ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS



Si alguién piensa o cree que algún material vulnera los derechos de autor y es el propietario o el gestor de esos derechos, póngase en contacto a través del correo electrónico y procederé a su retiro.




miércoles, 26 de diciembre de 2012

La verifica incerta - Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello (1965)


TITULO ORIGINAL La verifica incerta
AÑO 1964
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 47 min.
DIRECCION Alberto Grifi, Gianfranco Baruchello.
MONTAJE Grifi, Baruchello.
REPARTO Clark Gable, Gregory Peck, Susan Hayward, Tyrone Power, la regina Elisabetta d'Inghilterra, Filippo di Edimburgo, Marcel Duchamp, Rock Hudson, Curd Jurgens, Deborah Kerr, James Mason, Charlton Heston, Leslie Caron, Daniel Gelin, Cesar Romero, Rossano Brazzi
GENERO Corto / Documental

SINOPSIS La distruzione e il rimontaggio dissacrante di 150 mila metri di pellicola, cioè di 47 film di consumo degli anni Cinquanta e Sessanta (per lo più cinemascope commerciale americano), acquistati come rifiuti destinati al macero. Proiettato per la prima volta a Parigi, nel maggio del 1965, presentato da Marcel Duchamp, cui era dedicato, davanti a un pubblico d'eccezione (Man Ray, Max Ernst, John Cage, entusiasta della colonna sonora). (MyMovies)


BREVE SGUARDO AL CINEMA SPERIMENTALE
Alberto Grifi è probabilmente il più grande regista del cinema underground italiano.
Underground significa sotterraneo, e le radici con questo tipo di arte hanno natali oltre oceanici.
Stan Brakhage (1954-2003), considerato il padre e il più autorevole autore del cinema sperimentale, operava nel New Jersey e ma l’epicentro italiano non poteva che essere la città eterna. Una città sotterranea, popolata da giovani militanti con la convinzione sincera di poter cambiare il mondo. Fulcro principe e vera e propria bottega rinascimentale, in cui fare disfare e proiettare le proprie opere era un cineclub di Trastevere, quel Filmstudio fondato da una certa Annabella Miscuglio, una vita spesa fra ideologia e Cinema, stroncata troppo presto, dopo aver dato possibilità di sfogo artistico per tanti giovani artigiani dell’arte audiovisiva. Il suo funerale fu celebrato nella Sala 1 del suo cinema. Un luogo frequentato non solo dai giovani cinefile con la 8mm ma anche dai più significativi esponenti del nostro patrimonio culturale.
Dice Americo Sbardella, cofondatore del Filmstudio: “Prima non c’erano barriere tra l’alto e il basso […] La comunità era rappresentata da persone dai sedici anni agli ottanta […] Non c’erano distinzione di razza, di sesso o di età. C’erano anche persone famose che venivano. Bernardo [Bertolucci], Gianni Amico. Ferreri, era amico di Annabella…Pasolini stava sempre qui, insieme con Sergio Citti. Moravia stava sempre qua, Enzo Siciliano. Antonioni veniva spesso…”.
Tra i giovani artisti il pittore Mario Schifano, Paolo Brunatto – autore tra l’altro di Un’anima bella famoso ritratto di Pasolini sulle spiagge di Sabaudia –, Tonino Debernardis, Paolo Gioli, il critico letterario ma un tempo cineasta underground Massimo Bacigalupo e appunto Grifi e Baruchello.
Alberto Grifi ebbe a firmare un altro manifesto di questo tipo di cinema, Anna (1972) girato con Massimo Sarchielli, in cui personaggi diegetici e tecnici del set si mescolavano nell’intreccio fondendo una trama già scritta con la casualità del reale; demolendo la fabula originaria e prendendo una piega del tutto autonoma rispetto al principio. Un cinema sotterraneo e nascosto, per pochi, girato tra pochi ma buoni. Ed ora riscoperto, quasi per caso, col miracolo del digitale che tutto (o quasi *) può salvare dalla morte chimica della celluloide o dei suoi più fedeli mezzi di costruzione ed espressione.
La verifica incerta è un film breve decisamente sperimentale, assai vicino alle avanguardie storiche del primo Novecento. È costituito esclusivamente di frammenti di altri film, pellicole destinate al macero che i due registi hanno recuperato da un molteplice numero di opere hollywoodiane.
Parla lo stesso Grifi, a proposito del film: “mentre…non lo so, i grandi maestri dell’avanguardia come Man Ray, Duchamp, Max Ernst…o John Cage […] loro stavano alla proiezione, a Parigi, quella sera lì… Nel ’65, non so se era…maggio, me pare. Son venuti tutti a vedere. Si sono divertiti moltissimo!”. E aggiunge ridendo: “Cosa che non hanno fatto dei grandi critici nostri, cinematografici, qua, che c’hanno trattato come due teppistelli che avevano rovinato dei film, a loro parere, bellissimi”.
Il film si apre con svariati inizi e “Fine Primo Tempo” della 20th Century Fox, balbettanti e ripetitive, graffiate da linee verticali continue che paiono rincorrersi. Ed ecco interporsi un filmato dichiaratore: Marcel Duchamp che sputa una nuvoletta di fumo, sornione. La dedica è palese ed è anche una dichiarazione d’intenti. È un monito: che lo spettatore si prepari.
La proiezione prosegue con un susseguirsi sfrenato e apparentemente incontrollato di situazioni tipiche della narrazione cinematografica, con inversioni, ripetizioni speculari (una per tutte, efficacissima: un soldato da una torre che spara, visto specularmente dà l'impressione che spari a se stesso), ribaltamenti semiotici e di significato che portano ad una spietata visione critica di spunti altrimenti senza nesso logico.
Per quanto gli autori possano dichiarare di essersi affidati al caso, è evidente il tentativo di ricercare e scovare i topoi del cinema americano. Si mescolano e confondono sequenze da film western, mitologici, reali immagini regali, con alternarsi di sottomarini, deserti, parate, sfilate di elefanti, la regina Elisabetta e Anthony Quinn che scende le scale apparendo e svanendo dalla scena. Naturalmente i due registi ne approfittano per gettarsi nel burlesco più sfacciato con un uomo in fin di vita sdraiato in sala operatoria che, combinando un montaggio di audio oltre che di video, annuncia di essere sposato con un suo collega (risultato di più frasi serie accostate con un’immagine tragica che danno vita ad una risibile idea del morente). O anche l’accostamento di un viaggio dilettevole in aeroplano con un gentiluomo e due donzelle che mirano il paesaggio, ma anziché offrire la loro piacevole soggettiva, si vedono navi bombardate e ancora i tre che sorridono guardando giù dai finestrini.
I luoghi comuni del cinema classico si risaltano nell’accostamento di stessi gesti visti in più film: ecco dunque il western dove si demolisce un carro per farne un falò: poi la nave in cui si incendia un cumulo di materassi: poi James Mason al centro della Terra che stacca un diamante e catena una cascata d’acqua. Il sottomarino poi si allaga e sempre al centro della Terra l’acqua sta per annegare i protagonisti.
I topoi si ripetono e si solidificano come punti fermi di narrazioni per molti versi troppo simili fra loro, come a denunciarne la stessa matrice, individuati nei tre tempi di narrazione: inizio, svolgimento, gran finale. Nei quali una concatenazione sempre uguale di rimandi si ripete in un eterno ritorno di gesti già visti. Come riti di passaggio consolidati e obbligati: la discesa o l’uscita da un piano più basso ad uno più alto, che esso sia una rampa di scale o un pertugio; l’apertura continuata di porte o finestre, la fuga ripetuta all’infinito.
Eros, Epos, Pathos e immancabilmente Thanatos si sgretolano e si alternano in un gioco ad incastri, un mosaico dadaista, in cui risaltano sempre gli stessi riti. Fuoco, acqua, terra, aria: gli elementi si associano in un estenuante balbuzie filmica: esplosioni accostate ad altre esplosioni, litri d’acqua sempre uguali, (s)oggetti che dapprima si individuano con un montaggio analogico tra film diversi ma poi si mescolano penetrando da una pellicola all’altra: ed ecco che la secchiata sul fuoco nel sottomarino continua in un altro film con il cadere dell’acqua nella caverna del film mitologico. Un po’ come già aveva sperimentato la Madre ideale dello sperimentalismo, Maya Deren, per esempio in Meshes of the Afternoon (1943), che vedeva lei stessa vagare da un luogo ad un altro passando da uno stacco all’altro: il suo piede marciava dapprima sulla sabbia, nell’inquadratura successiva proseguiva in mezzo all’erba: il soggetto principale rimaneva lo stesso, ma l’ambientazione diegetica mutava inspiegabilmente. Con fedele sguardo onirico, naturalmente. E l’avanguardia è sempre presente, come modello, ma anche come periodo da cui prendere le distanze, riproducendone altra, di nuova: una rinascita anche in questo senso. Per quanto questa parentesi italiana non abbia prodotto conseguenze così fondamentali quanto le precedenti di inizio secolo.
Il montaggio nella Verifica incerta è particolarmente “sporco”, l’audio è asincrono, le immagini sono sfregiate da graffi e volutamente accostate tra loro con tutta la casualità possibile: non una inquadratura – intesa proprio come porzione di girato fra uno stacco e l’altro – è uguale ad un’altra: l’attacco e la coda possono essere talvolta più lunghe, anche se ripetute di fila, il tempo non è mai lo stesso, e anche questo potrebbe essere una chiave in indagine in questa ricerca esitante – diciamo: non prepotentemente sicura di sé. Vien fuori un cinema che si corrode da dentro come un cancro; un virus fatto di pellicola che affonda la lama su altra pellicola, con ironia ma anche con sferzante ferocia. Un cinema che si disintegra dall’interno per analizzarsi: un’endoscopia sanguinosa, un’operazione a cuore aperto. Forse, magari, un’autopsia. Chissà. Un’avventura al centro di un pianeta (under ground) che non è più quello di un tempo, una Hollywood in discesa verso il baratro (siamo a metà Sessanta) che sfocerà nella Nuova Hollywood con un ulteriore e vigoroso rito di purificazione.
Un gioiello del cinema sconosciuto. Il cinema italiano ha anche questo merito.
Luca Martello
http://www.lankelot.eu/cinema/grifi-baruchello-la-verifica-incerta.html
---
… era ancora più evidente l'ideologia guerrafondaia di quei western, lasciando tutte le attese e le inquietudini del cow-boy che prende eternamente la mira; ci incrociavamo contro-campi da film diversi, introducevamo controcampi sbagliati, e costruivamo altre storie, anche: per esempio il cambiamento di sesso di Eddie Spanier. Mescolammo le lotte corpo a corpo dei pellerossa contro i soldati della cavalleria yankee, dei Sik rivoltosi contro le sentinelle dell'esercito inglese; gli aggressori (scuri di pelle) saltavano addosso alle loro vittime (visi pallidi) agguantandole per le terga... le coppie si rotolavano convulsamente nella sabbia degli accampamenti nel deserto dell'Arizona o nelle praterie del Colorado finché qualche commilitone "dei nostri" interveniva per salvare il sottomesso con un colpo di Winchester o di una Colt... Poi intrecciammo queste scene col compagno d'armi di Eddie Spanier interrogato sul lettino operatorio, che fa vedere agli ufficiali una foto in cui è abbracciato cameratescamente a Eddie sorridendo al fotografo e confessa con un filo di voce: "abbiamo fatto la guerra insieme, ci siamo sposati da due mesi, nessuno lo sa, nessuno lo sa..." Così, attraverso questi slittamenti di montaggio, facevamo emergere le pulsioni che quei film rimuovevano: la temutissima omosessualità maschile di quegli eroi muscolosi, virili e maccartisti, allevati a latte e bistecche; i nipoti dei pionieri che avevano ripulito l'America dai pellerossa e che avevano a loro volta "salvato" la Corea dai comunisti e il mondo dai giapponesi con le bombe di Hiroshima e Nagasaki…
Perché da un sottoscala facemmo a pezzi Hollywood ((((((en negrita))))
Questa versione-spiegazione radiofonica di Alberto Grifi sulla Verifica Incerta fu trasmessa da Rai radio uno ( Fonosfera, segmenti, percorsi e dinamiche sonore in una proposta di laboratorio a cura di Armando Adolgiso e Pinotto Fava ) il Primo Gennaio del 1981 col titolo Se ci fosse una porta busserei .
Cara Elisabeth, credo di avere ancora da qualche parte mucchi di scatole di statico, pellicola positiva o negativa di scarto, che si usa per fare il silenzio da alternare in moviola ai pezzi sonori di perforato magnetico. C'è di tutto: le varianti della stessa scena, le ripetizioni dei gesti degli attori, gli errori, le interruzioni, i messaggi in coda alle inquadrature che il direttore della fotografia manda al datore-luci della stampa attraverso, metti, Vittorio De Sica con espressione improvvisamente cambiata che regge il cartellino "sera illuminata", o Anna Magnani, Nannarella, col ciacchista che mostra all'obiettivo la scritta "interno giorno". Poi i fermi di macchina, che sono i fotogrammi esposti casualmente dall'operatore per centrare lo specchio dell'otturatore che rimanda l'immagine neIla loupe, dove per 2 o 3 fotogrammi si può vedere, sovraesposto, ciò che succede nella pausa tra uno stop e un ciak: la parrucchiera che ravvia i riccioli della diva, l'attrezzista che regge l'ombrello o il truccatore che tampona il sudore, che rinfresca le ferite…
Queste pizze di statico, dunque, nate più sui tavoli passarulli a manovella che in moviola, "fatte su" da assistenti che non hanno certo né il tempo né la voglia di guardare di che film si tratta, ma solo il dovere di assicurarsi che si tratta di uno scarto, rulli considerati non come film di immagini che raccontano storie ma solo come pellicola a metraggio, non passeranno mai sugli schermi neppure per sbaglio.
Ebbene, con tutti questi chilometri di pellicola acquistati al prezzo del macero, si può andare in proiezione… e tornerà in campo qualcosa di più di uno screening perverso, di tutto ciò che è scartato dal significato. Destinato in partenza a rimanere fuori campo come scarto di lavorazione, ridonda un'enorme complessità semantica e in ogni caso offre all'analisi cinematografica una ricchezza di linguaggio e di contenuti assai più stimolante di qualsiasi film famoso.
Ma c'è di più. Il linguaggio con cui mi parlano questi rulli costituiti da scorie di lavorazione, è quello delle pratiche Iavorative che i salariati del cinema svolgono fuori campo, nella penombra del set, nella penombra della moviola, nelle "sale positivi" degli stabilimenti di sviluppo e stampa. Da questi rulli, per chi abbia voglia di Ieggerli, esce una pulsione che traspare da questo strano rimontaggio casuale, collettivo, disattento, inconscio. Una pulsione che viene su dai gesti ripetitivi e insulsi, dalla catena di lavorazione della manodopera in grembiule, quella più bassa dell'industria della celluloide, quella per la quale il cinema è solo un incubo da dimenticare tutte le sere…rendendo evidente lo schema fasullo del racconto, gli errori, le lacrime sgocciolate dal truccatore, che rendono visibile il falso contrapposto alla vita vera. E' il grottesco del cinema dei produttori e dei profitti, il linguaggio dominante che non parla la lingua di chi il cinema lo fa. Con pochi fotogrammi ci avverte che la manovalanza che il film lo costruisce è espropriata dalla propria vita mentre è asservita al fittizio.
perché da un sottoscala...rosso qxd pag 1 di 3
E dal momento che gli spettatori, nel buio dei cinema e della loro vita, rimettono in circolazione nei loro cuori inariditi le bugìe del cinema di cartapesta, perché non c'è più separazione tra platea e schermo, e da tutti e due i fronti si raccontano le stesse bugìe, lo spettacolo è totale.
Era da qui, quando le ragazze della moviola praticano la distruzione dei film che ancora puzzano di acido acetico, mentre magari sentono che fuori dello stabilimento è primavera, era in questa sottile vendetta, in questo pigro massacro cinematografico, che smonta ciò che l'industria spettacolare monta, che andava cercata la vera opposizione, che andava cercato come alleato chi è costretto a rimanere dietro le quinte e che pronuncia un linguaggio distruttivo, un linguaggio tra le cui righe si intravede la tensione alla vita vivente e non la sua rappresentazione falsificata.
Le sceneggiature vengono spesso scritte sulla statistica degli indici di gradimento, cioè sulla base degli indici di incasso. Ormai tutti sanno che i film vengono progettati e realizzati insieme a un'enorme quantità di merci che seguitano a riprodurlo e moltiplicarlo fuori dalle sale. Superman viene lanciato non solo dai distributori del film ma da quelli che stampano i fumetti, le figurine, dai manager delle catene dei supermercati perché Superman è anche un giocattolo, è una maglietta, un chewingum, etc. Non solo il film diventa dunque la pubblicità delle merci messe in vendita, ne costituisce l'ideologia per così dire, ma le merci che lo riproducono dagli scaffali dei supermercati sono pubblicità a loro volta per il film-carosello.
http://www.albertogrifi.com/106?post=145

Alberto Grifi e La Verifica Incerta dell’arte contemporanea
La scena dell’arte contemporanea internazionale è piena di protagonisti, volti noti che appaiono su copertine di magazine patinati o presenziano alle grandi manifestazioni ed alle feste private. Ad opporsi idealmente e culturalmente a questi divi dell’arte, non sempre dotati di grande visionarietà o creatività, vi è un agguerrito manipolo di personaggi i quali non hanno mai amato le luci della ribalta ma hanno influenzato intere generazioni di giovani con le loro opere seminali. Parliamo di artisti che hanno lavorato quasi nell’ombra e che non sono mai stati rappresentati da Gagosian, Saatchi e compagnia cantante, fuggendo persino dal mercato e dalle top delle classifiche di vendita.
Uno di questi nomi è senz’altro Alberto Grifi (Roma, 29 maggio 1938 – Roma, 22 aprile 2007), presenza fondamentale all’interno del panorama del cinema sperimentale italiano e creatore, insieme a Gianfranco Baruchello de La Verifica Incerta (1964). Certo è difficile far comprendere ad un mondo dell’arte elitario e snob, l’importanza sia estetica che filosofica de La Verifica di Grifi, opera dal sapore new dada che suscitò l’entusiasmo di Man Ray, John Cage e Max Ernst, fu Cage stesso infatti che entusiasta della colonna sonora, lo presentò al New York Museum of Modern Art. Il metodo di montaggio de La Verifica,questo “detournement”, fu ereditato da Blob (programma di Enrico Ghezzi in onda su Raitre) molti anni dopo.
La Verifica in sostanza è (come ben descritto da Undo) un film derivato direttamente da una grande quantità (150.000 metri circa) di materiali di consumo (per lo più cinemascope commerciale americano degli anni ’50-’60) acquistati come rifiuti destinati al macero. Il film originale era costituito dagli spezzoni delle pellicole incollati con lo scotch tape secondo schemi di montaggio senza precedenti (la sceneggiatura era il punto di arrivo, non quello di partenza del film) e risultati da una cernita iniziale fatta mediante l’uso della tabella dei numeri casuali (random numbers). Dopo la prima proiezione fatta a Parigi per mostrare il film a Marcel Duchamp che ne era il “protagonista morale”, ne fu fatto un controtipo in 16mm (la colonna fu trascritta in ottico) dal quale derivano le copie ancora in circolazione. Il film è dedicato a Marcel Duchamp che vi figura come presentatore dell’operazione.
Appare chiaro che la lucida scomposizione operata da Grifi, che in sostanza frammentava ed irrideva tutto il cinema Hollywoodiano, ha creato una nuova teoria del montaggio, diversa da quella del cineasta russo Sergej Michajlovic Ejzenštejn ma egualmente efficace e decisamente ancor più creativa poiché scevra da orpelli narrativi. Grifi infatti giunge ad una non-narrazione che diviene narrazione dell’assurdo, dell’impossibile nel possibile. Un metalinguaggio ineguagliato in cui già è possibile riscontrare i prodromi della video arte ma ovviamente i critici alla moda non lo ammetteranno mai.
Micol Di Veroli
http://www.globartmag.com/2010/04/15/alberto-grifi-la-verifica-incerta-arte-cinema-sperimentale/
---
...
Por mi parte, analicé las impresiones que nos había producido la noche anterior un curioso collage cinematográfico de Buruchello y Grifi: Verifica incerta, una historia construida con retazos de historias e incluso de situaciones típicas, de topoi del cine comercial. Señalé que el público había reaccionado con mayor placer en aquellos pasajes que pocos años atrás le hubiesen escandalizado, es decir allí donde se eludían las consecuencias lógicas y que pocos años atrás le hubisen escandalizado,es decir allí donde se eludían las consecuencias lógicas y temporales de la acción tradicional, y sus expectativas resultaban violentamente frustradas. La vanguardia se estaba convirtiendo en tradición; lo que unos años atrás esa disonante se estaba convirtiendo en miel para los oídos (o para las ojos). De eso sólo podía extraerse una conclusión. La inaceptabilidad del mensaje ya no era el criterio fundamental para una narrativa (y para cualquier arte) experimental, porque lo inaceptable había pasado a codificarse como agradable. También observé que, si en la época de las veladas futuristas de Marinetti era indispensable que el público silbase, "hoy, en cambio, es estéril y necia la problemática de quien considera fracasado un experimento por el hecho de que se lo acepte como algo normal, porque equivale a remitirse al esquema axiológico de la vanguardia histórica, y entonces el eventual crítico de la vanguardia acaba siendo un marinettiano trasnochado.
Conviene recordar que sólo en determinado momento histórico la inaceptabilidad del mensaje por parte del receptor se convirtió en una garantía del valor de la obra... Sospecho que quizá tendríamos que renunciar a ese arrière pensée, que domina constantemente nuestras discusiones, según el cual el escándalo externo tendría que ser una verificación de la validez de un trabajo. La misma dicotomía entre orden y desorden, entre obra de consumo y obra de provocación, sin dejar de ser válida, debe volver a examinarse, quizá, desde otra perspectiva, porque creo que será posible encontrar elementos de ruptura e impugnación en obras que aparentemente se prestan a un consumo fácil, y darse cuenta, en cambio, de que ciertas obras, que parecen provocadoras y aun hacen saltar al público en los asientos, no entrañan impugnación alguna... En estos días he encontrado que alguno se había vuelto sospechoso porque determinado producto le había gustado demasiado y entonces lo dejaba suspendido en una zona de incertidumbre..." Etcétera.
...
Umberto Eco, Apostillas a "El nombre de la rosa", Edit. Lumen, 1985, Pág.66/68

No hay comentarios:

Publicar un comentario