suoi amici organizzano un’orgia.”
In una stanza la combriccola con alcune donne assiste ad un duo pianoforte e violino assolutamente straziante, tutti sono immobili a contemplare il vuoto, assorti in foschi pensieri. Poi attaccano a bere e a danzare sulle note del pianoforte suonato da Celestino.

Didascalia 21. “Ballarono fino all’esaurimento delle forze.”
Tutti sono accasciati in qualche angolo della stanza, ubriachi e stanchi, Celestino è ancora al pianoforte, esausto. L’alcol ha reso Bimbo particolarmente loquace e rissoso, quando Celestino reagirà alle parole dette nei confronti di Marta scatterà contro l’amico. I due si sfideranno a duello e Celestino avrà la peggio prendendosi una coltellata in pieno petto.
Ferito e sconvolto si troverà a vagare disperato per la campagna, in preda ad allucinazioni e sensi di colpa.

Didascalia 22. “Ma Celestino non morì e in un nuovo lavoro trovò la tranquillità.”
E’ infatti stato assunto come collaudatore volontario di razzi interplanetari. Un Professore ed il suo staff mettono sulla testa di Celestino una boccia di vetro e lo fanno entrare dentro al razzo posato sulla cima di una collinetta di ghiaia, il razzo, fra lo strepitio dei motori e le fiamme del suo propulsore prende il volo per schiantarsi poco dopo sulla cima di un albero lasciandolo a cavalcioni su di un ramo.
Sopraggiunto, il Professore domanda rabbioso a Celestino cosa sia capitato e lui, guardando in camera, con un ghigno beffardo, risponde: «È il sistema che non funziona!».

Didascalia 23. “FINE”

* * *
 All’epoca della sua uscita l’esordio al lungometraggio di Augusto Tretti venne salutato come un piccolo grande capolavoro da alcune delle personalità di maggior prestigio della cultura italiana, cinematografica ma non solo. Osteggiato dal mercato e dalla censura il film mantiene intatta, a cinquanta (50!) anni dal suo completamento (fu ultimato nel ’60 ma arrivò nelle sale, pochissime a dire il vero, due anni dopo), la sua carica anarchica e sovversiva sia a livello tematico che della prassi della narrazione cinematografica, delle sue convenzioni.
Ne La tromba ogni aspetto è portato ad un livello selvaggio, anarchico e sgrammaticato. Il suo Autore si prende tutte le libertà possibili: riproduce il suono a proprio piacimento, sconvolge la geografia inventandosi paesi inesistenti, fa interpretare ad una donna anziana, truccata e camuffata alla bisogna, ben quattro ruoli differenti (nonché la parodia del leone della M.G.M. sui titoli di testa) e da (parziale) ultimo non utilizza nemmeno un solo attore professionista, ma sceglie il cast fra i suoi amici e conoscenti. Tretti da spirito non omologabile si accostò al cinema in totale libertà e seppe far intravedere un talento sconsiderato.
Il prologo del film, durante il quale Maria Boto, cuoca di casa Tretti ed interprete fondamentale della pellicola, parla in prima persona rivolgendosi alla macchina da presa, è un luminoso momento meta cinematografico che da conto di quel che è stata la produzione del film. «Ve ne dico una: mentre stavamo lavorando, fermano il film! i produttori non volevano più dare un soldo perché dicevano che io non ero commerciale». Capitò infatti che gli imprenditori milanesi (Slogan Film) colti da velleità artistiche che diedero fiducia e denaro (poco a dire il vero) al giovane verone assistente alla regia di Fellini ne Il bidone del 1955, visionato il girato si disimpegnarono bruscamente dalla realizzazione del film, costringendo lo stesso Tretti a comprarsi il film e ad ultimarlo con le sole proprie forze. La signora Maria Boto dimentica però di dirci che oltre ad aver fatto il cinema è pure stata produttrice, suo infatti il nome che Tretti volle dare alla sua casa di produzione che rilevò (letteralmente) la pellicola, la Boto-Film.
Questo strano prologo si situa a distanza dalla storia raccontata, non strizza l’occhio ad alcun elemento drammaturgico presente nella trama o nei caratteri dei suoi protagonisti, è una espressione di estrema onestà nei confronti dello spettatore ed al contempo costituisce un momento di complicità con lo spettatore; raccontandoci in prima persona le difficoltà produttive incontrare Maria Boto giustifica la natura complessiva del film: un’opera eccentrica che non rispetta alcuna delle regole minime che un film comunemente dovrebbe possedere. Lei ride del fatto che i produttori non l’abbiano trovata commerciale, ride del fatto che il film che ci troviamo a guardare sia fatto da persone che il cinema non sanno nemmeno cosa sia: «In tutta la mia vita non ho mai visto un film, non me ne intendo». La legge della tromba è un film sghémbo, che sembra davvero diretto da una persona che non sappia cosa sia il cinema, un film che se ne frega delle regole, assai più prossimo, per struttura ed articolazione della narrazione, ad un film muto che ad altro. I mascherini circolari che chiudono ogni sequenza ed anticipano le 23 didascalie, ricordano da vicino le comiche del muto dei Chaplin e dei Keaton.
Dal punto di vista dei temi affrontati e delle idee veicolate dalla messa in scena, è evidente nel film una dura condanna al sistema di potere e di vita che regola la società italiana. L’ultima battuta, «È il sistema che non funziona!», se letta fuori contesto potrebbe apparire come velleitaria e lapalissiana, ma posizionata lì, alla fine del film, quando tutto al povero protagonista è andato storto (degnamente interpretato da Angelo Paccagnini, che per la cronaca ha lavorato a partire dal 1958 presso il leggendario Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano con Bruno Maderna e Luciano Berio e ne è stato il direttore dal ’69 al ’71; fu tra i primi titolari di cattedre mondiali di musica elettronica insegnando composizione e musica elettronica presso il conservatorio Verdi di Milano) riesce ad esplodere folgorante perché ricuce quel senso che sembrava essere svanito con una sequenza conclusiva così paradossale come l’assunzione di Celestino come collaudatore di razzi spaziali. È come se Tretti gettasse la maschera all’ultimo istante, rivelando il suo film per quello che probabilmente è: l’operetta morale di una morale anarchica, contadina e rurale nell’accezione più alta del termine, in quell’accezione tanto amata da Pasolini che vedeva nell’imporsi della società dei consumi la degenerazione delle culture antiche delle nostre campagne. Scrisse Moravia a proposito de Il potere: «Tretti crede nella propria parodia; anche perché essa è un mezzo, per lui, di esprimere una visione del mondo, un suo sentimento. La visione del mondo è quella rustica e sorniona della civiltà agraria della Valle Padana e dintorni; e neppure delle città, ma quale si può trovare si può trovare in piccoli paesi e villaggi».
Le Istituzioni ed i Poteri sono il bersaglio preferito della satira trettiana, i ruoli nel film sono infatti sempre assegnati ad uomini anziani, ne utilizzò una dozzina, che di volta in volta assumono i panni di un Consiglio di Amministrazione, di un esercito, di fedeli canterini e stonati, creando una galleria di volti disperanti d’un potere conformista vecchio e decerebrato, che si esprime con suoni privi di senso, e ricorda assai di più un branco di bestie che degli esseri umani. Un potere brutto e corrotto, rivoltante. Ma niente e nessuno si salva nel film, gli amici di Celestino addirittura lo accoltellano e per svagarsi fanno orge e bevono per dimenticare i dispiaceri del mondo (Alcool, il film che girerà nel 1980 con il finanziamento della Provincia di Milano, ha come bersaglio critico proprio l’uso e l’abuso di bevande alcoliche), la donna che ha amato fuggirà attratta dalle ricchezze del suo datore di lavoro che attratto a sua volta da ricchezze situate oltreoceano non ci penserà due volte a lasciare lui e tutti i suoi colleghi in mezzo ad una strada.
Un discorso a parte merita l’uso della colonna audio, realizzata da Angelo Paccagnini e  Eugenia Tretti Manzoni (sorella del regista), che reputo sia stato assai bene illustrato da Stefano Andreoli nella sua analisi del cinema di Augusto Tretti pubblicata sul precedente numero di Rapporto Confidenziale e che di seguito riporto.
In questo Tretti è sicuramente all’avanguardia, nell’uso del sonoro in chiave espressiva.
Tretti in sede di ripresa rifiuta la presa diretta, i suoi film vengono girati interamente muti e solo dopo la fase di montaggio sonorizzati e doppiati. La legge della tromba viene doppiato dagli attori del piccolo Teatro di Milano (Moschin, Noschese, Fanfani, Lazzarini), «perché non volevo le solite voci ‘romane’ della commedia all’italiana».
I rumori vengono completamente ricreati uno ad uno dallo stesso Tretti, aiutato dalla sorella, ricorrendo quasi sempre ai mezzi più elementari ma di straordinaria efficacia. Uno scoppio di cannone finisce per assomigliare allo stappo di una bottiglia, il furgone portavalori della “Banca del Popolo” al cigolio di una bicicletta arrugginita, senza contare tutta la serie di rumori creati direttamente dalla voce con effetti di alterazione e storpiatura grotteschi.
Sono, come Tretti precisa, «rumori diversi, non veristi, che entrano in rapporto con le inquadrature».
Non costituiscono una semplice integrazione all’immagine, ma sono essi stessi un elemento fondamentale della comicità trettiana al pari dell’elemento visivo, della scelta degli attori, della recitazione. Può accadere, come nella sequenza in cui Liborio seduce Marta, di vedere la bottiglia di champagne vuota cadere sul tavolo senza sentirne il rumore o personaggi che camminano, inquadrati in figura intera, senza il rumore dei passi. Addirittura muta doveva essere secondo le intenzioni di Tretti, la sequenza in cui Celestino corre verso il porto e giunge appena in tempo per vedere la partenza di Liborio e Marta (solo l’opposizione dei produttori lo costringe ad aggiungere un commento musicale, peraltro molto discreto).
Tretti usa il sonoro esclusivamente in funzione dell’effetto che intende trarre da una determinata inquadratura o da una determinata sequenza, senza la benché minima preoccupazione di apparire “sgrammaticato” o tecnicamente “sprovveduto”. In altre parole, il rifiuto di un uso mimetico del sonoro risponde ad una precisa scelta stilistica. (1)
Insomma il film fu un fiasco, perché praticamente non trovò alcuna distribuzione, rimase sulle spalle del regista ma gli permise di ottenere importanti attestati di stima dai cinematografari e sessanta milioni di lire per finanziare il suo prossimo progetto. Goffredo Lombardo, ovvero il padre padrone della Titanus, che proprio di quei tempi stava investendo su di una nuova generazione di Autori, decise di puntare sul suo talento. Lombardo però fallì e Tretti dovette attendere il 1974 per dare alla luce il suo secondo film… ma questa è un’altra storia.
 
Note:
(1) Stefano Andreoli, Augusto Tretti in Rapporto Confidenziale, numero16 – lug/ago 2009 (pag.16).

[nelle parole di Franco Fortini: “di rado il cinema italiano ha dato una verità così precisa come quei campi, quelle scarpate, quella desolata officina e quei personaggi, che demistificano la lustra apparenza dei ‘miracoli’ economici e ritrovano una provincia farsesca e sinistra. quelle che possono sembrare le debolezze del film sono invece la sua forza: quel che di smarrito, di disperso, di scucito. l’autore de La legge della tromba salta sopra le nostre teste, e sopra quelle del pubblico viziato, ritrova lo stupore delle verità elementari. se la parola poesia è troppo grossa, sceglietene un’altra. ma, a quell’uomo, bisogna mettere in mano una macchina da presa: non capita spesso di poter sentire suonare il Dies Irae con l’accento stralunato d’una trombetta di latta.”]

I.è il sistema che non va
con questo imperativo in mente Tretti ha scardinato il mondo del cinema dall’interno. racconta una storia che è solo una formula: disavventure tragicomiche di un giovane che, nell’ordine: tenta di rapinare un portavalori; finisce in prigione; evade; è amnistiato; si trova nel bel mezzo di manovre militari; viene assunto in un trombificio; s’innamora di una ragazza per bene; viene lasciato dalla ragazza, ferito in un duello; e, infine, trova lavoro come collaudatore di razzi interstellari. i quadretti che si susseguono sullo schermo stanno ai margini del concetto di cinema: la recitazione è una non-recitazione (tutti attori dilettanti), i personaggi si muovono come marionette mosse da fili, senza un minimo accenno all’introspezione psicologica e\o drammaturgica, mettendosi davanti alla cinepresa (che è quasi sempre statica) ed emettendo suoni e rumori registrati e re-interpretati dopo il montaggio, lasciando, di quando in quando, il posto a didascalie scritte a mano che imprimono l’andatura alla narrazione. l’effetto è totale: straniazione. lo spettatore prende le distanze dallo schermo, dai fatti, dai personaggi e, invece di prendersi una ‘vacanza dal pensiero’ (come si è soliti fare col cinema di evasione in particolare, ma in realtà con quasi tutti i film), si mette a ragionare sulla meccanica delle azioni umane che viene riprodotta, nuda e spersonalizzata, sulla pellicola. questo è Tretti.

II. l’avvenire del mondo è nella tromba
nomi tutelari: Keaton, Chaplin, i fratelli Marx. le scenette sembrano tutte riproposizioni di opere di questi signori: è una risata caustica, quella che nasce, perché si capisce che, per quanto nel film venga tutto stilizzato, è veramente così che va il mondo.  Celestino, il protagonista, le prova tutte: tenta la via ‘irregolare’ del delinquente (“lazzarone!”), quella regolare dell’operaio o impiegato (“…con le posate, la televisione, la macchina…”), tenta di entrare nei ranghi della tradizione, di normalizzarsi fidanzandosi con una ragazza (“per bene”), ma quest’ultima fuggirà al seguito del suo danaroso datore di lavoro, il quale, ad ogni modo, sembra molto più interessato ai possedimenti di cui è dotata la giovane piuttosto che al di lei amore. insomma, non si salva nessuno. nemmeno chi transita solo per pochi secondi sulla pellicola: i religiosi osservanti, i consiglieri d’amministrazione, gli stessi amici del protagonista, simili a bestie ululanti, vuote nella zucca e nel cuore, ossequiose, pavide, avide. ma Tretti non fa la morale a nessuno; non è didascalico, pedante o altro, il suo è semplicemente lo strabuzzare di occhi di un uomo che fatica a capire come l’Uomo riesca a degradarsi fin a tal punto; come possa cambiare continuamente maschera, inseguendo idoli di plastica; soprattutto, come riesca a rendersi così infelice.
http://einzige-lunico.blogspot.com.ar/2011/01/la-legge-della-tromba.html

1 comentario: