TITULO ORIGINAL A mosca cieca
AÑO 1966
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 63 min.
DIRECCION Romano Scavolini
GUION Romano Scavolini
MUSICA Vittorio Gelmetti
FOTOGRAFIA Cesare Ferzi, Mario Masini, Roberto Nasso, Romano Scavolini (B&W)
REPARTO Carlo Cecchi, Laura Troschel, Emiliano Tove, Remo Remotti, Giuseppe Valdembrini, Ciro Moglioni, Cleto Ceracchini, Paola Proctor
GENERO Drama | Cine experimental
SINOPSIS Guidato dal Caso, un individuo trova una rivoltella in una macchina in sosta e decide di utilizzarla per colpire - altrettanto aleatoriamente - un'ignara vittima scelta fra la folla in uscita dallo stadio. (Film Scoop)
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Subtítulos (Inglés)
Lo Splattercontainer è lieto di presentarvi un documento più unico che raro: si tratta di un'intervista esclusiva rilasciataci dal leggendario filmmaker Romano Scavolini.
Con più di quarant'anni di carriera cinematografica alle spalle e almeno due capolavori assoluti all'attivo, lo ringraziamo per aver abbandonato il carattere schivo che lo ha sempre contraddistinto ed essersi prestato alle nostre domande.
Buona visione.
Michael Guarneri
SC - In quanto autore di una delle pietre miliari del cinema sperimentale italiano [mi riferisco al film A mosca cieca (1966)], ritiene che lo sperimentalismo cinematografico – pur nella varietà pressoché infinita delle sue manifestazioni particolari – possa essere definito come un tentativo di espressione artistica al di fuori dell'industria dello spettacolo?
RS - Ho pensato spesso a come rispondere a questo tipo di domanda, se – appunto – il cinema sperimentale fosse o no una presa di posizione anti-estetica rispetto al cinema tradizionale.
L’unica risposta che sono riuscito a trovare, cercando “dentro di me” ed evitando risposte che potessero suonare ipocrite e “scritte a posteriori”, è che allora non ne sapevo niente, ma proprio niente del cosiddetto “cinema sperimentale”. Sinceramente e con tutta l’onestà possibile, io ho solo pensato a “costruire” un film secondo le mie pulsioni estetiche, in maniera del tutto naturale, direi quasi, senza seguire una “strada” e senza avere un “sistema” al quale rifarmi.
Capisco che dal punto di vista storico è necessario sistematizzare ogni cosa, aprire e chiudere le parentesi, irretire un certo cinema all’interno di “etichette” affinché sia possibile, appunto, la storicizzazione. Ma io onestamente sono sempre sfuggito a questo tipo di categorie. Posso parlare di quanto ho lavorato sul montaggio, di quante volte ho ri-costruito e poi de-costruito A mosca cieca, di quanti interventi ho pensato di inserire nel film operando direttamente sui frames e, infine, di quante ore sono rimasto davanti al taglio di due fotogrammi perché uno solo era troppo poco e tre erano insopportabilmente troppi. Il cinema “sperimentale” aveva questo tipo di ricchezza, ma anche di libertà totale di fronte alla cosiddetta “realtà”. Il cinema tradizionale ha sempre inseguito ossessivamente “la storia”, lo sperimentalismo cinematografico come primo atto ha “distrutto” la storia per occuparsi solo dell’uomo.
SC - Quale è stata la modalità produttiva di A mosca cieca? Aveva dei finanziatori? Quale è stata la distribuzione del suo esperimento off-studios all'interno del circuito commerciale?
RS - Il film è stato prodotto – se così si può dire – da Enzo Nasso, ma in pratica è stato fatto interamente da me… Nasso mi ha solo dato una montagna di negativo in 16mm, scaduto e di vario taglio, avanzi, emulsioni diverse eccetera, garantendomi che lo avrebbe mandato allo sviluppo e alla stampa, e infine mi mise a disposizione una moviola. Ci ho messo quasi un anno a girare e montare A mosca cieca, mentre lui stava alla finestra a guardare che fine avrei fatto.
Non gli permisi mai di venire in moviola per vedere cosa stavo facendo: in fondo non era il produttore ma solo un “mentore”, un “simpatizzante” che mi dava i pennelli per dipingere.
Infatti, quando gli dissi che avevo finito il film e che durava sei ore, impallidì: era certo che avrei gettato la spugna, che non avrei mai finito il film, e invece, con sua enorme sorpresa, ero pronto a mostrarglielo. Dopo averlo visto con me, turbato, non disse niente per alcuni giorni. Poi una mattina, ancora commosso, venne a trovarmi e mi disse che aveva fatto vedere il film completo al suo amico [Giuseppe] Ungaretti, e che questi gli aveva detto che aveva in mano un autentico capolavoro. Mi disse che lo avrebbe iscritto regolarmente come film italiano al Ministero, ma che dovevo ridurlo almeno della metà, altrimenti non me lo avrebbe trasportato in 35 mm: non era disposto a spendere soldi per un blow up di sei ore…
Ritornai in moviola e de-strutturai il film: siccome era un film che si sviluppava su tre livelli, decisi di toglierne due e restare solo con una storia… Inutile dire che solo pochissime persone hanno visto A mosca cieca in versione integrale, perché quello che circola oggi è la seconda versione della mia “seconda versione”.
Per quanto riguarda la distribuzione, A mosca cieca è un film “proibito” in Italia, censurato e messo al rogo metaforico da tre commissioni di censura e infine anche da un editto del Consiglio di Stato…
SC - A mosca cieca non può essere considerato un film dell'orrore. Tuttavia, grazie a scelte estetiche spiazzanti (“mutismo” del film, inserimento di found footage, ellissi, ripetizioni e proliferazione dei tempi morti), è riuscito a creare un clima allucinato di lenta discesa nella follia che pochi film di genere propriamente horror hanno eguagliato. Nelle sue intenzioni, la ricerca formale doveva andare di pari passo con l'indifferenza nei confronti del pubblico e delle leggi del mercato? C'era un “bacino di utenza” a cui mirava oppure si considerava un avanguardista d'élite?
RS - A mosca cieca è un film beckettiano. In fondo si tratta di un semplice omicidio con la variante – del tutto voluta – che nel protagonista è assente qualsiasi senso di colpa. L’inferno di Carlo o, se vogliamo, la discesa negli inferi della sua anima desertificata, è data dall’assenza totale di ogni senso di colpa.
Il cosiddetto “bacino d’utenza” c'è sempre stato per un film come A mosca cieca, tanto è vero che quel “plot” è ancora saccheggiato in decine di film, l’ultimo dei quali è A single man (2009).
Non mi sono mai considerato un autore d’élite. Neanche un autore, neanche un cineasta, non mi sono mai sentito bene dentro qualsiasi “etichetta”. Ho fatto film spinto da una coscienza esaltante che prendeva (che continua a prendere) il sopravvento sulla mia storia mondana. Questa è anche la ragione per cui non sono mai appartenuto a nessun gruppo, a nessuna scuola, a niente di codificabile, a niente di rintracciabile. In genere, tutti sanno che non partecipo ad alcuna manifestazione per il cinema e anche se conosco molti cineasti, preferisco starmene per conto mio.
SC - Come ci suggeriva un attimo fa, A mosca cieca introduce nel cinema italiano un topos immediatamente fatto proprio da altri suoi colleghi “impegnati” [si veda, ad esempio, il Ferreri di Dillinger è morto (1969)]: l'analisi del rapporto uomo-arma da fuoco come sintomo di psicopatologia della vita quotidiana.
Nel materiale che accompagna l'edizione VHS della Rarovideo, Bruno di Marino traccia un parallelo tra il suo film e Lo straniero di Camus. Personalmente, penso che l'atto di sparare a caso sulla folla sia riconducibile più alla rivolta estetica surrealista (Breton) che a quella etica dell'esistenzialismo. Il gesto di sparare a caso sulla folla che esce dallo stadio può essere considerato un suo atto di ribellione contro l'idea di spettacolo/entertainment tradizionale? Che tipo di malessere voleva esprimere? La metafora, infatti, è tanto potente quanto aperta alle interpretazioni più varie...
RS - Ho già detto molte volte, e anche a Bruno di Marino (il primo a parlare di A mosca cieca come una specie di rifacimento de Lo straniero di Camus) che questa interpretazione è falsa, ma sta dilagando nonostante le mie riserve. Ne Lo straniero, Meursault non uccide per caso – non uccide a occhi bendati come Carlo in A mosca cieca – uccide ben sapendo chi uccidere. Durante il processo Meursault è inviso al giudice, che vorrebbe vedere nell’accusato un sentimento di ravvedimento per l’omicidio commesso: il protagonista camusiano chiede di essere “straniero” all’interno di una macchina burocratica che non sa vedere “la vita”, “l’esistente”. In A mosca cieca, invece, non c’è neanche l’ombra di una storia giudiziaria. Non c’è neanche l’ombra di un’emozione, neppure l’amore tra Carlo e Laura è abbastanza forte da gettare un senso di umanità nel deserto interiore del protagonista. All’epoca la critica militante cattolica disse che A mosca cieca era il film più attuale che fosse mai apparso sulla scena cinematografica, perché il suo protagonista testimoniava in maniera evidente la mancanza di Dio nella società moderna: avevano colto nel segno.
Sinceramente non ho mai pensato che Carlo dovesse rappresentare la mia rabbia o la rabbia latente nella società... non ci ho mai pensato. All’inizio doveva essere un film quasi epico: il protagonista agiva mentre attorno a lui si aprivano squarci di altre esistenze, come per esempio quella della sua vittima. A mosca cieca doveva gravitare attorno a delle “sincronicità” a-casuali, a-temporali, a-spaziali. Le uniche parole che si poteva udire nella colonna sonora originale del film erano: “E' già l’alba” [“Si è fatto giorno” nell'edizione Rarovideo] e “Chi ha voluto ascoltare ascolterà sempre, sia che sappia di non sentire più niente, sia che lo ignori”, tratte da Samuel Beckett.
Lo straniero di Camus non c’entra per niente. Nonostante Bruno di Marino sia un critico molto acuto e intelligente e abbia colto molti aspetti cruciali del film, il nocciolo duro non era Albert Camus. Quando dopo anni gliel’ho detto, Bruno mi ha chiesto come mai non l’avessi fermato. Io ho semplicemente risposto che ognuno si assume la responsabilità di “vedere” i miei film e pensare quello che crede.
Il mio compito non è dire che quell'analisi è giusta oppure no. Io penso onestamente che ogni film, alla fine sia di proprietà dello spettatore.
SC - Il finale di A mosca cieca mi è parso quasi una parodia di quello di Ladri di biciclette (1948). In entrambi, infatti, la casualità e la massa anonima all'uscita dello stadio olimpico giocano un ruolo decisivo. Il collegamento era intenzionale?
RS - Oggi sembra facile poter fare dei parallelismi dal momento che viviamo in una società in cui i DVD si vendono per strada e i classici si possono scaricare da Internet a piacimento, ma all’epoca non c’erano i DVD e Ladri di biciclette era un film che avevo visto quando neppure pensavo al cinema. Niente parallelismi quindi.
SC - Nel 1965 Grifi e Baruchello avevano esordito con La verifica incerta, mentre nel 1968 Mario Schifano realizza Satellite. Esistevano contatti, una sorta di “rete” tra voi sperimentatori underground attivi a Roma (e in Italia in generale)?
RS - Grifi e Baruchello, raccogliendo gli avanzi di pellicola destinati al macero, fecero un’operazione dadaista (cioè anti-cinematografica, anti-estetica) e vennero applauditi dai dadaisti francesi, ma La verifica incerta si può considerare solo una specie di “video arte” dell’epoca perché poi Blob [il programma di Rai3] non ha fatto altro che saccheggiare l’idea moltiplicandola all’infinito. Raccogliere spezzoni di film, soprattutto di scene “proibite”, lo aveva già fatto la distribuzione cinematografica che faceva capo alle sale parrocchiali, e infine Peppuccio Tornatore usò quell’assemblaggio per il bellissimo finale di Nuovo Cinema Paradiso (1988).
Schifano non voleva fare cinema, ma solo cine-arte, come anche Baruchello, che in effetti non è un cineasta ma un artista che agisce nel panorama della pittura e, di tanto in tanto, utilizza il cinema come forma di video-arte. Per quanto riguarda l’esistenza di un “movimento”, io credo – e l’ho sempre pensato – che non sia mai esistito in Italia qualcosa di analogo alla Nouvelle Vague francese. C’è stato un momento in cui il cinema si era messo al servizio della contro-informazione, ma la vera contro-informazione doveva esprimersi attraverso la rottura del “linguaggio” cinematografico.
In effetti, lo sperimentalismo italiano – quel poco che si è fatto nel cinema – è stato poi razionalizzato dall’industria della pubblicità: fine dei giochi!
SC Cosa pensa della modalità di auto-produzione per un cinema sperimentale in digitale di Giulio Questi [Cfr. l'antologia di corti By Giulio Questi (2008)]?
RS - Di Giulio Questi, per mia totale mancanza, conosco poco. Cercherò di rimediare, perché credo che meriti molta più attenzione di quanta ne abbia ricevuta fino ad oggi.
SC - Nel 1972 lei dirige Un bianco vestito per Marialé, film di genere, low budget e audience oriented: passa così da outsider a integrato. Come ha ottenuto la direzione del film? E' intervenuto molto sulla sceneggiatura originale?
RS - All’epoca avevo prodotto un film a mio fratello [Amore e morte nel giardino degli dèi] e mi ero indebitato. Avevo firmato una montagna di cambiali da pagare. Così accettai di farmi trascinare in quell'avventura per pagare i debiti. Presi in mano la sceneggiatura originale e la riscrissi rimettendo le mani su circa l’80%. Come ho detto, ho riscritto più della metà della sceneggiatura, ma non ho voluto firmarla. Ho firmato la direzione degli attori (il cast era già fatto) e la fotografia… e sono stato anche in macchina!
Per dovere di cronaca, ricordo che anche Marialé – come A mosca cieca – andò incontro a vari attacchi da parte del Vaticano e alla fine i distributori lo ritirarono... fu invece venduto bene molto in U.S.A.
SC - Di Marialé trovo straordinaria l'incertezza in cui si rimane riguardo all'identità dell'assassino nel finale (a meno di voler credere alla poco convincente spiegazione fornita da uno dei personaggi e a un killer con il dono dell'ubiquità).
Più in generale – vedendo il film – mi pare che lei sia uno dei registi che più hanno radicalizzato l'attitudine decostruzionista verso i topoi dell'entertainment “di genere”. E' un'eredità del suo periodo “terrorista” da sperimentale? Aveva dei modelli/idoli polemici?
RS - All’epoca, quando mi si chiedeva chi erano i miei punti di riferimento nel cinema, davo una risposta che praticamente spiazzava chiunque la udisse: amavo ed amo solo Kaneto Shindo [Cfr. Onibaba (1964)]! Un cinema puro, in cui lo spettatore è preso nell'infinita rete del “vuoto”. Un cinema pneumatico, in cui lo spettatore respira con le immagini... sentendo il proprio respiro.
Solo chi ama il cinema come lo amo io può essere considerato pericoloso, perché il cinema per me non è una “pausa pranzo”, ma sottoporsi ad un’operazione chirurgica. Il cinema deve fare male: lo spettatore deve essere tenuto sempre sveglio, e lo si può fare solo spiazzandolo. Il cinema è, per sua natura, una forma di intrattenimento che sfrutta uno stato ipnotico (ipnagogico) dello spettatore. Io combatto questo “stato alterato di coscienza” ogni volta che posso farlo, perché lo spettatore è come un cieco che cammina in cerca della luce: quello che vede sono solo ombre, ma lui deve lottare per andare oltre le ombre… oltre la macchina di proiezione, oltre lo schermo, perché il vero schermo è la coscienza dell'individuo.
SC - L'espediente della “soggettiva dell'assassino” non è certo una novità nel giallo all'italiana (L'uccello dalle piume di cristallo, per esempio, è del 1970). Tuttavia in Marialé lei ne fa un uso a dir poco massivo: si tratta, come in Reazione a catena (1971) di Mario Bava, di un modo rapido ed economico per girare una scena, oppure ci sono altre motivazioni che l'hanno spinta ad usarla?
RS - In tutta sincerità, io credo che sia un modo economico per girare una scena, ma se fatta bene produce anche suspense. Il fatto è che Marialé aveva molti personaggi e non potevo inquadrarli tutti escludendo l’assassino, altrimenti lo spettatore se ne sarebbe accorto.
Quindi la “soggettiva” è un espediente per poter manipolare liberamente lo stato d’ansia che prova lo spettatore.
SC - In base alla sua esperienza personale su entrambi i fronti, cosa può dirci di un sistema economico-artistico in cui l'ipertrofia del cinema “di genere” era chiamata a sostenere un numero limitato di prove d'autore difficilmente classificabili come “prodotti spettacolari” (penso, per esempio, alle opere di Antonioni e Pasolini)?
RS - I produttori di Antonioni e Pasolini – ma anche di Rosi e tanti altri maestri del cinema italiano – sono stati sostenuti grazie agli introiti dei film di Totò e, comunque, dal quel cinema di “facile digestione”. Ogni produttore italiano di una certa classe, all’epoca, voleva avere il suo nome abbinato a dei “grandi film”, pur non capendo niente di cinema d’autore. Poi, ovviamente, si sarebbe rifatto delle perdite producendo la commedia all’italiana.
Il primo film di Pasolini, cioè Accattone (1961), doveva essere prodotto da Federico Fellini, che però si ritirò – disse lui – perché non era così sicuro che Pasolini sapesse fare cinema!!! Anni dopo confessò senza ipocrisia questa sua mancanza di “visionarietà”, proprio lui che era considerato il padre dell’iper-realismo. In sostanza, Fellini disse di non sapere niente del cinema, eccetto di quello fatto da lui.
SC - All'inizio degli anni Ottanta lei gira Nightmare in a damaged brain, uno slasher finanziato da un produttore americano. Può dirmi di più sulla produzione? Il progetto era suo o le è stato offerto? Se non ricordo male, lei è accreditato esclusivamente come director. Ha svolto altre mansioni? La produzione è stata soddisfatta del risultato? Ha coperto i costi?
RS - Vivevo negli Stati Uniti già dal 1974. Avevo realizzato Savage hunt [1980] e sono stato sempre considerato dalla critica U.S.A. un regista italo-americano e non un italiano sbarcato a New York in cerca di un produttore americano. Le cose stanno così: avevo scritto un soggetto depositato già nel 1979 alla “Writers Guild of America” di cui sono membro, e sono stato contattato dalla Gold Mine per farne una sceneggiatura e dirigere il film. Il titolo vero è Nightmare, l’aggiunta di quel modesto “in a damaged brain” è opera di un distributore australiano di DVD.
Non sono accreditato solo come director, ma anche per la story, come screenwriter, e infine come produttore associato con Bill Paul, Bill Milling e Simon Nuchtern.
Il film ha incassato oltre 60 milioni di dollari nei primi 12 mesi di distribuzione negli U.S.A. ed è stato in testa alle classifiche in moltissimi paesi. Ancora oggi il DVD uncut è uno dei più venduti online.
SC - In quanto nasty movie, il film deve la sua fama principalmente al body count e agli effetti speciali. Lo ritiene comunque un'opera personale?
RS - Il cosiddetto “body count” è senza dubbio la principale prerogativa del film: prima di me, nessun regista aveva avuto il coraggio di realizzare un film in cui lo spettatore poteva assistere a un’azione violenta direttamente, senza tagli di montaggio, dal primo all'ultimo fotogramma.
Grazie a questa scelta (oppure “per colpa di questa scelta”), il film uscì in 117 sale a New York accompagnato dal rating XXX, cioè film quasi pornografico.
La seconda ragione per cui la ritengo un'opera personale è la struttura del film. C’erano due storie parallele che si muovevano su una unica traccia: la storia di C.J. che terrorizza le sorelle e la madre (ma alla fine il vero orrore arriva da fuori) e la storia di George Tatum che fugge dall’ospedale per ritornare a casa… Il film finisce per far convergere queste due storie solo alla fine, svelando che hanno entrambe origine da un unico trauma infantile.
SC - Quale è stato l'apporto di Tom Savini?
RS - La polemica montata da Tom Savini sul film ha dell'incredibile: morso dall'invidia e per questioni di soldi, ha detto in giro di non aver mai partecipato al film. L’ho dovuto sbugiardare facendo pubblicare le foto in cui è ritratto con l’ascia in mano, mentre insegna al ragazzino come decapitare la madre.
Per il resto, Tom è un ottimo professionista ma la rabbia, la frustrazione per essere stato solo uno dei tanti “special effects makers” lo ha reso cieco… e infine... ridicolo!
SC - I bloodbaths barocchi di Nightmare stridono con la mancanza assoluta di sangue negli assassinii del suo “poliziottesco” (in senso molto lato) Servo suo (1973). Fu una scelta consapevole, in quest'ultimo film, l'eliminazione di dettagli gore e ammiccamenti stilistici?
RS - Servo suo è un film di dieci anni anteriore a Nightmare e non aveva quelle particolari caratteristiche da “bloodbath”. Era una storia che aveva il suo nucleo centrale in una vendetta di mafia e il sangue non c’entrava per nulla.
SC - I suoi film finora citati sono gli unici che sono riuscito a reperire e visionare (insieme a La prova generale [1968], che però esula dal campo di competenza di questo sito). Dove posso trovare gli altri?
RS - Non ho idea. Ho fatto film – mi sembra di aver capito – di cui non avete neppure idea, ma non so come aiutarvi perché mi interesso molto poco al destino delle cose che faccio…
SC - Ha fatto, intende fare o farà altre incursioni nell'horror (in senso ampio)?
RS - Sto finendo di montare la mia trilogia L'apocalisse delle scimmie, che ho iniziato a girare nel lontano 2004. Sono passati 6 anni. Credo che questa trilogia possa rispondere a molte delle sue domande.
Era ora che – dopo tanti anni di inspiegabile oblio – si cominciasse a rivalutare e a sottrarre dalla rimozione il cinema di Romano Scavolini, autore davvero singolare del panorama italiano, a metà strada tra underground e cinema ufficiale, fiction e non-fiction, con alle spalle decine e decine di corti, molti dei quali appaiono oggi di una sconvolgente modernità linguistica (da Alle tua spalle senza rumore a Ecce Homo, da Gli inviati speciali ad Alzate l’architrave carpentieri), spesso basati semplicemente su immagini fisse, siano esse disegni o fotografie, accompagnate da un commento molto incisivo (parlo de La quieta febbre o L.S.D.).
Ma Scavolini è autore anche di svariati lungometraggi, due dei quali – A mosca cieca (1966) e La prova generale (1968) – sono legati a vicende produttive e censoree, ancora tutte da raccontare.
Ispirato a Lo straniero di Camus A mosca cieca – che resta l’opera più significativa di Scavolini – racconta di un uomo (Carlo Cecchi) che trova per caso una pistola dentro una vettura in sosta, se ne impadronisce e finisce con l’usarla altrettanto “casualmente”, uccidendo un uomo che esce dallo stadio la Domenica pomeriggio.
Il film racconta questa lucida attesa, la vita quotidiana dell’uomo, la relazione con una serie di persone (la sua compagna, un amico, il padre...) ma soprattutto il suo rapporto con questo oggetto, così “significante” da spingerlo a commettere un atto estremo per dare un senso non tanto alla propria esistenza, quanto a quella della pistola, che vive appunto di vita propria. Questo gesto radicale, in linea con l’estetica surrealista che istigava a sparare a caso tra la folla, rientra dal punto di vista tematico nel cinema della rivolta precedente o successivo di Bellocchio (I pugni in tasca, 1962), Bertolucci (Partner, 1968), Ferreri (Dillinger è morto, 1969), ma con modalità di rappresentazione ben più rivoluzionarie: la narrazione seppure ancora rintracciabile è continuamente stravolta e sabotata innanzitutto dalla soppressione del dialogo, poi da inversioni nella successione temporale, reiterazioni ossessive di gesti (il furto della pistola, il gettarsi sfinito sul letto), da inserimenti di segni, parole o formule matematiche, in modo da saturare di significanti l’immagine, ridestare continuamente l’attenzione dello spettatore, svelandogli l’artificio della messa in scena ma anche frustrando le sue aspettative: come quando una freccia in sovrimpressione indica la futura vittima.
A mosca cieca di Scavolini è diventato, suo malgrado, un film “maudit”, a causa di interminabili peripezie giudiziarie, conclusesi all’epoca con il sequestro della copia originale, tuttora custodita negli scantinati dell’ex Ministero dello Spettacolo. L’accusa fu quella di “pornografia” per il seno di Laura Troschel fugacemente mostrato. L’autore e il produttore Nasso si rifiutarono di tagliare i fotogrammi incriminati e fecero appello al Consiglio di Stato: il risultato fu che A mosca cieca venne bocciato da ben tre commissioni censoree. Malgrado ciò il film fu presentato a Pesaro nel 1966 e fu apprezzato tra l’altro da Joris Ivens e Jean-Luc Godard, per poi essere visto – sotto altro titolo, per eludere la censura – a Berlino, Carlovy Vary, San Francisco, New York, Mosca, ecc.
Prima ancora dello scottante tema - che preannuncia la futura stagione dell’eversione terroristica - ciò che fece impaurire i censori fu lo scardinamento dei canoni cinematografici, il fatto che non solo l’omicidio rappresentato restava senza motivazione ma la stessa rappresentazione si presentava come “libera” da ogni logica. Al gesto liberatorio del protagonista che finalmente può usare un oggetto costruito per sparare o contro se stesso o contro gli altri, si affianca il gesto liberatorio di Scavolini che può usare per gran parte del film la camera a mano, adottando uno sguardo voyeuristico e “selvaggio” che esprimesse il vuoto esistenziale di quegli anni. Oltre a Camus l’altro riferimento letterario che informa A mosca cieca è a Beckett, di cui alla fine viene riportata la frase: “Chi ha voluto ascoltare ascolterà sempre, sia che sappia di non sentire più niente, sia che lo ignori”.
Anche al successivo film di Romano, La prova generale, toccò l’“onore” della censura, su di esso gravano ancora oggi cinque ipotesi di reato: 1) istigazione alla violenza; 2) oltraggio alla Patria; 3) oltraggio al Milite Ignoto (una sequenza fu infatti girata sull’Altare della Patria); 4) oltraggio alla Religione; 5) Blasfemia.
In La prova generale la riflessione ideologica diventa evidente, concreta e non più rimandabile. Rispetto ad A mosca cieca, questo secondo film appare opposto e complementare: il primo è filmato in 16mm bianco e nero, con una prevalenza di camera a mano, senza copione e senza dialoghi, con un protagonista principale; il secondo è girato in 35mm colore, soprattutto con camera fissa, con una sceneggiatura e una forte predominanza di dialoghi e senza un personaggio principale. Inoltre se A mosca cieca è la storia della tormentata ricerca di un uomo che sfocia nel compimento di un gesto risolutivo, La prova generale - come suggerisce il titolo stesso - racconta di un gruppo di uomini e donne che provano la loro vita e vivono la loro recita, senza poter mai debuttare veramente. Non vedranno mai la loro “prima”, come per il Cecchi di " mosca cieca: per questa ragione si ha l’impressione che ogni sequenza sia una scena-madre, in sé conclusa e in qualche modo determinante per capire il senso di tutto il film. Appaiono perciò illuminanti le parole dette da Margherita Lozano nella sequenza della sala di doppiaggio: “Basta separare un solo elemento se tutti gli elementi sono importanti, perché il mosaico si apra e distrugga l’unità di una parete liscia. Allora i gesti, le parole, i fatti della vita, i sentimenti, tutto ritorna nel suo isolamento: Il tempo, questo elemento che abbiamo scelto come unità della nostra esistenza, mi sfugge ogni volta che credo di averlo fermato, così rientro ogni giorno senza speranza nel mio disordine quotidiano come in un letto vuoto, al buio, sconfitta senza alternative”.
Se A mosca cieca, per la povertà e la voluta primitività dello stile, appare più esplicitamente “sperimentale” se non a tratti underground, La prova generale per la qualità di immagine e per la cura nella costruzione delle sequenze, sembra allontanarsi dall’area della ricerca, se non fosse per la varietà di soluzioni formali decisamente innovative per un lungometraggio del genere: ralenti, salti di montaggio, ripetizioni dell’immagine, confessioni in macchina dei protagonisti, ecc. Inoltre quel po’ di narrazione di A mosca cieca scompare definitivamente ne La prova generale, esplicita “truffa” di Scavolini, simulazione di un tradizionale film a soggetto, fin dai titoli di testa iniziali che scorrono sulla musica di Egisto Macchi e che lasciano allo spettatore l’illusione di assistere a un normale film narrativo.
Il film si presenta come un puzzle polidimensionale che potrebbe essere, invano, smontato e ricomposto dallo spettatore alla ricerca di una sequenza. Anche per questo Scavolini crea continui spiazzamenti tra immagine e parola, come quando mette in scena il dialogo sulla maternità in un villaggio western abbandonato, o quando in generale le espressioni dei personaggi non corrispondono a ciò che dicono. All’interno di una struttura molto complessa e articolata, il discorso politico si intreccia a quello privato, la felicità piccolo-borghese viene contrastata dalle statistiche sulla fame nel mondo, la figura femminile funziona sia da elemento della dinamica di coppia, che da fattore di seduzione, che da vittima della violenza maschile, allo stesso livello del nero che subisce l’intolleranza razziale.
A parte che le sequenze finali di A mosca cieca vengono letteralmente inglobate ne La prova generale e scorrono sullo schermo della sala di doppiaggio, del film precedente ritornano molte altre situazioni - ma, se possibile, più raffreddate -, come l’immobilità dei sentimenti rappresentata dal corpo a corpo di una coppia, abbracciata contro il fondo bianco di una parete. Lo stesso Cecchi reinterpreta più o meno lo stesso personaggio con la pistola, anche se il rapporto con questo oggetto e con la sua funzione viene trattato in modo più tecnico, mostrando le immagini di un poligono di tiro con, in voice over, dettagliate informazioni di carattere balistico. E’ semmai il personaggio di Castel - suicida che gioca con la pistola per colmare il vuoto che precede la sua morte o per sublimarla in performance - a essere più prossimo al protgonista di A mosca cieca. La poetica surrealista dell’oggetto ne La prova generale diventa insomma astratta teoria. Gli stessi colpi di pistola vengono associati ai colpi di stecca del biliardo, si trasformano cioè in metafore, ipotesi di fatti e non gesti realizzati. Nell’immagine della partita di biliardo che ritorna in tutto il film, possiamo leggere un’allusione alla continua aggregazione e disgregazione dei personaggi, come tante bocce che si riuniscono, si confrontano, per poi disperdersi nel vuoto delle loro esistenze e delle domande senza risposta. Persiste ancora ne La prova generale la sospensione beckettiana di A mosca cieca, lì orchestrata attraverso il silenzio, qui materializzata mediante la parola se non addirittura l’affabulazione. Parola che diventa menzogna, a ricordarci per l’ennesima volta che il cinema è finzione: in questo senso è significativa la sequenza del finto cieco che intrattiene con il suo doloroso show di ricordi sul fronte russo, una serie di avventori al bar, suscitando il loro riso o la loro indifferenza. Allo stesso modo il suicidio di Castel - che resta “fuori campo” -, nello stesso momento che ci viene raccontato è anche travisato, caricato - grazie alle parole - di significati politici.
Un personaggio del film si domanda a un tratto: “che cosa aspettiamo a debuttare. Sono 10.000 anni che facciamo la stessa prova generale, continuamente interrotta soltanto perché qualcuno di noi muore”. La prova generale è quella della rivoluzione imminente, una rivoluzione scritta sui muri ma non ancora consumata dai personaggi del film; prova che richiama incessantemente lo spazio della rappresentazione: da quella arcaica, teatrale e stilizzata della via crucis ridotta a una serie di tableaux vivants sulla spiaggia, a quella realistica in stile “cinema-verità” con l’attore per strada nei panni di un barbone che permette alla macchina da presa di “rubare” le reazioni autentiche dei passanti.
Ancora un beckettiano “finale di partita”: la gara di biliardo è terminata, esattamente come in A mosca cieca termina l’incontro di calcio. Il capannello di amici si scioglie per l’ennesima volta. La prova generale è conclusa. Ma - come nel film precedente - si ha l’impressione che tutto possa ricominciare da un momento all’altro.
Romano Scavolini
Nato a Fiume il 18 giugno 1940, nel 1958 si trasferisce in Germania dove lavorerà come scaricatore di porto. Qui tra l’altro realizza insieme al fotografo Arthur Kidalla, un lungometraggio in l6mm mai sonorizzato. Ritornato in Italia, inizia la sua carriera di filmmaker, girando una lunghissima serie di cortometraggi tra il documentaristico e lo sperimentale, molti dei quali - a cominciare dal primo - La quieta febbre - ottengono una serie di riconoscimenti. Nel 1966 realizza il suo vero primo lungometraggio, A mosca cieca che, pur proi-bito dalla censura, viene presentato in diversi festival sia in Italia che all’estero. Le cronache del cinema indipendente italiano sono caratterizzate dalla singolarità dei cortometraggi e poi dei lungometraggi di Romanoi Scavolini, da A mosca cieca (1966) e La Prova Generale (1968). La peculiarità di questi films risiede nel fatto che, pur trattandosi di opere girate in 35mm, con una troupe regolare (vi lavorano operatori come Blasco Giurato, Giulio Albonico, Mario Masini e lo stesso Scavolini), basate quindi su un’accurata qualità dell’immagine e con un’impostazione totalmente diversa rispetto alle pratiche “povere” e solitarie dei filmmaker underground, sono film che hanno una fortissima componente avanguardistica (mancanza di una storia. azzeramento del dialogo, ricerca linguistica, utilizzo costante di musica elettronica e concreta, ecc.) La “scoperta” di queste opere, che all’epoca non riuscirono a essere regolarmente distribuite, spiazza totalmente lo studioso e lo costringe a ripensare il concetto classico di sperimentazione filmica.
Della vastissima produzione di documentari e cortometraggi - realizzata da Scavolini tra il 1964 e il 1969 circa, poco visti se non in qualche festival, ma quasi mai usciti in sala - tra i più significativi e “sperimentali”, ricordiamo: Alle tue spalle senza rumore (1964), 1962, 12’, 35mm, col., son.. Re.: Vittorio Armentano - prod.: Enzo Nasso - fot.: Enzo De Mitri - mo.: Renato May - mu.: Egisto Macchi
Il film rappresenta da un punto di vista fenomenologico l’esecuzione di un pignoramento in un quartiere popolare di Roma. Basandosi solo su elementi figurativi e formali senza alcun commento parlato.
Un muro con le mani al tuo passaggio (1965), Alzate l’architrave carpentieri! (1967), Gli inviati speciali (1967) e L.S.D. (1970). In tutti questi lavori circolano una serie di temi e ossessioni, che confluiranno in maniera più organica nei lungometraggi. Per esempio il ricordo doloroso della guerra, trasposto in un rituale solitario di violenza: il ragazzino di Alle tue spalle... che gioca in un condominio deserto eccetera. Due anni dopo gira il suo secondo lungometraggio anche questo caratterizzato da una ancor più accentuata ricerca di sabotare il linguaggio del cinema tradizionale: La prova generale. Se in A mosca cieca il clima politico rimane sottotraccia, o meglio affiora e si manifesta attraverso sfumature, umori e suggestioni, in La prova generale la riflessione ideologica emerge con evidenza. I due film sono opposti e complementari: il primo, filmato in l6mm bianco e nero, con una prevalenza di camera a mano, senza copione e senza dialoghi, con un protagonista principale; il secondo, girato in 35mm colore, perlopiù con camera fissa, con una sceneggiatura e una forte predominanza di dialoghi e senza un personaggio principale (nel cast, oltre a Carlo Cecchi e Joseph Valdam-brini, figurano Lou Castel, Alessandro Haber, Frank Wolf, Maria Monti, Anik Mourisse). Inoltre se A mosca cieca è la storia di un uomo e della sua tormentata ricerca che sfocia nel compimento di un gesto risolutivo, La prova generale - come suggerisce il titolo stesso - racconta di un gruppo di uomini e donne che provano la loro vita e vivono la loro recita, senza poter mai debuttare veramente. Non vedranno mai la loro “prima” come per il protagonista di A mosca cieca, per questa ragione si ha l’impressione che ogni sequenza sia una scena-madre, in sé conclusa e in qualche modo determinante per capire il significato di tutto il film. Segue poi un altro singolare progetto, Entonce, che resterà incompiuto e il cui girato andrà perduto, anni dopo, durante un’alluvione.
Nel 1970 Scavolini parte per il Vietnam come fotografo di guerra freelance. Al suo ritorno fonda una casa di produzione (Lido cinematografica) e si dedica al cinema di consumo con una serie di lungometraggi tra cui Servo Suo e Cuore. Dal ‘72 al ‘74 viaggia tra l’America Centrale e l’America Latina, lavorando come giornalista, sceneggiatore e produttore. Nel ‘76 decide di trasferirsi negli Usa, insegnando alla New York University of Visual Arts e tenendo stage anche alla Columbia. Nel 1981 dirige l’horror Nightmare, che diventa uno dei campioni d’incasso della stagione e darà il via alla serie Nightmare diretta da Craven. Dopo aver realizzato nel 1990 Dogtags, ispirato all’esperienza del Vietnam, Scavolini ritorna a Roma, dove risiede attualmente.
Bruno di Marino