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martes, 31 de agosto de 2021

Nostra Signora dei Turchi - Carmelo Bene (1968)

TÍTULO ORIGINAL
Nostra signora dei turchi
AÑO
1968
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados) e Inglés (Opcional)
DURACIÓN
124 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carmelo Bene
GUIÓN
Carmelo Bene
MÚSICA
Carmelo Bene
FOTOGRAFÍA
Mario Masini
REPARTO
Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Ornella Ferrari, Anita Masini, Salvatore Siniscalchi, Vincenzo Musso, Jed Curtis
PRODUCTORA
Patara
GÉNERO
Drama | Cine experimental. Surrealismo. Película de culto

Sinopsis
El cineasta independiente Carmelo Bene hace su debut en esta película que hace referencia al asesinato hace siglos de los sarracenos en la ciudad de Otranto. La Virgen aparece en varios momentos de la película, como símbolo de los deseos carnales y sueños espirituales de los hombres. (FILMAFFINITY)

Premios
1968: Festival de Venecia: Premio Especial del Jurado. Nominada al León de Oro.

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'Nostra signora dei turchi', 50 anni dopo torna l'ardito film-non film di Carmelo Bene

Come lui non c’è stato nessuno. Nessuno capace di elargire un pensiero così alto, di creare spettacoli, film, libri tanto arditi, profondi, contraddittori, di essere tragico e beffardo, puro e diabolico, intelligente a tal punto da mostrarsi indigesto, così sottile da prendersi gioco di tutto questo. Carmelo Bene torna alla ribalta perché sono 50 anni esatti dalla presentazione di un film-non film come Nostra signora dei turchi che nel '68, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia più tormentata della storia (quella delle contestazioni e delle rivolte), vinse il Leone d’Argento, con l’assoluto disprezzo dello stesso Bene il quale puntava al più remunerativo Premio della Critica.

Il film verrà celebrato, in una forma ardita e un po’ particolare, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, diretta da Pedro Armocida, in programma dal 16 giugno con la riproposizione del mitico Hollywood Party di Blake Edwards con Peter Sellers e fino al 23 dello stesso mese con la presentazione di Diva!, il film di Francesco Patierno dedicato a Valentina Cortese in linea con l’evento speciale del festival dedicato quest’anno a Le donne nel cinema italiano (e ci saranno proiezioni e incontri tra le altre, con Sonia Bergamasco, Laura Bispuri, Silvia Calderoni, Giada Colagrande, Tea Falco, Ilaria Fraioli, Lucia Mascino, Ludovica Rampoldi, Roberta Torre). Ma è l’appuntamento con il cinema di Bene a essere tra i più originali e inediti. Il film sarà presentato infatti coi 'rushes', i girati giorno per giorno sul set, dunque immagini non montate, mute e in bianco e nero che non sono il film, semmai documentano il processo creativo di un artista irripetibile, ne svelano il 'dietro le quinte', rivelando il pensiero di C. B. nell’atto in cui componeva. Ma andiamo con ordine.

Nostra signora dei turchi era nato come romanzo nel '66 e lo stesso anno portato anche a teatro. Poi nel ‘68 il film e successivamente di nuovo a teatro. Il film, il primo della breve carriera cinematografica di C. B. (solo cinque film fino al '73), come il romanzo, sembra una voluta parodia del flusso di coscienza interiore, ma Bene lo definiva “ben altro. È il più bel saggio, in chiave di romanzo storico, su quel mio sud del Sud”. Le immagini iniziali ci riportano alla strage del 1480 ad opera dei Turchi degli 800 martiri di Otranto che rifiutarono di convertirsi all’Islam le cui ossa sono raccolte nella cappella-ossario della Cattedrale che gli spettatori vedono quasi in apertura. Protagonista, attraverso la voce fuori campo di C. B., è un 'io' che percorre tutto il film, un 'uomo pugliese' che incarna la solitudine metafisica dell’artista e preconizza l’imminente rovina e, come quei martiri cristiani, sceglie di autodistruggersi, trovando solo nella morte la propria salvezza.

Senza una vera sceneggiatura, con molte improvvisazioni degli  attori, tra l’invettiva visionaria e la dissacrazione, tra religiosità e paganesimo, donne e madonne, carico di citazioni, riferimenti colti, di poesia, il film è un unicum, un’opera anticinematografica, come la consuetudine vuole che sia il cinema (i sincroni, il montaggio, la sequenza delle immagini… tutto ha un gusto personalizzato) e per lo spettatore si rivela un’esperienza immersiva.

All’epoca, 50 anni fa, in un clima sociale e culturale che pare ere geologiche lontano, ebbe anche un certo seguito e successo, dopo le feroci discussioni alla Mostra veneziana, dove la leggenda vuole che C.B. con un diavolo per capello perché il film non era piaciuto a tutti, prese a schiaffi il giornalista della Rai, Carlo Mazzarella. Vederlo ora a Pesaro in questa veste inedita, sarà qualcosa di eccentrico, e non solo per i 'beniani' o i cinefili.

I 142 minuti, ridotti poi a 125' nel film visto a Venezia e che ancora si vede nei cd, qui sono espansi in undici ore e mezza di girato. I rushes, rinvenuti tra i materiali della Microstampa depositati nella Cineteca Nazionale (partner del festival con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia), sono materia grezza, la testimonianza di un processo creativo che nella poetica di C. B. è anche un processo distruttivo, di negazione, di sottrazione.

Del film quelle immagini hanno poco, “non sono neanche un’eco lontana”, scrive Fulvio Baglivi, esperto di riusi di immagini (vedi Blob su Rai3) - ma sono un documento di questo processo distruttivo, con il loro grigio silenzio e la durata espansa dei ciak ci permettono di scorgerlo, ci concedono di soffermarci sull’atto geniale di Bene, cosa impossibile di fronte ai suoi film che continuano a lasciare tramortito e senza fiato chi ci si accosta”.

Anna Bandettini
https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2018/06/13/news/nostra_signora_dei_turchi-198812409/


Doppiano anche il culo. Così disse Carmelo Bene a Sandro Veronesi in un’intervista del 1994 trasmessa dall’allora neonata e stimolante Tele+3, soltanto uno degli interessantissimi extra contenuti nel cofanetto editato da Rarovideo e Mustang Entertainment per Nostra Signora dei Turchi. Prima “manifestazione cinematografica” (qualsiasi altro termine come “opera prima”, “primo film” eccetera sarebbe del tutto fuori luogo in questo caso) dell’arte del Maestro leccese, che odiava il cinema quanto odiava molte altre cose e persone, e che mostrò il suo primo lungometraggio in forma di un netto attacco al cinema stesso. Un cinema odiato perché in esso tutto è doppiato, duplicato, una finta arte che secondo Bene non possedeva alcuna specifica virtù, in quanto debitrice irrimediabile di altre arti (pittura, fotografia, musica, teatro) tutte però ricondotte tramite il cinema a una dimensione più volgare. Per Carmelo Bene, il trionfo del cattivo gusto.

Il nuovo cofanetto pubblicato da Rarovideo compie in realtà un prezioso lavoro di recupero e valorizzazione, un vero materiale da studio composto da 2 dvd e un libro: oltre al supporto contenente il film, infatti, il secondo disco propone il cortometraggio Hermitage che precedette di poco la lavorazione di Nostra Signora dei Turchi (1968) e ne costituisce una sorta di preparazione/esercizio tecnico, e ricchissimi contributi extra, tra cui l’intervista di Sandro Veronesi a cui accennavamo in apertura, un contributo di Enrico Ghezzi, un cortometraggio di Ciprì e Maresco a cui Carmelo Bene prestò la voce over, trailer, locandine originali e rassegna stampa, e un ulteriore contributo sull’opera di restauro effettuata sia sul film sia su Hermitage. Il libro invece contiene ampi contributi da parte dello stesso Carmelo Bene, di suoi collaboratori (il direttore della fotografia Mario Masini) e di storia critica, tra cui un illuminante intervento di Adriano Aprà. Come più volte è accaduto nel corso della sua carriera, e come raramente accade nella maggior parte dei casi, Carmelo Bene è uno dei più interessanti da ascoltare riguardo al proprio cinema e alla propria arte in generale. Perché, tra le altre cose, con l’atteggiamento che ben conosciamo, liquida il cinema come non-arte, come cascame postmoderno che è nato morto con il treno dei Lumière, e la forza delle sue argomentazioni è tale da farcelo anche un po’ credere. “Non ho mai visto un film squilibrato, un film che smargina” dice Carmelo Bene. E in qualche modo ha ragione. Anche la sperimentazione più ardita rientra spesso in un linguaggio e una grammatica condivisi, raramente messi in discussione. Con il suo solito atteggiamento tranchant liquida autori come Fellini e Pasolini, il primo soprattutto, tacciandoli di adozione di grammatiche condivise. Per Bene il film squilibrato è quello che eccede il cinema stesso (concetto carissimo al Maestro leccese per tutte le forme d’arte che ha adottato e rovesciato), che ne forza le cornici rettangolari, che aspira a un altrove. In tal senso, Carmelo Bene getta il suo estremo tentativo oltre il consueto già con Nostra Signora dei Turchi, prima uscita cinematografica di una breve e intensissima stagione (Bene si occuperà di cinema solo tra il 1968 e il 1973, dando vita a ben 5 film, per poi dedicarsi alla tv e infine ritornare al teatro). È banale anche solo pensare di riassumere in qualche riga quello che per i film più comuni chiameremmo trama o storia. Si tratta infatti di un bombardamento di suggestioni audiovisive, in cui il lavoro di montaggio regna sovrano e l’operazione espressiva è tutta concentrata sull’esplosione dei significanti. Come ben sottolinea Enrico Ghezzi nel suo intervento compreso nel cofanetto, è errato parlare di “cinema di Carmelo Bene”; è più corretto parlare delle sue “opere”, considerate come un flusso unico e continuo che dal teatro va al cinema, alla tv e ritorna al teatro. Unico e coerente è, infatti, sopra ogni cosa il lavoro sottile sui significanti, individuati nella specificità del linguaggio adottato e fatti esplodere tramite l’amplificazione, la reiterazione, l’insistenza fino al grottesco, la deformazione esteriore, gli accostamenti liberi e scatenati del montaggio.

Nostra Signora dei Turchi parte da una forte consapevolezza a monte del cinema e dei suoi strumenti espressivi, che secondo Bene è finta arte e tripudio di cattivo gusto. E compie un’operazione di estrema violenza sui suoi stessi strumenti. Se il cinema ha fatto della falsa continuità delle immagini il suo cardine tecnico-espressivo (il montaggio classico), Bene prende le mosse da quello minandolo dall’interno. Quattromila inquadrature per circa due ore di proiezione, che diventeranno quattromilacinquecento per Salomè (1972), che dura quasi la metà. Spariscono la coerenza e il montaggio scientifico, e trionfano le associazioni libere, la costruzione spesso contrastiva tra immagine e musica, le riflessioni misticheggianti che in comune con la forma del film conservano l’aspirazione a un altrove, oltre le forme, oltre i contenuti, oltre ciò che è umanamente espresso. Il costante lavoro sui significanti, del tutto slegati dal loro specchio nel significato, conduce progressivamente lo spettatore verso qualcosa di veramente raro nel cinema, ovvero il puro piacere della fruizione. Il piacere, quasi ludico e infantile, di percepire e fruire l’oggetto-cinema nelle sue componenti, fatte collidere l’una con l’altra in funzione di una nuova godibile sensorialità e sensualità. Basti vedere l’enorme lavoro compiuto in Nostra Signora dei Turchi sulla voce umana, assoluto espressivo di tutta l’arte di Carmelo Bene che qui viene di nuovo fatta oggetto di violenze e ripetizioni, fino al contorcimento e alla sua riduzione a puro suono. Così come la voce umana è spesso attaccata nel suo uso convenzionale in cinema, ovvero la corrispondenza tra voce e immagine. Bene sposa spesso l’asincronismo, denunciando di nuovo il meccanismo connotato, l’inganno dei sensi. Di quel che si parla, e “cosa” si parla, è del tutto secondario, perché nell’universo di Bene già il parlare è atto impossibile.
La polemica si fa ogni tanto più dichiarata ed evidente, quando in alcuni segmenti di Nostra Signora dei Turchi appaiono figure di committenti d’arte in conflitto prima psichico, poi fisico con l’attore. E come spesso capita in operazioni di questo tipo, pian piano il film passa a linguaggi più accessibili. A una prima parte folgorante, segue una seconda dove addirittura pare di scorgere (mon Dieu!) un tenue filo narrativo. Di sicuro resta comunque un cinema mai visto, e mai più rivedibile. Un cinema dell’altrove, già fatto raro in sé. E, se il fatto si ripete, ognuno intravede comunque un proprio irripetibile altrove.

Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2014/07/20/nostra-signora-dei-turchi/


« uno dei film più eccentrici mai (dis) fatti, dove carmelo bene si fa centro del mondo indossando lo sguardo del cinema e mettendolo in prova e alla prova, combattendolo, strappandolo, provando a farlo scoppiare. un capolavoro di comicità di malinconia di erotismo, di derisione di misticismo. è da stravedere anche il corto Hermitage, la sua prima cosafilm, che si misura subito (sublime jerry lewis mutante) con tutta l’ossessione che è il cinema, mostrando che nello specchio non vediamo mai noi stessi ma lo sguardo di un altro che vede vide vedrà. » (Enrico Ghezzi)

« (…) La superficie dei film di Bene è un inferno di immagini e di suoni, mondo impuro, cumulo di macerie. Ma da esso si alza una voce, che sempre più si libera da quelle apparenze. L’eremo in cui egli si chiude non è una cella della dalle pareti nude: è un magma di immagini e di suoni depositati dalla cultura, soprattutto barocca e déca-dentè , così ricca d’insegnamenti, e prima da quella popolare, religiosa, meridionale e salentina. L’eremo (hermitage in inglese) è anche Ermitage, galleria di quadri accumulati da secoli; è la camera da letto, camera oscura in cui premono, si riflettono e si moltiplicano le fantasmagorie del passato; è il laboratorio alchemico, in cui si mescolano le sostanze alla disperata ricerca della pietra filosofale, che sola conta. (…) nostra Signora dei Turchi supera la relativa staticitàvisiva e linearità narrativa di Hermitage per affrontare un’esperienza sinestesica molto più complessa. Bene mette in crisi la discrezione e la discontinuità tecnica del cinema tradizionale, che in fase di ripresa e poi di montaggio distingue e separa le varie inquadrature per poi unirle in una continuità illusoria. Propone invece una simultaneità di impressioni visive e sonore, un amalgama sensoriale: materialmente tale sul pino sonoro, accentuato dall’asincronismo: mentre su quello visivo – dove non sono molte le sovrimpressioni e tecnicamente funziona ancora la distinzione fra un’inquadratura e un’altra – esso si realizza, al livello della percezione, che tende a impastare ciò che è separato, producendo qualcosa come una sovrimpressione mentale. In altre parole, Bene tende a mettere una cosa dentro l’altra invece che una cosa dietro l’altra. E poiché ciò che mette sono materiali fra loro in contraddizione cromatica, culturale, cronologica, perviene a un continuum di dissonanze. L’esperienza sensoriale dello spettatore è rivitalizzante come un fuoco d’artificio: il piacere del testo. Il film sembra raccontare una storia di frustrazione e di morte: il protagonista s’immola sull’altare della santa sfibrato dal proprio eccesso d’amore e dal proprio tradimento, dalle proprie contraddizioni di uomo umano, lacerato da illuminazioni e incubi; ma per lo spettatore il film continua a pulsar impresso nella memoria come un oggetto vivo: è un godimento. L’erotismo cinematografico di Nostra Signora dei Turchi è forse ancora l’ultimo mascheramento di Bene, che lo mortifica nel film successivo, Capricci. (…) » (Adriano Aprà, Carmelo Bene oltre lo schermo in AA.VV. Per Carmelo Bene, Linea d’ombra, Milano 1995)
http://www.umbertocantone.it/nostra-signora-dei-turchi-hermitage-di-carmelo-bene-edizione-rarovideo/

Un lungometraggio del 1968, diretto e interpretato da Carmelo Bene. Tratto dal romanzo omonimo, Nostra Signora dei Turchi segna idealmente la linea delimitante gli anni di gavetta di Bene da quelli successivi, ormai costellati da un costante e crescente successo. Appena uscito, in piena contestazione, Nostra Signora dei Turchi, inizialmente della durata di 160 minuti fu ridotto poi a 125 per essere proposto alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il film vinse il premio speciale della giuria ex aequo con Le Socrate di Robert Lapoujade alla 33ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Con Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Salvatore Siniscalchi, Anita Masini.

Trama

Alla base di tutto c’è il ricordo di una strage compiuta dai turchi ad Otranto. Un ricordo ovviamente non personale, ma quasi genetico, visto che il protagonista è un intellettuale dei nostri giorni. Tra le sue visioni prendono posto ricordi infantili, colloqui immaginari e la presenza di una donna di nome Margherita (Lydia Mancinelli), ma che si annuncia sotto le spoglie di Santa Maria d’Otranto. È passato del tempo e intanto Bene ha smesso da un po’ di fare cinema. È molto facile odiarlo e considerarlo addirittura sorpassato, ma i suoi cinque film sono quanto di più vitale, originale e interessante il cinema italiano sia mai riuscito a produrre.
“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: questo è il caustico distico col quale Carmelo Bene siglò il prologo alla raccolta delle sue opere, edita per la collana dei classici di una nota casa editrice. E come dargli torto; certo, impalmarsi da sé, piuttosto che attendere l’investitura ufficiale delle istituzioni addette alla valutazione scientifica del genio, potrebbe apparire politicamente scorretto, ma come disse Leopardi: “Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia”.

Così il funambolo del dis-dire, l’acrobata della “differenza” tra atto e azione, il profeta del mis-fatto, l’ostinato detrattore del “dover essere” etico e estetico, il martire della presenza-assenza, e in ultimo – per non debordare nell’assegnazione di titoli non richiesti – il feroce iconoclasta, infischiandosene del rituale della proclamazione di Stato, si consegnò autonomamente all’immortalità dei classici molto tempo prima del trapasso, vomitando il proprio disprezzo su una platea di “morti”, cui augurava di essere restituita al più presto all’inorganico.
 
Bene, nel suo personalissimo itinerario, maturò una manifesta avversione alla cinematografia – più volte definita “la pattumiera di tutte le arti” – in quanto teso a evadere da una visione dell’espressione legata ancora alla rappresentazione, al simbolismo e a una certa funzionalità consolatoria e decorativa. Non cessò mai di predicare l’auto-superamento dell’arte, individuando nell’abbandono – inteso come eccesso, come l’al di là del desiderio – la disgregazione del concetto di soggetto (e sua conseguente trasfigurazione in rapporto oggetto-oggetto), oltre che l’unica possibilità di salvezza: così “i cretini che vedono la Madonna sono essi stessi la Madonna che vedono”.

Alla luce di queste premesse, è chiaro che Nostra Signora Dei Turchi s’installa in una fase preparatoria e sovversiva che gesticola furiosamente contro i codici e le convenzioni. L’esigenza di frantumare l’immagine-corpo e di sfregiare in faccia il senso, così come la Storia – per sottrarsi alla dittatura del tempo Cronos e guadagnare l’anarchia del tempo Aion (dell’immediato) – fa di questa pellicola il tentativo impossibile di incendiare l’ignifugo velo apollineo dell’immagine in movimento. La visibilità del singolo fotogramma, irrimediabilmente orfana della differenza, della presenza-assenza, non permette di perseguire il liberatorio intento di accecare l’immagine. Insomma l’immediato, giacché immediato svanire, è sistematicamente tradito dall’invadenza del visibile che, pur sciogliendosi in afasia, musica e canto, non si de-realizza a sufficienza per obliare la volgarità dell’azione-intenzione.

Chi vedesse Nostra Signora Dei Turchi per la prima volta sarebbe inevitabilmente irritato dal terroristico cortocircuitare del senso che rende il film una suite di episodi gratuita; gratuità di una demenza che santifica l’artefice prodottosi nell’opera, trasformandolo nel capolavoro stesso. È come se, in questa primo periodo della sua disubbidienza, Bene si fosse affannosamente adoperato a dis-dire il Detto per poi balzare di colpo – una volta scampata la trappola dell’espressione – su un Dire che, contemporaneamente dis-dire, schiva agevolmente il calco onnivoro del Detto medesimo. “Non lasciar traccia alcuna”: questo è il motto dell’osceno beniano che, insorgendo contro la vanità, la cialtroneria e la maschera puttanesca dell’arte, si deterritorializza in un fuori-scena irrecuperabile, nel farsi l’alone del fumo che aleggia sulla sublime evanescenza dell’enigmaticità del misfatto.
 
Risulta allora evidente che l’irruzione dell’enfant terrible nella settima arte non potesse conciliarsi con i limiti invalicabili del mezzo tecnico. Nostra Signora dei Turchi conduce il cinema fino alle sue estreme possibilità, producendo una contorsione acrobatica della pellicola e mancando per un soffio quella definitiva combustione che avrebbe tolto per sempre alle “masse di perdizione” l’opportunità di fruirne, evitando così che l’impurità del Logos – sempre insufficiente tra l’altro – oltraggiasse la santità di un’idiozia dis-appresa nei millenni.
https://www.insidetheshow.it/460572_disponibile-su-youtube-nostra-signora-dei-turchi-di-e-con-carmelo-bene/



 

lunes, 30 de agosto de 2021

De Chirico metafisico - Raffaele Andreassi (1962)

 

TÍTULO ORIGINAL
De Chirico metafisico
AÑO
1962
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
No
DURACIÓN
15 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Raffaele Andreassi
GUIÓN
Guglielmo Petroni
MÚSICA
Sergio Pagoni
FOTOGRAFÍA
Mario Carbone
REPARTO
Documental, intervenciones de: Giorgio de Chirico
GÉNERO
Documental | Cortometraje. Pintura

Sinopsis
Un retrato del gran pintor durante su período metafísico. Apoyado por las leyendas sonoras y concisas de Guglielmo Petroni, la cámara examina las obras individuales y sus particularidades: desde los famosos estudios sobre las plazas italianas, los maniquíes y los caballos hasta la recuperación de formas más clásicas. El propio De Chirico interviene personalmente, pintando un autorretrato en traje de época y explorando algunos aspectos de su proceso creativo. Fascinante documento de una época extraordinaria de la pintura italiana. (FILMAFFINITY)

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Diciassette minuti in compagnia di Giorgio De Chirico e delle sue opere del periodo metafisico, da lui stesse commentate.
Come documentario culturale, De Chirico metafisico ha una peculiarità che salta immediatamente all'occhio, nobilitandolo enormemente peraltro: la presenza davanti alla macchina da presa dell'artista, in persona, ripreso nel suo salotto mentre parla delle sue opere concedendo retroscena e dettagli tecnici non facilmente accessibili altrimenti. De Chirico non si smentisce, peraltro: personaggio sopra le righe, recita per la gran parte del cortometraggio in un costume medievale, senza per questo perdere la più totale serietà. Andreassi si limita a raccogliere le preziose testimonianze dell'oggetto-soggetto dell'indagine cinematografica, proponendo qualche carrellata di immagini di dipinti di De Chirico che aiutano a concretizzare visivamente gli argomenti trattati sul piano verbale. Da segnalare inoltre che questa risulta la prima e ultima apparizione del pittore su pellicola in qualità di attore. Fra la metà degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta, Raffaele Andreassi girò un'imponente mole di corti documentaristici, tra i quali vale qui la pena di ricordare, nel 1965, Antonio Ligabue, pittore.
mm40
https://www.filmtv.it/film/50633/de-chirico-metafisico/recensioni/835673/#rfr:film-50633



Raffaele Andreassi

Nato nel 1924 a L’Aquila, cresciuto a Reggio Emilia, trasferitosi a Roma nell’immediato dopoguerra, Andreassi è un autore “isolato”, da scoprire. Oltre a un libro di poesie (Paesi del cuore, 1958) e all’attività di giornalista e di fotografo, ha realizzato, dal 1950, un centinaio fra cortometraggi e documentari, molti dei quali sull’arte. Per la televisione, oltre ad alcuni “caroselli”, ha diretto, fra il 1962 e il 1975, una trentina di servizi a carattere giornalistico e documentaristico. Per il cinema ha diretto Faccia da mascalzone, dai Racconti romani di Moravia, uno dei due episodi del film Hollywood sul Tevere (1955, ma uscito nelle sale e oggi introvabile). Del 1961 è il documentario di lungometraggio La nostra pelle, prodotto da Carlo Ponti e mai terminato. Nel 1963 realizza il film-inchiesta I piaceri proibiti (il cui titolo di lavorazione, cambiato per motivi commerciali, è L’amore povero), mentre del 1969 è il film di finzione Flashback, selezionato in concorso al festival di Cannes. Infine, nel 1999, porta a termine una sorta di summa della sua opera di documentarista d’arte, con risultati che vanno molto al di là delle premesse: I lupi dentro, tre ore sui pittori naïf della bassa padana, dove utilizza anche estratti di alcuni suoi cortometraggi degli anni Cinquanta e Sessanta. Il cinema di Raffaele Andreassi continua ad essere un oggetto misterioso e sconosciuto, nonostante l’evidente importanza storico-culturale e la rara intensità estetica che gli appartengono. L’intento della rassegna è riproporre per intero, con appuntamenti a scadenza mensile, tutti i lavori al momento proiettabili, conservati negli archivi della Cineteca Nazionale, dove è depositato il fondo del regista, della Cineteca di Bologna e dell’Archivio del Cinema d’Impresa di Ivrea.
https://www.fondazionecsc.it/evento/fuori-dal-coro-il-cinema-di-raffaele-andreassi-4/

 

Podríamos considerar a Giorgio De Chirico (1888-1978) como uno de los artistas más reconocidos y a la vez más desconocidos del arte contemporáneo. Sus obras son fácilmente reconocibles pero pocos conocen al artista.

Nacido en Grecia, aunque de origen italiano, inició sus estudios de dibujo en el Instituto Politécnico de Atenas, donde se dedicó a la copia de estatuas clásicas.

A los dieciséis años, tras la muerte de su padre, se estableció junto a su madre y hermano en Florencia, ciudad en la que realmente descubrió su amor por el arte a través de las obras maestras del arte renacentista que admiró en sus constantes visitas a los museos. Pero a pesar de la gran atracción que sentía por el arte florentino no estaba convencido del valor docente de la Academia de Bellas Artes sintiendo que le hacía falta una enseñanza más metódica y disciplinada, y a los dieciocho años se marchó a Alemania, donde se inscribió en la Academia de Bellas Artes de Munich, en la que recibió la influencia del simbolismo centroeuropeo, especialmente del pintor suizo Arnold Böcklin, y de filósofos alemanes como Schopenhauer y, sobre todo, Nietzsche.

En 1909, de camino a París, pasó una breve estancia en Turín, donde quedó impresionado por la arquitectura de sus plazas y arquerías decimonónicas. Ya en París y gracias al interés del poeta Apollinaire, fue invitado para exponer en el Salón de Otoño de 1912 y en el Salon des Indépendants de 1913 y 1914, y a pesar de ser exposiciones donde destacaba la pintura de vanguardia, el clasicismo de las obras de De Chirico sorprendió e interesó a los críticos y a otros artistas como Picasso o Braque.

La Primera Guerra Mundial lo devolvió de nuevo a Italia, alistado en el ejército fue destinado a Ferrara, ciudad que junto a Turín, se convirtió en inspiración para los inconfundibles ambientes urbanos de sus pinturas y donde entró en contacto con Carrà, Soffici y Papini, artistas que provenían del futurismo italiano y que quedaron fascinados por los temas y el estilo del artista, provocando el nacimiento de la pintura metafísica.

Aunque es a De Chirico a quien podemos considerar como creador de este nuevo estilo, yo solo empezaba a distinguir los primeros fantasmas de un arte más completo, más profundo, más complicado y, en una palabra (...) más metafísico. Un arte al que llegó a través de la investigación y de las cosas comunes, todo le hablaba de él, unos maniquíes, una puerta..., objetos tomados de la realidad que según el artista adquirían dos aspectos, uno corriente que es con el que se muestran y percibimos casi siempre y uno metafísico que sólo puede verse en momentos de clarividencia y de abstracción metafísica, una nueva visión que los alejaba de su función y cotidianidad.

El arte metafísico, a diferencia de otros movimientos vanguardistas, no tuvo una larga trayectoria ni tampoco una importante legión de seguidores, debido a esto se ha considerado en muchas ocasiones como un simple precursor del surrealismo. Estaba formado básicamente por dos artistas, De Chirico y Carrá, que en 1919 publicaron el manifiesto del movimiento Nosotros, los metafísicos, un año antes de que el grupo se disolviera tras una disputa entre los dos artistas. Es más difícil precisar su inicio, algunos lo marcan en 1915 año en que De Chirico y Carrá se conocieron, aunque muchos de los elementos que definen la pintura metafísica ya aparecían en obras anteriores de De Chirico, sobretodo a partir de 1910.

Sobre su relación con el surrealismo De Chirico fue claro y específico al rechazar el sueño como base para sus pinturas, es curioso que en el sueño ninguna imagen por extraña que sea, golpee con potencia metafísica; y por tanto rechazamos la búsqueda de una fuente de creación en el sueño. A pesar de ello es fácil ver en sus obras una clara anticipación de la pintura surrealista, ya que poseen una estética extraña, perspectivas imposibles, elementos simbólicos, objetos sumidos en una claridad sin atmósfera, donde todo sucede como si fuera un sueño.

A la hora de realizar sus obras De Chirico dio gran importancia no sólo a la técnica, sino también a los materiales. Gran admirador de la antigüedad clásica y del cinquecento, la pintura debía tener como base la pureza de la linea, el dibujo, que aprendió en su primera juventud a base de copiar estatuas, esa admiración se hizo patente sobretodo a partir de 1920, año en que su arte dio un giro hacia un arte más clásico, poniendo fin al arte metafísico
http://elartecomoarte.blogspot.com/2014/02/giorgio-de-chirico-sobre-el-arte.html



domingo, 29 de agosto de 2021

La donna della montagna - Renato Castellani (1944)

TÍTULO ORIGINAL
La donna della montagna
AÑO
1944
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN
91 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Renato Castellani
GUIÓN
Renato Castellani. Novela: Salvatore Gotta
MÚSICA
Nino Rota
FOTOGRAFÍA
Massimo Terzano (B&W)
REPARTO
Marina Berti, Amedeo Nazzari, Maurizio D'Ancora, Corrado Racca, Fanny Marchiò, Maria Jacobini, Carlo Mengoli
PRODUCTORA
Lux Film
GÉNERO
Drama | Melodrama

Sinopsis
Un ingeniero, al quedarse viudo, encuentra consuelo en el amor de una mujer joven, Zosi, que se convierte en su esposa. Cuando Rodolfo vuelve a la montaña, todo le recuerda a su primera esposa, el matrimonio entra en crisis y Zosi debe utilizar toda su dulzura para finalmente ser capaz de entrar en el corazón de su marido. (FILMAFFINITY)
 
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Es curioso constatar, de entrada, que la obra como realizador cinematográfico, del italiano Renato Castellani (1913-1985) -dejemos al margen sus aportes televisivos-, extendidas en casi treinta años, engloban 16 largometrajes, en dos de ellos, participando en uno de sus episodios. LA DONNA DELLA MONTAGNA (1944) -jamás estrenada comercialmente en España, al tiempo que mantenida aún en su condición casi invisible-, supone la tercera de sus películas, rodado en un periodo aún de conflicto bélico, durante las postrimerías del fascismo. Para recrear este intenso drama rural, establecido en contraposición a una determinada llamada del progreso, Castellani asumió la novela de Salvatore Gotta I giganti inamorati, recibiendo en el momento de su estreno una tibia acogida, y siendo reestrenada al año siguiente, suprimiendo los saludos fascistas que aparecían en algunas de sus secuencias. Película sórdida y desequilibrada, no solo brinda algunos episodios de extraordinaria fuerza dramática, y proporciona el seguimiento italiano a determinadas corrientes imperantes en el cine mundial de aquellos años, por encima de todo ello, algunas de sus elecciones formales adelantan con audacia célebres planteamientos, tiempo después considerados clave en la evolución de los códigos narrativos del drama psicológico.

LA DONNA DELLA MONTAGNA se inicia de manera abrupta e impactante, en el marco de una primitiva y montañosa localidad italiana, describiendo el entierro de la joven esposa del arquitecto Rodolfo Morigi (Amedeo Nazzari). La fallecida padecía del corazón, y murió en una crisis cardíaca, durante una de las excursiones montañosas con su esposo, sumiendo a este en un profundo abatimiento. Desde ese momento, la joven y sensible Zosi (magnífica Marina Berti) no deja de seguir al atormentado y taciturno Rodolfo, ayudándole a la hora de su recuperación pese a que este, literalmente, no desea verla. Sin embargo, el empeño de la muchacha logrará que una vez viaje a Roma, logre que su amado se case con ella. De poco le servirá dicho anhelo, puesto que el esposo mostrará casi de inmediato su infelicidad y el recuerdo a su primera esposa, abandonando a Zosi y retornando al refugio en el pueblo en el que residía, atormentándose e intentando ubicar una cruz de hierro en el lugar donde falleció esta. La muchacha quedará inicialmente noqueada, pero Luciano, el chofer de la familia, le confesará que él mantuvo una relación oculta con la difunta. El conocimiento de ese nuevo elemento en la personalidad de la desaparecida, le hará volver casi de inmediato al pueblo, donde vivirá junto a su marido, soportando hasta lo indecible no solo su carácter hosco, si no las constantes humillaciones a las que le hace objeto, siendo como es una muchacha procedente de una acaudalada familia. Esa espiral de auténtica degradación personal alcanzará una inesperada inflexión con la llegada de Luca (Maurizio d’Ancora), primo de la muchacha. Su amabilidad y gentileza pondrá en valor las lamentables condiciones en que esta sobrevive, intentando proporcionarle una serie de alicientes, que le hagan reflexionar la posibilidad de abandonar aquel infierno interior. De manera inesperada, el cariño familiar brindado por Luca despertará los celos del hasta entonces ausente Rodolfo y, con ellos, una aún más sorprendente redención.

Antes lo señalaba, LA DONNA DELLA MONTAGNA se inicia de manera deslumbrante describiendo de manera intensa, como si fuera desde la mirada de uno de sus testigos el entierro de esa médica, que desde el primer momento sabemos ha gozado de la admiración del conjunto de la población. La orografía del paisaje rural, los rostros curtidos de sus habitantes, la trágica tensión del momento, el rostro demudado de su viudo, la intención de moverse en la concentración de Zosi, la irrupción de la lluvia, arreciando, mostrando todo un bosque de paraguas, e incluso incidiendo en ello las diferencias sociales -el monaguillo que abre uno para cubrir al sacerdote-, la llegada al camposanto totalmente embarrado, el desvanecimiento de Rodolfo, incapaz de resistir más la situación, conforman unos minutos insuperables, que estoy seguro deberían ubicarse entre los más intenso legado en el cine italiano de su tiempo. Es cierto que el resto de la película nunca alcanzará dicho nivel. Sin embargo, un comienzo tan arrebatador logra extender su influjo al resto de la película, imbricando al conjunto de su metraje de un aura oscura y mortecina, en donde se dirimirá ese insólito melodrama triangular establecido entre Zosi, el áspero Rodolfo, y el eco de la esposa muerta, que argumentalmente, no deja de plantear una deuda con referentes a la muy cercana REBECCA (Rebeca, 1940. Alfred Hitchcock).

En cualquier caso, nos encontramos ante un relato con personalidad propia. Dominado por la densa iluminación en blanco y negro de Massimo Terzano ayudado por el oportuno aporte sonoro de un joven Nino Rota, el film de Castellani resalta en todo momento en esa tonalidad mortecina, por apelar más a lo intangible. A intentar, en definitiva, expresar más la sensación que una apuesta por lo narrativo. De hecho, la película en ocasiones incide en una transgresión de recursos cinematográficos, a los que su propia progresión argumental casi demanda. Me refiero, a este respecto, a dos momentos en los que casi se reclama a gritos la presencia de sendos flashbacks, pero de los que finalmente se renuncia. Serán extrañas y valiosas situaciones como esta -la importancia que alberga la presencia de ese perro, casi siempre en off, como metáfora de la tensión existente en torno a la relación de la pareja protagonista-. Castellani utiliza con acierto el over narrativo -la manera con la que se describe la boda del arquitecto y la insistente y amorosa joven-, o el gusto por el detalle -la presencia de esa cruz de hierro, patentizando el recuerdo de la fallecida; la utilización que el director realiza del aspecto exterior de Zosi

Sin embargo, en un conjunto al que no se le puede ocultar cierta irregularidad, y quizá demasiado apresurado en su conclusión, no es menos cierto que en todo momento adquiere un extraño poso, una cuidada ambientación -sobre todo en lo que compete al ámbito rural-. Pero, por encima de sus ocasionales reproches y sus notables virtudes, lo cierto es que LA DONNA DELLA MONTAGNA proporciona algunos momentos, que adelantan ciertas corrientes pronto exploradas en el cine italiano. Uno no deja de encontrar en la inaceptable sumisión de Zosi, un precedente de la Ingrid Bergman en la posterior STROMBOLI (TERRA DI DIO) (1950, Roberto Rossellini). Pero yendo aún más lejos, es evidente que destacará la brillante secuencia descrita en el museo de escultura clásica presentando ya casados a Rodolfo y Zosi, plasmando con un casi irrespirable tiempo muerto, la inseparable barrera que los separa afectivamente. Será un extraordinario pasaje, al que sucederá la de la visita de la esposa a esa fría e inhóspita casa romana, desprovista del menor mobiliario, en la que la nueva esposa se encontrará sola, esperando de manera infructuosa la llegada de su marido, hasta que finalmente Luciano, el chófer, le anuncie que este la abandonó, marchándose hasta la montañosa población. Ambos episodios, insertos de manera consecutiva, aparecen a mi modo de ver como inapreciables precedentes, de esa posterior apuesta por el vacío narrativo o los tiempos muertos, que consolidarían y harían célebres con posterioridad, la obra de cineastas como el ya citado Rossellini o Michelangelo Antonioni, una vez iniciada la década de los cincuenta.
http://thecinema.blogia.com/2020/120701-la-donna-della-montagna-1944-renato-castellani-.php

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Come il film di Chiarini, anche La donna della motagna (95 min.), terzo fim di Renato Castellani, sta per essere ultimato nell’estate del 1943 quando le note vicende belliche ne interrompono la lavorazione. La pellicola, libeamente ispitrata al romanzo I giganti innamorati (1938) di Salvator Gotta, viene poi terminata in modo frettoloso e distribuita nell’ottobre 1944.
Vi si raccontano i crucci di Rodolfo (uno sbiadito Amedeo Nazzari), un ingegnere impegnato in un cantiere dalle parti del Cervino, che perde in un incidente di montagna l’amatissima e un po’ misteriosa moglie Gabriella. Il film apre sul funerale della suddetta e introduce immediatamente l’allucinata Zosi (un’intensa Marina Berti), la quale, accecata da un amore folle, non vuole lasciare solo l’uomo neppure nei giorni del lutto. Riuscirà a farsi sposare da un Rodolfo indifferente che finisce col maltrattarla duramente e i cui unici e costanti pensieri sono rivolti alla donna morta. In casa non può mancare la stanza della defunta, perfettamente conservata. Nel frattempo veniamo a sapere che Gabriella era una donnina allegra che si accompagnava con l’autista ed altri mentre l’ingenuo marito lavorava alacremente; Zosi sa ma tace. Il melodramma conosce le prevedibili aspre punte di tensione fino al lieto e artificioso scioglimento nel quale Rodolfo capisce i propri errori e finalmente ricambia l’amore di Zosi.
La vicenda, più adatta al teatro lirico che al realismo fotografico del cinema, offre uno spettacolo monocorde e tedioso: i personaggi, stereotipati ed assurdi, non riescono a prendere reale, umana consistenza (con l’eccezione, forse, della figura di Zosi, ben interpretata dalla Berti) mentre l’impianto generale copia sfacciatamente Rebecca (Hitchcock, 1940), pellicola fortunosamente distribuiita in Italia nell’autunno 1941. Il film esamina il rapporto servo-padrone, toccando punte di sadismo abbastanza inconsueto per il cinema coevo: il gelido disinteresse di Rodolfo per l’ostinata e devota Zosi si trasformano in un gioco al massacro in cui la donna sembra provare un sinistro piacere nel venire costantemente umiliata. Sono questi insoliti e surreali eccessi a  divenire l’unico elemento di interesse di una pellicola insolita, lettararia e calata in un contesto sostanzialmente atemporale. Saggiamente gli autori hanno ambientato la vicenda nel 1938, al di fuori dal contesto bellico, così da potersi concentrare unicamente sulle dinamiche relative ai tre personaggi del racconto.
http://www.giusepperausa.it/dagli_appennini_alle_ande__i_p.html 


 

sábado, 28 de agosto de 2021

2019 - Dopo la caduta di New York - Sergio Martino (1983)

TÍTULO ORIGINAL
2019 - Dopo la caduta di New York
AÑO
1983
IDIOMA
Italiano, Español e Inglés (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
96 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Sergio Martino
GUIÓN
Ernesto Gastaldi, Sergio Martino, Gabriel Rossini
MÚSICA
Guido De Angelis, Maurizio De Angelis
FOTOGRAFÍA
Giancarlo Ferrando
REPARTO
Michael Sopkiw, Valentine Monnier, Anna Kanakis, Romano Puppo, Paolo Maria Scalondro, Louis Ecclesia, Edmund Purdom, Serge Feuillard, Tiziana Fibi, Hal Yamanouchi, Alessandra Tani, George Eastman
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Francia; Les Films du Griffon, Medusa Produzione, Nuova Dania Cinematografica
GÉNERO
Ciencia ficción. Acción. Terror | Holocausto nuclear. Futuro postapocalíptico

Sinopsis
La hecatombe nuclear se sucede sobre la faz de la tierra y un puñado de seres humanos logran sobrevivir. (FILMAFFINITY)
 
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Sub 

Hace poco, con motivo del centenario de Mario Bava, hablábamos de la película que está considerada como el inicio del giallo, en el cual destacaron muchos directores más allá del mencionado o el que fue el rey del mismo, Dario Argento —a día de hoy muchos de los giallos de Argento están muy por debajo de otros films coetáneos no tan conocidos—. Entre ellos destaca Sergio Martino, en cuyo currículum hay películas tan imprescindibles como ‘La perversa señora Ward’ (‘Lo strano vizio della Signora Wardh’, 1971) y ‘La cola del escorpión’ (‘La coda dello scorpione’, 1971).

‘2019, tras la caída de New York’ (‘2019 - Dopo la caduta di New York’, 1983) no corresponde a su mejor época, más bien todo lo contrario, y ni siquiera se enmarca dentro del giallo. Su existencia se debe a los éxitos mundiales de la saga Mad Max, que por aquel entonces ya había estrenado dos entregas, y sobre todo ‘1997: Rescate en New York’ (‘Escale From New York’, John Carpenter, 1981), la cual por cierto posee numerosas referencias al cine italiano. La película de Martino añade además elementos de otros muchos films de ciencia-ficción conocidos. El resultado es de lo más delirante, y sólo desde esa perspectiva se puede disfrutar.
Cuenta la leyenda que el guión de ‘2019, tras la caída de New York’ estaba escrito antes que el del film de Carpenter —excusa utilizada en la mayoría de los casos de películas que se parecen—, pero está claro que el film decide hacerse después, influenciado por el arrojo del director de las dos aventuras de Snake Plissken. En cualquier caso los parecidos son excesivos, con un esquema argumental bastante similar. Aquí tenemos a un guaperas al que el futuro apocalíptico no es capaz de despeinar —voz y cuerpo de Michael Sopkiw— que deberá rescatar/secuestar a la única mujer fértil del planeta. ¿Alguien ha dicho Alfonso Cuarón e ‘Hijos de los hombres’ (‘Children of Men’, 2006)? Como veis, nada es original en el mundo del celuloide.

Referencias, plagios, poca vida
Pero aún hay más. ‘El planeta de los simios’ —la buena, la única, la del 68— también navega por las imágenes de este delirio que Martino firmó con seudónimo americano, al igual que los diálogos están en inglés, por aquello de vender internacionalmente el producto —algo que hoy día por ejemplo se hace en nuestro país con la productora Filmax y sus films de terror—; no deja de ser llamativo el hecho de buscarse un nombre americano para vender, y el paso del tiempo reivindica el nombre de Sergio Martino como el excelente cineasta que fue en determinados títulos.

Con un presupuesto paupérrimo para los efectos visuales y demás —aunque hay que reconocer que las maquetas están usadas con cierto ingenio en la descripción de un New York totalmente desolado—, Martino no pone demasiado empeño en resultar serio, o incluso creíble, en lo que narra. Tal vez el penoso guión, o simplemente que la película era un encargo, no animaron a un director con inventiva en la puesta en escena a poner demasiado de ello en la misma. Montaje rutinario, ritmo a golpes y situaciones brutalmente absurdas, como muchas de las decisiones de los personajes, o algunos de los diálogos de los villanos.

Mucha acción bruta, aunque filmada a la buena de dios, y sin sentido del espacio o la planificación, mucho rostro inexpresivo, mucha sangre, algo de sexo y una transcendencia final que quita el hipo. La supervivencia del ser humano es en realidad el tema, ese punto ególatra de pensar que somos algo que merezca la pena en todo el universo servirá para que muchas obras de arte sean inmortales, y otras den risa, como la presente. Para ver con un buen amigo y echarse unas risas.

Alberto Albuín
https://www.espinof.com/criticas/2019-tras-la-caida-de-new-york-de-mad-max-a-snake-plissken


Un sorprendente cruce apocalíptico entre "WATERWORLD" y "MAD MAX" surgido de la mente de Sergio Martino.  Veinte años después de la Guerra Nuclear, la humanidad intenta reconstruir el mundo pero la contaminación hace imposible la procreación. La Federación ha localizado a una mujer fértil que será la única esperanza para la humanidad pero se encuentra atrapada en Nueva York. La Federación pide al mercenario Parsifal que la encuentre a cambio de conseguir una plaza en la nave que llevará a la humanidad a Alfa Centauri para iniciar una nueva vida.
Una nueva versión “italianada” que bebe directamente de 1997: RESCATE EN NUEVA YORK, MAD MAX e incluso se permite ciertos toques de EL PLANETA DE LOS SIMIOS es una rara joya pero que resulta realmente entretenida y con una rara belleza. Una maravillosa “película de serie B” que dicen las malas lenguas que el guion se escribió antes que la película de Carpenter, pero que se lanzó dos años después. Lejos de juzgar la voluntad (o plagio) de los yankees, nos centraremos en la película realizada por Martin Dolman, que no es otro que seudónimo del director Sergio Martino.
2019,TRAS LA CAIDA DE NUEVA YORK es una película segura en lo que se refiere a entretener al espectador ante una amplia gama de efectos visuales “caseros” en el que se nota la experiencia del director en este tipo de largometrajes. Una historia que no se pierde en el “sinsentido” y que funciona sorprendentemente, a pesar de esos escenarios de “cartón-piedra” y esos efectos especiales de las pistolas de rayos laser, pero antes de cerrarnos en banda ante las deficiencias estéticas, hay que pensar en varios valores como son la (fina) introducción de la fábula de “La bella Durmiente” y esos actores que siempre funcionan en esa época como Michael Sopkiw, Edmund Purdom y George Eastman.
Sopkiw que solo participo en cuatro películas (dejándolo para después meterse en el mundo empresarial) funciona como el “guaperas” de turno en una versión más dandy de lo que sería el personaje de Kurt Rusell (Serpiente Plinsky) en 1997:RESCATE EN NUEVA YORK.Purdon sería la cabeza visible de los rebeldes y George Eastman que es un actor que hemos visto en gran cantidad de producciones italianas como por ejemplo GOMIA,TERROR EN EL MAR EGEO (1980) que tiene que meterse en la piel de “Big Ape” un hombre-simio con sus propias preocupaciones (y también un poco cabron).Todo esto en un mundo que ha sobrevivido a una guerra nuclear y donde las mujeres no puede procrear (ahí cierta fabula que habrá sobre la bella durmiente) en un Nueva York lleno de delincuentes y que tiene gran cantidad de escenas violentas ( e incluso gore) que serán bienvenidas por el fan más acérrimo a la “Serie B”.
En definitiva y resumiendo: 2019, TRAS LA CAIDA DE NUEVA YORK es una de las mejores cintas que salieron como churros “italianos” que intentaban emular a películas de éxito en USA. Una historia de una especie de “Equipo A” raruno en busca de la fertilidad en un Nueva York lleno de violencia. Entretenimiento de primera y que merece un visionado aunque no seas un fanático de estas “joyas”…
http://www.elultimocritico.com/2017/05/mister-video-5-2019tras-la-caida-de.html


2019 – Dopo la caduta di New York (1983) è un film diretto da Sergio Martino (sotto lo pseudonimo di Martin Dolman) e scritto da Ernesto Gastaldi (aka Julian Berry), sceneggiatore di numerosi spaghetti-western e noir che ha collaborato anche con Mario Bava e Lucio Fulci, e dallo stesso Martino. Il lungometraggio, girato con un budget di 750 mila dollari tra Roma, New York e l’Arizona, nonostante le critica nostrana abbia espresso pareri poco benevoli (per usare un eufemismo) nei suoi confronti all’epoca dell’uscita nei cinema, andò abbastanza bene al botteghino, soprattutto negli Stati Uniti, fino ad assurgere addirittura allo stato di cult, non solo grazie alle rivalutazioni di importanti registi contemporanei, su tutti Quentin Tarantino, ma anche per le sue qualità intrinseche.

In un 2019 distopico e post-atomico il mondo è diviso tra la Confederazione Americana e gli Eurac. I sopravvissuti della guerra nucleare non possono più riprodursi, poiché le donne hanno perso la fertilità a causa delle radiazioni e il genere umano sembra essere destinato all’estinzione. La Confederazione viene a sapere che a New York si trova l’ultima donna fertile e il Presidente incarica così Parsifal (Michael Sopkiw), un guerriero della strada, di recuperarla, promettendogli un posto sull’astronave pronta a partire per un altro pianeta. Nel suo viaggio il protagonista si imbatterà in replicanti, lotte all’ultimo sangue e fughe nelle fogne, fino a una conclusione al sapore dolceamaro.

E’ interessante notare anzitutto alcuni aspetti che più di altri caratterizzano la pellicola, a cominciare dal citazionismo quasi estremo presente praticamente lungo tutto il minutaggio, non da biasimare per la scarsa inventiva, ma a posteriori fulgido esempio di come al tempo in Italia i filmmaker riuscivano a ‘far propri’ i blasonati modelli americani, rielaborandoli in povertà ma con dignità. Si parte con la saga di Mad Max di George Miller, in particolare con Interceptor – Il guerriero della strada (Mad Max 2 – The road warrior, 1981) per l’ambientazione desertica, lo scontro con automobili modificate e l’abbigliamento del protagonista Parsifal.

Segue Blade Runner di Ridley Scott (1982) per la presenza dei replicanti tra gli uomini, qua con una connotazione prettamente negativa, essendo visti sì come macchine efficientissime, ma fredde, senza emozioni, incapaci di giudicare in base al contesto e alla situazione specifica e quindi imparagonabili agli uomini e perciò spesso criticate.

Vengono ‘omaggiati’ anche i praticamente coevi 1990 – I guerrieri del Bronx (1982) e il sequel Fuga dal Bronx (1983), entrambi diretti da Enzo G. Castellari, specialmente nelle scene in cui i personaggi si muovono tra le fogne, mentre la saga de Il pianeta delle scimmie viene ripresa attraverso uno dei clan che abitano New York. Ultimo in questa lista è 1997: fuga da New York (1981) di John Carpenter, uno di quei film che ha dato il via a un filone del post-apocalittico e che inevitabilmente diventa cult e ‘standard’ con cui misurarsi (come ammesso, più o meno …,  dallo stesso Sergio Martino).

Un altro aspetto singolare di 2019 – Dopo la caduta di New York è la presenza di certi rimandi al Medioevo: i costumi costituiscono una parte fondamentale di questo immaginario e infatti Parsifal (nome anche questo ben radicato nella cultura medievale, visto la sua derivazione dalla mitologia e dalle leggende del ciclo arturiano) indossa una giacca di pelle con parti esterne visibili in cotta di maglia. Poi, oltre ovviamente alla continua situazione di degrado morale e civile messa in scena nella città, la scelta dei cavalli, simil-elmi e balestre spara-laser per le guardie Eurac dimostrano ancor di più il peso di questo buio periodo storico all’interno del film.

L’intervento sui costumi da parte di Adriana Spadaro, conosciuta forse più per le collaborazioni su alcuni titoli del filone della commedia sexy all’italiana, si dimostra in tal senso efficace. Inoltre, l’inserimento di alcune sequenze splatter, ben realizzate nonostante i pochi fondi a disposizione, creano quella crudezza di linguaggio cinematografico che si adatta perfettamente al cinema di genere. La più nota è probabilmente quella in cui Russell (Romano Puppo), guardia del corpo di Parsifal dotata di un gancio meccanico al posto della mano, acceca uno dei capi degli Eurac facendo sgorgare copiosamente il sangue dalle sue orbite.

Gli effetti speciali vennero affidati alle cure di Paolo Ricci, della famosa casa Fx Ricci (al lavoro anche su Nostalghia di Andrej Tarkovskij), che si focalizza – oltre che sui pochi momenti grandguignoleschi – sulle esplosioni, sulle miniature della città distrutta e sul trucco dei personaggi. Menzione speciale anche per le incalzanti musiche degli ispirati Guido e Maurizio De Angelis.

Importante sottolineare la regia dinamica di Sergio Martino, in cui tutto è funzionale alla narrazione e nessuna inquadratura viene sprecata: un montaggio che taglia i momenti di noia che potrebbero appesantire la visione e predilige piuttosto le scene di azione e di movimento. Azzeccata poi la fotografia di Giancarlo Ferrando, impreziosita dalla scenografia di Antonello Geleng (Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato e Paura nella città dei morti viventi di Lucio Fulci).

E’ il finale che può essere invece considerato la vera nota stonata di 2019 – Dopo la caduta di New York (assieme alla recitazione di alcuni attori). L’ultima scena, in un più unico che raro lieto fine per il sottogenere, vede Parsifal e l’ultima donna fertile rimasta sulla Terra partire con un astronave verso un altro mondo, mentre il pre-finale stucca un po’, risultando eccessivamente smielato a causa della morte di Giara (Valentine Monnier) e di come il protagonista manifesta il suo lutto, in contrasto con l’aridità di sentimenti e emozioni fino a quel punto mostrata. Menzione ulteriore la non-conclusione dei propositi di cattura dei fuggitivi dalla blindatissima New York da parte del capitano degli Eurac, Ania (Anna Kanakis), che viene inspiegabilmente dimenticata.

Piccoli difetti che non inficiano la visione nel suo complesso, ma anzi dimostrano come anche un film non perfetto possa diventare di culto – almeno per alcuni – per alcune scelte ‘originali’ e per un certo modo di intendere il cinema post-apocalittico da parte del suo regista.

Lorenzo Di Giuseppe
https://www.ilcineocchio.it/cinema/recensione-2019-dopo-la-caduta-di-new-york-sergio-martino/


El cine post-apocalíptico ha sido uno de los géneros más recurridos en una multitud de variantes dramáticas. Aunque últimamente vemos como grandes producciones norteamericanas se nutren de esa variante de la ahora popularmente denominada distopía, las historias ficticias sobre sociedades futuras decadentes hoy son recordadas como excelso reclamo en multitud de variantes. A vuela pluma podemos mencionar el cómo una novela ha sustentado tantas ideas para el cine fantástico si recordamos el Soy Leyenda de Richard Matheson, o la eclosión del subgénero apocalíptico inaugurado por El Planeta de los Simios, que originó una retahíla de obras hermanas que retrataban un infausto futuro sobre la raza humana. Además de traspasar las barreras norteamericanas llegando hasta la decrépita Australia que dibujada Mad Max, la industria italiana de géneros también adoptó los futuros catastrofistas dentro de un cine espiritualmente «trash» que elevaba al cubo las intenciones de aprovechamiento del éxito ajeno que la cinematografía del país llevaba practicando desde décadas atrás.

El llamado post-apocalíptico italiano, paradigma de una época dorada del «exploit» europeo y la generación del videoclub, y que dejó para el público otras piezas nostálgicas y artesanas como Los Guerreros del Bronx o Los Nuevos Bárbaros (curiosamente ambas del mismo director, Enzo G. Castellari), tiene  en 2019 Tras La Caída de Nueva York una figura ejemplar para comprender, entender e incluso amar al subgénero, si se asimila el encanto de la cultura de explotación de la que es partícipe. Nos encontramos en un Nueva York devastado por una hecatombe nuclear, donde veremos una ciudad en su día prototipo del desarrollo universal y que en año 2019 se encuentra devastada y dominada por regímenes enfrentados. La película viene dirigida por una eminencia dentro de la industria italiana de géneros como Sergio Martino, con su previo recorrido por el «giallo», movimiento en el que dejó algunas de sus obras más recordadas. La cinta tiene en el punto de mira a esas piezas claves que en su día fueron modelo para la contracultura apocalíptica italiana, como son 1990 Rescate en Nueva York de  John Carpenter y la previamente citada Mad Max. De la primera no sólo será la clara referencia en el título lo único que asimile, ya que el esquema argumental también se nutre de ese concepto de la gran urbe sumida en la anarquía. De ambas se ayuda para la composición de la arquitectura formal del antihéroe, gran angular de toda obra distópico-apocalíptica, en el que recae toda la faceta “heroica” de la trama además de representar esa posición reaccionaria ante los nuevos cauces de esas sociedades futuras.

La película de Martino gana encanto por la auto-confesa ranciedad de su operativo del espectáculo, que esconde un humilde uso de los arquetipos del subgénero dentro de un sentido de la diversión admirable y reivindicativo. En ella se manifiesta la sabia utilización de las propias limitaciones, al no ocultar esa inherente etiqueta «trash» que lejos de empobrecer la imagen de la película hace que algunos de sus valores puramente cinematográficos compensen esas limitaciones formales que sólo un escaso presupuesto ha podido originar. Así, el director saca de dentro el buen hacer de épocas pasadas para imprimir a la película un ritmo organizado y elaborado, aprovechando los momentos más afines a la acción para dibujar su más que consecuente artesanía, latente a pesar de los pobres resultados estéticos. En lo relativo a la ficción y su dramatización la película tuerce voluntariamente hacia lo grotesco, jugando con la línea fina de la ironía en algunos de sus postulados argumentales como ese eje narrativo que habla de la última mujer fértil sobre la tierra, premisa también de la obra en la que se basaba Hijos de los hombres de Alfonso Cuarón.

En definitiva, 2019 Tras la Caída de Nueva York sirve como muestra de la desmesurada visión de la cinematografía de consumo italiana con una variante tan popular de la llamada distopía, honesta en su peculiar construcción de la ficción y consecuente con sus acotaciones estéticas, que son compensadas por la inocente acepción de las premisas triunfales ajenas.

Dani Rodríguez
https://www.cinemaldito.com/sesion-doble-o-bi-o-ba-el-fin-de-la-civilizacion-1985-2019-tras-la-caida-de-nueva-york-1983/

 

viernes, 27 de agosto de 2021

Le massaggiatrici - Lucio Fulci (1962)

TÍTULO ORIGINAL
Le massaggiatrici
AÑO
1962
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Italiano (Separados)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Lucio Fulci
GUIÓN
Oreste Biancoli, Italo De Tuddo, Vittorio De Tuddo, Antoinette Pellevant
MÚSICA
Coriolano Gori
FOTOGRAFÍA
Guglielmo Mancori (B&W)
REPARTO
Sylva Koscina, Cristina Gaioni, Valeria Fabrizi, Marisa Merlini, Ernesto Calindri, Philippe Noiret, Laura Adani, Luigi Pavese, Louis Seigner, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Nino Taranto
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Francia; Gallus Films, Panda Film
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
Dos ricos empresarios de Milán llegan a Roma para cerrar un importante negocio. Allí conocen a una fascinante mujer de nombre Marisa que ejerce, junto a dos amigas, Milena e Iris, la profesión de falsa masajista. Por una serie de equívocos, Marisa es presentada como la esposa de Parodi, uno de los empresarios, pero la llegada a Roma de la verdadera señora Parodi complica no poco la situación. (FILMAFFINITY)
 
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La historia gira en torno a dos industriales milaneses que viajan a Roma para firmar un importante contrato con un empresario democristiano. Uno de ellos aprovecha la lejanía de su esposa para contratar a una masajista, que por entonces así vendían sus servicios las prostitutas; el otro, por el contrario requiere los servicios de una verdadera masajista, ya que no se encuentra nada bien. A partir de aquí, los enredos y los equívocos se suceden de manera vertiginosa e incluyen un cadáver al que hay que esconder con urgencia.

Segunda de las películas dirigidas por Fulci en la que no se implicó directamente con el guión –la primera fue La rubia tuvo la culpa (1962)-, dejando esta labor a cuatro guionistas, entre los que destaca el veterano Oreste Biancoli, que había colaborado en el libreto de El ladrón de bicicletas (Vittorio de Sica, 1948).

Se trata, como hemos dicho, de una comedia de equívocos, con elementos de farsa –no en vano, la película lleva como subtítulo Pochade in un tempo moderno- a los que se añaden toques de erotismo bien provisto por sus bellísimas protagonistas y que desemboca en un sano humor negro a cuenta de un cadáver que desaparece y aparece en los lugares más insospechados, a lo que hay que sumar la aparición de la pareja formada por Franco Franchi y Ciccio Ingrassia, que ya habían protagonizado el anterior filme del realizador romano.

La historia no es muy original, ciertamente, pero está llevada con gracia y la trama avanza con unas situaciones grotescas in crescendo que se multiplican con la entrada en escena de Franchi e Ingrassia, absolutamente geniales mientras están siendo seducidos por Sylva Koscina y Valeria Fabrizi.

En la trama subyace una crítica destructiva contra la falsa moral de la democracia cristiana, representada por los personajes interpretados por Louis Seigner y Philippe Noiret, que muestran una tremenda hipocresía en temas sexuales, como bien puede observarse en la llamada telefónica que el primero hace requiriendo a una prostituta y, ante la entrada del segundo en la misma sala, disimula como puede. Resulta curioso comprobar que para interpretar estos papeles se contara con dos actores franceses.

Una de las escenas más divertidas de la película sucede en un restaurante y tiene como protagonistas a uno de los industriales (Ernesto Calindri), que comparte mesa con el ultraconservador Philippe Noiret y con una de las “masajistas” (Sylva Koscina), que se hace pasar por esposa del primero. La llegada por sorpresa de su verdadera mujer crea un ingenioso caos de malentendidos.
 
Frente a este hilo argumental encontramos también una divertida subtrama protagonizada por Nino Taranto, profesor de italiano y su mujer, estupenda Marisa Merlini, que se dedica al masaje terapéutico y tiene como vecinas a las tres prostitutas protagonistas. Las confusiones, como no, son objeto de regocijo.
 
Fulci sigue acomodado en el terreno de la comedia, género al que seguirá siendo fiel cuatro años más, en lo que realizará nueve nuevas comedias. Su dirección es ágil, aunque no puede evitar ciertos recursos teatrales. Curiosamente en Fulci, lo que cuenta tiene más importancia que cómo lo cuenta.
 
En cuanto al reparto, cabe resaltar la gran belleza del terceto protagonista femenino, con una Sylva Koscina guapísima, que realiza un amago de estriptís ante un asombrado Luigi Pavese; Cristina Gaioni, aparece como una prostituta con no demasiadas luces; y la fascinante Valeria Fabrizi, que venía de competir por el título de Miss Universo, y que aquí le recita a Nino Taranto varios artículos de la ley portando únicamente un bikini. Por su parte, el reparto masculino, huérfano de beldades, cumple su cometido, con un notable Ernesto Calindri sobresaliendo del resto.
 
Supone también el primer encuentro de Fulci con Giovanni Fago, que ejercerá funciones de ayudante de dirección en varias películas suyas.

Así pues, nos encontramos ante una comedia sin pretensiones, que va de menos a más, y que no ha contado nunca con el beneplácito de la crítica, que la ha ninguneado sistemáticamente. Tampoco fue un éxito en taquilla, pero bien merece una revalorización.

¿Sabías que…?

Es el primer filme italiano de Philippe Noiret.

Ernesto Calindri se haría bastante famoso posteriormente gracias a la campaña de publicidad que hizo para el licor Cynar.

El crítico Alberico Sala fue conminado para que no fuera demasiado malo (cattivo) a la hora de analizar la película en los periódicos.
https://stranovizio.blogspot.com/2015/10/proyecto-lucio-fulci-vi-le.html


Nel 1962, Lucio Fulci aveva già esordito nel primo tra i tanti generi da lui affrontati: il cinema comico a tutti gli effetti. Era un cinema basato soprattutto su gags brillanti recitate da protagonisti dalla forte personalità, e che usava la storia di fondo più come funzionale contenitore di situazioni grottesche e riusciti calembours, recitati dai vari Totò (I Ladri, il suo esordio assoluto), Celentano o il duo Franchi-Ingrassia, che per tenere attanagliati gli spettatori allo svolgersi dell’insieme. Pellicole e personaggi stralunati al punto giusto da potersi ritenere rappresentativi della commedia fulciana più dell’opera di cui ci occupiamo noi, apparentabile per raffinatezza solo ad un’altra sua opera brillante quasi coeva, Colpo Gobbo all’Italiana.
Colpo Gobbo e Le Massaggiatrici sono commedie concepite in maniera opposta rispetto a pellicole come I Due della Legione Straniera o i musicarelli col ‘Molleggiato’; erano basate più su una costruzione di trama coinvolgente che sull’espressività degli attori, e anticipano in qualche modo l’attenzione alla robustezza narrativa che il regista riserverà in futuro ad altri generi quali il giallo e l’avventuroso e che aveva affrontato fino ad allora solo saltuariamente come sceneggiatore per pellicole altrui. Con questo non vogliamo assolutamente sostenere che gli interpreti di Le Massaggiatrici, tra cui nientemeno che Philippe Noiret al suo esordio italiano, non siano abbastanza carismatici, e ci mancherebbe altro… Ma solo che è una commedia cui l’ossatura va di pari passo con la qualità degli attori.
Era un’epoca in cui per gli attori il talento era talento e non esistevano cast di serie A o serie B, categorizzazioni semmai riservate soltanto a giudizi di merito sulle pellicole, e quindi non appariva affatto strano vedere gomito a gomito Louis Seigner e Franco Franchi, Ernesto Calindri e Nino Terzo.
Il titolo secondario del film – impresso nei fotogrammi iniziali – è “Pochade in un tempo… moderno”, e la sottolineatura pleonastica costituita da quest’ultimo aggettivo, letta con lo spirito di oggi, è già un motivo di divertimento esattamente come tutte le volte in cui constatiamo, in un film dei primi anni ’60, che qualsiasi implicazione di argomenti sessuali era già di per sé un fattore indicante una compiaciuta, pruriginosa e decadente mondanità. Sempre con gli occhi di oggi, poi, trattandosi di un film diretto da Fulci, sappiamo già di doverci aspettare provocazioni e graffi satirici anche politici piuttosto marcati e ben al di sopra degli standard dell’epoca. Sarebbe stato interessante interpellare lo spettatore medio di mezza età all’uscita dal film sulle sue impressioni riguardo a una commedia che vede con palese simpatia umana certe ‘professioniste’ e che non lesina frecciate dirette e ben pronunciate su un certo modo di far politica dell’allora intoccabile ‘balena bianca’. Indubbiamente, sempre col senno del poi, leggiamo in questa pellicola un anticipo, ancorché più garbato ed elegante, delle tematiche che nel 1972 diedero vita al suo controverso All’Onorevole Piacciono le Donne, commedia surreale ma talmente palese nei suoi intenti da scatenare dibattiti e censure in un’epoca in cui si era, almeno teoricamente, più preparati alla beffa politica.
Certo, tra gli autori del film del ’62 non figura il nome del regista (si trattava di Oreste Biancoli, Italo De Tuddo, Vittorio Metz e Antoinette Pellevant), ma chi sa qualcosa di Fulci è perfettamente al corrente del fatto che era impossibile che dalla sua mano non derivasse una personalizzazione determinante, al punto che ci sentiamo ragionevolmente certi che, con lui di mezzo, per arrivare a un risultato così ardito la coproduzione francese non fosse assolutamente necessaria. Il contributo francese lo percepiamo più che altro dalla prima parola del titolo secondario, poiché effettivamente dell’attualizzazione di una pochade si tratta, ossia di un intreccio di situazioni piccanti che affonda le sue radici nella commedia teatrale parigina del XIX secolo e di cui proprio Luois Seigner della Comédie française era il portavoce principale (e difatti la sua scritturazione non fu affatto casuale). Scelte dettate dalla coproduzione, dunque, ma che non erano estranee al mondo personale di Fulci, il quale era un grande conoscitore della cultura transalpina. La Francia, dal canto suo, ricambierà l’attenzione riservatale dal regista (celebri le sue citazioni artoidiane in L’Aldilà, benché da alcuni ritenute arbitrarie) dimostrandosi uno dei primi Paesi a riconoscere la sua dimensione autoriale.
La derivazione stilisticamente teatrale del film, da parte italiana è dimostrata soprattutto dalla presenza di Ernesto Calindri, attore da palcoscenico per antonomasia, dal sorriso sornione e particolarmente ferrato per i temi scanzonati. Per quel che riguarda origini non teatrali, il film appare come una versione leggera e positiva del classico di Antonio Pietrangeli Adua e le Compagne di soli due anni prima e, in misura minore, dell’onda lunga del successo di altri film all-women di successo di pochi anni prima quali ad esempio Le Infedeli (M. Monicelli, ’53), Le Amiche (M. Antonioni, ’55) e il lieve Le Dritte (M. Amendola, ’58). Non dimentichiamo infatti che le vere protagoniste di questo lavoro sono le tre prostitute Marisa, Iris e Milena, interpretate da Sylva Koscina, Cristina Gaioni e Valeria Fabrizi; attrici su cui, nonostante siano loro le ‘massaggiatrici’ del titolo, non ci soffermiamo troppo perché – per quanto brave – risultano inevitabilmente adombrate dal prestigio degli interpreti maschili.
Sfortunatamente, Le Massaggiatrici non rappresenta oggi un culto cinematografico come il menzionato All’Onorevole Piacciono le Donne di dieci anni dopo, ma merita appieno una riscoperta. E siamo grati alla rinascita del nome di Fulci – un recupero partito in modo indiretto dagli USA grazie al suo status di ‘Godfather of Gore’ e allargatosi ad ampio raggio anche nei generi – se esistono edizioni in DVD delle sue opere non orrorifiche e dunque anche di questa commedia. È da annoverarsi tra quelle poche pellicole italiane (ricordiamo gli ultimi Germi ma anche i meno blasonati Il Diavolo di G. L. Polidoro e Il Moralista di G. Bianchi, entrambi con Alberto Sordi) che, tra un’anticipatoria stilettata e una risata, hanno aperto la strada a un filone di commedie con tematiche sessuali via via sempre più scevre di argomenti di costume ma che per decenni hanno dato fiato all’industria cinematografica nostrana.
L’ingegner Parodi/Ernesto Calindri: “Sai, giriamo sempre per ministeri e uffici… Oggi ho deciso di andare a vedere queste famose bellezze romane, quei monumenti di cui si parla tanto! Quelle cupole meravigliose… Cose straordinarie, bellezze che hanno cento, cinquecento, e anche duemila anni!!!”
L’ingegner Manzini/Luigi Pavese, con aria serafica: “Ma scusa, non ti piacevano quelle di diciotto anni??”

Questo scambio, pronunciato a inizio film dai due industriali lombardi in trasferta a Roma per affari (di ogni tipo) non solo è la più memorabile del film, ma la dice lunga su come oggi siano cambiate le mentalità non sempre in senso evolutivo: in quale film odierno un azzimato sessantenne che si dichiara estimatore di donne appena maggiorenni – ‘massaggiatrici’ o no – verrebbe tratteggiato senza alcun un tono sprezzante e di ipocrita disgusto? Sia chiaro, il personaggio di Calindri non viene dipinto come un esempio, ma è più vicino al prototipo della simpatica canaglia che a quello del mostro di depravazione, stante il fatto che più si va indietro con gli annali del cinema e della letteratura e più si trova accondiscendenza all’idea che un uomo anziano possa avere preferenze per le giovanissime, benché talmente distante dai codici odierni del ‘buon gusto’ essere negata nella sua naturalità.
Altra sequenza che non può non essere notata è quella che abbiamo al 51mo minuto, quando il viscido funzionario di partito Bellini (Noiret), vedendo al ristorante la signora Parodi (Laura Adani) ma non conoscendola, la investe di male parole per via della sua mise a suo dire non proprio castigata: ‘Oooh… Ma guardi laggiù che sconcio!’, commenta a distanza alla sua commensale ‘Tutta quella carne in mostra! […] quella signora.. Se si può chiamare ‘signora’! Guardi com’è impudica! Così ignuda!! Vado a dirle il fatto suo’; poi, avvicinandosi alle spalle della signora Parodi: ‘Signora si copra! Si copra, la prego!’. Ora, che cosa, o meglio chi, può ricordare questo episodio, se non quello che a suo tempo vide protagonista il realmente esistito Oscar Luigi Scalfaro, in un sussulto di moralismo coltogli proprio in un ristorante romano? Ogni riferimento NON è da ritenersi puramente casuale.
La vicenda si snoda in modo divertente ma poco originale fino a metà film per poi prendere il volo nel momento in cui Cipriano Paoloni (Seigner), presidente del ‘Villaggio della Giovane’ (un ente di recupero per meretrici), per un motivo di mera superstizione, firma il capitolato d’appalto con una data posticipata dopo il giorno venerdì 17. Da quel momento in poi gli equivoci e gli snodi diventano sempre più innovativi e imprevedibili fino a far prendere al film una vera impennata, servendosi anche del supporto del dirompente arrivo in scena della coppia Franchi-Ingrassia alla loro prima collaborazione con Fulci. Coppia che anticipa il loro tipico stile slapstick che il regista incoraggerà in futuro. Per quanto sia in un contesto un po’ fuori luogo, in fondo è proprio questo aspetto di improvvisa diversità a spiazzare lo spettatore, differenziando di colpo il tutto dell’eleganza tout-court che apparteneva alla commedia fulciana che per vari aspetti abbiamo apparentato a questa pellicola, ossia Colpo Gobbo all’Italiana. Questo vistoso cambiamento di stile, semmai, apparenta il film più a un’altra commedia, stavolta scritta da Fulci ma diretta da Steno: quel Piccola Posta del ’55 che, da quasi-romantica, prendeva a metà strada una piega decisamente sopra le righe con l’irruzione in scena del personaggio di Alberto Sordi.
In Le Massaggiatrici, le forzature espressive di Franchi erano abilmente compensate da una delle situazioni più indovinate della trama, quella in cui il portinaio interpretato dall’attore si convince di essere stato lui a uccidere Paoloni, in realtà morto d’infarto. Da qui in poi assistiamo a una scoppiettante rivisitazione delle situazioni di continue apparizioni/scomparse di cadavere di hitchcockiana memoria (la dark-comedy La Congiura degli Innocenti, ’55).
Tornando al tema dell’inaspettato, troviamo che la seconda parte del film funzioni meglio anche per via dell’effetto detonante – in un contesto di personaggi razionalissimi e attentamente calcolatori – di un aspetto sciocco quanto potente come quello della scelta superstiziosa di ‘sua eccellenza’ di posticipare la data.

Giovanni Luigi Zirotti Modica
https://cinemaitalianodatabase.com/2013/10/23/le-massaggiatrici-1962-di-lucio-fulci-recensione-del-film/