TÍTULO Salvatore Giuliano
AÑO 1962
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 124 min.
DIRECTOR Francesco Rosi
GUIÓN Francesco Rosi, Suso Cecchi d'Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas
MÚSICA Piero Piccioni
FOTOGRAFÍA Gianni di Venanzo
REPARTO Frank Wolff, Salvo Randone, Federico Zardi, Pietro Cammarata, Fernando Cicero, Giuseppe Teti
PRODUCTORA Lux-Vides
GÉNERO Drama
SINOPSIS Biografía de Salvatore Giuliano, un mítico bandido e independentista siciliano. Pero lo que a Rosi le interesa de verdad es centrar la atención sobre el endémico atraso de Sicilia, sobre las relaciones entre mafia, bandolerismo, poder político y poder económico, es decir, sobre las causas de lo que los italianos llaman el "problema meridional". (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
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Se non si può certo affermare, come pure è stato detto, che Salvatore Giuliano è il «più bel film del cinema italiano», è certo legittimo ritenere che la terza opera di Rosi costituisca il frutto più coraggioso e la testimonianza più civilmente appassionata della "ripresa" di questi anni. Se la passione del neorealismo fu la rabbia e la foga della sua volontà di scoperta, l'aggressività del suo impegno conoscitivo, essa si ritrova in pieno nel film di Rosi in cui si avverte d'altro canto la nervatura critica di certe tendenze "retrospettive" della produzione italiana di questi anni. L'emozione profonda che proviamo dinanzi a talune sequenze del film conferma la sensazione esaltante che Rosi ricorda sovente di aver provato, quella cioè di fare un cinema libero dagli intoppi e dalle strettoie del mestiere e della convenzione, in cui il momento della elaborazione creativa coincide con quello della progressiva scoperta della verità di una condizione umana, di una realtà contraddittoria e drammatica, di una strozzatura storica tuttora irrisolta. Io penso che Rosi, in questo rifarsi a certe ragioni del neorealismo risentite alla luce della più accidentata e tormentosa problematica odierna, abbia ritrovato l'entusiasmo di chi fa il cinema sapendo di compiere un atto di testimonianza e di comunicazione. Questa emozione civile, che è il segno distintivo del film, il suo impulso necessario, ne costituisce poi anche il limite, rinvenibile per noi nella dispersione dell'asse ideologico e narrativo che dovrebbe sostenerne il discorso.
Il nodo drammatico e politico del film di Rosi è la morte di Giuliano, il cui cadavere crivellato di colpi in fondo al cortile De Maria segna la fine di un incubo e apre con violenza un processo razionale. La smitizzazione di Giuliano è il momento negativo, e più interessante, del film di Rosi: Giuliano vivo è un generico, una figura scorciata sullo sfondo del paese, della banda, degli altri; Giuliano morto è un cadavere ingombrante e sgradevole che fa rimbalzare ancora una volta il discorso sugli altri, sull'ambiente e sulle forze che vi agiscono. Giuliano non può essere il protagonista del film perché egli non è stato un protagonista, perché anzi il banditismo meridionale non è stato mai un'esperienza attiva, ma un fenomeno strumentale, una storia di conseguenze e non di cause. A dodici anni di distanza, nel suo tentativo di riconnettere la non storia di Giuliano alla storia delle forze che l'hanno prodotto e di quelle che l'hanno subito, Rosi deve partire necessariamente di lì, dal momento in cui Giuliano cessa ufficialmente di essere un personaggio e diventa un problema.
La memoria del regista non segue pertanto una linea cronologicamente fedele e coerente, muove dai problemi irrisolti e dagli interrogativi aperti del presente per riportare alla luce frammenti e brani di verità del passato in una successione incalzante e tumultuosa, con tutta la disgregazione di una cronaca per molti versi indecifrabile, una cronaca che non è diventata storia. Nella sequenza del processo di Viterbo e nel volto inquieto e deluso del giudice magistralmente evocato da Randone c'è il segno disperante di un'ansia di chiarificazione e della sua impotenza, delle innumerevoli difficoltà che si oppongono allo sforzo ordinatore della ragione e alla sanzione necessaria del diritto. L'ultima immagine del film, con il cadavere del mafioso abbattuto dalla lupara, vuol dirci che il capitolo delle connivenze e delle responsabilità è tuttora aperto, e il film tende così a prolungarsi oltre i limiti della sua stessa durata, nel vivo della società a cui rivolge il suo discorso.
Non a caso la costruzione stilistica di Salvatore Giuliano può far pensare suggestivamente a quella di un film di montaggio che ci rimandi con l'evidenza delle sue immagini roventi a una cronaca recentissima, che rischia già di essere dimenticata prima di sistemarsi in una chiarificazione storica e di riscattarsi in una lezione politica. Ma qui il regista, che non lavorava sul terreno della organizzazione e interpretazione del materiale delle cineteche e dei cinegiornali, ma a un livello più alto, si trovava di fronte al problema di tentare un discorso critico all'interno di una operazione creativa, al problema insomma di trovare un asse ideologico e stilistico intorno a cui organizzare una materia così esplosiva e bruciante. E qui appunto ci sembra che egli non sia riuscito a rinvenire un principio saldo e coerente di ordinazione della sua "cronaca". Se la "rottura" del tempo e degli schemi narrativi convenzionali, sulla scorta di contaminazioni di moduli documentaristici e di sollecitazioni sperimentali proprie di certo cinema europeo odierno, ha consentito a Rosi di alternare passato e presente senza soluzione di continuità e di darci uno spaccato emozionante e turbinoso di tutte le componenti della realtà siciliana, egli si è poi trovato costretto nelle maglie di quel metodo che a un certo punto cessa di essere, come dovrebbe, uno strumento di indagine e di conoscenza e rischia di risolvere in sé tutto il film.
Così le pagine dedicate alla mafia, al "ruolo" giocato dalle forze di polizia, alla macabra farsa inscenata sul cadavere di Giuliano non risultano sempre persuasive e sono quelle che rivelano i limiti più scoperti di certe tentazioni americanizzanti di Rosi. Né vale invocare l'ambiguità scottante della materia, perché un episodio per certi versi già decantato come quello separatista appare irrisolto come e più degli altri. Se Rosi in sostanza intendeva evocare il volto della Sicilia, e una pagina drammatica e ancora rovente di storia italiana, identificandovi il nodo essenziale di forze dominanti, banditismo e classi subalterne, si deve riconoscere che egli non è riuscito a raggiungere l'equilibrio necessario perché il suo film risulta privo della complessità di concezione e di impianto indispensabile. Non v'è chi non veda a esempio come gli esterni delle imprese di Giuliano, fotografati da quel sensibilissimo e rigoroso operatore che è Gianni Di Venanzo, tradiscano la meccanicità di certe letture e assimilazioni americane del regista. Quando invece Rosi deve aderire immediatamente alla disperazione e alla rivolta delle plebi diseredate e respinte ai margini del paese legale si hanno le sequenze più belle e memorabili del suo film: il dolore e la disperata protesta delle donne nell'aspra e vigorosa sequenza del rastrellamento di Montelepre, il tragico silenzio che si stende a Portella della Ginestra sul campo della strage, la ribellione del pastorello che si trova suo malgrado coinvolto nell'impresa per ritrovarsi incredulo nella gabbia di Viterbo.
Adelio Ferrero
Cinema Nuovo
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005
Così le pagine dedicate alla mafia, al "ruolo" giocato dalle forze di polizia, alla macabra farsa inscenata sul cadavere di Giuliano non risultano sempre persuasive e sono quelle che rivelano i limiti più scoperti di certe tentazioni americanizzanti di Rosi. Né vale invocare l'ambiguità scottante della materia, perché un episodio per certi versi già decantato come quello separatista appare irrisolto come e più degli altri. Se Rosi in sostanza intendeva evocare il volto della Sicilia, e una pagina drammatica e ancora rovente di storia italiana, identificandovi il nodo essenziale di forze dominanti, banditismo e classi subalterne, si deve riconoscere che egli non è riuscito a raggiungere l'equilibrio necessario perché il suo film risulta privo della complessità di concezione e di impianto indispensabile. Non v'è chi non veda a esempio come gli esterni delle imprese di Giuliano, fotografati da quel sensibilissimo e rigoroso operatore che è Gianni Di Venanzo, tradiscano la meccanicità di certe letture e assimilazioni americane del regista. Quando invece Rosi deve aderire immediatamente alla disperazione e alla rivolta delle plebi diseredate e respinte ai margini del paese legale si hanno le sequenze più belle e memorabili del suo film: il dolore e la disperata protesta delle donne nell'aspra e vigorosa sequenza del rastrellamento di Montelepre, il tragico silenzio che si stende a Portella della Ginestra sul campo della strage, la ribellione del pastorello che si trova suo malgrado coinvolto nell'impresa per ritrovarsi incredulo nella gabbia di Viterbo.
Adelio Ferrero
Cinema Nuovo
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005