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REPARTO Enrico Maria Salerno, Sandra Milo, Jean Sorel, Daniela Bianchi, Trini Alonso, José Calvo, Helga Line, Ana Castor
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-España; Ultra Film / Sicilia Cinematografica / Les Films du siècle / Altura Films
GENERO Comedia
SINOPSIS El ingeniero Enrico Marnetti va a pasar el fin de semana con su mujer, que está veraneando en la playa. Su aparición en la colonia de vacaciones desvela la red de relaciones, hipocresías y mentiras que la componen, de las que la pareja no se puede librar. (FILMAFFINITY)
"L'ombrellone" è il titolo di un film che venne programmato, preparato e girato sulla spiaggia di Riccione e, in particolare, all'hotel Baltic che si trasformò per qualche tempo in un autentico set cinematografico.
Il film era una co-produzione tra Italia, Francia e Spagna. Fu diretto dal regista Dino Risi, maestro riconosciuto della "commedia all'italiana" in voga negli anni sessanta del "boom". Fu preparato nel 1964 e uscì nelle sale cinematografiche nel 1965.
Gli attori principali sono Enrico Maria Salerno, Sandra Milo, il francese Jean Sorel, Daniela Bianchi, Lelio Luttazzi. Soggetto e sceneggiatura sono dello stesso regista Dino Risi e di Enrico De Concini. Il tempo "reale" dell'azione filmata e delle storie che si intrecciano nella Riccione buona per ogni tentazione, è di un week-end. Fu giudicato "crepuscolare" di un'epoca spesso artificiosamente dorata.
Per l'hotel Baltic
Enzo Balboni (giornalista)
L'Hotel Baltic
Moltissime scene del film furono girate all'Hotel Baltic. E' lì che sono in vacanza Enrico Maria Salerno e Sandra Milo. Ed è di fronte all'hotel che si svolge la vita da spiaggia della coppia e degli amici. Una scena è girata completamente in una delle camere del Baltic, allora come oggi, tutte affacciate sul mare.
La canzone
Oltre alla canzone "Chi siete" cantata da Mina nei titoli di testa, nella colonna sonora del film "l'ombrellone" trova posto uno dei più grandi successi di Jimmy Fontana "Il mondo", testo di Gianni Boncompagni, musica Jimmy Fontana e Carlo Pes, arrangiamento di Ennio Morricone. La canzone venne lanciata proprio nel 1965, anno del film, durante la manifestazione "Un disco per l'estate" e poi ripresa da tantissimi artisti internazionali.
La trama
L'ingegner Enrico Marletti (Enrico Maria Salerno), che odia il mare e la confusione, lascia una Roma ormai vuota per raggiungere sua moglie Giuliana (Sandra Milo), da settimane in vacanza all'Hotel Baltic di Riccione, per passare il Ferragosto insieme a lei.
Qui, nel tipico marasma vacanziero della riviera romagnola degli anni '60, conoscerà una serie di personaggi coloriti: un'insopportabile pettegola di Varese, il marito dominato e umilito anche in pubblico; sua figlia, una ragazzina che lo tormenterà varie volte; un siciliano che ci prova con tutte le ragazze; un viscido conte che vende antiquariato; Pasqualino, un tipo sempre in vena di scherzi; una giovane signora che tradisce spesso il marito; il professor Ferri, un tizio che ha ben poco del professore e Sergio, un simpatico gigolò romagnolo che mira a tutte le donne sposate.
Per Marletti, come si può ben immaginare, si preannuncia una vacanza tutt'altro che riposante e non solo per il fatto che nei tre giorni a Riccione non riuscirà a chiudere occhio.
La commedia, simpatica e intercalata da brani musicali in voga nella metà degli anni '60, inquadra in maniera perfetta l'Italia vacanziera nel pieno del boom economico, fornendo uno spaccato sociologico della nuova borghesia, non raramente cafona e superficiale.
"Interesantísima y sarcástica crítica a la sociedad burguesa del momento. Aunque no sea una de las películas más importantes de Risi, encierra indudables elementos de interés. Buena"
Fernando Morales: Diario El País
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Un marito ingegnere (Salerno) lascia la quieta Roma d'agosto per raggiungere la moglie (Milo) nel bailamme balneare di Riccione per un weekend tra divertimenti coatti, spontanei sbadigli, tentazioni, corteggiatori della consorte o professionali (Sorel) o interessati (Luttazzi). Lo sfondo _ Roma deserta, il caos del traffico e delle spiagge, le canzoni di successo, i rumori della chiassosa colonna sonora _ predomina in questa commedia, scritta da Ennio De Concini con Risi, che con critica cattiveria segna il tramonto di un'epoca (il boom è finito) e il trionfo della volgarità anche se oscilla tra la volontà di graffiare e la tentazione di piangersi addosso. Se il personaggio di Salerno è spiegato soltanto a metà, la Milo dà della moglie, attraverso il comportamento, un'interpretazione pari a quella di La visita. Eastmancolor di A. Nannuzzi. Musiche di L. Luttazzi.
Il Morandini
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Film emblema di tutto uno stile, un modo di vedere la realtà quotidiana italiana. La commedia italiana difficilmente è cinema di denuncia: non si mette sotto accusa un sistema, non si analizzano le radici dei problemi, non si va a fondo nella ricerca dei motivi dei vari comportamenti, usando strumenti propri di indagine come la descrizione semi-documentaristica, il rigore filologico e sociologico, la ricerca scientifica. La commedia all’italiana, e quella di Risi in particolare, nei migliori casi, riesce con tratti sapienti e spesso geniali, a fotografare una Nazione, a mostrarne vizi, manie, debolezze con tocchi leggeri usando lo strumento del cinismo, dell’ironia e della comicità. Nei casi meno riusciti, mancando l’ispirazione, la comicità scade a farsa e a stanca rappresentazione di realtà fittizie infarcita di luoghi comuni e volgarità. Nel film in questione, ci troviamo di fronte a un’opera riuscita in parte, ma interessante per il modo in cui si affrontano i soliti vizi e difetti della società italiana negli anni del “boom” (metà anni ’60). Come scenario, viene scelta una località balneare adriatica d’estate. La spiaggia è un po’ il concentrato o il crogiolo dei vari comportamenti degli italiani in vacanza. Vengono perciò create diverse tipologie che riassumono, grosso modo, l’atteggiamento dell’italiano medio : il buontempone, il play boy, l’intellettuale fasullo, la pettegola insopportabile col marito ormai vittima rassegnata, la moglie che ama essere corteggiata e il marito geloso. Il tutto condito da una miscellanea delle canzonette più in voga in quel periodo. E’ il classico film estivo senza particolari pretese. Il punto è che un film “disimpegnato” di Dino Risi di metà anni ’60 non è un prodotto usa e getta come certi film-panettoni o balneari attuali. C’è una dignità e un rispetto per il mestiere di regista che finiscono per dare spessore artistico anche ai film meno impegnati. Ad esempio, la figura del protagonista, l’ingegner Marletti (interpretato da un buon Enrico Maria Salerno) non è ascrivibile al gusto macchiettistico e superficiale, riservato invece agli altri personaggi. Marletti è un uomo serio, colto ed innamorato della moglie: non possiede insomma le caratteristiche dell’italiano medio bersaglio dei lazzi e delle beffe di tanto cinema italiano. Ama divertirsi ma non mescolarsi né partecipare ai vacui riti balneari, ai pettegolezzi, agli scherzi stupidi. E’ geloso della moglie ma non si comporta in modo ridicolo. Intende verificare la fedeltà della propria moglie, ma lo fa con intelligenza e con tatto. In un microcosmo essenzialmente frivolo come quello della spiaggia affollata adriatica, Marletti è l’eccezione (non fa parte del gruppo, se non episodicamente). Viene quindi da chiedersi la ragione d’esistere nel film di questo personaggio. La ragione sta forse nel richiamo che gli sceneggiatori e il regista fanno alla dignità artistica. La società italiana non è solo spiaggia, ombrelloni, mare, sole, canzonette, piadine e amorazzi svelti quanto sterili. “Vi sto dando un film per farvi divertire-sembra dire Risi- ma l’Italia non è solo questa. Ci sono persone serie che lavorano in modo serio, si sposano, amano i figli e continuano ad amare le mogli”.
L’Italia del “boom” non è solo frutto di una fortunata coincidenza di circostanze favorevoli, ma c’è alla base una società che lavora e sacrifica. Verranno poi gli anni dello “sboom”, delle tangenti, della corruzione, dell’edonismo sfrenato e totalmente disimpegnato, intervallati da quelli di piombo. Tutto materiale adatto per un’efficace satira di costume alla Dino Risi appunto. Ma questa è un’altra storia.
E' arrivata la stagione delle ferie, dell'aria aperta, ma anche dei film ad ambientazione marittima (che solitamente vengono sì girati d'estate, ma poi visti d'inverno).
Oggi ho scelto L'ombrellone, un film di Dino Risi del 1965, film di sapore vacanziero, ma al tempo stesso contrario a quella spensieratezza tipica delle aspettative dell'estate. L'ombrellone è un film noioso (da me positivamente inteso), lezioso e anche un po' critico nel costume, dove in fin dei conti emerge la depressione e la tristezza dell'uomo in vacanza, un professionista ingegnere (interpretato dal bravo Enrico Maria Salerno) che vive un week end a Riccione, travolto dal "banale" e dalla noia. Lode a Dino Risi che ha saputo riprodurre con le immagini il senso di distacco e di spaesamento dell'ingegnere, il suo goffo tentativo di sentirsi come gli altri, mentre la moglie fa gli occhi dolci ai bellimbusti della riviera (tra cui uno smagliante Lelio Luttazzi, al quale lo sceneggiatore De Concini assegna la provocatoria battuta "vado a lavorare". E chi conosce la filosofia di Luttazzi non può immediatamente non pensare a una provocazione) e Jean Sorel.
Il week end romagnolo sarà per Salerno un modo per riscoprire se stesso,per fare un bilancio, per uscire cambiato, dopo aver appurato il tradimento della mogliettina civettuola (Sandra Milo).
Risi riesce, forse memore del clima post-boom, a sintetizzare uno slogan mai detto: "Riccione=depressione". Ed è proprio questa malinconia esistenzialista che riscatta il film dalla banale commedia balneare, col risultato negativo però di non essere riuscito a delinearsi con chiarezza nei propri intenti. Nonostante però alcuni "vuoti" o sacche di uggia, L'ombrellone è un film amaramente sincero e diretto. Indimenticabile la scena di Salerno che si lamenta della scarsa varietà di pietanze dell'albergo, rimproverando al camerierino romagnolo di essere in "piena giornata di recupero", visto il propinarsi di polpettoni e zucchine ripiene.
Altrettanto indimenticabile è l'inizio del film, che ci ricorda cosa sia veramente Riccione il mese di agosto.
E notoriamente, anche Roberto Vecchioni in Livingstone, cantava in tono rassegnato: Lo so, può succedere a tutti...Di passare un'estate a Riccione.
Continuità: [N°48308] A inizio film, il protagonista (un Enrico Maria Salerno in straordinaria forma) si trova imbottigliato nel traffico della riviera romagnola. Quando il vigile lo redarguisce, in perfetta continuita' al cambio di inquadratura Salerno completa il movimento che aveva iniziato nello shot precedente, ovvero drizzarsi in piedi tenendosi al parabrezza della sua decappottabile. Peccato pero' che la comparsa al posto di guida della macchina visibile nella parte bassa dello schermo sia invece in una posa diversa: nella seconda inquadratura ha il braccio fuori dal finestrino, cosa non vera nella ripresa precedente.
ARGUMENTO "IL COMMISSARIO DI TORINO" de Marcato y Novelli
GUION Mino Roli, Nico Ducci
REPARTO Raffaele Curi, Françoise Fabian, Francesco Ferracini, Gipo Farassino, Monica Monet, Paola Quattrini, Luciano Salce, Tino Scotti, Bruno Zanin, Enrico Maria Salerno
FOTOGRAFIA Aldo Giordani
MONTAJE Antonio Siciliano
MUSICA Carlo Rustichelli
PRODUCCION GORIZ
GENERO Drama
SINOPSIS Il capo della Squadra Mobile di Torino è un uomo buono e comprensivo. I suoi superiori però lo trasferiscono quando egli scopre un losco giro di droga e prostituzione in cui è coinvolta la Torino bene. Anche un giornalista, suo amico e collaboratore, viene messo a tacere. Ma i due non si danno per vinti.
Michele Parrino, capo della Mobile di Torino; è un funzionario coscienzioso che dà lezioni di democrazia ai giornalisti, tratta fraternamente i dipendenti, non si intimidisce di fronte al pericolo, lascia correre i piccoli delitti (frutto di ingiustizie sociali), si interessa umanamente ai problemi di tutti coloro con i quali la professione lo mette improvvisamente in contatto. Incoraggiato dalla fidanzata Anna, seguito dall'ombra fedele dell'anziano giornalista Paolo Ferrero, il commissario siculo-torinese dall'assassinio della sedicenne studentessa, Aliprandi Grazia e dalla fuga di Giorgio Cournier, risale ad un grosso giro di droga, di corruzione varia e di prostituzione d'alto bordo. Quando il caso giunge alla documentazione esplosiva per gran parte, della Torino-bene, il Parrino viene trasferito e il Ferrero messo a tacere. I due si vendicano passando ai pezzi grossi la documentazione mentre si intrattengono nel lussuoso "foyer" del Regio in festa per la prima stagionale.
Assistente operatore: Aldo Bergamini; fotografo di scena: Enzo Falessi; direttore d’orchestra: Gianfranco Plenizio; assistente al montaggio: Lina Caterini; parrucchiera: Marcella Favella; altri interpreti: Maria Grazia Bosco, Pio Buscaglione, Anna Campori, Gianni Cagnazzo, Antonio Cardullo, Attilio Dottesio, Vttorio Duse, Dino Emanuelli, Antonino Faa Di Bruno, Eligio Irato, Carla Mancini, Paolo Percaus, Bob Marchese, Cinzia Romanazzi, Angelo Sacco, Orazio Stracuzzi, Gino Sovilla, Giuseppe Tammaro.
Gran parte delle locations torinesi sono nella zona del Lungodora e a Porta Palazzo, dove agisce anche un giovane poliziotto dal forte accento meridionale che è interpretato dallo chansonnier piemontese (e futuro deputato leghista) Gipo Farassino.
Diego Novelli, coautore del romanzo a cui il film si ispira, pochi anni dopo divenne sindaco di Torino.
«Nel 1973 Riccardo Marcato e Piero Novelli avevano riproposto, col Commissario di Torino, lo stesso sfondo del romanzo di Fruttero e Lucentini [La donna della domenica], ma con minore abilità e fortuna. La versione cinematografica – Un uomo, una città – precede quella del best-seller mondadoriano: la dirige lo sperimentato Romolo Guerrieri e la interpretano Enrico Maria Salerno, Françoise Fabian, Paola Quattrini, Luciano Salce e Gipo Farassino. Ma il suo destino è quello di rimanere relegata nei circuiti minori» (C. Bragaglia, Il piacere del racconto, La Nuova Italia, Firenze, 1993).
«Anche Leonardo sbagliò la pasta di un affresco […], figuriamoci Romolo Guerrieri, onesto artigiano, alle prese con un tema tanto impegnativo come quello di una realtà sociale ed economica ribollente, la Torino dei nostri anni. Così se viene bene, sullo schermo, la figura del commissario, affidata ad un sobrio Enrico Maria Salerno, la città, sussultante sotto la violenza che le nasce nel ventre, non esiste. E l’affresco finisce per somigliare, anche nel colore, alle tavole di un Beltrame, passato al Grand Guignol. […] C’è anche un torinese, Gipo Frassino, nei panni di un maresciallo meridionale. Mah !» (C.R., “Il Giorno”, 19.9.1974).
«Perché il film è ambientato ai piedi della Mole e parla con la cadenza di Gianduia e molti “neh”, attenti alle comparse: è facile che vi riconosciate qualcuno. […] Siamo in un luogo astrattamente cinematografico, dove gli spaccati della delinquenza e i problemi della polizia tradiscono il cliché. Derivato alla libera dal Commissario di Torino di Marcato e Novelli, il film narra la stanchezza, la nausea e infine la rinuncia all’ufficio del dottor Michele, capo della “Mobile” […]. Dentro i suoi ristretti confini, questo film sulla “Torino bollente” che non riusciamo a sentire sotto i piedi, potrà essere un po’ balordo, ma non è mogio, non annoia. Provvedono alla bisogna battute tra pepate e scurrili, molte macchiette tra le quali il “giornalista scettico” di Salce e quella di Tino Scotti, un operaio in pensione che per avere troppo tempo lavorato alla catena di montaggio è tutto del Padrone e s’illude di vederne l’elicottero come Eliseo il carro d’Elia, risvolti gialli in tensione e altri pregi commerciali. Infine la Fabian e la Quattrini irradiano di loro presenza il parrucchino d’un corrucciato, spesso astratto ma sempre dignitoso Salerno» (L. Pestelli, “La Stampa”, 1.11.1974).
«Un uomo, una città, girato a Torino nel 1975, è uno strano ma riuscito esempio di connubio tra il genere poliziottesco che all'epoca godeva di grande successo e i toni della commedia all'italiana. Lo dirige Romolo Guerrieri, gli interpreti principali sono Enrico Maria Salerno (con un parrucchino che non gli dona per niente) e Luciano Salce nel ruolo di un giornalista d'assalto (la redazione che hanno utilizzato è visibilmente quella storica della Gazzetta del Popolo in corso Valdocco). Tra gli altri interpreti vanno citati Françoise Fabian (la signora Cournier, esponente della Torino bene che possiede un negozio in Galleria Subalpina e abita sopra il ristorante Al Cambio) e Gipo Farassino nel ruolo del maresciallo Polito (doppiato in napoletano, un poliziotto meridionale pensoso e volenteroso). Alcuni angoli di Torino sono visibili in tutta la loro bellezza (ad esempio il Borgo Medievale, descritto dal protagonista come “bello e falso, proprio come una certa buona società torinese”), altri sono ricostruiti in luoghi diversi. Ad esempio, nonostante un cartello indichi che siamo in via Grattoni, la Questura di Torino non è quella vera bensì l'ingresso del Conservatorio in Piazza Bodoni. Altri ancora sono completamente cambiati. Il protagonista pedina un sospetto fino ai Murazzi, oggi luogo di movida. Lì invece sono deserti, con un solo locale: un raffinato club gay, in realtà mai esistito. Oppure quando uno dei sospetti dichiara come alibi di essere stato al cinema Astra» (S. Della Casa, “La Stampa-TorinoSette”, 25.6.2010).
Romolo Guerrieri è un regista romano, non un grande regista e in questo film si nota bene. Ma questo è un film speciale perché fu girato nel 1974 in una Torino che non c’è più. Come non ci sono più i miei vent’anni: per sottolineare una sconfortante (ma neanche tanto) banalità. Il film ha qualche buon momento, ma risulta slegato, sfilacciato; con caratteri grossolani, a volte improbabili e alcune sparate di moralismo di bassa lega. Però c’è una Torino più che verosimile, direi proprio vera. Le musiche sono eccellenti (Carlo Rustichelli), gli attori così, così. Il protagonista, commissario, è il bravo Enrico Maria Salerno, fuori ruolo, accompagnato da uno stralunato Bruno Salce che interpreta il giornalista disincantato.
Bellissima e discreta interprete Francoise Fabian, mentre Paola Quattrini è davvero poca cosa. Ci sono anche Tino Scotti e Bruno Zanin (il Titta di Amarcord), ma il più incredibile è un Gipo Farassino che interpreta un poliziotto napoletano!
Il film ruota attorno a storie di sesso e droga di ragazzi bene dell’alta borghesia torinese e bisogna dire che la trovata finale non è male. Ci sono, è il 1974, alcune scene che parlano di un clima che va facendosi pesante in città e anticipano quelli che a breve saranno gli anni di piombo. Ma ci sono posti, locali, strade e atmosfere che sono scomparse. Tra questi, non posso non ricordare il Club 71, sala da ballo in riva al Po, ai Murazzi, 20 anni prima che l’amico Giancarlo Cara li inventasse: i Murazzi. Era una sala da ballo in cui suonavano dei gruppi musicali che si alternavano a momenti di discoteca.
Esattamente quarant’anni fa, al Club 71 m’innamorai perdutamente di una Germana sedicenne, bellissima che mi lasciò distrutto pochi mesi dopo. Ricordo che in quegli anni noi si ballava su pezzi dei Led Zeppelin, dei Vanilla Fudge, degli Iron Butterfly, dei Ten Years After…..
Il film dura un centinaio di minuti, e in tutta onestà lo si può guardare soltanto se si hanno una cinquantina d’anni e se si è di Torino…
PRODUCCION Maurizio Fè per Verona Produzione Cin.che
REPARTO Nino Manfredi, Anna Karina, Paolo Turco, Johnny Dorelli, Ugo D'Alessio, Tano Cimarosa, Gianfranco Barra, Giorgio Cerioni, Umberto Raho, Giacomo Rizzo
SINOPSIS Nino è un italiano che lavora in Svizzera come cameriere in un albergo. Per aver orinato all’aperto perde il lavoro e il permesso di soggiorno. Per non abbandonare la Svizzera deve affrontare tutta una serie di disavventure e peripezie.
-Nino Garofoli: Beh... nessuno è perfetto, signor commissario."
Nino es un emigrante italiano en Suiza. Está a prueba en un restaurante, pero por un percance fortuito en la calle, pierde el puesto y no pudiendo quedarse, se ve obligado a regresar a su país. Sin embargo, por miedo a la deshonra que supondría volver así, decide quedarse.Pierde la maleta, pero la fortuna parece sonreírle; hace amistad con su vecina griega y su hijo, y consigue trabajo para un italiano que ha hecho fortuna en el país. (FILMAFFINITY)
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Después de ser despedido del restaurante y perder el permiso de trabajo, Nino decide quedarse y trabajar de manera ilegal, creyendo que podrá ganar el dinero suficiente como para llevar a su esposa e hijos a Suiza para así tener una vida mejor, aunque su dignidad se vea a veces afectada por las circunstancias. A medida que transcurre la historia, aparecen problemas inusuales que provienen de diferencias culturales y también derivan de estereotipos creados por la sociedad y a veces por él mismo. Problemas que a veces surgen de su falta de educación formal y de sus diferencias en prácticas culturales, y que derivan en situaciones cada vez más surrealistas, patéticas y desopilantes al estilo de Lina Wertmüller.
Una comedia dramática donde el protagonista intenta integrarse sin éxito en una sociedad en la que él no cae bien. Pane e Cioccolata es una película extraordinaria que inspira risa y pena a la vez por aquellos inmigrantes del sur de Italia que buscaban refugio en Suiza.
El trabajo, pensado en un principio para Ugo Tognazzi, fue modificado en parte por el mismo Manfredi, basado en su experiencia vivida en primera persona como hijo de inmigrantes italianos en Estados Unidos.
Por esas vueltas de la política global y la crísis económica mundial "Pan y Chocolate" no ha perdido ni un ápice de actualidad, convirtiéndose en un lúcido y descarnado espejo para todos los inmigrantes de raiz latina.
La película fue un gran éxito tanto de parte del público como de la crítica; fue lanzada con éxito en numerosos países europeos y en 1978 también en Estados Unidos.
Ganadora en 1974 de los Premios David di Donatello a Mejor película y actor (Nino Manfredi) y del David europeo para el director Franco Brusati, y ganadora en el Festival de Berlín del Oso de Plata y el Premio OCIC, además de muchos otros premios y nominaciones.
Giovanni Garofano è un onesto emigrato italiano in Svizzera, cameriere a stagione presso un lussuoso ristorante e in perenne competizione con un turco per l'assegnazione del posto fisso. Un giorno per una banale situazione (viene fotografato da una coppia mentre urina contro un muro) perde il posto di lavoro e anche il permesso di soggiorno in Svizzera. Inizia così per lui un lungo calvario alla ricerca non solo di un posto di lavoro, ma anche di una propria dignità calpestata sia dall' indifferenza e dal sottile razzismo della società elvetica sia dalla rassegnazione, dal vittimismo e dal patetico folklorismo degli emigrati. Unica consolazione una tenera e fragile relazione sentimentale con una esule politica greca; per il resto passa da un guaio all'altro. Diventa cameriere di un ricco uomo d'affari in disgrazia, ma l'industriale si suicida per la disperazione di una vita economica e affettiva disastrosa, trova posto presso delle baracche di emigrati, ma nauseato dalla rassegnazione di quest'ultimi e del loro stile di vita "canta che ti passa", si allontana per finire presso un allucinante famiglia di clandestini partenopei i quali vivono in un pollaio e come lavoro si mantengono macellando a cottimo i polli. Sconfitto e amareggiato tenta persino di farsi passare per svizzero tingendosi di biondo i capelli, ma una partita di calcio che vede protagonista la nazionale italiana farà emergere in lui l'orgoglio nazionale. Infine accompagnato alla stazione dalla polizia per l'espatrio, trova ad attenderlo la ragazza-madre greca ora sposata con un ispettore della polizia stranieri. Lei gli offre la possibilità di rimanere in Svizzera grazie all'interessamento del marito, ma Giovanni rinuncia e prende il treno per il ritorno in Italia. Purtroppo una volta partito sente i compagni di scompartimento cantare le solite canzoni folkloristiche e in lui muore l'idea di veder un Italia diversa, per cui tira il freno di emergenza e scende dal treno, confuso e solo.
La condizione dell’immigrante italiano in Svizzera è difficile e umiliante. Ad entrare in crisi è la stessa identità nazionale, tanto da spingere il protagonista a fingersi cittadino elvetico (salvo poi tradirsi di fronte ad un gol della nazionale italiana: è il calcio l’unico elemento di forte riconoscibilità identitaria italiana?).
Il film ci propone un attraversamento nella dolorosa condizione dell’emigrante italiano in un territorio sostanzialmente ostile, con il suo oscillare fra un depresso senso di inferiorità (la sequenza dei clandestini nel pollaio che osservano estasiati, come fossero degli dei, i corpi dei loro padroni nudi) e una nostalgia fatta di folklore strapaesano all’insegna del sole e del mandolino (proprio quella che il protagonista detesta, tanto da spingerlo a scendere dal treno e ritornare in Svizzera).
Girato nel 1974, quando ancora gli unici immigrati di cui si parlava erano i nostri connazionali sparsi nei più ricchi Stati europei, Pane e cioccolata ha ormai inevitabilmente perso d’attualità, sennonché la recente immigrazione extracomunitaria nel nostro paese, con quel tanto di sofferenze umane che si porta addietro, può farci recuperare il film come strumento di riflessione su questo problema e di recupero della memoria.
VALUTAZIONE CRITICA
E’ stato osservato in sede critica come nuoccia al film l’eccesso di protagonismo interpretativo di Nino Manfredi, che impone alla pellicola i modi e vezzi (tra narcisismo e gigionismo) della commedia all’italiana (quella in particolare imperniata sulla centralità dell’attore mattatore che ruba la scena) e, in effetti, non si può negare che il grande attore romano tenda un po’ a strafare, accentrando forse troppo su di sé l’attenzione del pubblico e oscurando così in parte le tematiche che vengono affrontate.
Il punto di forza, invece, a parere quasi unanime, va individuato nella capacità del film di trovare un suo vitale equilibrio fra più registri, passando da tonalità grottesco-surreali (la già citata bella sequenza del pollaio e il balletto degli operai al cantiere), ad atmosfere intimistico-sentimentali ben calibrate (il rapporto fra Nino ed Elena) e a ritratti sferzanti e impregnati di indignazione morale (l’industriale italiano evasore fiscale).
RIFERIMENTI INTERDISCIPLINARI
Storia
a) L’immigrazione italiana dall’unità d’Italia ai nostri giorni.
b) La condizione dell’immigrato italiano in Svizzera.
Diritto
a) L’attuale legislazione italiana sull’immigrazione extracomunitaria.
b) Il fenomeno dell’evasione fiscale nel nostro paese e l’esportazione di capitali all’estero.
GUION Giuseppe Piccioni, Umberto Contarello, Linda Ferro (Historia: Giuseppe Piccioni, Umberto Contarello)
MUSICA Ludovico Einaudi
FOTOGRAFIA Arnaldo Catinari
REPARTO Luigi Lo Cascio, Silvio Orlando, Sandra Ceccarelli, Barbara Valente, Toni Bertorelli, Mauro Marino, Maya Sansa
PREMIOS
2001: Festival de Venecia: Mejor actor (Luigi Lo Cascio) & Actriz (Sandra Ceccarelli)
2001: Premios David di Donatello: Mejor sonido. 8 nominaciones
GENERO Drama. Romance
SINOPSIS Antonio, un tipo solitario, es chófer de coches de lujo y muy aficionado a las novelas de ciencia-ficción. Tiene un amigo imaginario llamado Morgan. Para él cada lugar al que viaja es una nueva aventura. En Roma conoce a María y se enamora de ella. Estambién una mujer solitaria que tiene dudas incluso cuando hace la compra; pero lo que verdaderamente le preocupa es perder la custodia de su hija. (FILMAFFINITY)
Historia de amor (o algo así) entre un chófer y la dependienta de una tienda de congelados. Como mi alimentación en distintos momentos de mi vida ha dependido de estos comercios, he visto con mucha simpatía esta película sobre corazones solitarios, inmigración, precariedad laboral y lo difícil que es llegar a fin de mes (porque en el fondo, más allá de los sentimientos y frustraciones, se trata de una película social, como si Ken Loach se hubiera comprado un piso en Roma y hubiera decidido rodar una película elegante y casi -pese a sus escenarios proletarios y suburbiales- suntuosa). El personaje de Sandra Ceccarelli (la de los congelados) se merece todos los problemas que tiene porque trata al chófer (Luigi Lo Cascio) con una frialdad de cámara frigorífica. Lo Cascio, cuyo personaje tiene una personalidad a medio descongelar (por seguir con estas comparaciones tan facilonas), es un gran actor y nunca sale más guapo que en las películas de Piccioni; eso sí, cualquier parecido de su personaje con un conductor medio (sea profesional o no) es pura ciencia ficción (al menos, si lo comparo con los taxistas, repartidores, autobuseros o conductores en general que yo me encuentro sueltos por las calles, que poseen un temple muy distinto al de Lo Cascio y suelen ser más feos, claro). También es posible que este chófer sea un extraterrestre y que la película realmente pertenezca al género de la ciencia ficción (entonces, todo lo sentimental y social sería para despistar). Si los marcianos son como Luigi Lo Cascio sólo queda desear que nos invadan pronto, por favor, que los necesitamos mucho.
Antonio fa l'autista a Roma ed è così appassionato di fantascienza che vive in un mondo tutto suo. Ciò nonostante è una persona responsabile e capace, su cui si può contare. E' anche un bel ragazzo che piace alle donne ma va ad innamorarsi proprio di Maria, una ragazza con una figlia di dieci anni, un passato difficile e un carattere instabile. Lei ha comprato un negozio di surgelati che non va tanto bene, ha perso la testa per un altro uomo e corre il rischio che il tribunale le tolga la figlia. Antonio la aiuta in mille modi e prende anche il suo posto in negozio quando Maria ottiene un appuntamento fugace con il suo uomo durante le ore di lavoro. Un giorno Antonio conosce Saverio con il quale Maria ha contratto un ingente debito per l'acquisto del negozio. Per aiutarla a pagare le rate, senza dire nulla a Maria, Antonio offre le sue prestazioni a Saverio, un cattivo maestro che gli farà conoscere la realtà del mondo, ben diversa dall'idea che ne aveva Antonio. E intanto Maria è ignara di tutto...TRAMA LUNGAIn Italia, oggi. Antonio fa l'autista, ed è appassionato di fantascienza: la sua giornata è scandita dalle pagine di un libro dove si parla di un certo Morgan, arrivato in missione sulla Terra e incapace di orientarsi. Maria ha comprato un negozio di surgelati dove lavora, ma si è indebitata molto e corre il grosso rischio di perdere la figlia adolescente Lisa, di cui i nonni paterni hanno chiesto l'affidamento. Antonio incontra Maria, se ne innamora e vuole aiutarla a risolvere i suoi problemi. Quando scopre che ogni mese la donna deve versare la rata del forte debito contratto ad un certo Saverio, Antonio avvicina quest'ultimo e si mette al suo servizio in cambio dell'annullamento del debito. Tra le sue tante attività illegali, Saverio si occupa anche del traffico clandestino di immigrati cui offre a pagamento alloggio e passaporti falsi. Antonio per un po' si adatta, ma dopo aver assistito ad un regolamento di conti si ribella: restituisce i soldi agli immigrati e denuncia Saverio. Intanto il Tribunale dei minori ha deciso di togliere Lisa alla madre e di affidarla ai nonni. Antonio viene licenziato dal posto di lavoro. Un giorno Maria e Antonio vanno insieme a trovare Lisa. Quando tornano verso la città, in macchina con loro c'è anche Lisa.
CRITICA:
"Spesso i critici, a rischio di apparire sussiegosi, si lamentano per la sciattezza con cui un film è stato prodotto. E allora perché un film come quello di Piccioni, tutto fuorché sciatto, ci fa arrabbiare? E' ben diretto, ben fotografato, interpretato con dedizione e bravura: eppure non convince. (...) I 'caratteri' dei protagonisti stavolta, sono scritti in modo troppo programmatico, così com'è tutta di testa l'esibita mestizia del film, piccola epopea di vinti decisa a risultare struggente costi quel che costi". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 5 settembre 2001)
"Melodramma insistito sì, ma anche insolita ed originale storia di anime marginali votate allo scontro delle rispettive solitudini. Come ha nobilmente chiesto il suo regista Giuseppe Piccioni, potete non amarle, ma tentate di capirle". (Alessio Guzzano, 'City', 18 settembre 2002)
"Come in 'Fuori dal mondo', Piccioni definisce ogni figura per piccoli tocchi progressivi, aggirandosi in una Roma che non sembra Roma e inseguendo sui bei volti dei due protagonisti emozioni contraddittorie. Ma quello sguardo caldo e profondo che scavava nei sogni di tutti i personaggi, anche minori, come un Frank Capra italiano e malinconico, qui risulta astratto, volontaristico". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 5 settembre 2001)
"Passando di sfumatura in sfumatura Piccioni giunge a descrivere un fenomeno che, affrontato a colpi d'accetta, si banalizza: l'espandersi delle connivenze e delle prepotenze che accompagnano l'emigrazione clandestina e l'incapacità a capirla di coloro che, presi dalle cento e cento difficoltà quotidiane, non sanno bene dove appoggiare i piedi. Come fai a capire il 'diverso' se non sai chi sei tu? Alla definizione dei personaggi Piccioni giunge con una continua operazione di aggiunte e di sottrazioni psicologiche. Soluzione, questa, dovuta a una scelta narrativa più che a un difetto di regia e che rende affascinante e insieme sfuggente 'Luce dei miei occhi'". (Francesco Bolzoni, 'Avvenire', 5 settembre 2001)
"Se questi confusi personaggi riusciranno a toccare il cuore del pubblico, lo si desumerà dagli incassi del weekend. Per ora 'Luce dei miei occhi', pur non privo di saltuarie illuminazioni, ci sembra un prodotto che dovrebbe tornare in moviola". (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 5 settembre 2001)
"'Luce dei miei occhi' prende l'infelicità media del vivere comune e ce le sbatte in faccia per 114 minuti. Esperienza dolorosa e deprimente, non priva di umorismo quando i due protagonisti, in fondo, si sfidano (...) E se ripartissimo dal donare senza contropartita, non solo senza interessi maggiorati?". (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 5 settembre 2001)"Regista aggraziato, Giuseppe Piccioni sbaglia il copione, eccede in metafore e naufraga con gli inerti protagonisti (Lo Cascio e Ceccarelli), per altro premiati entrambi. Dopo il dibattito e le coppe (Volpi), anche gli incassi stanno andando bene. Le opinioni, insomma, divergono. E allora, dov'è il vile assalto, cos'è questa strana voglia di consenso collettivo?". (Claudio Carabba, 'Sette', 20 settembre 2001)
NOTE:
COPPA VOLPI PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE" A LUIGI LO CASCIO E SANDRA CECCARELLI ALLA 58MA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA (2001).
PREMIO "SERGIO TRASATTI - LA NAVICELLA" DELL'ENTE DELLO SPETTACOLO - VENEZIA 2001.
DAVID DI DONATELLO 2002 A REMO UGOLINELLI COME MIGLIOR FONICO IN PRESA DIRETTA.
CANDIDATO AI NASTRI D'ARGENTO 2002 PER IL MIGLIOR REGISTA.
COSA MI E' PIACIUTO: prima di tutto la realizzazione tecnica, che secondo me è superlativa. Siccome una delle accuse che si muovono comunemente al cinema italiano di oggi è la mancanza di professionalità, questo film, sono lieto di poterlo sottolineare, è la dimostrazione che la conoscenza del mestiere è in certi casi profonda. Fotografia, riprese, montaggio, suono, ognuno di questi elementi concorre in modo ideale a far funzionare una regia molto efficace, ricca di spunti emozionanti. Io ho apprezzato molto anche la scrittura, criticata da molti, per l'uso costante dei mezzi toni in luogo dei contrasti, a prescindere dalle situazioni, senza mai generare indifferenza o peggio noia. Ricorrono le immagini attraverso i vetri: porte, finestre, finestrini delle auto. Indipendentemente dal desiderio di sottolineare la solitudine di ogni personaggio, sono immagini belle da vedere. Applaudo vigorosamente i due protagonisti, Lo Cascio e Ceccarelli. Il finale, fatto di nulla eppure commovente, poteva funzionare solo con due grandi interpreti. E unisco al mio elogio Silvio Orlando, in vesti inusuali per lui alle quali sa adattarsi senza fatica. Infine, buona parte della suggestione quasi ipnotica del film si deve alle belle musiche di Ludovico Einaudi. Musiche elementari nel senso migliore del termine. In un paio di sequenze è palesemente il film a vestire la musica, e non viceversa. Il motivo principale, che accompagna i titoli di coda, mi piace moltissimo.
COSA NON MI HA CONVINTO: gli attori di contorno sono qualche volta un po' approssimativi. Ne tiro fuori, però, Toni Bertorelli (il Conte Bulla de L'ora di religione), che ha uno stile di recitazione teatrale che purtuttavia si adatta benissimo al cinema.
CURIOSITA': Luce dei miei occhi è stato massacrato da buona parte dei critici italiani, con motivazioni spesso nebulose, ma con una compattezza che fa sospettare una presa di posizione della categoria nei confronti di Piccioni.
GUION Armando Grottini, Rodolfo Morelli, Antonio Ferrigno
REPARTO Giacomo Rondinella, Virna Lisi, Germana Paolieri, Pina Piovani, Tecla Scarano, Tina Pica, Edda Soligo, Dina Perbellini, Beniamino Maggio, Franca Gandolfi, Carlo Giuffré, Guglielmo Inglese, Cristina Grado, Mario Abbate, Vittorio André, Carla Boni, Giannina Chiantoni
FOTOGRAFIA Sergio Pesce
MONTAJE Jolanda Benvenuti
MUSICA Giuseppe Cioffi
PRODUCCION Antonio Ferrigno para A.F.
GENERO Comedia / Musical
SINOPSIS Un cantante si innamora di una ragazza che, per un equivoco, crede di essere stata tradita e lo lascia. Al momento di sposare un nobile, però, i sentimenti hanno il sopravvento. (My Movies)
Il cantante Giorgio Sabelli prepara con alcuni amici l'allestimento di uno spettacolo musicale folkloristico. Durante le prove, che hanno luogo nel suo alloggio, egli s'innamora di Maria, la figlia adottiva della padrona di casa, che ricambia il suo amore. Ad un certo punto Giorgio si reca a Roma per incontrare un impresario teatrale. Nel frattempo la contessa Mariani, madre di Maria, reclama sua figlia, che essendo il frutto di un amore illecito, le era stata sottratta dal padre suo. Questi, prima di morire, aveva dato alla contessa le indicazioni necessarie per rintracciare Maria. La fanciulla continua a vedere di nascosto Giorgio, che avendo trovato i fondi necessari per metter in scena lo spettacolo, si sta occupando delle prove. Entrando un giorno in teatro durante una prova, Maria vede una ragazza, che avendo ottenuto una parte, in un impeto di riconoscenza, abbraccia Giorgio. Intanto la rivista riporta un notevole successo. Un giorno Giorgio legge sul giornale che Maria sposerà il giorno stesso il barone Di Consalvo: la notizia lo turba talmente che non può cantare. Maria intanto si sfoga con la madre adottiva, che la consiglia di seguire l'impulso del cuore. In chiesa, alla richiesta del sacerdote, essa risponde no e corre a gettarsi tra le braccia di Giorgio.
CRITICA:
"(...) Un altro film che ha per sfondo Napoli e sulla cui trama e realizzazione non crediamo sia il caso spendere molte parole. "Vedette" della pellicola partenopea è questa volta Giacomo Rondinella, che si esibisce in una serie di canzoni care al pubblico". (A. Albertazzi, "Intermezzo", n. 1 del 15/1/1954).
NOTE:
-AIUTO REGISTA: LINA WERTMULLER E GIANFRANCO MANGANELLA
Armando Grottini, già regista di "Carcerato" e di "Rimorso", firma nel 1953 "... e Napoli canta", una commedia musicale, storicamente importante e sempre godibile, che vede come "vedette della pellicola partenopea, questa volta Giacomo Rondinella che si esibisce in un film di canzoni care al pubblico (A. Albertazzi, Intermezzo, n. 1 del 15/1/1954)". Fortissimamente voluta da Giacomo Rondinella, il cantante - attore più significativo, ancor oggi, della storia canora napoletana, appare per la prima volta nel mondo del cinema una dolce e soave Virna Lisi. Ma c'è di più. Dentro il cast davvero notevole ( Giacomo Rondinella, Virna Lisi, Germana Paolieri, Pina Piovani, Mario Abbate, Vittorio Andrè, Carla Boni, Giovanna Chiantoni, Franca Gandolfi, Carlo Giuffrè, Cristina Grado, Guglialmo Inglese, Beniamino Maggio, Dina Perbellini, Tina Pica, Tecla Scarano, Edda Soligo) un aiuto regista "eccellente": Lina Wertmuller.
ARGUMENTO libro "IL FIGLIO DI BAKUNIN" de Sergio Atzeni
GUION Gianfranco Cabiddu
REPARTO Renato Carpentieri, Fausto Siddi, Laura del Sol, Massimo Bonetti, Claudio Botosso, Paolo Bonacelli, Paolo Maria Scalondro, Francesca Antonelli, Luigi Atzeni, Mario Medas, Luigi Maria Burruano, Nicola Di Pinto, Claudia Fiorentini, Francesca Giordani, Massimo Loriga, Simona Cavallari, Dario D'Ambrosi, Pierpaolo Erriu, Alberto Sanna, Isella Orchis
FOTOGRAFIA Massimo Pau
MONTAJE Enzo Meniconi
MUSICA Franco Piersanti
PRODUCCION SCIARLO'
GENERO Drama
SINOPSIS Da un romanzo (1991) di Sergio Atzeni. Chi era l'anarchico sardo Tullio Saba, detto "il figlio di Bakunin", minatore, cantante, sindacalista: capopopolo o demagogo? ribelle o ladro assassino? amante appassionato o sottaniere? lavoratore o speculatore? eroe o traditore? Attraverso una serie di testimonianze contraddittorie che è anche un gioco degli specchi alla ricerca di un'impossibile verità univoca, si fa la cronaca della Sardegna dagli anni '30 alla fine dei '50. Un film lindo, diligente, corretto, soltanto illustrativo. Prodotto da Giuseppe e Francesco Tornatore, premiati con una Grolla d'oro. (Il Morandini)
In Sardegna, alla fine degli anni Trenta, Antoni Saba, proprietario di una calzoleria in un paesino di minatori, vive con spirito libertario e indipendente, al punto di avere ricevuto da tutti il soprannome di Bakunin. Tullio Saba diventa quindi, per quanti lo conoscono, il figlio di Bakunin. Dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta, Tullio, cresciuto e diventato uomo, intreccia la propria storia con quella dell'isola, la guerra, il difficile dopoguerra, le lotte sociali, la ricostruzione, i problemi legati allo sviluppo e alla modernizzazione della terra, del lavoro, della vita familiare. Si susseguono, tra una ricostruzione e l'altra di vari episodi, le testimonianze di chi l'ha conosciuto, di chi l'ha amato, di chi ne ha avuto paura. Chi era Tullio in realtà? Un capopopolo, un opportunista, un idealista, un traditore, un eroe? Quando Tullio muore, lascia un figlio, che oggi, a sua volta cresciuto, è tornato in quei luoghi per ricostruire la vita di un padre che non ha mai conosciuto di persona e che cerca di scoprire, facendo parlare uomini e donne, amici e nemici.
CRITICA:
"Fare un film da un libro di tal genere era impresa difficile e rischiosa. Si può intuire quel che ha spinto Cabiddu (e Tornatore): l'occasione di rievocare un frammento di storia sarda, dagli anni Trenta alla fine dei Cinquanta, attraverso le vicende di Tullio Saba. A questo livello informativo di memoria storica il film non manca d'interesse. C'erano due modi magari complementari, per dargli l'acqua della vita e dell'emozione cinematografica: puntare sulla struttura stessa dell'inchiesta o affidarsi alla statura del protagonista, farne un personaggio 'più grande della vita'. Nel primo caso bisognava avere una capacita d'invenzione e di scrittura che Cabiddu non possiede (ancora); nel secondo caso occorreva un grosso attore. Pur simpatico e disinvolto. Fausto Siddi non lo è. 'Il figlio di Bakunìn' è un film lindo, diligente, corretto, soltanto illustrativo". (Morando Morandini, 'Il Giorno', 17 ottobre 1997)
"A partire dal personaggio creato da Sergio Atzeni, Cabiddu gioca con indubbia originalità sul doppio tavolo della leggenda e della cronaca, iscrivendo in un falso reportage la ricostruzione di una storia picaresca. Ma qui sta anche il lato debole del suo film, un po' macchinoso nelle transizioni temporali e colpevole di qualche abbandono all'oleografia che, con questo tipo di struttura narrativa, si ha meno voglia di perdonare. Prodotto da Giuseppe Tornatore, protagonista Fausto Siddi, 'Il figlio di Bakunin' è comunque un film-film, lodevolmente lontano dall'estetica corriva e approssimativa del piccolo schermo". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 11 ottobre 1997)
NOTE:
PRESENTATO NELLA SEZIONE: "EVENTI SPECIALI" IMMAGINI TRA CRONACA E STORIA AL FESTIVAL DI VENEZIA 1997. REVISIONE MINISTERO OTTOBRE 1997
SINOSSI: In Sardegna, alla fine degli anni Trenta, Antoni Saba, proprietario di una calzoleria in un paesino di minatori, vive con spirito libertario e indipendente, al punto di avere ricevuto da tutti il soprannome di Bakunin. Tullio Saba diventa quindi, per quanti lo conoscono, il figlio di Bakunin. Dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta, Tullio, cresciuto e diventato uomo, intreccia la propria storia con quella dell'isola, la guerra, il difficile dopoguerra, le lotte sociali, la ricostruzione, i problemi legati allo sviluppo e alla modernizzazione della terra, del lavoro, della vita familiare. Si susseguono, tra una ricostruzione e l'altra di vari episodi, le testimonianze di chi l'ha conosciuto, di chi l'ha amato, di chi ne ha avuto paura. Chi era Tullio in realtà? Un capopopolo, un opportunista, un idealista, un traditore, un eroe? Quando Tullio muore, lascia un figlio, che oggi, a sua volta cresciuto, è tornato in quei luoghi per ricostruire la vita di un padre che non ha mai conosciuto di persona e che cerca di scoprire, facendo parlare uomini e donne, amici e nemici.
Cinema e letteratura ne “Il figlio di Bakunin”: conversazione con Gianfranco Cabiddu.
Come è stato avvicinarsi ad un soggetto ispirato ad un’opera letteraria?
Il problema del rapporto tra cinema e letteratura ha investito tutto il Novecento. Il cinema fin dalla nascita si mette a confronto con la letteratura e ne esce sminuito, per poi scoprire una rivalsa in questi ultimi anni.
Quando ci mettiamo di fronte ad un’opera letteraria e un’opera cinematografica a confronto non dobbiamo mai dimenticare che esse nascono da uno spunto comune che viene svolto in due lingue diverse: libro e film infatti utilizzano due linguaggi diversi.
Il punto di partenza è la riflessione culturale sull’oralità in Sardegna. Il libro si manifesta come un’indagine sul passato con il metodo dell’intervista e attua un importante lavoro sulla lingua: ai vari personaggi corrispondono diversi tipi di linguaggio che fanno emergere le diverse provenienze sociali. Questo confronto nel film è immediato, poiché i personaggi ci vengono mostrati, per cui oltre a vedere immediatamente come sono fatti, come si vestono e si comportano, possiamo sentirne la voce e la capacità di linguaggio.
Non possiamo mai dimenticare che quando attuiamo una trasposizione cinematografica dobbiamo utilizzare un linguaggio diverso da quello letterario.
Come ha affrontato il problema della fedeltà?
La fedeltà non deve essere concepita come una perfetta aderenza all’opera letteraria da cui si trae spunto, ma come la capacità di far funzionare una storia nata in ambito letterario e poi adattata al linguaggio cinematografico.
Il film parla di una realtà vera oggettivamente, per cui se parlo di un determinato periodo storico tutto deve coincidere per dare coerenza e credibilità al racconto, perché lo spettatore si senta “dentro” la realtà del film.
All’interno del film ci sono delle scelte personali che intervengono su questo concetto di realtà: per esempio la scelta di mostrare il protagonista come un eroe; la storia di Tullio Saba si svolge, infatti, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, ma nonostante il tempo scorra per tutti gli altri personaggi e in relazione agli avvenimenti, per Tullio sembra non passare mai, perché egli appare sempre giovane e bello, non invecchia mai, incarnando così il concetto di favola.
Un’altra scelta interessante riguarda la descrizione del concetto della memoria: le persone che parlano oggi del passato, rievocandolo, lo fanno rivivere; questo aspetto viene sottolineato dal movimento di macchina che passa dal personaggio che parla nel presente allo stesso come era nel passato, senza alcun taglio all’interno del montaggio (es. Dolores, la serva di casa Saba, mentre racconta degli avvenimenti del passato viene mostrata anziana, poi abbiamo un movimento di macchina verso sinistra e la ritroviamo nel passato, protagonista di quel ricordo).
Quanto ha inciso nella realizzazione del film la collocazione della storia in Sardegna?
Personalmente lavorare su questo film ha significato la scoperta del mondo minerario, conosciuto come tanti di noi, solo per sentito dire. Inoltre mi ha permesso di dar spazio a quel cinema popolare a cui mi ispiro nei miei lavori: una sorta di epopea che rispecchia la realtà e che concede una maggiore facilità nella costruzione cinematografica.
Per quel che riguarda le locations, mi sono ispirato a elementi reali e fantastici, coniugando le diverse realtà di Montevecchio e di Iglesias.
Nel periodo in cui è stato girato Il figlio di Bakunin non c’era ancora la realtà cinematografica della Sardegna di oggi; il cinema sardo si esauriva in poche opere, più importante delle quali Banditi a Orgosolo degli anni Sessanta. Quella di Tullio Saba è, invece, una storia nazionale che parla da un punto di vista personale, come dovrebbe fare tutto il cinema, concedermi di poter parlare di un fatto qualsiasi dal mio punto di vista.
Per quel che riguarda la scelta degli attori ho tenuto in considerazione il problema del cinema che si trova a dover scegliere tra la spontaneità degli attori di strada, che stanno nel personaggio perché sono naturali, e gli attori professionisti, che attraverso la recitazione sono in grado di esprimere sentimenti universali altrimenti difficili da interpretare.
Tanto la regia quanto la recitazione sono arti dell’interpretazione. Sotto questo punto di vista Il figlio di Bakunin appare discontinuo, poiché attinge da diversi luoghi i propri attori: abbiamo attori di cinema, dialettali e attori provenienti da un teatro “colto”.
Nel complesso penso che il cinema sardo viva in un clima di forte autoreferenzialità, in cui si lascia poco spazio al confronto con il resto del mondo, quando invece si dovrebbero girare immagini per unire il mondo, poiché il cinema universale è quello che parla per immagini.
IL FIGLIO DI BAKUNIN: DAL ROMANZO DI SERGIO ATZENI AL FILM DI GIANFRANCO CABIDDU
Il figlio di Bakunin è il primo esempio di trasposizione da testo letterario a testo filmico di cui ci occupiamo: l’opera letteraria firmata da Sergio Atzeni viene adattata per il cinema da Gianfranco Cabiddu.
L’opera di Sergio Atzeni esce nel febbraio del 1991 ed è composta da trentadue capitoli preceduti da una breve premessa. La storia ha come protagonista Tullio Saba, “raccontato” attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto, raccolte dal giornalista interessato a ricostruirne la vita. Da ogni intervista emerge un po’ di verità su Tullio e le informazioni si rincorrono per tutta la durata della storia.
Il racconto narra della vita di Tullio Saba, nato a Guspini attorno agli anni Trenta. Tullio vive sin da bambino in un’agiatezza che pochi in Sardegna possono permettersi, poiché suo padre calzolaio ha fatto fortuna vendendo scarpe ai lavoratori della miniera del paese.
Il padre di Tullio, Antoni, è un anarchico convinto e spesso parla di un certo Bakunin, rivoluzionario russo che ammira molto per i suoi comportamenti accesi e decisi. Ne parla a tal punto che la gente del paese incomincia a chiamarlo Bakunin, e a lui questo non dispiace affatto.
La madre di Tullio, Donna Margherita si fa trattare come una vera signora e compra ogni settimana alla boutique del paese.
Tullio viene educato come il figlio di una famiglia nobile, studia il francese e veste come un signorino. Tutto questo fino a quando il padre produce le scarpe per i minatori; ma quando il direttore della miniera viene sostituito da un fascista, il padre perde gli ordini e con essi anche la sicurezza economica. Di lì a poco Bakunin muore, alcuni dicono di crepacuore, altri pensano che si sia suicidato.
Così la vita di Tullio cambia repentinamente ed è costretto ad andare a lavorare in miniera: la madre non accetta che suo figlio faccia quello che è considerato l’ultimo lavoro del paese e pian piano si spegne anche lei per il dispiacere.
Tullio si ritrova solo al mondo: continua a lavorare in miniera e affronta tutti i disagi che i minatori devono subire, soprattutto in tempi di fascismo. Anarchico come suo padre, infervora gli animi nei momenti di sciopero e di occupazione, fino a quando viene ucciso il direttore della miniera e il nuovo sostituto lo licenzia.
Nel mentre vive una storia d’amore con la moglie di un fascista con la quale vorrebbe fuggire, ma lei non accetta, per timore della reazione del marito.
Intanto ha luogo il processo per l’uccisione del direttore della miniera e Tullio è tra i principali indiziati: viene accusato di aver fornito l’arma del delitto, ma egli nega. Il processo si conclude senza che venga trovato il colpevole, anche a causa della forte omertà in cui si stringe il paese.
Tullio incontra Cesare, un cantante e suonatore di fisarmonica che si esibisce nei matrimoni e si unisce a lui. Anche in quest’esperienza si contraddistingue per sfacciataggine e arroganza, esibendosi spesso in canzoni allusive e facendo arrabbiare gli sposi, le cerimonie terminano spesso in rissa.
In particolare corteggia la fidanzata di un fascista solo per potersi vendicare di lui. Nell’ultimo periodo della sua vita, Tullio entra in politica: viene eletto nel ‘53 e tra le altre cose si occupa degli aiuti per gli alluvionati del Sarrabus. Si innamora e mette incinta la sua fidanzata, ma la storia va male e i due si lasciano.
Muore in una casa di Cagliari, triste e sofferente, con la sola compagnia della badante di 14 anni.
Questo è il racconto che emerge dalle interviste raccolte da un giovane giornalista di cui percepiamo la presenza solo nei momenti in cui qualcuno si rivolge a lui per qualche domanda o commento. Nell’ultimo capitolo questo misterioso intervistatore scopre, o forse trova conferma di un sospetto già vivo, di essere il figlio di Tullio Saba, tramite le affermazioni di una delle persone che ha intervistato.
La storia del figlio di Bakunin si dispiega secondo dei nuclei narrativi (34) in base ai quali sono ordinate le interviste:
1. La famiglia di Tullio (capitoli IV/VIII): all’interno di questo nucleo viene descritta la famiglia di Tullio e soprattutto la figura di suo padre Antoni, detto Bakunin, anarchico, calzolaio di successo fino all’avvento del fascismo. Al tempo stesso è descritto il contesto sociale all’interno del quale la famiglia vive, e le reazioni delle persone che entrano in contatto con essa, a volte positive, a volte negative a seconda della diversa provenienza politica e culturale.
2. Donna Margherita (capitoli XI/XII): all’interno di questo nucleo si delinea meglio la figura di Tullio, in rapporto alla madre. Donna Margherita è una persona distrutta dal dolore per la morte del marito e per le sfortune della vita; rimane sola in un paese che la disprezza con il figlio. Tullio da “signorino” si trova costretto ad andare a lavorare in miniera per mantenere la madre; emerge il suo orgoglio che lo porta a lavorare lontano dalla miniera del paese, per non dover condividere le fatiche con quelle persone che per tanti anni lo avevano visto vivere da signore.
3. Tullio Saba minatore (capitoli IX/X e XIII/XIV): è in questo nucleo che si definisce la figura di Tullio Saba: chi lo racconta giovane, bello, gentile e grande lavoratore e chi invece scansafatiche, donnaiolo, ciarlatano e istigatore.
Emerge uno spaccato di realtà del fascismo nei rapporti tra l’amante di Tullio e suo marito Camicia nera (capitolo IX).
4. La vita della miniera (capitoli VI/VIII, XIII/XIV, XVII/XX): essa è descritta tanto dai minatori, quanto dai dirigenti; vengono descritte le condizioni di vita dei minatori e il movimento operaio in Sardegna durante il fascismo.
5. Giustizia/legalità: questo nucleo si intreccia con quello precedente ed è rappresentato dalla testimonianza del magistrato che ha seguito il processo per l’omicidio del direttore della miniera. Egli racconta il proprio contatto con la gente del paese e con le loro credenze popolari.
A seguire si sviluppano tre nuclei all’interno dei quali si delinea in maniera più specifica la figura di Tullio Saba:
6. eroe di guerra (capitoli XV/XVI);
7. cantante (capitoli XXI/XXIV);
8. uomo politico (capitoli XXV/XXVI).
Gli otto nuclei narrativi sono preceduti da una sorta di prologo composto dai primi tre capitoli all’interno dei quali inizia la ricerca del giornalista. Da essi emergono i primi indizi su Tullio Saba e le prime difficoltà nel fare luce sulla vita di una persona, tramite testimonianze di altri. Ad ogni nucleo corrisponde un periodo della vita del protagonista che emerge dalle informazioni, a volte puntuali, a volte confuse dei vari intervistati.
L’aspetto più interessante de Il figlio di Bakunin riguarda la modalità con cui viene raccontata la storia di Tullio Saba. Le notizie che apprendiamo del protagonista ci permettono pian piano di ricomporre un mosaico creato da persone che molto spesso non si sono mai conosciute, ma che fanno comunque parte “dell’universo Bakunin” e sono in grado di darci una descrizione delle vicende dei Saba.
Così Tullio Saba e i suoi familiari prendono forma attraverso le parole degli intervistati, i quali diventano essi stessi personaggi. Per cui abbiamo una storia nella storia: la storia di Tullio Saba raccontata dagli intervistati e la storia di ogni intervistato che si racconta, volente o nolente, attraverso i ricordi. Ogni intervistato non viene descritto da alcuna istanza narrante, ma si presenta da solo, con il proprio modo di esprimersi e sottolineando il diverso rapporto che ha instaurato con Tullio Saba e la sua famiglia. Un esempio concreto che possiamo citare è il linguaggio del magistrato che ha curato il processo per l’omicidio del direttore della miniera e a confronto quello della cuoca di casa della famiglia Saba.
Il magistrato con linguaggio professionale e tecnico descrive la propria esperienza in rapporto al clima di omertà di un paesino della Sardegna degli anni Cinquanta: l’intera comunità si oppone alle indagini testimoniando in direzioni differenti e confondendo anche quelle poche certezze che il magistrato possiede, secondo il tradizionale metodo di omertà che contraddistingue molti piccoli paesi in cui la vendetta corrisponde alla giustizia. Il magistrato racconta di come il paese dia importanza ai sogni della “strega del paese” tanto da proporre di farla testimoniare, come se i suoi sogni potessero essere messi agli atti e essere utilizzati all’interno del processo.
La cuoca di casa Saba, invece, utilizza un linguaggio semplice, ma non meno chiaro di quello del magistrato, a tratti intercalato da espressioni in lingua sarda. Racconta di come andavano le cose nella famiglia Saba prima che il lavoro del padre di Tullio cominciasse ad andare male e sottolinea il rapporto dei Saba con il resto del paese, quanto essi fossero malvisti per le arie che si davano e invidiati per le loro possibilità economiche. La cuoca è giudicante (<<Tullio Saba era un bambino vanitoso, l’ho scoperto molte volte che si specchiava nell’unico specchio di casa…>>)(35), e pettegola (<<…vedo Fiammetta Saba, la maggiore di Antoni, stretta a un bracciante, sotto un mandorlo, fuori paese, e con le gonne sollevate! Io non ero uscita per spiarli, Dio mi guardi, Dolores Murtas non è spia…>>)(36), giustificando di volta in volta le proprie affermazioni e negando di essere una che maledice, una spia, una insomma che si interessa della vita degli altri.
Un altro elemento forte che percorre il romanzo è il continuo riferimento alla memoria. Sono parecchi gli intervistati che ne sottolineano l’importanza e alcuni di essi confessano di averla un po’ persa a causa dell’età. La memoria permette loro di rievocare avvenimenti, nonché immagini, emozioni e per ognuno custodisce un pensiero, un’esperienza che ci avvicina al protagonista. Fin dal primo capitolo si cita la memoria come componente decisiva dello svolgersi della storia, quando la donna, madre dell’intervistatore, gli propone di andare a cercare notizie su Tullio Saba nei luoghi in cui egli ha vissuto <<Vai a Guspini, i guspinesi hanno buona memoria,era un loro compaesano, sanno tutto, se chiederai racconteranno. E scoprirai quel che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui>>(37).
Successivamente nel settimo capitolo il testimone all’interno del proprio discorso dice: <<[…]riferisco quello che ho sentito dire, non quello che ho visto, sai come sono le storie che vanno di bocca in bocca fra la gente, all’inizio c’è una briciola secca, ognuno aggiunge il suo, e dopo un po’ hai una pagnotta grassa e fumante>>38, per sottolineare quanto le storie attraverso il tempo e il passaggio da persona a persona possano mutare, prendendo forma e direzione differenti rispetto alla
fonte iniziale e soprattutto ingigantirsi, dal momento che ogni persona che ne entra in possesso vi aggiunge qualcosa.
Infine nel trentaduesimo capitolo, a conclusione di tutte le testimonianze raccolte, il giornalista dice: <<Qui finisce quel che resta di Tullio Saba nella memoria di chi l’ha conosciuto. […] Non so quale sia la verità, se c’è verità. Forse qualcuno dei narratori ha mentito sapendo di mentire. O invece tutti hanno detto ciò che credono vero. Oppure magari hanno inventato particolari, qui e là, per un gusto nativo di abbellire le storie. O, ipotesi più probabile, sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici.>>(39)
Con questa chiusura Sergio Atzeni identifica nella memoria lo strumento attraverso il quale si cerca di ricordare e di far emergere la verità, ma al tempo stesso attraverso cui si distorcono e trasformano i fatti fino a perderne il senso di realtà.
Il particolare modo di raccontare i fatti della vita di Saba e l’elemento della memoria, non sono altro che dei pretesti per riflettere sul raccontare: quanti modi diversi esistono per raccontare e quanto la memoria da un lato aiuti e dall’altro ostacoli tali racconti.
Proviamo ad analizzare i segni del narrare, che costituiscono la struttura del romanzo: secondo uno schema prestabilito l’origine e la destinazione della storia provengono dalla ricerca del giornalista che incuriosito dal racconto della prima testimone (presumibilmente sua madre), intraprende la serie di interviste, per giungere alla constatazione che Tullio Saba era suo padre. L’attività del narrare è delegata a una serie di testimoni che tessono inconsapevolmente i fili di una tela che pian piano prende forma sotto gli occhi del giornalista, e sotto i nostri.
I segni del narrato che rappresentano avvenimenti e situazioni raccontate hanno a che vedere con la storia di Tullio e si costituiscono come contenuto all’interno del contenitore creato dalla struttura delle interviste.
Il giornalista che ci conduce alle varie narrazioni non interviene mai all’interno di esse, anche se spesso qualcuno dei testimoni gli rivolge qualche domanda o gli fa qualche commento. La sua presenza, per quanto molto discreta è indispensabile, poiché funge da mediatore tra il racconto del testimone e il lettore; inoltre ogni testimone ha un contatto con l’intervistatore, ma non con gli altri testimoni, come se ognuno facesse parte di un piccolo mondo dal quale si può attingere solo attraverso l’intervento del giornalista.
Come fa giustamente notare Floris <<Atzeni sceglie di non costruire attorno ai testimoni e all’intervistatore quella cornice che generalmente fa entrare i personaggi in rapporto uno con l’altro e che soprattutto caratterizza l’ ambiente in cui essi si muovono, una cornice che può aggiungere […] un qualcosa al loro carattere e che consente una maggiore ricchezza nell’ambientazione delle vicende.>>(39)
La trasposizione cinematografica operata da Gianfranco Cabiddu sfrutta molti degli elementi del romanzo di Atzeni, tra cui l’utilizzo dell’intervista per giungere a informazioni sulla vita di Saba e il continuo passaggio dal presente ai ricordi del passato; per questo potremmo definire questo adattamento “fedele”, poiché le due opere raccontano la stessa storia seguendo la stessa struttura.
Riprendendo il concetto di fedeltà trattato precedentemente, sottolineiamo, però, quanto per una trasposizione l’importante non sia l’aspetto della fedeltà, ma la capacità di rendere la storia comprensibile attraverso i propri mezzi.
E' proprio per questa ragione che il film di Cabiddu, per quanto fedele, si differenzia dall’opera di Atzeni: in primo luogo esso è molto più ricco sia nella narrazione che nella caratterizzazione di ambienti e personaggi, e questo per ovvi motivi legati alla natura stessa del cinema che per narrare deve mostrare; sul piano della narratività possiamo notare delle soluzioni cinematografiche che aiutano il regista ad esprimere il passaggio di tempo senza che ci siano degli stacchi netti: spesso il racconto di un avvenimento passato che all’interno del romanzo viene descritto come un ricordo, nell’opera filmica di Cabiddu viene narrato sotto forma di flash-back, come se il testimone che sta narrando il ricordo, lo rivivesse in quel momento.
Inoltre attraverso il montaggio i nuclei narrativi non sono separati nettamente, e gli elementi narrativi non sono separati in maniera rigida <<in modo da non rendere sempre oggettiva la definizione del passaggio da una sequenza all’altra.>>(40); spesso le sequenze sono unite da una musica extradiegetica, da una voce fuori campo, detta voce off, o da una panoramica.
Nel complesso le due opere si presentano in maniera differente perché il film disegna un quadro più omogeneo e unitario, all’interno del quale i testimoni entrano a contatto fra di loro e sono descritti anche attraverso i luoghi e le situazioni; il libro rimane invece chiuso secondo una struttura che privilegia la paratassi, all’interno della quale la comunicazione tra le diverse testimonianze è impossibile.
A volte delle testimonianze che nel libro sono separate vengono unificate all’interno di un’unica sequenza, per rendere l’avvenimento in maniera più precisa e forte e, soprattutto per non incorrere in inutili ripetizioni, come per esempio l’episodio di due testimoni, marito e moglie, che nella sequenza del film vengono presentati uno affianco all’altro e nel libro sono rigorosamente separati, ciascuno con la propria intervista.
Un altro momento in cui si presenta l’unificazione dei contenuti delle varie interviste avviene quando un episodio suddiviso in diverse interviste del libro, viene raccontato in maniera consecutiva all’interno del film: come per esempio il racconto della passione “politica” di Antoni Saba e l’arrivo del nuovo direttore della miniera, episodi raccontati in due interviste differenti e racchiusi nel film all’interno della stessa sequenza.
Altro esempio interessante che ci permette di analizzare la differenza tra libro e film, prodotta dai diversi mezzi di espressione, è la sequenza riguardante Dolores Murtas, la cuoca di casa Saba.
Nel libro ricopre un ruolo simile a quello di tutti gli altri intervistati: racconta i propri ricordi e le proprie esperienze in relazione alla famiglia Saba; nel film, come molti dei testimoni, diventa personaggio stesso della sequenza, sia nel ricordo dei giorni in casa Saba e sia nel presente, ma per lei presente e passato sono separati dalla distanza inverosimile di una stanza: infatti dal ricordo della tavola imbandita a casa Saba, la macchina da presa fa una carrellata laterale da sinistra verso destra e ci mostra Dolores Murtas, ora anziana, che continua a raccontare in prima persona.
Il film si presenta come un’opera corale che supera la singola intervista e definisce di volta in volta il personaggio di Tullio, in maniera sempre più dettagliata; nel romanzo invece Tullio è una figura leggendaria e indefinita, che prende forma grazie ai ricordi delle persone, a volte in contraddizione le une con le altre.(41)
Questa trasformazione e ricostruzione dei personaggi è stata adottata anche per rispondere all’esigenza di far emergere la figura di Tullio a discapito degli altri personaggi: quelli che nel libro di Atzeni erano dei protagonisti, perché tutti allo stesso livello di narrazione, nel film di Cabiddu si trasformano in personaggi di secondo piano e si annullano per far emergere Tullio Saba.
E questa non è l’unica soluzione che porta Saba in primo piano rispetto agli altri personaggi: spesso, infatti, egli prende il merito di azioni che nel libro di Atzeni sono state compiute da altri; in quest’ottica Saba assume le sembianze di un eroe che riesce a trascinare le masse, a compiere azioni incredibili: nel film di Cabiddu, per esempio, la bandiera rossa sistemata da Tullio sul campanile resta lì per anni, quasi a ingigantire l’impresa e a rendere ancora più merito al personaggio, mentre invece nel libro essa viene tolta appena il giorno dopo da un carabiniere.
Oltre a delineare in maniera precisa e definita il protagonista Saba e gli altri personaggi, relegandoli comunque a ruoli minori, il regista per ottenere una migliore comunicazione deve completare ciò che Atzeni ha lasciato a metà.
Cabiddu, infatti, decide di specificare chi sia l’intervistatore, dandogli un corpo e rendendolo personaggio a tutti gli effetti; inoltre rende palese il fatto che l’intervistatore è il figlio di Tullio Saba, attraverso una serie di riferimenti: quando la prima testimone parla al figlio e gli consiglia di andare a cercare notizie su Tullio Saba a Guspini, gli racconta del giorno in cui lei e la sua amica lo hanno incontrato e fa riferimento a dei cappellini che loro stesse avevano confezionato.
Successivamente in un flash-back, ritroviamo questa descrizione fatta a immagine e, ricordando questo riferimento, riconosciamo la prima testimone da giovane. Infine, quando il giornalista, al termine della sua ricerca, riceve gli oggetti personali di Saba, notiamo la foto delle due donne con il cappellino e una di Saba minatore. Quest'ultima foto permette a lla donna che sta consegnando i materiali al giornalista di notare la somiglianza con Tullio.
E per fine , per togliere ogni dubbio allo spettatore, anche il più distratto, il regista modifica l'ultimo capitolo dell'opera di Atzeni aggiungendo alla frase del giornalista la conferma che Tullio Saba è proprio suo padre.
La storia del figlio di Bakunin di Atzeni è contornata da un alone di misterio e di leggenda, che funziona proprio perchè lasciata all'imaginazione del lettore; è una storia senza troppi fronzoli e troppe pretese: raconta la storia di un'uomo qualsiasi, atraverso la memoria di altri uomini, ciascuno dei quali espone la propria verità.
La storia di Cabiddu deve creare un grande personaggio, un eroe a tutto tondo che compie grandi azioni e attraversa grandi eventi, per non lasciare niente di sospeso, dato che l'espressione cinematografica è fatta di "mostrazione".
34 Per l’analisi dei nuclei narrativi: Antioco Floris, Le storie del figlio di Bakunin, Dal romanzo di Sergio Atzeni al film di Gianfranco Cabiddu, Cagliari, Aipsa edizioni / cinemania, 2001, pp. 45-48.
35 Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunin, Palermo, Sellerio editore, 1991, p. 18.
36 Ivi, p. 23.
37 Ivi, p. 12
38 Ivi, p. 29
39 Ivi, p. 119
39 Antioco Floris, op. cit. , p. 95
40 Antioco Floris, op. cit. , p. 60
41 A proposito di Tullio Saba visto come uomo che incarna una leggenda, ne abbiamo conferma dallo stesso regista Gianfranco Cabiddu, che afferma di non aver sottolineato il passare degli anni del personaggio perché secondo lui, incarnando una sorta di leggenda, quella della libertà, doveva distaccarsi dalla realtà. Confronta Antioco Floris, op. cit. , p. 127