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sábado, 24 de marzo de 2012

Vajont (La diga del disonore) - Renzo Martinelli (2001)


TÍTULO ORIGINAL Vajont - La diga del disonore
AÑO 2001
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS En italiano 
DURACIÓN 116 min. 
DIRECTOR Renzo Martinelli
GUIÓN Renzo Martinelli, Pietro Calderoni
MÚSICA Francesco Sartori 
FOTOGRAFÍA Blasco Giurato
REPARTO Michel Serrault, Daniel Auteuil, Laura Morante, Jorge Perugorría, Anita Caprioli, Leo Gullotta, Philippe Leroy
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Canal+ / Comune di Vajont / Les Productions Bagheera / Martinelli Film Company International S.r.l. / Rai Cinemafiction / S.D.P. Films
PREMIOS 2001: Premios David di Donatello: 2 nominaciones
GÉNERO Acción | Catástrofes

SINOPSIS 1919. Se está construyendo la presa más alta del mundo, de 163 metros, en el valle de Vajont (Italia). En los pueblos de alrededor casi todo el mundo opina que la presa atraerá turismo y traerá prosperidad. Cuando la pared de cemento tiene ya más de cien metros de alto, los directivos de la empresa constructora descubren una tremenda hendidura, una enorme masa de tierra que podría venirse abajo en cualquier momento, pero la compañía decide seguir adelante con las obras, sin pensar en las posibles consecuencias. El resultado es aterrador: el 9 de Octubre de 1963, la montaña se desliza hacia el agua a una velocidad de 80 kilómetros por hora. Seis localidades quedan inundadas, dejando más de dos mil fallecidos. El largometraje está basado en los trágicos hechos sucedidos en la presa de Vajont, en el año 1963. Tras la aparición de varias grietas y desprendimientos de tierra, unos 25 millones de metros cúbicos de agua sobrepasaron la pared de la presa y borraron de la faz de la Tierra cinco pueblos dejando más de 2200 muertos. En uno de esos pueblos, Longarone, aún hoy en día sólo queda en pie el ayuntamiento y 14 casas. (FILMAFFINITY)



La nuova Italia si stava costruendo: la nuova diga sarebbe stata la più alta del mondo, 263 metri e avrebbe rappresentato la crescita economica di un paese che voleva finalmente poter dire la sua dopo il silenzio, e forse anche un poò la vergogna, degli anni del dopoguerra.
Era l'Italia degli anni '60, in cui l'energia elettrica era ancora gestita da compagnie private che dopo essersi accaparrate i diritti sulle acque, giocavano liberamente con i prezzi, arricchendosi in maniera sproporzionata e approfittando della povera gente. Con la costruzione della diga del Vajont la S.A.D.E prometteva un miglioramento economico per tutti, un domani migliore. Ma per gli abitanti della valle il domani non fu altro che un'enorme valanga di acqua e fango, e mentre le responsabilità di costruttori, amministratori e politici venivano nascoste dietro la parola 'fatalità', nessun morto e nessun superstite ritrovò la dignità con l'onore della giustizia, che fu, invece, affrettata e sommaria.
Alle 22,39 del 9 ottobre 1963 dalle pendici del Monte Toc si staccarono 300 milioni di metri cubi di roccia che precipitarono nel bacino artificiale della diga ad una velocità pari a 80 km/h. La massa rocciosa produsse un'onda alta 250 metri e di 50 milioni di metri cubi d'acqua che superò l'imponente barriera di cemento abbattendosi sui paesi della vallata e portando con sé oltre 2000 persone. Annunciata all'Italia e al mondo intero come un'ineluttabile catastrofe ecologica, la valle del Vajont ha pianto i propri morti nella desolazione di metri cubi di fango e nella solitudine dell'abbandono.
Renzo Martinelli riporta alla superficie una storia di omissioni, sopraffazioni e connivenze. Racconta la strenua battaglia della giornalista dell'Unità Tina Merlin nel tentativo di rivelare la verità. Ricostruisce digitalmente un paesaggio che non esiste più e ripropone in poche e sconvolgenti immagini l'arrivo della valanga micidiale. Avvalendosi di un cast internazionale, appassionato partecipe della vicenda, Martinelli riporta alla memoria un passato rapidamente archiviato e spietatamente dimenticato e mescola con arte la spettacolarità della catastrofe all'emozione delle storie private e pubbliche dei protagonisti della storia.(fonte:Valeria Chiari - filmup)
Di cosa parliamo, quando parliamo di un film come "Vajont"? Parliamo di diverse cose diverse e spesso inconciliabili: dietro all'esperienza puramente cinematografica dello spettatore c'e', innanzitutto, la consapevolezza della realta' a cui il film si ispira, e che inevitabilmente (e non senza una qualche responsabilita' degli autori e dei distributori: dopo tutto se il cinema e' prima di tutto un affare commerciale, il cinema di denuncia e' quasi sempre anche un "genere" che tira e ci vuole un rigore forse sovrumano per rinunciare a questa captatio benevolentiae) rischia di spostare le emozioni dal giudizio estetico sul film in se' a quello umano sulle responsabilita' di una tragedia; in secondo luogo c'e', o ci puo' essere fra gli spettatori piu' attenti alle evoluzioni macrostoriche di un'industria
cinematografica, una valutazione produttiva del film, che esula sia dal suo valore o disvalore artistico che dal suo valore o disvalore civile, e che si concentra piu' su cosa il film possa significare nella storia disastrata del cinema italiano.
Riuscire a tenerle distinte, per cercare di dare una valutazione il piu' possibile libera da condizionamenti morali, emotivi o politici, non e' un esercizio semplicissimo. Ci si puo' provare, non garantire di riuscirsci. Ma, per provarci con onesta', l'unico modo e' di partire dal film, nudo e crudo, cercando di analizzare quello che si e' visto e non quello che si avrebbe voluto vedere.
Allora partiamo da questo dato di fatto: dalla proiezione di "Vajont" sono uscito complessivamente soddisfatto, lungi dall'essere commosso, ma conscio di aver subito una efficace manipolazione dei miei sentimenti. Non so voi, ma io al cinema vado per questo: per far smuovere qualcosa nell'intelletto oppure nel cuore -tanto meglio (e non sto dicendo che fosse questo il caso) quando si riesce a smuovere entrambi.
Come spettacolo, il film funziona. Ha funzionato con me, almeno. E ha funzionato con gli spettatori con cui ho condiviso l'esperienza, che hanno seguito il film con partecipazione e rispetto, visibilmente presi dalle immagini che si succedevano sullo schermo. Fin dall'inizio, "Vajont" e' capace di emozionare: con la grandiosita' degli scenari, con attori co[IMG]me Michel Serrault, Daniel Auteuil, Leo Gullotta e Laura Morante, anche con la musica. Si respira un'aria da cinema produttivamente di serie A, senza complessi di inferiorita', senza il vorrei-ma-non-posso-e-quindi-nemmeno-ci provo. Sto facendomi deviare dal secondo elemento distraente che ho menzionato all'inizio? Forse si', ma forse no: perche' il cinema puo' essere anche confezione, capacita' di restituire una realta' piu' grande della realta'. Da spettatore, mi sento il benvenuto in sala: fin dalle prime inquadrature sento che questo film si dara' da fare per cercare di piacermi.
E per piacermi, "Vajont" si impegna a fondo (fino al rischio di un eccesso di zelo talora irritante, e ci arriveremo): tutto il film procede per accumulo di tensione, accumulando gradualmente quel senso di minaccia incombente che a noi spettatori e' stato gia' instillato dal manifesto del film, se non dalla nostra memoria storica. Diceva Hitchcock che la tensione non e' mai in un'esplosione ma nell'attesa di questa. Martinelli la sua tensione l'accumula con la massima professionalita' -scena dopo scena, via via che la diga viene costruita e poi gradualmente riempita d'acqua- e non risparmia alcun mezzo. I piu' vieti sono quelli in cui riconosciamo i mezzi classici del cinema catastrofico (come dubitare che, se un operaio mostra inopinatamente al suo capo la foto di suo figlio, e' solo perche' di li' a poco e' destinato a precipitare tragicamente da un'impalcatura? Come non inarcare un sopracciglio -e magari anche tutti e due- quando una fanciulla giovane e bella esprime incautamente l'insensato desiderio di avere una storia come quella, tragica, che ha appena sentito raccontare?), ma va dato merito al regista di sapersi giocare bene le facce degli attori cui ha affidato i ruoli dei responsabili morali della tragedia: facce tormentate, improntate a un'arrogante sicumera ma
segnate anche dall'ombra del dubbio. Questa e' regia, e vale almeno
tanto quanto la capacita' di Martinelli di mantenere quasi sempre un tono grandioso, con inquadrature vertiginose della diga, con fluidi movimenti di macchina, con una fotografia desaturata (in postproduzione?) e livida. Non stiamo parlando di un capolavoro, ma pur
sempre di un signor film: girato da qualcuno che il suo mestiere lo conosce eccome.
Parlavamo di eccesso di zelo? Che "Vajont" abbia piu' di un evitabile
scivolone e' difficile negarlo. Una trasfocata dall'abbraccio fra due innamorati alla statua simbolica di una maternita' si poteva anche passargliela, due sarebbero state durette da perdonare anche a Matarazzo negli anni Cinquanta. La canzone di Bocelli sul montaggio dei volti di cittadini che sappiamo condannati e' una sottolineatura nazionalpopolare che spettacolarmente funziona, quella che si insinua su una scena d'amore domestico fa allegare i denti. La statua del Cristo che galleggia nella valle allagata sarebbe anche una immagine succestiva se fossimo disposti a credere che il protagonista, costretto ad abbandonare casa sua, abbia abbandonato cosi' l'ultima statua incompiuta del defunto genitore. E, infine, restano curiosamente affrettati gli speculari voltafaccia dei personaggi di Leo Gullotta (Pancini, il piu' tormentato dai sensi di colpa: ma alla fine e' lui a rassicurare il geometra Montaner sul fatto che Longarone e' sicura) e di Daniel Auteuil (Biadene, il "personaggio" piu' programmaticamente "cattivo": ma e' lui che alla fine si fa venire gli scrupoli di coscienza): questi non sono eccessi di zelo, ma difetti e basta, d'accordo.
Pero', con tutti questi distinguo, l'emozione c'e': si ha paura, ci si arrabbia, si soffre. E si resta senza fiato in quei sei minuti di disastro finale, girati -questo almeno bisogna riconoscerlo- con un senso della misura a cui il film tutto sommato non ci ha assolutamente abituati. Quel finale con il paese cencellato dal fango, perfino quella sedia a dondolo semisommersa dai detriti, hanno una efficacia spettacolare che mi sembra difficile negare.
Che poi ci sia la possibilita' che qualcuno degli spettatori, quelli che escono dal cinema con la giacca ancora impolverata di popcorn, si faccia qualche domanda sulla nostra storia recente e magari vada ad approfondire l'argomento -magari, chissa', non in un pur rigoroso spettacolo teatrale, ma addirittura sugli atti dei processi e sui giornali dell'epoca... Ebbene, sara' un effetto collaterale e non entrera' nel giudizio di valore sul film: ma perche' disprezzarlo a priori? (fonte: Royking - dooyoo.it)
http://forum.tntvillage.scambioetico.org/tntforum/index.php?showtopic=48334


Ieri sera la prima proiezione del cineforum Coming Soon, cineforum che con dei miei amici teniamo in facoltà. Abbiamo proposto Vajont e l’abbiamo introdotto con una domanda: “Cosa può dire un fatto di 40 anni fa, seppur così drammatico, ora, a noi?”. La risposta a questa domanda coincide con il perché abbiamo scelto questo film che è stato massacrato – a mio avviso in modo errato – dalla critica. Il motivo si divide in 3 passi prinicipali.

Diga del Vajont by degia
1# La realtà non è un pensiero
Ad un certo punto l’ingegnere capo Carlo Semenza (interpretato da Michel Serrault) interpella suo figlio Edoardo, geologo, per un ispezione dei fianchi della valle. Ecco uno stralcio dell’esposizione dei dati raccolti da Edoardo:
Edoardo: [...] se la base fosse inclinata, il monte Toc cederebbe sicuramente.
Alberico Biadene (un altro ingengnere responsabile della diga): Quindi, lei mi sta dicendo che non è certo che la base sia inclinata. E se fosse concava? Non succederebbe nulla, vero?
Edoardo: Beh… no, in quel caso no.
Alberico Biadene: Ecco! Visto?
Visto cosa??? E’ come dire che il pensare che il sole non tramonti faccia sì che il sole scompaia quel giorno (scusate lo scioglilingua)… La reltà è una e non cambia per un pensiero, giusto o sbagliato che sia.

2# La realtà va guardata
La giornalista Tina Merlin (interpretata da Laura Morante) tenta, inutilmente, di denunciare il “lavoro sporco” della S.A.D.E. (l’azienda che ha costruito la diga).
Il marito: Tina, ma se 100 persone la pensano in un modo, e tu sola in un altro, non credi che sia tu in errore?
Tina: Ma io sto parlando di una cosa che ogni persona dotata di buon senso può vedere!
La realtà comunica con dei segni, spesso evidenti (come un monte che cede), altre volte in modi sottili e delicati. Comunque sia, se non si è disposti a guardarli, tutto passa invano.

3# Affrontare la realtà implica una responsabilità
A pochi giorni dal disastro, l’ingegner Alberico Biadene è terrorizzato, ma va avanti senza alcun motivo apparente. L’unico tentativo che compie per evitare il disatro (forse, solo per non far chiudere la diga) è quello di abbassare il livello del lago artificiale al di sotto di una soglia “di sicurezza”.
Un geologo: [...] da quando stiamo abbassando il livello del lago, la frana si sta muovendo sempre più velocemente. Insomma, potrebbe crollare all’improvviso anche ora, domani o fra un mese.
Alberico Biadene: [...] sempre “se”! Non mi date mai una certezza. Lei si prenderebbe la responsabilità di far evaquare cinquemila persone, privarle delle loro case a tempo indeterminato, per un forse?
Il geologo: No, io no, signore.
Evidentemente, il gelogo era certo che il fianco della montagna avrebbe ceduto da un momento all’altro, ma non ha avuto il coraggio di portare avanti la sua certezza.
E quindi?
Dunque, abbiamo scelto questo film perché da un chiaro giudizio sul realismo, problema di ogni uomo, così ora come il 9 ottobre 1963, giorno del disatro del Vajont.
Cosa mi è piaciuto del film
A parte il giudizio che emerge, ci sono altre cose che mi piacciono di Vajont:

•Lasciano perdere gli effetti speciali, che lasciano molto a desiderare, il film è tecnicamente ben fatto. Un occhio esperto può notare una fotografia notevole, sopratutto in 3-4 scene (il dialogo fra Daniel Auteuil e Leo Gullotta in chiesa ha un’inquadratura da urlo).
•Bellissima la scelta dei colori nella scena finale, a disastro avvenuto, quando Olmo Montaner torna in valle per vedere cosa è rimasto della sua casa e di sua moglie. Non si tratta di un bianco e nero, ma di una bicromia. E’ stato scelto un leggerissimo marrone, che si vede appena, ma esalta il fango che predomina la scena (questo tipo di bicromia è tipico del foto reportage).
•Leo Gullotta è un ottimo attore (soprattuto a teatro) e in questo film la sua interpretazione è da oscar!
Cosa non mi è piaciuto

•Quando Olmo Montaner e Ancilla si fidanzano, di sottofondo c’è una canzone ridicola. Degno di un film di serie D.
•Il sottotitolo “La diga del disonore” non c’entra un ca**o con il film.
•Forse troppo lungo.
Chiudo consigliandone la visione e, per chi non conoscesse i fatti reali su cui si basa il film, di farsi un po’ di cultura.
http://dividebyzero.wordpress.com/2007/11/22/prima-proiezione-del-cineforum-2007-vajont/

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