TÍTULO La città si difende
AÑO 1951
SUBTITULOS SI (Separados)
DURACIÓN 84 min.
DIRECTOR Pietro Germi
GUIÓN Federico Fellini, Tullio Pinelli, Pietro Germi, Giuseppe Mangione
MÚSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Carlo Montuori
REPARTO Gina Lollobrigida, Renato Baldini, Cosetta Greco, Paul Muller, Fausto Tozzi, Enzo Maggio, Emma Baron, Patrizia Manca, Ferdinando Lattanzi
PRODUCTORA Società Italiana Cines
GÉNERO Drama | Crimen
SINOPSIS Mientras se disputa un partido de fútbol, cuatro delincuentes roban en la oficina del estadio. Antes de que puedan escaparse, son descubiertos y perseguidos. Así las cosas, deciden separarse antes de dividir el dinero. (FILMAFFINITY)
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
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Subtítulos
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“ [Germi] era partito proprio dall’idea della città che si difende. Rientrava nella mistica sociale di Germi, cioé la sana città che annienta questi gruppi di delinquenti, insomma si difende da sé”
Tullio Pinelli
Tullio Pinelli
Dopo il film sulla mafia (In nome della legge, 1949) e quello sugli emigranti (Il cammino della speranza, 1950), Pietro Germi firma il teso noir La città si difende (settembre 1951; 83 min.) nel quale sintetizza le caratteristiche delle due pellicole precedenti in un lavoro sostanzialmente modesto. Come nel film siciliano, siamo di fronte a un poliziesco con quattro banditi che commettono una rocambolesca e maldestra rapina alla cassa dello stadio (nel bel mezzo di una partita) e poi fuggono - ognuno per la propria strada - in preda al panico. Come nel film sugli emigranti, siamo di fronte a un racconto a episodi dove le vicende dei quattro balordi - un pittore fallito (Paolo Müller), un disoccupato (Fausto Tozzi), un ex calciatore di successo (Renato Baldini) e un ragazzo un po’ svitato (Enzo Maggio jr) - si snodano separatamente (dopo l‘inizo “corale” allo stadio), quasi senza più interesecarsi tra loro.
Germi racconta la disperazione della miseria e cerca di porre in relazione (per far contenti i “neorealisti”) povertà e crimine. I caseggiati incombenti, gli interni miserabili, la palpabile povertà emergono dal racconto come la cosa più intensa e pregnante (notevole infatti la qualità visiva), sebbene poi la predicatoria voce fuori campo (già utilizzata ne Il cammino) e lo stesso titolo “conservatore” ci ricordano il fatto che rapinare e uccidere rimangono gesti dotati di responabilità individuale dai quali la società ha il dovere di difendersi, isolando gli individui pericolosi.
Miseria, moralismo e commiserazione si uniscono in un cocktail mal dosato, che in definitiva non accontenta nessuno. La critica militante spara a zero (Aristarco stronca con cattiveria), mentre la costruzione del giallo è risibile: ben poco ci viene raccontato del perché e del come il quartetto si è unito e ha preso la decisione di commettere una rapina tanto spettacolare; nel dipanarsi delle singole fughe (il film potrebbe meglio intitolarsi quattro uomini in fuga; la versione inglese infatti si intitola Four Ways Out) comprendiamo che il calciatore ha rapinato per riconquistare l’antica amante (Gina Lollobrigida in una brevissima, spietata parte) che invece lo tradisce e lo denuncia. Il disoccupato - la cui vicenda è completamene inverosimile e mal costruita - invece ha rubato per risolvere la miseria quotidiana della sua famiglia (evidente la sproporzione tra causa ed effetto, tanto più che il fallimento dell’impresa porta i congiunti verso orizzonti assai più negativi); scoperto durante la fuga in modo piuttosto assurdo (su un tram si fa prendere dal panico), scappa e si spara in mezzo ai campi, abbandonando così moglie e figlioletta al loro destino. Altrettanto enfatica e brutta è la vicenda del ragazzo che ruba all’insaputa della famiglia; scoperto minaccia di buttarsi da un cornicione per poi recedere dal folle proposito.
L’unico racconto che tiene desta l’attenzione è quello del pittore vagabondo: leader dello scalcagnato quartetto, si muove con freddezza, viene però braccato con efficienza da un apparato poliziesco tutt’altro che incline al sentimentalismo e alla fine si mette nelle mani della malavita organizzata che lo ammazza per prendergli il bottino (che così non viene recuperato dalle forze dell’ordine). Dietro a questi dilettanti compare dunque la malavita organizzata, cinica e feroce: l’approssimazione di quei malviventi occasionali finisce con l’arricchire i professionisti del crimine in un film complessivamente assai desolato, dove (pochi se ne sono accorti) il delitto finale non paga, anzi produce utili.
La visione del regista rimane quella tradizionale, a lui consueta: il male può essere compreso ma non giustificato e va comunque represso. Appare pertanto evidente il suo scollamente dall’universo “neorealista” che infatti giudicava sempre con eccessiva severità le pellicole di Pietro Germi.
Germi racconta la disperazione della miseria e cerca di porre in relazione (per far contenti i “neorealisti”) povertà e crimine. I caseggiati incombenti, gli interni miserabili, la palpabile povertà emergono dal racconto come la cosa più intensa e pregnante (notevole infatti la qualità visiva), sebbene poi la predicatoria voce fuori campo (già utilizzata ne Il cammino) e lo stesso titolo “conservatore” ci ricordano il fatto che rapinare e uccidere rimangono gesti dotati di responabilità individuale dai quali la società ha il dovere di difendersi, isolando gli individui pericolosi.
Miseria, moralismo e commiserazione si uniscono in un cocktail mal dosato, che in definitiva non accontenta nessuno. La critica militante spara a zero (Aristarco stronca con cattiveria), mentre la costruzione del giallo è risibile: ben poco ci viene raccontato del perché e del come il quartetto si è unito e ha preso la decisione di commettere una rapina tanto spettacolare; nel dipanarsi delle singole fughe (il film potrebbe meglio intitolarsi quattro uomini in fuga; la versione inglese infatti si intitola Four Ways Out) comprendiamo che il calciatore ha rapinato per riconquistare l’antica amante (Gina Lollobrigida in una brevissima, spietata parte) che invece lo tradisce e lo denuncia. Il disoccupato - la cui vicenda è completamene inverosimile e mal costruita - invece ha rubato per risolvere la miseria quotidiana della sua famiglia (evidente la sproporzione tra causa ed effetto, tanto più che il fallimento dell’impresa porta i congiunti verso orizzonti assai più negativi); scoperto durante la fuga in modo piuttosto assurdo (su un tram si fa prendere dal panico), scappa e si spara in mezzo ai campi, abbandonando così moglie e figlioletta al loro destino. Altrettanto enfatica e brutta è la vicenda del ragazzo che ruba all’insaputa della famiglia; scoperto minaccia di buttarsi da un cornicione per poi recedere dal folle proposito.
L’unico racconto che tiene desta l’attenzione è quello del pittore vagabondo: leader dello scalcagnato quartetto, si muove con freddezza, viene però braccato con efficienza da un apparato poliziesco tutt’altro che incline al sentimentalismo e alla fine si mette nelle mani della malavita organizzata che lo ammazza per prendergli il bottino (che così non viene recuperato dalle forze dell’ordine). Dietro a questi dilettanti compare dunque la malavita organizzata, cinica e feroce: l’approssimazione di quei malviventi occasionali finisce con l’arricchire i professionisti del crimine in un film complessivamente assai desolato, dove (pochi se ne sono accorti) il delitto finale non paga, anzi produce utili.
La visione del regista rimane quella tradizionale, a lui consueta: il male può essere compreso ma non giustificato e va comunque represso. Appare pertanto evidente il suo scollamente dall’universo “neorealista” che infatti giudicava sempre con eccessiva severità le pellicole di Pietro Germi.
Il film è brevissimo: i suoi ottanta minuti garantiscono da un lato il ritmo incalzante degli eventi (la sequenza della rapina, discretamente girata, viene poi rovinata dalle accelerazioni forzate, in sede di montaggio, della corsa delle auto in fuga); dall’altro però non riescono a spiegare nulla della psicologia e delle motivazioni dei protagonisti. La sceneggiatura di Fellini e Pinelli appare del tutto sommaria, debitrice nei confronti del noir americano (in particolare - fin dal titolo - torna alla mente La città nuda di Dassin, 1948, ambientato in una New York povera e “neorealista”) e priva di spessore realistico. Il semidocumentarismo delle immagini, tra scenari urbani opprimenti e strade malamente illuminate, rimane un fondale generico sul quale si muovono figure inconsistenti, quando non apertamente derivate dal fotoromanzo (la vicenda del calciatore e della sua ex amante; il ragazzo che strepita sul cornicione mentre la madre lo scongiura di tornare in casa).
La complessa e autentica umanità di tante figure presenti ne In nome della legge e ne Il cammino della speranza non trova adeguata continuazione in La città si difende. Anche il pubblico non sembra acclamare troppo il lavoro, al contraro della giuria veneziana del festival 1951 che (in discordanza con i giudizi della critica) lo premia quale miglior film italiano.
http://www.giusepperausa.it/la_citta_si_difende_e_processo.html
La película está peor considerada de lo que realmente es, al menos desde mi punto de vista. Muchos de los reproches que se le hacen me parecen virtudes, por ejemplo, la falta de psicologismo. ¿Para qué? En pocas películas está tan bien establecida la relacion entre miseria y delincuencia, entre falta de perspectivas y desesperación. Y tan bien mostrado plástica y narrativamente. Toda otra explicacion sobra; eso si que la hubiera hecho convencional. (JD)
ResponderEliminarGracias JD.
ResponderEliminarEsto es lo que me gusta.
Mas allá del comentario o crítica añadido en el blog, que cada uno deje su parecer.
Un abrazo y a seguir, no hay verdades absolutas.