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domingo, 4 de marzo de 2012

Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro - Mario Canale (2007)


TITULO ORIGINAL Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro
AÑO 2007
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 90 min.
DIRECCION Mario Canale
ARGUMENTO Y GUION Mario Canale, Annarosa Morri
NARRADOR Michele Placido
MUSICA Philippe Sarde
MONTAJE Adalberto Gianuario, Alessandro Raso
IMAGENES Maurizio Carta, Massimo Coconi, Paolo Mancini, Marcello Rapezzi, Mario Canale
BUSQUEDA ICONOGRAFICA Rosellina d’Errico
PRODUCCION EJECUTIVA Mario Canale, Elena Francot
PARTICIPACION DE:  Rafael Azcona, Nicoletta Braschi, Franco Brocani, Jerry Calà, Sergio Castellitto, Pappi Corsicato, Piera Degli Esposti, Francesca Dellera, Maruschka Detmers, Nicoletta Ercole, Sabrina Ferilli, Andréa Ferréol, Enzo Jannacci, Christopher Lambert, Citto Maselli, Gianni Massaro, Ornella Muti, Philippe Noiret, Esteve Riambau, Ettore Rosboch, Dado Ruspoli, Alfonso Sansone, Giancarlo Santi, Philippe Sarde, Catherine Spaak, Lina Nerli Taviani, Ricky Tognazzi, Mario Vulpiani

SINOPSIS “Il modo di produzione del cinema è l’anarchia: io spero che possa continuare ancora per un po’, che si possa continuare ancora a fare un po’ d’anarchia con il cinema”. Inizia con questa frase di Marco Ferreri, tratta da un’intervista inedita al grande regista, il film-documentario di Mario Canale che, a dieci anni dalla morte, vuole recuperare la memoria di questo cineasta dimenticato troppo in fretta, del suo straordinario e immaginifico talento. Da quel 9 maggio 1997, molte cose sono cambiate: ma la sua visione profetica già intuiva scenari futuri e suggeriva – nel solo modo in cui un artista può farlo: attraverso la propria opera – il mondo che stiamo Vivendo, e quello che vivremo presto.
Sapeva, Marco Ferreri, d’essere capace di cogliere nel presente i segni del futuro?
Nel 1988, per l’uscita di Come sono buoni i bianchi, affermò di aver colto in Africa, durante le riprese del film, i segni della nascita d’un nuovo fondamentalismo religioso, che non avrebbe tardato a manifestare le proprie drammatiche conseguenze.
Ma è l’intera filmografia di Marco Ferreri a raccontare il nostro presente, anche con i titoli più lontani nel   tempo: Non toccare la donna bianca, 1974, ci parla della rivolta delle banlieux; Dillinger è morto, 1968, anticipa la banalità del crimine dei tempi moderni; La casa del sorriso, 1991, riflette sulla rimozione della vecchiaia. E Nitrato d’argento, il suo congedo dal cinema, è il requiem per la sala cinematografica, sostituita   da forme di fruizione sempre nuove.
Sulfureo, scandaloso, graffiante, iconoclasta: Marco Ferreri è stato questo, e altro ancora.
Ma lo humour nero, lo sguardo anarchico, la misoginia, e le etichette che l’hanno accompagnato nascondono il vero filo rosso delle sue opere: la preveggenza, che in anticipo sui tempi lascia intravedere tra le pieghe dell’oggi gli scenari di domani.
A questo aspetto rimosso del cinema di Marco Ferreri è dedicato, sin dal titolo, Il regista che venne dal futuro: un documentario in sintonia con il carattere anticonformista di un uomo estremo, provocatorio nei modi e serio nell'opera, sempre all'avanguardia, visionario e sperimentatore. 90 minuti che prendono spunto da luoghi e personaggi autentici, per poi condurre negli spazi di una ricostruzione fantastica, un'inchiesta dove si muovono
personaggi che hanno conosciuto, lavorato o sono stati amici del regista, con molti filmati d’archivio, italiani e stranieri, alcuni assolutamente inediti. La struttura è scandita da alcuni capitoli in cui Marco Ferreri ci regala in modo brusco, irriverente, e spesso sopra le righe, la sua visione del mondo assolutamente lucida e disincantata.
Un ringraziamento particolare va a Michele Placido, che ha donato al documentario la propria voce e il proprio volto; e a Jacqueline Ferreri, per il prezioso e affettuoso sostegno che ha reso possibile il film.

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STORIA DI UN INCONTRO: note di regia
                                                            
Ho incontrato per la prima volta Marco Ferreri in una moviola della Safa Palatino, all’epoca della Gaumont. Stavo preparando il trailer di un film che lui aveva aiutato a nascere, Amore Tossico di Claudio Calligari, e quando è entrato, discutendo con i protagonisti del film, ha guardato velocemente le immagini montate: poi bofonchiando si è rivolto a me e ha detto: «voi nun avete capito un cazzo del film». Si è girato, e se ne è andato.
L’ho rivisto qualche anno dopo a Parigi sul set di I love you, e non avevo quasi il coraggio di rivolgergli la parola, ma fin da subito scoprii di essere davanti non solo a un grande regista ma soprattutto a un uomo che nascondeva dietro al suo fare burbero una sensibilità straordinaria. In realtà, verso il mondo del cinema in cui ero entrato dalla porta di servizio, e quasi per caso, avevo avuto fino a quel momento un atteggiamento persino di sufficenza: mi sentivo più «moderno», smaliziato, e pur frequentando da anni i set, anche i più prestigiosi, non mi sentivo coinvolto più di tanto.
Quel set, invece, in una vecchia fabbrica alla periferia di Parigi, quell’uomo barbuto con un berretto da gnomo che urlava ordini e che camminava mangiando arance o mandarini, mi hanno stregato. Un colpo di fulmine: mi piaceva tutto, soprattutto sentirlo parlare. Credo che nel corso degli anni non ho mai provato allo stesso tempo un piacere grandissimo e il timore di sentirmi inadeguato come sui set di Marco Ferreri.
Non era facile intervistarlo, spesso rispondeva a monosillabi, a volte parlava d’altro.
Chi fa interviste televisive, il più delle volte è legato all’attualità: deve portare a casa qualche cosa, deve «estorcere» all’intervistato quei due minuti di storia, di spiegazione per confezionare il servizio. Con Marco era diverso, lui non amava raccontare la storia, forse non amava nemmeno più i giornalisti che da lui retendevano giudizi o aforismi sull’universo mondo, accontentandosi poi di qualche battuta tagliente.
Io l’ho intervistato una decina di volte sui set o ai festival: in qualche caso ho sofferto molto, in altri sono  andato a girare i suoi set anche quando non lavoravo più per un programma televisivo  e anche se dovevo pagarmi la troupe lo facevo con grandissimo piacere. Mi ricordo che quando girava La casa del sorriso a Cattolica mi chiamò per chiedermi di andare, e davanti alle mie rimostranze (non mi occupavo di cinema in quel periodo) mi disse di non rompere e di raggiungerlo. A Cattolica, su quel meraviglioso set ambientato nelle vecchie colonie marine, lui non voleva parlare del film: aveva incaricato un pubblicitario di farlo al posto suo, perché era convinto che da lui i giornalisti volessero solo sentire la storia, e parlare di Ferreri senza preoccuparsi del   film. Fu un’intervista surreale: quasi un’ora di parole a mezza bocca, con lui che sbadigliava annoiato e io che provavo in tutti i modi a fargli dire qualcosa. Fu una grande lezione di vita, per cui gli sarò sempre grato, ma me ne resi conto solo dopo molto tempo, e tornai a Roma distrutto dalla frustrazione.
Da moltissimi anni volevo fare un documentario su Marco, e tre o quattro volte ho persino cominciato a montarlo: in due casi gli ho dato anche un titolo, in altri ho assemblato dei materiali su di lui per festival o trasmissioni televisive. Il primo doveva essere il pilota d’una serie che aveva un titolo presuntuoso, «I tic dei registi», e da qualche parte c’è ancora.
Ogni tanto ho partecipato a dei festival sul backstage e come esempio del mio lavoro ho mostrato del girato sui set di Ferreri: in nessun’altro mi è capitato di sentirmi così vicino a quello che per me è il cinema.
L’ho incontrato l’ultima volta per caso nel 1996, a Parigi, a Saint Germain. Io stavo girando qualcosa per la Rai, lui tornava da una visita a Marcello Mastroianni, ammalato. Tutti e due di fretta: mi ha dato il suo numero di telefono. Poi mi sono perso dietro altre cose, e non me lo perdonerò mai.
Per quanto riguarda Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro, debbo ringraziare prima di tutti Jacqueline Ferreri che di Marco è stata non soltanto la moglie e la compagna ma anche complice produttrice delle sue avventure cinematografiche, e poi attenta conservatrice della sua eredità morale. Annarosa Morri, che mi ha aiutato e ha collaborato con me. Nicoletta Ercole, prima collaboratrice e amica, e poi custode affettuosa della
memoria di Marco. Luca Ronchi e i suoi preziosi consigli e suggerimenti. Elena Francot e Massimo Vigliar della Surf e Alfredo Moroni de LA7, che hanno creduto in questo progetto e senza i quali questo documentario non si sarebbe realizzato.
E poi tutti coloro che hanno partecipato, e tutti quelli che hanno amato Ferreri e il suo cinema.
Mario Canale


STORIA DI MARCO: biografia di Marco Ferreri  

Milanese di nascita, 11 maggio 1928, dopo alcuni cortometraggi pubblicitari si trasferisce a Roma,   dedicandosi alla produzione. È l’inizio degli anni Cinquanta, e i primi titoli, Documento mensile e Amore in città, lo portano subito in contatto con Cesare Zavattini, e poi con Alberto Lattuada (Il cappotto), che lo vorrà interprete di La spiaggia e, più tardi, di Mafioso.
Dopo la parentesi romana, conclusasi senza troppo successo, è il vecchio mestiere di commerciante a condurlo in Spagna, dove l’incontro con l’umorista Rafael Azcona dà vita a uno dei sodalizi più influenti e duraturi della storia del cinema europeo. Dopo El pisito e Los chicos, è l’opera terza  El cochecito, prodotta da Pere Portabella, a consacrare il regista, premiato dalla critica internazionale alla Mostra di Venezia. Di lì a poco, dopo il ritorno in Italia, film come L’ape
regina e La donna scimmia confermano la vena provocatoria e anticonformista di Ferreri, causandogli  non pochi guai con la censura, e qualche dissapore con i produttori: nel 1965 Break-up è mutilato   da Carlo Ponti, che lo riduce a episodio di Oggi, domani, dopodomani.
L’umorismo sulfureo e l’impeto dissacratorio si uniscono presto al pessimismo più estremo.    
Dal decomporsi inarrestabile dell’istituto matrimoniale in Marcia nuziale, all’alienazione del   quotidiano di Dillinger è morto, non c’è piega della società contemporanea che Ferreri non indaghi, fino all’allegoria di La Grande abbuffata, il titolo più celebre della sua filmografia, che mette il dito nella piaga della società dei consumi.
La superiorità del «femminile» sarà il tema centrale di titoli come L’Ultima donna (che si chiude con la cruda evirazione di Gerard Depardieu), Ciao maschio, Il futuro è donna. Di tutti e tre, è protagonista Ornella Muti, che è tra le attrici e gli attori (ri)scoperti da Ferreri: Ugo Tognazzi,  di cui sperimenta le corde drammatiche in molti film, Enzo Jannacci, rubato alla canzone (e alla   medicina) per L’Udienza, Jerry Calà, protagonista del penultimo Diario di un vizio. Del rapporto con gli attori, dicono molto i premi (Hanna Schygulla e Marina Vlady migliori interpreti a Cannes, a vent’anni di distanza, per L’ape regina e Storia di Piera) e le consolidate collaborazioni, con nomi come Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Annie Girardot.
Con l’ultimo Nitrato d’argento, nel 1996, firma il suo film-testamento, riflettendo sul centesimo   compleanno di un’arte che ha contribuito a rendere immortale; e che a sua volta ha immortalato il suo inconfondibile volto barbuto, in opere come Il fischio al naso di Ugo Tognazzi, Casanova 70 di Mario Monicelli e Porcile di Pier Paolo Pasolini.
Muore a Parigi il 9 maggio 1997.
http://www.mimmomorabito.it/cinema_roma/marco_ferreri_e.pdf

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