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miércoles, 16 de febrero de 2022

martes, 15 de febrero de 2022

La casa del tappeto giallo - Carlo Lizzani (1983)

TÍTULO ORIGINAL
La casa del tappeto giallo
AÑO
1983
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Francés (Separados)
DURACIÓN
84 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Lizzani
GUIÓN
Filiberto Bandini, Lucio Battistrada, Aldo Selleri
MÚSICA
Stelvio Cipriani
FOTOGRAFÍA
Giuliano Giustini
REPARTO
Erland Josephson, Béatrice Romand, Vittorio Mezzogiorno, Milena Vukotic
PRODUCTORA
R.P.A. Cinematografica, Radiotelevisione Italiana (RAI)
GÉNERO
Thriller. Intriga. Terror | Giallo

Sinopsis
Franca y Antonio, una joven pareja que vive en una moderna urbanización, reciben un día la visita de un misterioso hombre que está muy interesado en comprar una alfombra amarilla que hay en la casa. Una vez realizada la venta, la vida de la pareja se convertirá en una auténtica pesadilla.
 
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Carlo Lizzani, uomo di cinema a tutto tondo capace di passare dalla critica storica di una materia alla sua realizzazione, ci manca ormai dal 2013. Restano le sue opere, una fondamentale Storia del cinema italiano, i primi film di taglio neorealista, i documentari, gli sceneggiati televisivi ispirati a capolavori letterari (Fontamara, Un’isola), molti lungometraggi importanti. Il suo primo lavoro nel cinema è Il sole sorge ancora (1946), da interprete (don Camillo, il prete fucilato) e sceneggiatore; subito dopo, la collaborazione con Rossellini per Germania anno zero e il debutto da documentarista (Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato, Modena, Togliatti è tornato). Sceneggiatore prolifico, autore di Riso amaro, Il mulino del Po, Caccia tragica, Non c’è pace tra gli ulivi, debutta da regista con il neorealista Achtung! Banditi!, per rievocare la resistenza. Regista impegnato politicamente, si dedica a un cinema di denuncia dei mali della società contemporanea (delinquenza, banditismo, prostituzione, terrorismo, violenza giovanile) senza tralasciare l’aspetto spettacolare. Tra i suoi film memorabili: Banditi a Milano (1968), Roma bene (1971), Torino nera (1972), Mussolini ultimo atto (1973), San Babila ore 20: un delitto inutile (1975), L’addio a Enrico Berlinguer (1984), Celluloide (1996).

La casa del tappeto giallo (1982) potrebbe sembrare un film minore nel contesto di una produzione socialmente impegnata: a prima vista si tratta di un giallo quasi completamente girato all’interno di un appartamento, ispirato a una pièce teatrale di Aldo Selleri (Teatro a domicilio). Paolo Mereghetti non lo reputa degno di alcuna considerazione, lo tratta con disprezzo intellettuale definendolo soltanto un giallo. Molto meglio Morando Morandini, che mette in evidenza una confezione perfetta sia da un punto di vista scenografico che di scrittura.

In breve la trama, complessa e ricca di colpi di scena. Franca (Romand) è tormentata da incubi notturni nei quali rivive il rapporto intimo con il patrigno; il marito Antonio (Mezzogiorno) si è reso conto di tutto da tempo, spia i sogni della moglie e per gelosia medita persino di ucciderla. La coppia mette un’inserzione sul giornale per vendere un ingombrante tappeto giallo, regalo del patrigno ed elemento importante di certi sogni erotici. Un sabato mattina il marito deve uscire per un contrattempo; alla porta si presenta uno strano professore (Josephson) che – dopo aver convinto Franca che vuol comprare il tappeto – mette in scena un inquietante teatro per farle rivivere le sue fantasie erotiche. La donna, in uno scatto d’ira, giunge a uccidere l’uomo con un coltello lasciato incustodito; subito dopo si presenta la moglie dello strano personaggio (Vukotic), che definisce il marito un mitomane, un ex attore decaduto e malato che vaga di casa in casa improvvisando ruoli che nessuno più gli assegna. Niente è come sembra, l’uomo è ancora vivo, intriso di sangue si alza e si avvicina a Franca, che sviene per il terrore. La scena cambia. Vediamo il marito rientrare a casa e cercare di convincere la moglie che si è trattato di un incubo, niente è accaduto di quel che sta immaginando, si tratta solo di fantasie. Un ulteriore colpo di scena fa capire come sia stato Antonio a organizzare tutto, chiedendo aiuto a due psichiatri sperimentali per far rivivere gli incubi alla moglie e liberarla da un’insana passione. Non è ancora finita: lo strano personaggio è davvero un ex attore uxoricida, e la compagna psichiatra ne ha ottenuto la tutela dopo un periodo passato in manicomio criminale. Il piano è stato architettato con una variabile finale, una pillola, consegnata ad Antonio in caso di necessità, da usare soltanto se la moglie avrà nuove crisi, come ultimo atto della commedia. La pillola, in realtà, è un potente veleno che una volta assunto non lascia tracce, solo che a prenderla non sarà la donna, ma il marito, rincuorato dal fatto che gli incubi erotici sul patrigno sono terminati.

Commedia teatrale e psicologica, claustrofobica, sceneggiata alla perfezione, un colpo di scena dopo l’altro: a tratti sembra di assistere a una pièce di Ionesco o di Beckett, ma siamo pur sempre nella struttura di un giallo. Una spruzzata di Antonioni sull’incomunicabilità del mondo maschile e femminile, soprattutto l’utilizzo del genere, come abitudine di Lizzani, per fare spettacolo e al tempo stesso dire altro.

Regia perfetta, uso del piano sequenza nelle scene iniziali e finali, molte soggettive, primi piani, inquadrature originali e insolite, soprattutto nel convulso finale. Musica intensa di Stelvio Cipriani, da cinema thriller, per contribuire al crescendo enigmatico di tensione. Fotografia cupa di una Roma periferica che si intravede con i suoi condomini popolari nelle prime sequenze e alla fine del film, come in un romanzo circolare, proustiano.

Tutto si svolge all’interno di un appartamento, dove il protagonista sembra proprio un ingombrante tappeto giallo con tutti i segreti erotici che contiene. La trama è messa in scena da quattro ottimi attori. Erland Josephson (doppiato da Renato Mori) è un grande interprete svedese che ha lavorato con Bergman e Tarkovskij, perfetto con il suo sguardo allucinato come inquietante professore, finto psichiatra ed ex attore uxoricida. Milena Vukotic è teatrale al punto giusto, prima nel ruolo di moglie, poi come compita psichiatra, infine perversa complice di un folle individuo. Vittorio Mezzogiorno, scomparso a soli 52 anni, è diligente nei panni di un marito geloso e innamorato. La franco-algerina Béatrice Romand (doppiata da Anna Rita Pasanisi) è la più giovane ma non la meno brava e, anche se non ha lavorato molto nel cinema, si ricorda per alcune opere di Éric Rohmer (Racconto d’autunno -1998 – è il suo ultimo film).

Un giallo psicologico, cinema da camera, se mi si passa il termine, dove la messa in scena è l’elemento fondamentale, così come il rapporto tra realtà e finzione. Lizzani mette sul piatto di un thriller ben confezionato la complessità delle relazioni interpersonali, la vita quotidiana di una coppia che abita in un condominio periferico romano, il senso pirandelliano della vita come commedia di maschere, il sogno e l’apparenza che danno il cambio alla concretezza della vita.

Un film da rivalutare, da rivedere senza pregiudizi intellettuali, sgombrando il campo dalla ben nota idiosincrasia dei nostri critici più conformisti nei confronti del cinema di genere.

Gordiano Lupi
 

Sulla falsariga di quanto si vedrà (con risultati decisamente più convincenti) nell’altro semi-sconosciuto La morte avrà i suoi occhi, “La casa del tappeto giallo” (produzione R.P.A. Cinematografica, RAI e SACIS dei primi anni ottanta) indaga psicologicamente sul vissuto dei personaggi, in particolare della protagonista Franca, ossessionata dalla figura del patrigno ed in crisi coniugale col marito. Una terza figura si frappone all’improvviso tra i due, esasperando le difficoltà della donna…

In breve. Singolare thriller italiano a basso costo, anche di discreta qualità e davvero interessante per certe trovate: non è abbastanza valorizzato dalle interpretazioni e da un’ambientazione troppo poveristica, per cui rischia di annoiare l’appassionato di cinema mainstream, e di confinarsi come oggetto di culto per pochi eletti.

Tratto da un dramma teatrale di Carlo Selleri (“Teatro a domicilio“), bisogna premettere che ne eredita parte dell’impostazione scenica dato che, al posto di un palcoscenico, è ambientato in un singolo appartamento. Un singolo locale fatto di stanze separate piuttosto rigidamente tra loro, quasi ad evocare l’impianto scenico che potremmo vedere in un dramma, dal vivo, dalla diretta voce dei protagonisti. Questo aiuta fin da subito a costruire un’atmosfera fortemente claustrofobica, che si ispira chiaramente ai fasti del giallo all’italiana (La Dama Rossa uccide sette volte, Giornata nera per l’ariete, Quattro mosche di velluto grigio), con cui “La casa del tappeto giallo” eredita vari punti: i personaggi ambivalenti, gli omicidi efferati, i colpi di scena continui, il doppio finale. Probabilmente, pero’, il genere era già in declino in quegli anni, e forse anche per questo il risultato si fa apprezzare solo fino ad un certo punto: il film di Lizzani riesce a sorprendere soltanto in parte, e probabilmente il suo sottotesto (che è di natura finemente psicologica) si fa apprezzare solo dal pubblico più esigente.

Un po’ poco per chi divora film di genere ogni giorno senza badare a certi sottosignificati, che magari andrebbero relegati più a documentari di psichiatria che a thriller: idea originale, comunque, a cui va dato atto di aver posto, forse involontariamente, per la prima volta certe idee su uno schermo. E se le spiegazioni labirintiche riescono a piacere e devono, anzi, far parte di questo tipo narrazione, in queste circostanze sembrano vagamente artificiose e fin troppo elaborate, specialmente negli ultimi dieci minuti in cui vi è una vera e propria “gara” al finale a sorpresa (le rivelazioni che ho contato sono almeno quattro, e forse già la terza rischia di stancare). Curioso, poi, il fatto che il film conti solo quattro personaggi attivi (più una comparsata), uscendone comunque in maniera dignitosa.

Ad ogni modo, se la prima parte del film si carica di presupposti accattivanti, con lo sconosciuto che entra in casa ed inizia ad esercitare la propria pressione psicologica sulla protagonista – ed è qui che evoca tremendamente, secondo me, il duello “mentale” visto ne La morte avrà i suoi occhi, molto simile nei presupposti a questo, per quanto “La casa del tappeto giallo” sia uscito cinque anni prima! – realizzando un buon film che, per carità, non sarà il Funny Games italiano – sarebbe troppo pensarlo – ma è comunque accattivante, fuori dal coro e tarato al punto giusto anche oggi. Il tutto, pur riconoscendone pacificamente i limiti di budget e di recitazione, cosa non da poco in un lavoro di questo tipo, ma tant’è.

https://lipercubo.it/la-casa-del-tappeto-giallo-c-lizzani-1983.html


Memorial Carlo Lizzani

Carlo Lizzani, per un cinefilo che abbia un approccio nocturniano alle cose, era, è, un personaggio complicato da abbordare, che spaventa: da una parte, la sua storia affonda profondamente le radici dentro il terreno del neorealismo – è lo sceneggiatore, pur sempre, di Riso amaro – con tutto quello che di accademico e anche di un po’ iniziatico, questo comporta. Poi, Lizzani era un uomo di sinistra, dichiaratamente di sinistra, e ho sempre avuto l’impressione – forse un po’ bambinesca – che registi di questo tipo, engagé, ossia impegnati, fossero della stessa pasta di quelle cose che si studiavano per gli esami all’Università – parlo dell’Università di trent’anni fa, quella seria. Insomma, il concetto potrebbe essere “un autore mattone”, ideologizzato, che se lo affronti ti tocca affrontare anche tutto ciò che di pachidermico e di mastodontico, come storia, anzi come Storia, si porta dietro.

Sto parlando, attenzione, del Lizzani in astratto, quello che si annusava nell’aria, dell’istituzione Lizzani. Poi, però, c’era il Lizzani, come dire?… de facto, pragmatico, che faceva i film che vedevamo, quindi non l’idea platonica ma la sua incarnazione. E i film erano grandiosi, poderosi, non avevano nulla di intellettualistico o di noioso. Lizzani non era Maselli o roba di quel tipo. Certo, per noi nocturniani, magari non Il processo di Verona ma Svegliati e uccidi!, la biografia di Lutring; non Lo svitato o L’oro di Roma, ma Banditi a Milano o Roma bene. Quindi, il secondo Lizzani più del primo: praticamente la sua opera omnia degli anni Settanta e gran parte di quella degli anni Ottanta; per alcuni fino al film sul caso Dozier del 1993 ma secondo me anche più in su, spingendosi fino al 1998, anno di un ottimo film televisivo giallo con Antonella Fattori, di cui oggi in pochi hanno memoria, purtroppo: La donna del treno.

Dal neorealismo si era portato evidentemente dietro il gusto di raccontare i fatti della vita, non quale scabra cronaca ma riuscendo a dargli dignità di racconto senza tuttavia snaturarne la forza di verità. Un equilibrio difficile da raggiungere ma che Lizzani sapeva compiere, coniugando il dato nudo e crudo, la registrazione, con l’elaborazione fantastica che lo fa diventare Cinema. Le storie nere lo attraevano e aveva una predisposizione naturale a saperle narrare: nel 1960 girò Il gobbo, sulle vicende del celebre Gobbo del Quarticciolo, interpretato da uno splendido Gérard Blain, il personaggio che, al netto di tutte le idiozie che si sono dette e scritte, fu il punto di partenza del successivo Gobbo di Tomas Milian.

Pier Paolo Pasolini faceva un ruolo, era Leandro detto er monco. E a parte nei propri film, Pasolini non accettò mai di fare l’attore per nessuno tranne che per  Lizzani, qui e nel successivo western Requiescant. Il che vuole certamente dire qualcosa. Lizzani continuò lungo la medesima linea nera con due cronache criminali di prim’ordine come Svegliati e uccidi!, la biografia di Luciano Lutring, “il solista del mitra”, e Banditi a Milano, ricostruzione ad armi ancora fumanti e sangue ancora caldo delle gesta delinquenziali della banda Cavallero. A parte deprecare l’assurdità per cui film del genere non sono disponibili su nessun supporto e da considerarsi, quindi, “rari”, sia il primo sia il secondo, ma più il secondo del primo sono il manifesto del Lizzani migliore e rappresentano l’atto fondativo del dramma d’azione interfacciato con la contemporaneità in Italia. In Banditi a Milano c’è praticamente già tutto: tutte le Roma violente e a mano armata a venire. Gli altri hanno rifinito, Lizzani ha creato.

Il bello del film, al netto di Volonté e della sua strabordante caratterizzazione di Cavallero (un delinquente sanguinario con personalità istrionica), che poteva rischiare di oscurare tutto il resto, è che mantiene sugli eventi una visione distanziata e non paternalistica, non ideologica (è un regista di buon senso, da non confondere con i buonsensai) e inserisce cose che altri con la medesima estrazione politica di Lizzani avrebbero giudicato sconvenienti o corrive. Mi torna sempre in mente la telefonata in Questura della ninfomane interpretata da Carla Gravina: non ho idea se si tratti di pura finzione o se si siano documentati e una telefonata del genere fosse storica, fatto sta che è un bell’intervallino morboso, forse inutile, in stile Cronaca vera, ma Lizzani ce lo mette e ci sta bene, perché ci racconta anche questo un pezzetto della società in cui Cavallero tracciò il suo cammino di sangue. In questo scarto, anche in questo scarto, ossia nel non rifiutare a priori il “basso” sta la grandezza di Lizzani, che più avanti, nel cuore degli anni Settanta, non si vergognerà di firmare film crudi e scorretti come Storie di vita e malavita o come San Babila ore 20 un delitto inutile. I critici tipo manico-di-scopa-su-per-il-culo, non gradivano, perché trattare di prostituzione minorile con quei toni esacerbati e seminando nudi ovunque, rappresentava una deminutio capitis. Il pubblico la pensava diversamente, però, e anche Lizzani, che giunse a realizzare nel 1977 lo stranissimo Kleinhoff hotel, dove si faceva intendere che Corinne Cléry e Michele Placido, sul set e sotto l’occhio della mdp, lo avessero fatto per davvero. Anche se poi Lizzani, con una battuta, sosteneva di non averlo diretto lui, quel film, ma che lo aveva girato un collega.

Uomo alto ed elegante come quasi tutti gli uomini alti, che raramente sono intelligenti – secondo quanto recita l’antico proverbio – ma quando lo sono, sono intelligentissimi, Lizzani aveva in sé quel quid di malvagità che fa la differenza tra un buon regista e qualcosa più di un buon regista. La terza parte di un ideale trittico sulle personalità criminali, dopo Svegliati e uccidi! e Banditi a Milano, rappresentata da Barbagia (La società del malessere) è una di quelle anse segrete della filmografia lizzaniana, penalizzata, come già detto, da ampie zone di odierna invisibilità (ora però qualche anima pia ha caricato il film su Youtube). Lizzani vi ricostruiva la storia di Graziano Mesina facendolo interpetare a Terence Hill, con sprezzo del pericolo e del ridicolo e con risultati, tuttavia, non indegni; perché vi è questo da dire del regista, che non è mai stato al di sotto dei propri standard anche nei film che consideriamo minori solo perché meno noti degli altri. Penso a Roma bene, che trova parecchi giusti estimatori, nonostante la sua circolazione sia stata affidata sostanzialmente a dei circuiti carbonari di collezionisti. Un discorso sulla cattiveria di Lizzani dovrebbe passare attraverso l’analisi di questa storia, sceneggiata da Luciano Vincenzoni e Nicola Badalucco, che con gli occhi di Manfredi, un commissario di polizia, e del suo assistente Enzo Cannavale, spolpa l’alta società capitolina fatta di marchettari, mignotte, assassini e truffatori. Un’umanità sommersa che nell’allucinante parte finale viene anche fisicamente sommersa e affogata in una celebre sequenza dove tutti gli occupanti di uno yacht si gettano in acqua dimenticandosi, ahiloro, di calare anche la scaletta per tornare a bordo. Benché l’esercizio di crudeltà meglio riuscito sia quello su cui culmina Storie di vita e malavita negli ultimi, allucinanti, metri di pellicola. Non dico che cosa accade: andatevelo a vedere.

Lizzani era un grande direttore di attori e non soltanto quando si circondava di fuoriclasse come Volonté, a proposito del quale è memorabile un aneddoto legato a Mamma Ebe. Mentre il regista stava preparando il film, interpellò per un ruolo Volonté, il quale rispose che avrebbe accettato solo se gli fosse stato concesso di essere lui Mamma Ebe. Purtroppo, la cosa non andò. Ma Lizzani – e in questo era persino meglio di Damiano Damiani – riusciva a fare recitare anche i sassi.Di Terence Hill già si è detto. Anche l’altra parte della storica coppia, Bud Spencer, si trovò ad essere diretto da Lizzani in un noir non bellissimo ma dal cast bizzarro assai e sufficiente ragione per disseppellirlo e onorarlo di una visione, che comprendeva, oltre a Pedersoli, il cantante Nicola Di Bari e il Pinocchio televisivo Andrea Balestri: Torino nera del 1972. Nel suo unico film americano, che Lizzani gira di lì a un paio di anni con la produzione di De Laurentiis, Crazy Joe, riesce a rendere credibile il Fonzie di Happy Days, Henry Winkler, con un paio di baffi, in una parte nemmeno troppo semplice. La formazione neorealista lo aiutava a maneggiare materiale grezzo per cavarne il meglio, come risulta evidente guardando Storie di vita e malavita dove tutte le giovani protagoniste, eccetto un paio, sono completamente vergini al cinema. E Lizzani riesce a far fare loro cose incredibili.

Quando all’inizio degli anni Ottanta Lizzani comincia a lavorare per la Rai, nella sua filmografia si apre una fase nuova, interessante e importante, sebbene oggi chi la voglia valutare o riscoprire debba fare fatica, poiché i film restano perlopiù inaccessibili. Per un Fontamara, da Silone, che è stato pubblicato quest’anno in dvd, è pressochè impossibile procurarsi quell’Inverno di malato, da Moravia, inserito all’interno della serie Dieci registi italiani, dieci racconti italiani che la Rai produsse e trasmise nel 1983. Chi scrive lo rammenta però ancora bene, ambientato in un sanatorio e con protagonista Giovanni Guidelli. Una direttrice che da letteraria si fa storico-politica con Un’isola (1986), la biografia di Giovanni Amendola, ma sempre con l’occhio fisso ai fatti contemporanei: come nel complesso apologo sul fenomeno del terrorismo rappresentato dal dimenticatissimo Nucleo zero (1984), che nasceva dal romanzo omonimo di Luce D’Eramo scritto nelle settimane del sequestro Moro. Anche qui, il Lizzani migliore, diretto e conciso pur nella fluvialità della lunga durata televisiva e con attori che si ricordano eccellenti, soprattutto Patrick Bachau e Antonella Murgia che Lizzani si era portato appresso da Fontamara. A questo ganglio temporale, ed esattamente al 1983, risale il primo lungometraggio girato da Lizzani dopo il quadriennato di direttore della Mostra del Cinema di Venezia: un thriller, strutturato nella forma di uno psicodramma, asfissiante e tagliente, La casa del tappeto giallo, da molti considerato come l’ultimo grande esemplare italiano di questo genere, insieme a Tenebre di Argento, con tutto ciò che di assurdo comporta accoppiare due film e due filosofie di regia che più distanti sarebbe impossibile.

Lizzani fece anche altri gialli per la televisione, Assicurazione sulla morte (da James Hadley Chase) del 1987, con protagonista Patricia Millardet che era stata lanciata dalla Piovra, La trappola (1989), con Johnny Dorelli, Mario Adorf e Florinda Bolkan (per chi volesse deliziarsi con un prodotto fine anni Ottanta, è visibile su Youtube) e, con un salto temporale di dieci anni, La donna del treno (1998), dal quale era difficile non restare colpiti da una visione contemporanea, per l’ingegnoso impianto della storia (scritta da Lizzani con Romolo Guerrieri e Roberto Gianviti): una donna magistrato trascorre una notte d’amore con un ragazzo incontrato casualmente su un treno, trovandosi poi coinvolta nelle indagini relative a un omicidio di cui il suo amante occasionale potrebbe essere responsabile. E per l’ottima tenuta drammatica garantita dalla regia di Lizzani e dall’interpretazione della protagonista (anche nuda) Antonella Fattori. Non dimenticherei, però, Stato d’emergenza, la ricostruzione lizzaniana dei giorni del rapimento del generale Dozier condensata in un film televisivo del 1993, che sfrondava tutte le dietrologie e le teorie di complotti internazionali, concludendo per un tentativo esperito dalle sole BR nostrane di alzare il tiro e il livello del loro attacco.

Domandano a Lizzani, in un intervista tra le molte reperibili su Yt, di esprimere una riflessione sui suoi film “politici”. E Lizzani, che stringe tra le mani il suo libro autobiografico: Il mio lungo viaggio nel secolo breve, risponde operando un distinguo tra i suoi film in cui la politica è un elemento interno e quelli in cui essa è invece qualcosa di esterno. Citando titoli come Mussolini ultimo atto, Il processo di Verona, Il gobbo e Fontamara, Lizzani argomenta che possono essere definiti film politici in quanto si muovono all’interno di temi come il fascismo e l’antifascismo e attingono a personaggi reali. Nell’altra categoria, alla quale appartengono, per esempio, film come Cronache di poveri amanti, la politica fungerebbe come una sorta di reagente per far emergere vicende umane di personaggi immaginari. Io credo che questa distinzione non esista, sia un sofisma, e che Lizzani abbia fatto solo dei grandi film che non accettano di venire scissi in componenti più o meno precise. Mussolini ultimo atto è un film poderoso che non si riesce ad accettare possa essere ridotto nel letto di Procuste dell’aggettivo “politico”. Tantomeno con il significato rozzo e degradato con cui il termine potrebbe venire speso oggi sulle pagine di un qualsiasi Giornale di un Feltri qualsiasi.

Al viatico dei lavori fin qui citati (e con la precisazione che il Lizzani cineasta e documentarista storico di prim’ordine, non lo abbiamo colpevolmente ricordato e lo facciamo così en passant), necessari per farsi un’idea di cosa sia stato il cinema di Lizzani, piacerebbe aggiungere anche un’opera collettiva: si tratta dell’Addio a Enrico Berlinguer, girato in occasione dei funerali del segretario del Partito Comunista il 13 giugno del 1984. Quaranta cineasti, tra i quali Lizzani, ripresero tutte le fasi di qualcosa che restituito dagli schermi così come dovette essere anche nella realtà, possedeva l’aspetto di un evento monumentale ed epocale. Un filmato apocalittico, che ha a che vedere con la fine dei tempi, con una morte che non è dramma singolo ma catarsi collettiva. Trovate questo reperto.Può insegnare molto.Anche su Lizzani.

Davide Pulici
https://www.nocturno.it/memorial-carlo-lizzani/
 

lunes, 14 de febrero de 2022

Dottor Jekyll e gentile signora - Steno (1979)

TÍTULO ORIGINAL
Dottor Jekyll e gentile signora
AÑO
1979
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACIÓN
107 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Steno
GUIÓN
Leonardo Benevenuti, Franco Castellano, Steno, Piero de Bernardi, Gianni Manganelli, Giuseppe Moccia. Novela: Robert Louis Stevenson
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Ennio Guarnieri, Sergio Salvati
REPARTO
Edwige Fenech, Paolo Villaggio, Gianrico Tedeschi, Gordon Mitchell, Paolo Paoloni, Guerrino Crivello, Eolo Capritti, Geoffrey Copleston, Paola Arduini
PRODUCTORA
Dania Cinematografica, Medusa Produzione
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
Bárbara es una mujer bella y lujuriosa que trabaja como asistente de un malvado científico al que llaman Doctor Jekyll, que es nieto del personaje de la novela de Robert Louis Stevenson. Pero ella no le tiene miedo, y por el contrario, decide aprovechar el poder de su seducción y su atractivo sexual para dominar al peligroso científico. A través de una pócima que le hace beber, lo convierte en una buena persona. (FILMAFFINITY)
 
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Con Dottor Jekyll e gentile signora siamo in presenza dell’ultima tranche della commedia all’italiana – d’altronde la regia di Steno è un marchio di garanzia – in cui temi assai spinosi vengono declinati in un registro comico che li rende accessibili al grande pubblico

Eccoci di nuovo qui a segnalarvi una divertente commedia del 1979 diretta da Stefano Vanzina, alias Steno, sceneggiata dalla premiata ditta Benevenuti – De Bernardi, e interpretata da un’insolita coppia per il cinema italiano, ovvero Paolo Villaggio e Edwige Fenech. Villaggio, reduce dal grandissimo successo dei vari Fantozzi, cambia pelle per l’occasione e mette in scena un personaggio originale, che non ricalca le consuete macchiette mostrate nei film precedenti, e la Fenech, come sempre dotata di raggiante bellezza, si produce in una performance apprezzabile, che la vede in versione sexy ma anche in un ruolo atipicamente morigerato.

Si, perché in Dottor Jekyll e gentile signora assistiamo ad un rocambolesco rovesciamento del romanzo di Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde: il protagonista, il dottor Jekyll (Villaggio), è un laido, cinico e malvagio faccendiere che lavora per la famigerata Pantac, scellerata multinazionale che, sprovvista di qualsiasi principio etico, mette in commercio prodotti dannosissimi per l’ambiente e per la salute dei consumatori. Barbara Wimply (Fenech) è un’ammiratrice dello spietato dottore e, dopo averne seguito le devianti lezioni su come compiere più male possibile, ne diventa la fedele segretaria. Jekyll beve una misteriosa pozione per divenire ancora più crudele, ma, beffa della sorte, ottiene l’effetto contrario e si tramuta in un pacifico angioletto che vuole rendere tutti i cittadini del mondo buoni. Stesso destino tocca alla perfida segretaria.

Ovvio che questa parodistica inversione del romanzo di Stevenson genera una serie infinita di gag che accompagnano lo spettatore per circa 100 minuti, intrattenendolo piacevolmente.  Nonostante la sua dichiarata leggerezza, questa commedia tocca però anche questioni importanti, denunciando la rincorsa alla massimizzazione del profitto del mercato capitalistico, a scapito di qualsiasi codice etico, e soprattutto a danno dei consumatori, visti come soggetti da spremere senza limite. Interessante e assolutamente imprevedibile è il cinico finale del film, che non sveliamo, ma che fa riflettere non poco sul rapporto intercorrente tra multinazionali, lavoratori, e , infine, consumatori.

Insomma, con Dottor Jekyll e gentile signora siamo in presenza dell’ultima tranche della commedia all’italiana – d’altronde la regia di Steno è un marchio di garanzia – in cui temi  assai spinosi vengono declinati in un registro comico che li rende accessibili al grande pubblico. Una tradizione che, dunque, trova continuità in questo gradevole film, pubblicato in dvd da Mustang e distribuito da CG Entertainment.

Luca Biscontini
https://www.taxidrivers.it/68668/latest-news/breaking-news/dottor-jekyll-e-gentile-signora-in-dvd.html


Trama

Londra, sul finire degli anni '70 del 1900.
Il dottor Henry Jekyll (Paolo Villaggio) è uno spietato manager dell'ancor più spietata mega multinazionale PANTAC, un'enorme società che produce praticamente di tutto, schiavizzando i lavoratori ed assicurandosi sempre il massimo profitto nei paesi dove commercia, anche a costo di organizzare dei veri e propri colpi di stato ed usare come cavie le popolazioni dei paesi sottosviluppati.

Di ritorno da uno di questi loschi affari, Jekyll è chiamato urgentemente dal consiglio d'amministrazione della PANTAC, presieduto dal malvagio Walter Wright Williams per un serio problema: il sottoprodotto della raffinazione del greggio chiamato FP1, una schifezza tossica che l'azienda ha tentato inutilmente di spacciare per fertilizzante, necessita di una soluzione d'impiego.

Per riuscire a smaltire le 84 milioni di tonnellate di FP1 trovandogli un giusto posto nel mercato, Jekyll comincia a vagliare differenti soluzioni, dalla vernice al sugo, ma nessuna risulta realizzabile.
L'idea giusta però non tarda ad arrivare: si potrebbe produrre del devastante e corrosivo chewingum, da lanciare in pompa magna con una gigantesca campagna promozionale, scegliendo come testimonial... La regina d'Inghilterra!

Per costringere la regina a pubblicizzare il "Queen's Chewingum Gusto Lungo", Jekyll idea un diabolico piano chiamato "Operazione Buckingham": con l'aiuto di un manipolo di balordi altamente addestrati, vuole introdursi nel palazzo reale, far sedurre il principe Filippo dalla sua avvenente segretaria Barbara Wimply (Edwige Fenech) e, filmando tutto di nascosto, ricattare la regina.
Sembrerebbe l'ennesima, per quanto ardita, operazione di intelligence criminale come ne ha già fatte a centinaia, ma è da un po' di tempo che Jekyll non si sente per nulla bene: ha improvvisi 'attacchi di bontà' che lo prendono nei momenti meno opportuni, e che gli fanno addirittura provare pietà e compassione per le sue vittime sacrificali.

Preoccupatissimo di ciò, in quanto la spietata classe dirigente della PANTAC non può assolutamente permettersi atti d'affetto di tal genere, casualmente Jekyll scopre, nella sua lussiosa casa vittoriana, un passaggio segreto che lo porta in un antico laboratorio.
Qui incredibilmente, incontra suo nonno, l'originale dottor Jekyll, vecchissimo e ormai totalmente corrotto da un siero di sua invenzione, capace di separare la parte buona da quella malvagia di un essere umano.

Il nonno, diventato permanentemente il cattivissimo Hyde dopo essersi assuefatto alla sua invenzione, ha per il nipote un regalo: ha preparato un bel po' di siero che lo potrà curare dai suoi attacchi di bontà, facendolo diventare ancora più cattivo di quello che già è.
Tutto felice, Jekyll ingurgita l'intruglio, ma mal gliene coglierà: il perfido nonno ha infatti commesso l'ultima canagliata della sua lunga vita, ed invece del siero della cattiveria gli ha somministrato l'elisir della bontà pura!

Il cattivissimo manager si ritrova così cambiato nel carattere e pure nel fisico: tutto biondo, riccio, senza peli e con un curioso accendo veneto correrà subito per Londra a fare buone azioni, anche se a suo modo decisamente pasticcione.
Durante il suo peregrinare in città in cerca di gente da aiutare, il nuovo Mr. Hyde s'imbatterà in un drappello di guardie reali trucidato e buttano nel Tamigi, e si ricorderà così dell'Operazione Buckingham.
Deciso a fermarla, s'infrofulerà nel palazzo reale e riuscirà, anche se molto fortuitamente, a sventare il folle piano, ma sarà inseguito dal capo dei sicari della PANTAC, Pretorius, e dai suoi uomini, infuriati per essersi visti mandare a monte tutto il lavoro fatto.
Per sfuggire alla cattura, il bonaccione Hyde è costretto a tornare al laboratorio e trasformarsi di nuovo nel perfido Jekyll.

Gli alti dirigenti della PANTAC intanto sono infuriati: vengono diffuse le foto di Hyde definendolo un sabotatore, e il crudele capo della multinazionale arriva anche a mettere una taglia sulla sua testa.
C'è però anche una sopresa: la bella e malvagia signorina Wimply s'è perdutamente innamorata di Hyde, e ciò fa scattare la libido di Jekyll che, pur di possedere la donna, decide di bere di nuovo il siero e tornare ad essere il bamboccione biondo.

Non avrà calcolato però che, in tale forma, perderà anche tutti i pensieri sconci, tanto da resistere non solo alle provocazioni della bella donna, ma arrivando anche a farle bere il siero, trasformandola come lui in una ricciolina platinata, tutta buona e generosa.
Hyde, constatato che il nonno ha lasciato la formula del siero a disposizione nel suo laboratorio, idea un piano eccezionale per far bere il siero a tutto il mondo, con l'idea di convertire tutta l'umanità alla bontà d'animo.

Per far ciò, su idea di Barbara, vuole produrre il siero industrialmente grazie ai laboratori della PANTAC, e poi spruzzarlo con gli aerei in tutto il pianeta.
Con qualche peripezia e molta fortuna, Barbare e Hyde riusciranno nell'impresa, anche grazie... Al boss della PANTAC che, fiutato l'affare di avere un mondo popolato solo da imbecilli de-facto, agevolerà il piano.
Tutta la gente del mondo, ad eccezione die furbi dirigenti PANTAC che provvederanno a proteggersi con molto opportune tute anti-gas, sarà dunque trasformata in una massa di buonissimi e totalmente innocui biondini, felicissimi di essere sfruttati dai padroni e di comperare prodotti PANTAC.

https://www.georgefiorini.eu/cinefilia-jekyll-gentile-signora.php


“Nonno, ma come hai fatto a sopravvivere?” “Con i diritti d’autore!”

Il celebre romanzo di Robert Louis Stevenson che racconta l’oscura vicenda del Dr. Jekyll e del suo maligno alter ego Mr. Hyde ha ispirato tantissimi film e anche numerose variazioni sul tema, la maggior parte in chiave (chiaramente) horror. Tra questi spicca senz’altro per originalità un piccolo gioiello del 1971 della celeberrima casa di produzione inglese Hammer, uscito in Italia come “Barbara il mostro di Londra” (titolo che mortifica ignobilmente l’originale  e geniale “Dr. Jekyll and Sister Hyde”), nel quale la pozione miracolosa ideata da Jekyll finisce per trasformarlo in una donna (Martine Beswick, futura tanghista in “Ultimo tango a Zagarol”)! Tuttavia non mancano anche gli esempi comici: da Gianni e Pinotto negli anni ’50 a Jerry Lewis negli anni ’60 (il suo dottor Jerryll si guadagnerà perfino un remake e un sequel con Eddie Murphy negli anni ’90). In ogni caso l’elemento comune era sempre la malvagità del doppio di Jekyll… Orbene, nel 1979 il gran maestro della commedia italiana Steno dirige (da un’idea originale di Castellano & Pipolo) una particolare rilettura del mito di Jekyll & Hyde e ne viene fuori una pellicola strepitosa e incredibilmente divertente. Il motivo? Il siero, anzichè rendere ancor più cattivo il già di per sé perfido Jekyll, finisce per trasformarlo nella persona più buona e ingenua della terra: da industriale senza scrupoli e cattivissimo ominide simil-licantropesco con foltissimi peli sulle mani e marcatissime sopracciglia aguzze il nostro si trasforma in una sorta di angelico cherubino dai riccioli biondi, etereo e svampito, che parla in veneto e ha come unico credo la bontà e la diffusione della stessa. Naturalmente le conseguenze delle sue prodi gesta saranno esilaranti, con la morale di fondo che non si può essere troppo buoni in questo mondo… Paolo Villaggio è convincente e non “fantozzieggia” più di tanto, mentre la gentile signora del titolo è una crudelissima Edwige Fenech che (una tantum) si spoglia pochissimo e finisce per provare anch’essa gli effetti benefici del siero, trasformandosi in una celestiale e virginale creatura… Accanto ai due protagonisti principali troviamo poi alcuni caratteristi di livello come Gordon Mitchell e Geoffrey Copleston e un ottimo Gianrico “Sperlari” Tedeschi nei panni del maggiordomo Jeeves (non poteva chiamarsi altrimenti!): i suoi duetti col turpe Jekyll sono davvero memorabili.

Nella sede centrale londinese della Pantac (una bieca multinazionale e industria petrolchimica) è in corso una tesissima riunione straordinaria che vede coinvolti tutti i vertici: la commercializzazione di un arditissimo fertilizzante chimico (sperimentato in alcune zone degradate africane con terrificanti effetti collaterali sulla popolazione) è stata bloccata e quindi quintali e quintali del prodotto sono fermi nelle fabbriche, con conseguenti gravissime perdite economiche. Il cattivissimo Dr. Jekyll (Paolo Villaggio), uno degli esponenti di spicco del consiglio di amministrazione, è chiamato a risolvere il problema. Jekyll, consigliato dalla sua nuova e affascinante segretaria personale Barbara Wimply (Edwige Fenech), che ha sostituito la precedente dopo che la poveretta è stata casualmente uccisa da un’auto pirata, decide di immettere sul mercato il fertilizzante sotto altra forma e la scelta ricade su una gomma da masticare (dagli effetti devastanti inimmaginabili). Per lanciare il prodotto in grande stile in tutto il Regno Unito Jekyll ha in mente una campagna pubblicitaria senza precedenti: farà pubblicizzare la gomma Pantac direttamente dalla regina in persona! L’idea è quella di far sedurre il principe dalla super sexy Barbara, riprendere tutta la scena con telecamere nascoste nell’appartamento reale e poi ricattare la regina costringendola a sponsorizzare il chewing gum per coprire lo scandalo. Per attuare il suo piano Jekyll si affida allo scagnozzo Pretorius (Gordon Mitchell) che capeggia un gruppetto di sanguinari e spietati killer; a loro viene affidato il compito di eliminare l’intero corpo di guardia di Buckingham Palace per poi sostituirsi ad esso e far entrare quindi tranquillamente Barbara e i vari tecnici che dovranno installare telecamere e microfoni. La notte prima del colpo Jekyll sente degli strani rumori attraverso i muri e, tramite un passaggio segreto nascosto nel camino, giunge in una sorta di cantina abbandonata che si trova sotto casa sua. Qui trova un laboratorio segreto e un vecchio malridotto che si presenta come suo nonno ultracentenario Henry. Il nonnetto gli racconta la storia della pozione che trasformava il suo antenato Jekyll nel perfido Hyde e gli confida di aver elaborato la formula del male assoluto, in grado di trasformare chiunque nella persona più cattiva della terra. Jekyll, ingolosito da questa prospettiva, beve avidamente il siero ma ha una sgradita sorpresa: il nonno gli ha tirato un terribile scherzo! Invece di diventare la quinta essenza della malvagità Jekyll diventa buonissimo e puro e cerca di mettere in atto la sua prima, fondamentale, buona azione: sventare il diabolico piano a Buckingham Palace…

“Alleluja, alleluja! Ci sentiamo tutti bòn, lavoriamo al progettòn!”
Finalino sulla colonna sonora, firmata dal Maestro Armando Trovajoli, che è molto interessante (in particolare l’ossessiva canzoncina dei titoli di testa e coda, “Mr. Jekyll & Mr. Hyde”, che ricorda neanche troppo velatamente lo stile degli Oliver Onions) e completa in maniera ottimale un film davvero gustoso.

https://ilmiovizioeunastanzachiusa.wordpress.com/2014/02/10/dottor-jekyll-e-gentile-signora-1979/

domingo, 13 de febrero de 2022

Non ti conosco più - Nunzio Malasomma (1936)

TÍTULO ORIGINAL
Non ti conosco più
AÑO
1936
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACION
65 min
PAIS
Italia
DIRECCIÓN
Nunzio Malasomma
SUPERVISIÓN DE DIRECCIÓN
Mario Bonnard
GUIÓN
Aldo De Benedetti, Fritz Eckardt (Comedia de Aldo De Benedetti)
FOTOGRAFÍA
Arturo Gallea  
MONTAJE
Eraldo Judiconi [= Eraldo Da Roma]
MÚSICA
Cesare A. Bixio, Felice Montagnini
CANCIONES
“Dammi un bacio e ti dico di sì” di Bixio e Cherubini cantata da Elsa Merlini;
“Notte per sognare” de Giulio Bonnard cantata da Giovanni Manurita.
PRODUCCION
Giuseppe Amato per Amato Film
REPARTO
Elsa Merlini (Luisa Malpieri), Vittorio De Sica (il dottor Alberto Spinelli), Enrico Viarisio (Paolo Malpieri), Ninì Gordini Cervi (la dattilografa), Agostino Salvietti (il maggiordomo), Celeste Almieri Calza (zia Clotilde), Vanna Pegna (Evelina), Pio Campa (el rivenditore d'auto), Lina Tartara Minora (la cameriera), Giuditta Marchetti (altra cameriera), Giovanni Manurita (el cantante).
GÉNERO
Comedia

Sinópsis

La signora Luisa Malpieri, moglie di un ricco avvocato, mal sopporta l'avarizia del marito che si rifiuta di soddisfare i suoi capricci. Sospetando che l'uomo le sia anche infedele, Luisa decide di architettare una particolare vendetta: si finge pazza e fa finta di riconoscere il marito nel professore Spinelli, il dottore presso cui il vero marito l'ha mandata in cura…
Tratto da un testo teatrale di Aldo De Benedetti, una brillante commedia diretta da Nunzio Malasomma e interpretata da Vittorio De Sica, Elsa Merlini y Enrico Viarisio. Un piacevole saggio di teatro filmato, una commedia che scorre tra sorrisi e risate garbate.

1 
2 

NON TI CONOSCO PIÙ. DALLA SCENA ALLO SCHERMO
de David Bruni

Non ti conosco più, diretto da Nunzio Malasomma nel 1936, è tratto dall'omonima pièce di Aldo De Benedetti, rappresentata per la prima volta il 3 novembre 1932 al Teatro Argentina di Roma dalla Compagnia Elsa Merlini – Luigi Cimara – Sergio Tofano e costituisce un esempio significativo di un filone particularmente afortunado nel nostro primo cinema sonoro: quello dei film di origine teatrale. In questo periodo, infatti, il teatro si transforma in un serbatoio da cui pescare a piene mani in modo tale da garantire un ritorno economico sicuro contenendo al massimo i costi legati alla lavorazione di pellicole, di solito confinate in interni ricostruiti negli studi cinematografici.

È una logica, questa, destinata ad essere riproposta di frecuence soprattutto dopo la creazione di un nuovo organismo, la Direzione generale della cinematografia (con RDL n. 1565 del 18 settembre 1934), subito affidato a quel Luigi Freddi che rimarrà l'indiscusso protagonista e l'arbitro supremo del nostro cinema hasta 1939, quando rassegnerà le dimissioni dopo aver assistito alla sconfitta della linea politica di cui era stato il massimo artefice. Nel suo disegno, che non cancella l'iniziativa privata pur sottoponendola a una rigida disciplina ea un attento controllo da parte dello Stato centrale, risulta fondamentale la capacità di impostar una politica produttiva moralmente sana e finanziariamente equilibrata, finalizzata alla crescita del nostro cinema sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo.

Proprio in tale prospettiva si ritiene opportuno incentivare la presenza degli ingredientei che paiono assicurare la realizzazione di un prodotto medio: la fonte teatrale (o talvolta letteraria) di a film già conosciuta e sperimentata dal pubblico e dalla critica; il ricorso nella stesura della sceneggiatura a collaboratori dotati di esperienza, essendo spesso gli autori stessi delle pièces su cui ci si basa; l'impiego di attori che in molti casi conoscono benissimo il testo avendolo già interpretato sul palcoscenico, magari nei medesimi ruoli. Nell'attingere a opere esistenti, per lo più commedie riconducibili al repertorio brillante, ci si rivolge prevalentemente alla piccola e media borghesia, a un pubblico pronto a rispondere al processo di standardizzazione del prodotto culturale,

Attratti dalla prospettiva concreta di migliorare la propria situazione finanziaria, i letterati ei drammaturghi che collaborano alla sceneggiatura del film accettano questa forma di arruolamento intellettuale e si prestano volentieri a incarichi spesso non così impegnativi e niente affatto esclusivi; en cambio assicurano un livello minimo di dignita al prodotto. In questi stessi anni il commediografo Aldo De Benedetti diviene il massimo especialista nell'adattamento di opere teatrali – proprie o altrui – per lo schermo, asumiendo una función che si spinge ben al di là del compito di sceneggiatore stabilito per contratto. Anzi, in alcune circostanze egli si trasforma nell'autentico perno attorno a cui ruota la genesi dei film, in una versione autarchica del Producer – il direttore di produzione – di stampo hollywoodiano,

È appunto ciò che accade in occasione dell'adattamento cinematografico di Non ti conosco più, la cui vicenda è dominata dalla protagonista Luisa Malpieri. La donna, una giovane e graziosa moglie borghese, simula un attacco di follia tenendo in scacco il marito, avaro e probabilmente infedele, oltre a una serie di altri personaggi: a cominciare dallo psichiatra Alberto Spinelli, che finge di scambiare per il proprio legittimo consorte . Alla fine Luisa, appagata per la lezione impartita al coniuge e tentata dalla possibilità di vivere realmente una relazione amorosa col medico, decide di interrompere la propria finzione e accetta la sua condizione di moglie fedele essendo ormai perfettamente consapevole del senso di precarietà affettiva che gobernar perfino i legami più intimi.

Ebbene, nel febbraio 1935 De Benedetti scrive ad Elsa Merlini, già protagonista teatrale della pièce, tentando di coinvolgerla nella sua versione cinematografica: una conferma, questa, della tendenza a rivolgersi agli interpreti già collaudati sul palcoscenico. L'attrice prende tempo e si riserva di assumere una decisione definitiva solo dopo aver letto il copione. Sarà proprio lei l'attrice principale di Non ti conosco più, prodotto da Peppino Amato, con cui De Benedetti aveva sottoscritto un contratto il 20 maggio 1935, prevedendo la possibilità di realizzare rifacimenti del film in lingua straniera: infatti, il 31 marzo 1936, il consorzio cinematografico EIA acquista dallo sceneggiatore dapprima i diritti per l'ecuzione della versione tedesca dell'opera, poi per quella francese.

Il film che scaturisce da questo tipo di lavorazione, scandita da ritmi convulsi, ripropone situazioni, personaggi e battute della commedia teatrale con un grado quasi assoluto di fedeltà. Perciò la sua riuscita è strettamente connessa all'efficacia della struttura drammaturgica del testo originale, oltreché alla bravura degli attori. I margini di libertà riservati al regista sono minimi e la possibilità di un impiego creativo della macchina da presa quasi inesistente: al “direttore artistico”, come allora veniva chiamato, si chiede di solito di rinunciare a coltivare ambizioni particolari e di porsi con garbo al servicio degli interpreti. Tuttavia, non sempre la traduzione di una commedia da un ambito espressivo all'altro lascia inalterati gli equilibri originari:

Innanzitutto, la vicenda viene vivacizzata grazie alla presenza di due canzoni orecchiabili: la prima eseguita da Elsa Merlini and la seconda dal tenore Giovanni Manurita, impegnato nel ruolo di a cantante. D'altra parte, tale scelta rappresenta un motivo conduttore per questi film realizzati in anni in cui le relazioni, particularmente intenso, tra cinema e teatro seguono itinerari bizzarri dando luogo a progetti inediti ea combinazioni ibride. Attorno al cinema, transformatosi in un autentico volano dell'industria culturale, ruotano interessi che coinvolgono varie pratiche espressive, collegate tra loro in modo da dar luogo a un vero e proprio sistema integrato dello spettacolo. A dimostrazione di ciò, il 1 gennaio 1938 il signor Montanari, amministratore della compagnia teatrale Menichelli – Migliari – Giorda – Baghetti, propone a De Benedetti la ripresa di Non ti conosco più con una variante originale: accompagnare la messinscena della commedia con brani musicali del film da essa tratti, che il maestro Serpieri era pronto ad orquestare. Nella circostanza lo sceneggiatore risponde in maniera affermativa anche perché coglie le potenzialità – prima di tutto di natura finanziaria – insite nella trasformazione della pièce in un'opera (almeno in parte) musicale.

Inoltre, Non ti conosco più è interessante, al pari di alcune delle più vivaci commedie realizzate nel decennio, anche per il modo in cui si trasforma nel veicolo privilegiato di diffusione di stili di vita che penetrano in una società, quella italiana, ancora di stampo tradicional. In tal modo il film restituisce in filigrana un ritratto mediato del pubblico d'epoca, chiamato ad assorbire modelli comportamentali in rapido mutamento e in costante via di riconfigurazione. Infatti nel film, a difference di ciò che accade nella pièce di partenza, la condizione di aparentee follia manifestata dalla protagonista è conseguente all'atteggiamento assunto dal marito il quale non vuole collocarsi al passo coi tempi acquistando un'auto nuova e dotandosi di one scaldabagno eléctrico. Il personaggio femminile è quindi rappresentato come il destinatario particolarmente ricettivo nei confronti delle sollecitazioni che giungono dall'esterno e soprattutto dal Paese moderno per antonomasia, gli Stati Uniti: quella “donna nuova” che il fascismo voleva “moglie e madre esemplare”, appare più complessa di quanto non ci si potrebbe aspettare ed è assai lontana dal coincidenre con l'immagine ufficiale propostano dal regimen. Dunque, la restaurazione finale dell'ordine familiare temporalmente infranto segna un compromesso tra il desiderio del nuovo e la volontà di preservare gli equilibri antichi. appare più complessa di quanto non ci si potrebbe aspettare ed è assai lontana dal coincidere con l'immagine ufficiale propostano dal regimen. Dunque, la restaurazione finale dell'ordine familiare temporalmente infranto segna un compromesso tra il desiderio del nuovo e la volontà di preservare gli equilibri antichi. appare più complessa di quanto non ci si potrebbe aspettare ed è assai lontana dal coincidere con l'immagine ufficiale propostano dal regimen. Dunque, la restaurazione finale dell'ordine familiare temporalmente infranto segna un compromesso tra il desiderio del nuovo e la volontà di preservare gli equilibri antichi.
http://www.casadelcinema.it/?event=non-ti-conosco-piu-di-n-malasomma-italia-1936-65

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Ancora un testo letterario si trova in Non ti conosco più (gen. 1936; 70 min.), versione filmica della fortunata commedia (1932) di Aldo De Benedetti. La regia di Malasomma consiste in un dignitoso teatro filmato (gli esterni sono praticamente inesistenti) in cui gli attori appaiono ben diretti e valorizzati.
Scoperto il marito (Enrico Viarisio) che amoreggia con la dattilografa (Ninì Gordini Cervi), la moglie (Elsa Merlini) decide di impartirgli una lezione: dapprima finge di non riconoscerlo, poi “individua” nel medico (Vittorio De Sica), chiamato dallo sconcertato coniuge, il proprio marito. La situazione genera confusione e soprattutto paura nel vero consorte, poiché il gioco della donna si spinge quasi fino alle estreme conseguenze. Nel finale tutto si aggiusta, la dattilografa viene licenziata, il medico intuisce la commedia e la moglie finge di rinsavire.
Il testo è un lavoro di mero intrattenimento, animato da buone battute anche se eccessivamente prevedibile e monocorde. L’unico momento che rivela lo spirito del tempo è la tirata della protagonista contro i celibi, parassiti della società cui si contrappone l’auspicio di una legge che preveda il matrimonio obbligatorio entro i venticinque anni. L’atteggiamento è ironico (all’epoca esisteva la tassa sul celibato) e tuttavia illumina la tendenza del periodo a incentivare, con ogni mezzo, il matrimonio inteso quale strumento atto a rafforzare la nazione tramite la nascita di una numerosa prole.
Esiste una seconda versione filmica (1980) del testo di De Benedetti firmata da Sergio Corbucci, con Monica Vitti, Johny Dorelli e Luigi Proietti, decisamente più scialba e anacronistica, troppo statica, verbosa e recitata in modo sommario.

http://www.giusepperausa.it/damigella_di_bard.html

sábado, 12 de febrero de 2022

Bisturi la mafia bianca - Luigi Zampa (1973)

TÍTULO ORIGINAL
Bisturi, la mafia bianca
AÑO
1973
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español e Italiano (Separados)
DURACIÓN
105 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Luigi Zampa
GUIÓN
Massimo De Rita, Arduino Maiuri
MÚSICA
Riz Ortolani
FOTOGRAFÍA
Giuseppe Ruzzolini
REPARTO
Gabriele Ferzetti, Senta Berger, Enrico Maria Salerno, Claudio Gora, Claudio Nicastro, Tina Lattanzi, Enzo Garinei, Luciano Salce, Antonella Steni, Ezio Sancrotti, Sandro Dori, Pier Luigi Modesti, Piera Degli Esposti
PRODUCTORA
Roberto Loyola Cinematografica
GÉNERO
Drama | Medicina

Sinopsis
El profesor Daniele Vallotti (Gabriele Ferzetti) es propietario de una clínica de lujo, donde los pacientes son seleccionados sobre la base de sus ingresos. Para ocultar su codicia y ambición, visita una vez a la semana un hospital para pobres donde trabaja de forma gratuita. De esta forma, crea una buena imagen para su empresa como buen benefactor. El equipo de médicos de la clínica le obedece en todo sin cuestionar ninguna de las órdenes, excepto el Doctor Giordani (Enrico Maria Salerno), que antepone su honestidad al mandato del jefe. Después de las continuas llamadas anónimas del Dr. Giordani para sabotear a la clínica, el equipo médico y Vallotti organizan una conspiración en contra de él por no involucrarse en los actos delictivos de la compañía médica. (FILMAFFINITY)

 Premios
1973: Festival de Cannes: Nominada a la Palma de Oro (mejor película)

2 

Prima di cominciare, un ringraziamento a tutti i medici e gli infermieri del Servizio Sanitario Nazionale, e a tutti quelli che lavorano con loro e li aiutano in questi giorni drammatici.

Non è un capolavoro, "Bisturi la mafia bianca", ma vale comunque la pena di parlarne perché ha una sua importanza dal punto di vista storico: esce infatti poco dopo la riforma del Servizio Sanitario Nazionale, datata 1969, della quale si è appena ricordato il cinquantenario. E' una riforma che è stata in gran parte affossata da leggi più recenti, in primo luogo quella fortemente voluta in Lombardia dall'allora presidente Formigoni e dalla Lega Nord, che ha concesso ampio spazio di manovra ai privati. Quello che è successo negli ultimi due decenni è ben sintetizzato da un titolo recente: «Mancano 56mila medici, 50mila infermieri e sono stati soppressi 758 reparti in 5 anni. Per la ricerca solo lo 0,2 per cento degli investimenti. Così la politica ha dissanguato il sistema sanitario nazionale che ora viene chiamato alla guerra» (L'Espresso, febbraio 2020: la "guerra" è quella al corona virus).

Negli ultimi vent'anni c'è stata una proliferazione straordinaria di centri clinici privati, che di fatto incassano soldi pubblici perché sono stati equiparati alla Sanità pubblica e convenzionati con essa; Formigoni (che nel frattempo è stato condannato in via definitiva a cinque anni di carcere proprio per reati legati alla Sanità) l'ha portata come esempio di libertà, "possiamo scegliere dove curarci". Come conseguenza, gli ospedali e gli ambulatori pubblici sono stati chiusi o ridimensionati, chiusi i "piccoli ospedali", tutta una serie di tagli che ha, di fatto, portato all'intasamento del Pronto Soccorso un po' in ogni parte d'Italia. Per esempio, nel Comune dove vivo (ben servito dai mezzi pubblici) la locale Azienda Sanitaria del Servizio Pubblico è stata praticamente svuotata, resiste ancora ma fa poco più dei prelievi di sangue; quando io ero bambino c'erano nei suoi locali molti ambulatori, oggi anche solo per fare una radiografia o un'ecografia bisogna andare altrove. L'altrove in questione è a pochi chilometri di distanza, in un centro privato, in un altro Comune mal servito dai mezzi pubblici: un evidente non senso, che si spiega solo con una questione puramente - come dire - economica. Del resto, la Lombardia è stata teatro di clamorosi scandali (recenti e recentissimi) nella Sanità: dall'ospedale San Raffaele in giù, la lista di condanne e le indagini in corso sui soldi sperperati (uso un altro eufemismo) vanno a costituire un elenco praticamente senza fine.

"Bisturi la mafia bianca", non è un brutto film, ma neanche un film di Elio Petri come forse voleva essere; la denuncia si ferma un po' prima, direi per colpa degli sceneggiatori. E' interpretato da alcuni grandi attori del cinema italiano di quegli anni: Gabriele Ferzetti è un primario senza scrupoli, ma anche venerato come capace di "miracoli" e benefattore; Enrico Maria Salerno è il suo alter ego, ex collega d'università che affoga le crisi di coscienza nell'alcool. Difficile riparametrarsi a quasi cinquant'anni fa: si parla di una possibile riforma (di sinistra) che statalizzerebbe la Sanità togliendo soldi ai baroni come il protagonista di questo film e ad altri, come il personaggio interpretato da Claudio Gora, titolare di alcune cliniche concorrenti, e questo fa pensare ai cinquant'anni dalla riforma del Servizio Sanitario (1969-2019) e alle controriforme volute soprattutto da Formigoni e iniziate in Lombardia, delle quali il Ferzetti e il Gora di questo film sarebbero stati contentissimi (un sogno!). Così come l'eliminazione dal servizio pubblico di una macchina per il rene artificiale, che disturbava gli introiti della clinica di Gora, che vediamo imballata e pronta per essere trasferita altrove; nel frattempo, dato che questa macchina non è disponibile, vediamo morire un bambino arrivato dal Pronto Soccorso.

Il film è stato scritto da Dino Maiuri e Massimo De Rita; nel cast Senta Berger nel ruolo di una suora e infermiera, con un flirt mancato con Enrico Maria Salerno: oggi vedere una suora è diventato una rarità, anche negli ospedali, ormai le suore si trovano quasi solo in tv, nella fiction. Altri attori: Piera Degli Esposti è la moglie di un malato, Enzo Garinei è un medico, aiuto fidato di Ferzetti; Luciano Salce fa una macchietta inutile, che si poteva eliminare; Tina Lattanzi è la madre di Ferzetti, Vittorio Mezzogiorno ha una piccola parte, un giornalista; riconoscibile anche Antonella Steni. Il regista Luigi Zampa non è tra i migliori del cinema italiano, ha un suo nome conosciuto e una sua professionalità, ma non riesce ad andare fino in fondo nella denuncia e scivola spesso nel fotoromanzo; è responsabile anche di "Il medico della mutua" del 1968, con Alberto Sordi, film dichiaratamente comico. Scrivo queste parole perché ho esperienza di cos'era la Sanità lombarda prima delle riforme di Formigoni: nel maggio 1995 ho trascorso tre settimane nell'Istituto dei Tumori di Milano, da paziente, e posso garantire in prima persona che l'eccellenza lombarda esisteva già da prima che arrivassero i "miglioratori". Luigi Zampa ha buona stampa, ma i suoi film sono spesso superficiali e in questo caso particolare direi che la superficialità danneggia molto il risultato. Le musiche, piuttosto banali, sono di Riz Ortolani. Produttore è Roberto Loyola, pittore e occasionalmente finanziatore di film che finivano subito in terza visione, oggi più che dimenticati.
Questa superficialità di "Bisturi la mafia bianca" dispiace, perché l'argomento era importante e gli attori scritturati sono ottimi; è un film ormai più che dimenticato, anche se all'epoca fece scalpore, e tutto questo dispiace. Insomma, ci sarebbe molto da pensare anche con un film come questo, una volta fatta la tara sulla sceneggiatura e con lo sguardo rivolto a cosa è successo dopo. Le colpe sono anche degli elettori, mai dimenticarselo.
http://giulianocinema.blogspot.com/2020/03/bisturi-la-mafia-bianca.html

Luigi Zampa, uno dei più prolifici autori della commedia all’italiana più autoriale, diresse negli anni Settanta un’ideale trilogia drammatica d’impegno civile e politico: Bisturi la mafia bianca (1973), sulla malasanità; Gente di rispetto (1975), sulla mafia; Il mostro (1977), sul potere della stampa. Il carattere impegnato di questi film non deve essere visto come una svolta in controtendenza da parte di Zampa rispetto alle sue opere precedenti, quanto piuttosto una spontanea e aspra evoluzione dei toni mordenti che avevano caratterizzato la maggior parte della sua cinematografia. Bisturi la mafia bianca è probabilmente il migliore dei tre: il più audace, il più intenso, quello meglio interpretato; scritto dallo stesso Zampa insieme a Massimo De Rita e Arduino Maiuri, è un capolavoro del cinema di denuncia civile, e conserva tutt’oggi una caratteristica di preoccupante attualità.

Il professor Daniele Vallotti (Gabriele Ferzetti), autentico “barone” della medicina, amministra la sua clinica privata come una società per azioni, anteponendo il profitto alla salute dei pazienti, che vengono selezionati in base al reddito e sono semplici numeri sui quali arricchirsi. Coperto da una facciata di altruismo e dall’omertà dei colleghi, trova l’unica opposizione nel dottor Giordani (Enrico Maria Salerno): egli trova il coraggio di denunciarlo, ma il primario, per screditarlo, gli fa sbagliare un’operazione, causando la morte del paziente.

Negli anni Settanta, il tema della malasanità era praticamente nuovo per il cinema: lo aveva trattato in precedenza lo stesso Zampa nella commedia agrodolce Il medico della mutua (1968) con Alberto Sordi. In Bisturi la mafia bianca cambia però completamente registro, dirigendo un apologo coraggioso, drammatico e pregno di crudo realismo sui cosiddetti “baroni” della medicina, di cui il professor Vallotti è un rappresentante. La classe medica viene raffigurata come una “mafia” (o una “casta”) con precise regole e gerarchie, in cui ciò che conta è esclusivamente il guadagno e il prestigio: “essere medico implica l’esercizio del potere”, “il bisturi è come uno scettro” sono le massime che guidano il primario Vallotti e che vengono da lui stesso enunciate senza mezzi termini, in un delirio di onnipotenza, nell’incontro-scontro finale con il suo rivale, il dottor Giordani. Bisturi la mafia bianca è un film dove si fondono continuamente il dramma psicologico (le tragedie dei pazienti che muoiono e lo strazio dei parenti sono davvero forti e toccanti) e l’analisi sociologica: la malasanità, i rapporti fra il potere medico e il potere politico, con accenni alla riforma sanitaria e universitaria, alla statalizzazione delle imprese e persino all’influenza del governo (pensiamo al coraggio che Zampa ha avuto nel trattare questi temi, e alla loro attualità).

Fondamentali risultano le straordinarie interpretazioni di Gabriele Ferzetti ed Enrico Maria Salerno, intensi e sublimi nei rispettivi ruoli: crudele e apparentemente altruista il primo, disilluso e amareggiato il secondo. Il professor Vallotti si reca periodicamente in un ambulatorio pubblico per mostrarsi agli occhi di tutti come un benefattore, ma nella sua clinica privata non risparmia le azioni più abiette pur di guadagnare e mantenere il suo prestigio: seleziona i pazienti da operare in base al loro reddito, tratta l’acquisto di farmaci in base a una logica puramente economica, gioca con le vite dei pazienti e non esita a lasciarli morire se necessario. Per lui essere medico significa esercitare un potere di vita e di morte sugli altri. Come a un potente boss mafioso, tutti gli obbediscono (per omertà o per convenienza), tranne il medico interpretato da Enrico Maria Salerno: pungente, forte e sarcastico ai massimi livelli, delinea un personaggio particolarmente complesso. Schifato dai colleghi e dalla vita in generale, denigrato quasi da tutti per il vizio dell’alcool, trova amicizia solo in una suora (Senta Berger), con la quale si crea un feeling che quasi sboccia in amore. Da notare anche un cameo di Luciano Salce, a sua volta regista e attore d’impegno civile, nel ruolo di un grottesco paziente.

Una falsa diceria voleva che il cinema di Luigi Zampa fosse abbastanza “rozzo”, poco attento allo stile. In realtà, come spiega il critico Alberto Pezzotta, non è affatto così, e Zampa è sempre abile ad equilibrare forma e contenuto, rigore stilistico e narrazione dura e appassionante. Basti citare due sequenze per comprendere la raffinatezza stilistica di questo autore: l’angosciante piano sequenza che inquadra dall’alto le sale operatorie, con l’unico sottofondo sonoro del “bip” delle apparecchiature mediche, e l’ultima sequenza del film. Il professor Vallotti, consapevole di essere affetto dal morbo di Parkinson e di non potersi fidare di nessuno, si aggira inquieto nella sua villa, e i suoi primi piani tormentati sono intervallati, con un abile montaggio alternato, dai ricordi di quanto ha vissuto in precedenza, il tutto accompagnato dalle musiche ossessive reiterate per tutto il film.

La colonna sonora è realizzata da Riz Ortolani, uno dei più grandi maestri italiani della musica per il cinema. Abituato a mescolare sapientemente ritmi serrati con melodie di ampio respiro, non fa eccezione per Bisturi la mafia bianca. Sui titoli di testa sentiamo subito il tema centrale: un ritmo sincopato, con accordi bassi e ripetuti regolarmente in maniera ossessiva (quasi una metafora del battito cardiaco), che si sviluppa poi in una sonorità più corale mantenendo però lo stesso andamento. Un tema musicale piuttosto semplice, ma assolutamente azzeccato: ritornando spesso con tonalità differenti (più alte o più basse), il suo carattere cupo e ossessivo è un perfetto accompagnamento dell’atmosfera che, inevitabilmente, si respira lungo tutto il film.

http://www.lascatoladelleidee.it/bisturi-la-mafia-bianca/

 


viernes, 11 de febrero de 2022

Sicilian Ghost Story - Fabio Grassadonia, Antonio Piazza (2017)

TÍTULO ORIGINAL
Sicilian Ghost Story
AÑO
2017
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
122 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Fabio Grassadonia, Antonio Piazza
GUIÓN
Fabio Grassadonia, Antonio Piazza
FOTOGRAFÍA
Luca Bigazzi
REPARTO
Julia Jedlikowska, Gaetano Fernandez, Corinne Musallari, Andrea Falzone, Federico Finocchiaro, Lorenzo Curcio, Vincenzo Amato
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Francia-Suiza; Cristaldi Pictures, Indigo Film, MACT Productions, JPG Films, Ventura Film, RSI-Radiotelevisione Svizzera, SRG - SSR, RAI Cinema
GÉNERO
Drama. Fantástico

Sinopsis
En un pequeño pueblo siciliano, Giuseppe, un chico de 13 años, desaparece. Luna, una compañera de clase que le quiere, se niega a aceptar su desaparición. Se rebelará contra el silencio y la complicidad que la rodean y descenderá al mundo oscuro que se lo llevó y cuya entrada es un misterioso lago.

Premios
2017: Premios David di Donatello: Mejor guion adaptado. 4 nominaciones

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De una imagen partieron Fabio Grassadonia y Antonio Piazza para realizar Sicilian Ghost Story [+], película encargada de inaugurar los festejos de la Semana de la Crítica del 70° festival de Cannes: la imagen nítida y colorida de un chico perfectamente vestido como jinete que afronta un obstáculo con su magnífico caballo. La imagen dio la vuelta al mundo hace veinte años, cuando aquel chico de 12 años, Giuseppe Di Matteo, hijo de un colaborador de la justicia contra la mafia siciliana, fue secuestrado por los Corleonesi para obligar al padre a retractarse. Tras 779 días de secuestro, el niño acabó siendo estrangulado y arrojado en ácido nítrico.

Sin embargo, lo nuevo de los directores de Salvo [+], la ópera prima que les valió el Gran Premio y el premio revelación de la misma sección en la Croisette en 2013, es una historia de fantasmas, no una película sobre la mafia. La obra se acerca, en efecto, a la profunda ferocidad que puede representar la mafia en la cabeza de un adolescente: el terror puro, insertado en un relato angustioso, lúgubre y claustrofóbico como la más espantosa de las fábulas, poblada de orcos, perros negros, ciénagas y bosques repletos de insidias. Lo “ominoso” freudiano es el término que mejor encierra el concepto: algo no familiar, extraño y nada reconfortante.

Sicilian Ghost Story dispone de todos los elementos de la fábula de terror, de lo que el psicólogo infantil vienés Bruno Bettelheim habría definido como punto de referencia en la vida interior de un niño, historias que hablan con su yo y que animan el desarrollo y la vida relacional con el adulto, mitigando así las presiones inconscientes. A partir de un tema libremente inspirado en el relato Un cavaliere bianco, de Marco Mancassola, el guion desarrollado por los dos directores con el apoyo del Screenwriters Lab del Sundance Institute construye una historia en torno a aquella foto: la historia de una cría de 13 años, Luna (Julia Jedlikowska), que se enamora de un compañero de clase, Giuseppe (Gaetano Fernandez), al que entrega una carta poco antes de que se lo lleven unos tipos que parecen policías pero que acabarán siendo sus verdugos. Las palabras escritas por Luna serán fuente de apoyo para el ánimo martirizado del chico prisionero. En ese pequeño pueblo siciliano, situado en los márgenes del bosque mediterráneo, la incómoda desaparición del hijo de un "arrepentido" aparece engullida por la omertà. Luna, sin embargo, movida por la pasión adolescente, empezará a buscar a su compañero, entrando en el frondoso “bosque narrativo”, por usar una metáfora de Umberto Eco, superando obstáculo tras obstáculo, incluidas la madre suiza (Sabine Timoteo, vista en El país de las maravillas [+]) y una aspereza casi brujeril, apenas mitigada por la mansedumbre del papá (Vincenzo Amato).

Gracias a una dirección refinada y visionaria, que mira cara a cara a Tim Burton, David Lynch y Peter Weir, y a la densidad de la fotografía de Luca Bigazzi, Sicilian Ghost Story resulta ser una película fascinante e impactante, con un ángulo visual inédito sobre la mafia y un lenguaje desenvuelto, en perfecto equilibrio entre la fábula (en su significado más profundo y arcaico de relato fantástico) y la realidad de la Historia. Piazza y Grassadonia son sicilianos, palermitanos concretamente, y nunca como aquí una obra cinematográfica asume un valor tan catártico para unos autores. Todo siciliano se verá asociado a esa palabra llena de matices oscuros: la mafia es la fábula negra de todo siciliano, una represión colectiva. Si Sicilian Ghost Story tiene un defecto, son las excesivas generosidad y exigencia con que los directores se imponen comunicar este estado de ánimo. La acumulación de elementos narrativos y visuales acaban pesando demasiado en los últimos minutos del film: la caleiodoscópica constelación de animales y símbolos (el búho, el perro, el caballo, el halcón peregrino) en esta Sicilia mágica se enriquece de loden rojo a lo Caperucita, mariposas, fantasmas y personajes nuevos que entran en la historia pasada ya la prórroga. Y también de esas maravillosas ruinas de acrópolis griegas sobre el mar, que nos recuerdan dónde nació el pensamiento occidental.
Camillo De Marco
https://cineuropa.org/es/newsdetail/328671/

En Sicilian Ghost Story , la excelente continuación de los codirectores Fabio Grassadonia y Antonio Piazza del ganador del premio de la Semana de la Crítica de 2013, Salvo , el dúo entreteje de manera evocadora la riqueza de los cuentos de hadas con la obscenidad del control de la mafia. Basada en el secuestro en 1993 de Giuseppe Di Matteo, de 12 años, retenido por la mafia durante 779 días con la esperanza de silenciar a su padre informante, la película inventa a un compañero de clase enamorado que se niega a esconder la desaparición de Giuseppe debajo de la alfombra. Su vínculo con el niño secuestrado, manifestado a través de símbolos de cuentos de hadas (un bosque, una cueva, animales, un lago), encaja a la perfección con la realidad, sacando a la superficie la angustia de una vida perdida junto con el hecho vergonzoso de que nosotros, como un la sociedad no nos permitamos ser perseguidos por actos de inhumanidad.Ghost Story  merece un lugar destacado en las pantallas de arte y ensayo internacionales.

Se harán comparaciones con una serie de otras películas que utilizan tropos de los hermanos Grimm, sobre todo El laberinto del fauno  por la forma en que combina los cuentos de hadas con el fascismo español, y, sin embargo, Grassadonia y Piazza se mantienen alejadas de las criaturas míticas o de un lugar mágico que existe junto al nuestro. Su evocación de fábulas infantiles está más basada en el campo real, y gracias a la fluidez de Luca Bigazzi con tomas de ángulo bajo y lentes ligeramente distorsionadas, bien moduladas pero nunca gratuitas, la realización cinematográfica no solo cuenta una historia, sino que nos hace sentir su impacto.

Luna (Julia Jedlikowska) sigue a Giuseppe (Gaetano Fernandez) al bosque después de la escuela, observándolo maravillado con una mariposa en su mano mientras un hurón la olfatea los talones. Si suena precioso en el recuento, no es mágico, claro, pero no empalagoso, y no porque la pareja se vea amenazada por un perro que acaba de estar mordiendo un conejo muerto. Los animales no hablan en Sicilian Ghost Story  pero dan testimonio, como un pequeño búho que reaparece, lo que recuerda la asociación del pájaro con Hades y la descripción de Ovidio como un "triste presagio para la humanidad".

La madre suiza de Luna, Saveria (Sabine Timoteo), sabe que su hija está enamorada de Giuseppe y no está nada contenta, aunque nunca está claro si es porque su padre era un asesino de la mafia o porque se convirtió en un traidor. Saveria tiene el estilo de la madrastra malvada: cabello negro con raya en medio y recogido hacia atrás, su voz suave pero siempre enojada, y cuando le ofrece una manzana a su hija, la comparación es completa (mientras que el nombre Saveria es el equivalente femenino italiano de Xavier , es difícil escapar de la forma en que se parece a "severo" o "severo").

Cuando Giuseppe desaparece, Luna no puede obtener ninguna respuesta. Después de semanas sin saber nada, ella y su mejor amiga Loredana (Corinne Musallari) empapelan la ciudad con volantes que dicen: "Giuseppe ha desaparecido, ¿y qué estás haciendo al respecto?", pero se encuentran con el silencio. Sabemos que ha sido secuestrado por matones de la mafia disfrazados de policías, que lo han llevado a una casa abandonada a medio construir donde lo mantienen encadenado, sus captores esperan que su padre deje de hablar (en los subtítulos se hace referencia al padre como un "superhierba"). , un término de la jerga para "informante" usado en Inglaterra pero en gran parte desconocido en los EE. UU.). El código de silencio en Sicilia es tan fuerte, incluso entre aquellos que no están involucrados con la mafia, que todos hacen la vista gorda excepto Luna, que se niega a abandonar su búsqueda desesperada.

El vínculo entre la pareja tiene una cierta cualidad de Peter Ibbetson  : aunque separados, saben que están pensando el uno en el otro, soñando el uno con el otro, pero ¿dónde buscar y quién los ayudará? El amor de la cúspide de la pubertad entre los dos protagonistas (en la película tienen 13 y 14 años) tiene una urgencia que se afianza, aumentando significativamente el deseo de seguridad. Si bien los paralelos con los cuentos de hadas son los más obvios, los directores también enfatizan los vínculos con el mito de Perséfone, cuya madre, Deméter, vagaba en busca desesperada de su hija secuestrada. No por casualidad, el pueblo donde se rodó la película, Troina, no está lejos del lago Pergusa, donde Hades secuestró a Perséfone y por cuyas aguas llevó su premio al inframundo.

Como era de esperar, las tomas bajo el agua también aparecen a lo largo de la película, junto con el bosque otoñal tardío, con sus inquietantes indicios de Caperucita Roja. La magistral lente de Bigazzi saca a relucir todas estas evocaciones sin fetichizar nada, agregando capas inquietantes a la horrible realidad del secuestro. Nino (Andrea Falzone), uno de los compañeros de Luna que la ayuda brevemente en su búsqueda, comenta que Sicilia fue una vez el patio de recreo de los dioses, y tal vez la isla debería volver a dejarse en manos de los animales. Lo que no está verbalizado, pero está implícito, es que este paraíso está poblado por fantasmas y nosotros, los muertos vivientes, hemos estado demasiado dispuestos a dejar que esos fantasmas desaparezcan.
https://www.sbs.com.au/movies/article/2017/05/20/sicilian-ghost-story-effortlessly-mixes-fairy-tale-gangster-drama

« Ho ucciso io Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento ».
Giovanni Brusca, u verru (il porco), collaboratore di giustizia

Il cinema italiano non è solo commedia (e anche fatta male, lodata e premiata dagli abatini serventi della critica italiana)… c’è anche un cinema d’impegno civile che bussa agli occhi della passività generalizzata e, come nel caso di Sicilian Ghost Story, mostra che gli idolatri dell’infelicità (politici, preti, mafiosi, militari, gente comune) sono anche i depositari o i silenti complici di crimini efferati… come il rapimento e l’assassinio di Giuseppe Di Matteo, un ragazzo ucciso dalla mafia poco prima di compiere 15 anni, dopo 25 mesi di prigionia, 779 giorni di terrore. Correva l’anno 1996.

Giuseppe era il figlio dell’ex-mafioso e collaboratore di giustizia, Santino Di Matteo. Il ragazzo fu prima strangolato e poi disciolto nell’acido nitrico. Gli esecutori materiali del delitto furono Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo, il mandante, Giovanni Brusca. (Per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo circa 100 mafiosi tra cui Leoluca Bagarella, Salvatore Benigno, Salvatore Bommarito, Luigi Giacalone, Francesco Giuliano, Giuseppe Graviano, Salvatore Grigoli, Matteo Messina Denaro, Michele Mercadante, Biagio Montalbano, Gaspare Spatuzza). Tutti macellai di vario taglio… compresi Matteo Messina Denaro, U siccu («il magro»), il latitante tra i più ricercati al mondo, Bernardo Provenzano, «innu u’ Tratturi» (Bernardo il trattore, per la violenza con cui massacrava i nemici) o Salvatore Riina, detto «Totò, La Belva»… questo è il lordume, il putrido, il lezzo… la cloaca è qui come altrove… a Roma ad esempio… nemmeno troppo celata tra i parlamentari di ogni partito e nelle forze armate, senza scordare le trame della chiesa… le connivenze tra politica e mafia sono al fondo della corruzione nella quale affoga un’intera nazione. Il silenzio e l’omertà si pagano con il garantismo, s’intende solo dei potenti.

Naturalmente sulla mafia si fanno film, miniserie televisive, si cerca di far passare che la mafia uccide solo d’estate… perfino un cretino come Roberto Benigni ci ha provato a fare cassetta con Johnny Stecchino (1991)… fatti salvi alcuni film di denuncia sociale come — In nome della legge (1949) di Pietro Germi, Mafioso (1962) di Alberto Lattuada, Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi, A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri, Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, Lucky Luciano (1973) di Elio Petri, Cento giorni a Palermo (1984) di Giuseppe Ferrara, Placido Rizzotto (2000) di Pasquale Scimeca, Segreti di Stato (2003) di Paolo Benvenuti, Alla luce del sole (2005) di Roberto Faenza, In un altro paese (2005) di Marco Turco o La siciliana ribelle (2009) di Marco Armenta —… è davvero difficile vedere film che trattano a fondo le trattative fra Politica e Cosa Nostra… ogni generazione innalza martiri ed eroi ai carnefici che l’ha preceduta e le vittime restano immolate all’altare della patria, della chiesa e dell’ordine costituito.

Anche nel secondo episodio del film Tu ridi (1998) di Paolo e Vittorio Taviani, si allude alla medesima vicenda di Sicilian Ghost Story… tuttavia qui si entra più in profondità nell’assassinio, c’è meno gradevolezza o è meno giocoso il rapporto tra il ragazzo e i carcerieri (come in Tu ridi)… Sicilian Ghost Story, con dolcezza e poesia, è specchio/memoria della degradazione culturale/politica e della coscienza sociale (non solo in Sicilia)… figura la mancanza di valori nelle istituzioni che fuori dalle promesse elettorali sono responsabili con i delitti più raffinati o più grossolani perpetrati ovunque in Italia… basta guardare i probi politici in faccia per distaccarsene e rigettare i loro misfatti… millenni di sofferenze — tali da innaffiare di sangue l’intero paese — hanno impresso gli itinerari dell’odio e disseminato di cadaveri la storia di una nazione… la politica, la chiesa, il sistema economico contano nei loro bilanci più delitti di quanti ne abbiano al loro attivo i criminali più coscienziosi… sempre fedeli alla degenerazione della legalità, a cominciare dalla sputacchiera del parlamento.

Sicilian Ghost Story non è come in molti hanno scritto una favola, fantasy, horror, anche… vero niente… è uno dei pochi film italiani che trattano una tragedia di mafia attraverso la surrealtà del cinema… non ha niente a che vedere con le serie televisive (fabbricate per attentare o educare l’immaginario giovanile ai fatalismi del mercato globale) né ha a che fare con le furbate melliflue di molto cinema del sospetto e dell’utilitarismo… quello, per intenderci, che fa dell’estetismo del sangue o della cronaca manipolata l’inganno continuato contro i sud della terra. Il crimine costituito distrugge la conoscenza, la conoscenza ridestata disvela il crimine e qualche volta lo sconfigge.

Sicilian Ghost Story si dipana su due binari… quello dell’amore tra due ragazzi e i sogni che legano la loro esistenza fuori dalla mafia, dalla famiglia, dallo stato… il fatto accade in un piccolo paese della Sicilia, ai margini di un bosco e di un lago… Giuseppe, un ragazzino di tredici anni scompare. In paese non si ha notizia della sua sorte. Luna è una compagna di classe innamorata di lui e non si rassegna alla sua improvvisa sparizione. Comprende presto che Giuseppe è stato rapito dalla mafia perché il padre — pentito — è considerato un infame dalla gente. Luna si ribella al clima di omertà e complicità del paese e con una amica (Loredana) si tingono i capelli di blu, distribuiscono volantini in piazza e denunciano la scomparsa di Giuseppe… le persone mostrano disinteresse, distacco, insensibilità all’iniziativa delle ragazze… Luna si oppone al silenzio dei propri genitori, a quello della famiglia di Giuseppe e attraverso l’immaginario (l’onirico) cerca di andare oltre il reale… s’immerge nel fantastico e attraverso le acque gelide di un lago riesce a salvare il suo disperato amore. Ma è solo un sogno. Luna cerca anche di morire… non ci riuscirà perché la sua amata civetta avverte l’amica e insieme al padre di Luna la riportano alla vita. Il film si chiude su Luna, Loredana e due ragazzi sdraiati su una splendida spiaggia siciliana… Luna sorride, guarda il nuovo amore, forse… poi lo sguardo si perde là dove finisce il mare e comincia il cielo.

L’architettura filmica di Sicilian Ghost Story è evocativa, certo, tuttavia l’uso un po’ abusato del grand’angolo (anche suggestivo) e l’eccessiva lunghezza (105 minuti), dovuta a riprese ornamentali (non solo nel bosco) che nulla aggiungono al racconto… rischiano davvero di far passare una favola amara in un fantasy televisivo… le inquadrature forti e ricercate o concitate degli autori, però definiscono un’ossatura visionaria di notevole valenza creativa. La camera da presa si muove addosso agli attori con leggerezza e delicatezza… sfiora gli alberi, il lago, le pareti della caverna /garage di Luna con quel senso di mistero che c’è nella bellezza selvatica della natura… e anche se alcune soggettive non sono giustificate o non hanno seguito nel percorso espressivo, lo sguardo pagano dei registi respinge tutto ciò che è stato appreso sulla mafia e riportano il film nell’alveolo della verità. C’è più Swift che i fratelli Grimm in Sicilian Ghost Story… o forse c’è una novella Alice nel paese della mafia che, come diceva Lewis Carroll (non proprio così), è di un’innocenza irreparabile che le permette tutto, anche di ricorrere al disprezzo degli irriconciliati contro l’eterno dolore degli ultimi.

Il cinema, certo, non è tollerabile se non per il grado di verità o di coraggio che vi si mette o che lo nega. Il cinema muore quando non ha più la forza di incrinare i miti sui quali poggia… e quali siano i meriti o i premi che riceve un film, o si prefigura la scomparsa dei pregiudizi (e il crollo degli idoli che si portano dietro) o si è corresponsabili della falsa raffinatezza (non solo cinematografica) che impera in quest’epoca dove lo spettacolo è tutto e la verità nulla! Mai dimenticare che la civiltà dello spettacolo è parte di un sistema mercatale che mortifica ogni libertà e ogni libertà, come ogni religione, è finita quando smette di generare eresie o rivolte.

La graziosa interprete di Luna, Julia Jedlikowska, davvero poco siciliana ma poco importa, tanto è forte la sua presenza androgina sullo schermo… il montgomery rosso, i capelli corti, il corpo acerbo di ragazzina già grande, lo sguardo imbronciato, il sorriso aperto… la incastonano nell’intero film e ci accompagna con grazia e determinazione nell’accidentato percorso che la porta al suo amore, ma solo in sogno! Luna, credo, figura l’innocenza negata che disvela un casellario di errori e orrori… in qualche modo dice che non c’è bisogno di credere a un’istituzione per sostenerla, né di amare un tempo del consenso per giustificarlo… dato che ogni accordo tra crimine e politica è dimostrabile e ogni avvenimento che lo denuncia legittimo.
Gaetano Fernandez (Giuseppe) è il ragazzo assassinato… fa molto meglio il prigioniero che il rampollo di buona famiglia… bravi e molto i genitori di Luna (Vincenzo Amato e Sabine Timoteo). La Timoteo poi è splendida nel ritratto di una madre un po’ nevrotica e alcuni primi piani la rendono davvero drammaticamente bella. Tutti i comprimari hanno volti e corpi di una realtà nuda, di un universo archetipale impoverito, privo di qualificazioni sociali… irrompono nello sprofondare del vero e ciò che li suscita è anche quello che li divora. I ragazzi a scuola, la madre di un alunno che si mette al banco di Giuseppe, il maresciallo dei carabinieri, i carcerieri… sono parte di uno spavento prolungato che si avvicina all’idiozia… solo la voglia di vivere di Loredana (Corinne Musallari) e la volontà di giustizia di Luna rompono una tristezza plebea e una santità da ritardati… la conclusione di una conoscenza (e coscienza) oltraggiata non ammette nessun vestimento o aureola dell’ingiustizia subita… la verità tradita trafigge il cuore di Luna e di tutti gli spettatori, forse… e mette fine alla secolarizzazione delle lacrime.

La fotografia (lavorata sui grigi, marroni, neri intensi) di Luca Bigazzi avvolge il film nel surreale voluto dai registi e contribuisce non poco alla visione corrosiva dell’opera… il bosco, il lago, la caverna/garage dove si nasconde Luna, i luoghi dove tengono prigioniero Giuseppe sono filmati con quel senso dell’assurdo o dell’incanto proprio a chi conosce i segni e i sogni d’infanzie spaventate dove non c’è posto per la speranza né per la santificazione… la scenografia, la musica e il montaggio lirico, aderiscono alla sapiente fattualità filmica e alla disperazione etica che contiene… in questa coralità affabulativa Sicilian Ghost Story si chiama fuori da ogni metafisica della consolazione… si fa portatore della ragione lucida, rigetta l’evidenza e contro il pane della genuflessione e il vino dell’indifferenza lascia il canto d’amore, straziante, meraviglioso, invincibile di una ragazzina contro la cattiveria del mondo che la circonda.

L’imbecillità (non solo nel cinema) regna, perché la soggezione e la stupidità hanno pervaso tutti gli anfratti della vita sociale… corruzione, prostituzione, mediocrità — nella loro insignificanza — si equivalgono… la civiltà consumerista è la piazza dei supplizi, della domesticazione dei nuovi servi della gleba e i criminali delle mafie continuano ad essere gli sgherri dell’oscurantismo politico, religioso, economico dei marcitoi (il bottino delle banche) del possesso. L’ideologia del mercato reprime, la politica dei governi giustifica. Il delirio dello spettacolo continua. Amen e così è!
http://pinobertelli.it/sicilian-ghost-story-2017-di-fabio-grassadonia-e-antonio-piazza/


En la cuna de la mafia, una de fantasmas

Oscura y refinada historia de ribetes fantásticos, tiene como gran tema la pérdida de la inocencia. La película admite reminiscencias del cine de David Lynch y Tim Burton, pero los directores, por momentos, se engolosinan con su tono poético.

Los títulos de películas con nombre propio son una pesadilla para una distribución nacional (y hasta regional) siempre adepta a incluir términos que cumplan la doble función de resultar “atractivos” para el público y dar una idea básica del contenido y el tono del relato. ¿Qué es, por ejemplo, Joy? La historia de superación de una madre soltera que lucha contra viento y marea para hacerse un lugar en medio de una industria machista y misógina. Ok, entonces acá se llama Joy: el nombre del éxito. ¿Y The Post? La recreación a cargo de Steven Spielberg de una investigación periodística en los 70 relacionada con ocultamientos gubernamentales durante la Guerra de Vietnam llegará en febrero con el subtítulo “Los oscuros secretos del Pentágono”, como para que se entienda bien de qué va el asunto. Con la elección de Luna, una fábula siciliana en lugar del Sicilian Ghost Story original, armaron un problema donde no había. Así como estaba era perfecto, fiel a esta oscura y refinada historia de ribetes fantásticos -David Lynch y Tim Burton asoman como referentes ineludibles- con la pérdida de la inocencia como gran tema.

Hablar de Sicilia, al menos en términos cinematográficos, remite invariablemente a la mafia y su amplio linaje de hombres dispuestos a todo con tal de proteger el negocio. Incluso a secuestrar al hijo adolescente de un soplón, aislarlo y torturarlo física y psicológicamente durante dos años para, como cierre, ahorcarlo y descomponer el cadáver en ácido, tal como ocurrió con el joven Giuseppe Di Matteo a mediados de los ‘90, cuando los tentáculos de la Cosa Nostra llegaban a todas las esferas del poder siciliano. Pero los directores Antonio Piazza y Fabio Grassadonia –que presentaron el film en la última edición de Mar del Plata– no toman ese hecho para recrearlo. No hay nada en Sicilian Ghost Story que remita a los recursos habituales del cine basado en hechos reales: como indica el título, es una historia de fantasmas, no sobre la mafia.

Los acontecimientos son el puntapié para un abordaje periférico proveniente del punto de vista de Luna (Julia Jedlikowska), la muchachita enamorada de Giuseppe que no dejará de buscarlo hasta las últimas consecuencias. “Alejate de esa familia”, ordena papá cuando Luna dice a dónde fue, todo ante la atenta mirada de una madre suiza con aspecto de bruja. El de estos chicos es, como el de Romeo y Julieta, un amor contrariado que marcha a contramano del contexto y de las imposiciones familiares rumbo a una tragedia inexorable. La cocina de la mafia permanece en un fuera de campo que el film nunca abandona, funcionando como contexto donde lo real se entremezcla con la fantasía hasta volverse un todo indivisible. Deliberadamente artificiosa en la construcción de sus amplios espacios, con esos bosques que, gran angular mediante, devoran a la pequeña Luna, Sicilian Ghost Story ostenta una seguridad inhabitual para una segunda película. Una virtud a la vez que problema, en tanto Piazza y Grassadonia tienen tanta confianza en su material -y, sobre todo, en la forma lírica y poética de disponerlo en pantalla- que por momentos se engolosinan. Como en esa larga media hora final donde lo fantasmagórico se vuelve bello y la oscuridad muta en luminosidad ante la certeza de un amor para toda la vida.
Ezequiel Boetti
https://www.pagina12.com.ar/82753-en-la-cuna-de-la-mafia-una-de-fantasmas