ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS



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jueves, 31 de diciembre de 2020

Ultimo incontro - Gianni Franciolini (1951)

TÍTULO ORIGINAL
Ultimo incontro
AÑO
1951
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
89 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Gianni Franciolini
GUIÓN
Edoardo Anton, Alberto Moravia, Fede Arnaud, Gian Paolo Callegari, Giorgio Pastina, Antonio Pietrangeli (Novela: Marco Praga)
MÚSICA
Enzo Masetti
FOTOGRAFÍA
Anchise Brizzi (B&W)
REPARTO
Alida Valli, Amedeo Nazzari, Jean-Pierre Aumont, Leda Gloria, Vittorio Sanipoli, Giovanna Galletti, Henri Vidon, Laura Carli, Michele Malaspina, Gianna Segale, Juan Manuel Fangio
PRODUCTORA
Lux Film
GÉNERO
Drama | Prostitución. Coches / Automovilismo

Sinopsis
Un automovilista y la esposa de un mecánico se han enamorado. Cuando el marido regresa de un viaje, ella está decidida a dejar la aventura, pero el piloto la convence para que se vayan juntos a comenzar una nueva vida en Argentina. Cuando a última hora ella se echa atrás, él se accidenta en el circuito y fallece... (FILMAFFINITY)
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El último encuentro ... entre Fangio y Amedeo Nazzari
A finales de octubre de 1951 debutó en los cines italianos la película “El último encuentro”.

El protagonista principal de la película "El último encuentro", en la que también participó Alberto Moravia en el guión y que también se rodó en la pista de Monza, fue el ídolo cinematográfico del momento Amedeo Nazzari., que hacía el papel de ingeniero de pruebas del entonces muy milanés Alfa Romeo , y de la inquietante Alida Valli .
Junto a Nazzari había nombres ilustres en el automovilismo competitivo como J uan Manuel Fangio , Nino Farina , Consalvo Sanesi y Felice Bonetto y… el formidable Alfetta 159.
https://www.motoremotion.it/2016/10/27/lultimo-incontro-nazzari-fangio/ 

L'Ultimo incontro (1951) [5 errori]

Incongruenza: [N° 18403] Alida Valli in piena estate gira con cappotto pesante.

Continuità: [N° 90736] 8'15'' Primo piano di Nazzari,mezzobusto frontale,in giacca e "maglia della salute" abbottonata fino al collo. Tra primo e secondo bottone si vede la pelle,perché la canotta non è ben tesa nei pantaloni, e tra un bottone e l'altro si spancia. Nuovo ciak,stesso tempo,allargamento del campo e diversa angolazione: Nazzari è di spalle,si gira in favore di camera (8'18'') e la canotta è in perfetto ordine.

Doppiaggio/Cartelli: [N° 90737] 24'13'' Primissimo piano della lettera che Alida Valli -sposata con un Nazzari insolitamente cornuto- ha scritto al suo amante,il pilota Bonesi. Alla quarta e quinta riga si legge: " Io non posso abbOndonare mio marito". Abbondonare no,ma scornocchiare sì...

ND: [N° 90739] 25'52'' Autodromo di Monza. Bonesi va in testa-coda: sul muretto a bordopista si legge la pubblicità Reinach-Oleoblitz. Nuovo ciak,stesso tempo,campo lungo,altra angolazione e diversa qualità di ripresa: l'auto da corsa che impatta contro il muro,incendiandosi e -probabilmente- bruciando vivo il poveretto che la guidava,è un'altra: la scritta pubblicitaria non c'è più (altro tratto di pista). Spezzone di pellicola cinicamente inserito nel montaggio per accrescere il pathos d'un film di per sè non eccezionale.

Continuità: [N° 98853] 3'48'' Jean Pierre Aumont al volante d'un'Alfa con guida a destra. L'attore è inquadrato di profilo destro: le due razze del volante (angolo inf. destro dello schermo) stanno in posizione orizzontale. Nuovo ciak,stesso tempo: Aumont, inquadrato frontalmente, tiene il volante (tagliato a metà dal lato inferiore dello schermo) con una razza in verticale (come se curvasse a destra).
http://www.bloopers.it/testo/index.php?id_film=3136&Lettera=U

 

Un bel melodramma da un soggetto letterario di Marco Praga, d'ambientazione milanese perfetta e insuperabile nella sua autonoma bellezza.
Qui intriso di cinico fatalismo e sulla scia dei grandi successi matarazziani del periodo, da qui la non casuale e riconoscibilissima scelta del protagonista maschile in Amedeo Nazzari (ma c'è anche come co-protagonista Jean Pierre Aumont, e non so se mi spiego), e anche se Franciolini non sia di certo bravo quanto Matarazzo o Lattuada e Cottafavi e il film stesso non è rimasto come uno degli esempi più fulgidi dell'amato filone, grazie ad una protagonista assoluta veramente divina e bravissima - commovente e al contempo leggera e dalla scarsa empatia umana iniziale, come Alida Valli, la quale nonostante una bellezza fin troppo abbacinante interpreta alla perfezione il racconto del film-, esso si staglia e si eleva da ogni residua e contingente mediocrità di fondo.
Ben oltre la descrizione di quel che possono essere le aduse e abusate inquietudini di una moglie borghese annoiata e appesantita nell'animo, dalla routinaria e passiva vita matrimoniale della buona borghesia, in una nebbiosa cinta periferica meneghina. La quale compirà adulterio, come ancor soleva si dicesse, tradendo il marito che lavora all'Alfa Romeo di Arese come tecnico del reparto squadra corse automobilistiche, sempre frequentando i circuiti come l'autodromo di Monza, nel quale sono ambientate alcune interessantissime sequenze
Tratto dal romanzo di Marco Praga, “La Biondina”.
Notevole l'apporto e la cura alle scenografie e alla cura di ogni minimo dettaglio degli arredamenti, da parte di Flavio Mogherini.
Splendido come sempre, l'apporto di Vittorio Sanipoli, nel ruolo del villain ricattatore, Augusto.
https://robydickfilms.blogspot.com/2012/09/ultimo-incontro.html

 

miércoles, 30 de diciembre de 2020

Ora o mai più - Lucio Pellegrini (2003)

TÍTULO ORIGINAL
Ora o mai più
AÑO
2003
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACIÓN
96 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Lucio Pellegrini
GUIÓN
Angelo Carbone, Roan Johnson, Lucio Pellegrini
MÚSICA
Giuliano Taviani
FOTOGRAFÍA
Gherardo Gossi
REPARTO
Jacopo Bonvicini, Violante Plácido, Edoardo Gabbriellini, Elio Germano, Camilla Filippi, Riccardo Scamarcio, Francesco Mandelli
PRODUCTORA
Fandango Produzione
GÉNERO
Drama | Colegios & Universidad

Sinopsis
David es un estudiante modelo que ingresa en una prestigiosa escuela universitaria de la ciudad de Pisa. A un examen de acabar su licenciatura en Física, se entretiene en una reunión con una de las múltiples reuniones estudiantiles izquierdistas de su universidad. A pesar de que David no es un gran aficionado a la política sí lo es a Viola, una de las integrantes, y dado que suspende el examen al no haberse presentado el resto del verano, lo pasará junto con sus nuevos amigos, más preocupado de las inquietudes sociales prestadas que de sus propios libros. (FILMAFFINITY)
 
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Il fatto che i giovanissimi di Ora o mai più siano diretti al G8 di Genova del luglio 2001, e il fatto che il protagonista David finisca pestato a sangue nella caserma di Bolzaneto, sono l'attrazione di maggior effetto del debutto di Lucio Pellegrini. Ma non la sua anima. Sembra uno di quei film che sconvolsero i ventenni dei primi Settanta, come Fragole e sangue, quelli che fecero la rivoluzionaria ondata della New Hollywood. La struttura è simile. Studente modello di Fisica nella più esclusiva delle università italiane, la Normale di Pisa, David è un ragazzo riservato e introverso. Non perso dietro un'ambizione che non gli interessa ma concentrato sulla passione per il fare le cose bene. Ciò che sta intorno lo tocca poco, a parte subire il ciarliero compagno di stanza al pensionato studentesco: edonista e somaro, rammenta anche lui lontani echi americani (ricordate il compagno di stanza di Holden Caulfield, l'infame Stradlater?). Più saggio e meno conformista di quanto sembri, è grazie a Elio Germano un personaggio azzeccatissimo. La realtà invade il mondo di David. Luca, Viola, Vanna e gli altri che hanno fondato un centro sociale, indicono assemblee, occupano, si amano con disinvoltura, progettano di andare a Genova: lo coinvolgono con una forza cui non può resistere, gli dischiudono orizzonti di vitalità che non ha mai conosciuto. Dare l'ultimo esame o seguire i nuovi amici? Le vie dell'educazione sentimentale di David sono segnate.
Roberto Nepoti (La Repubblica, 16/11/2003)

Film di studenti e ragazzi, film generazionale e politico diverso da tutti. Non accadeva da anni. Finalmente un'opera di fiction, Ora o mai più di Lucio Pellegrini, racconta quei ventenni impegnati che di solito si vedono solo nelle immagini drammatiche dei tg o negli archivi di polizia: e li racconta senza alterazioni governative, non come nemici allarmanti, persone sconvolte, alieni minacciosi, ma come confusi, toccanti e divertenti protagonisti d'una tragicommedia giovanile, d'un romanzo di educazione sentimentale, di formazione. Nell'estate del 2001, prima, durante e dopo i fatti del G8 a Genova, i momenti brutali del film sono quelli delle azioni di polizia, a Bolzaneto e altrove: manganellate, botte, calci, costrizioni umilianti alla nudità, obbligo di mantenere posizioni penose (in ginocchio o appoggiati con le punte delle dita alla parete), colpi dove fa più male (reni, genitali, fegato), urla, insulti e turpiloquio incessanti. Dice il regista: «La repressione violenta, scientifica e consapevole di centinaia di ragazzi innocenti ci ha fatto pensare che forse viviamo in un Paese molto diverso da quello che ci eravamo immaginati». Per il resto, il film è la storia di uno studente della Normale di Pisa molto brillante e bravo, alla vigilia della laurea in Fisica, che per stare dietro a una ragazza che gli piace s'introduce in un mondo a lui sconosciuto (proteste, assemblee, occupazioni, collettivi studenteschi, centri sociali). Impara a conoscere i modi appassionati, allegri e rischiosi dell'impegno giovanile politico e sociale, matura in sè una consapevolezza antindividualista, arriva alla decisione di non andare a completare gli studi negli Stati Uniti: «Volevo restare in Italia e provare a cambiare le cose». Interrogativi: «Se non ora, quando? Se non io, chi?». Programma per una festa: «Si mangia, si beve, poi si vede». Scorciatoie: «E da quel giorno in poi tutto diventò esaltante». Un poco pedagogico, il film di Pellegrini (37 anni, nato ad Asti, già autore di E allora mambo! e Tandem), protagonista debuttante Jacopo Bonvicini accanto a Violante Placido, musiche originali di Giuliano Taviani, ha la massima naturalezza, sa realizzare senza alcuna goffaggine le corse, le fughe e gli scontri delle manifestazioni come le strette dell'amore, è sciolto, efficace, ricco di vitalità.
Alessandra Levantesi (La Stampa, 15/11/2003)

Dopo il fiume di immagini vere partorite dal G8 del 20 luglio 2001, ecco - sui fatti e fattacci - il primo lungometraggio di finzione a firma Lucio Pellegrini, uno che ha cominciato con la commedia e che qui vira a 360°, pur mantenendo tratti alla Virzì nelle dinamiche tra i personaggi e nella quotidianità reinventata dei centri sociali. Gruppo di giovani in un interno e nel loro esterno, che cercano di rilanciare le utopie, rincorrendo altri mondi possibili e rapporti quanto meno diversificati. Materia che scotta solo a toccarla, difficile da riportare in ambito "fiction". Tra l'altro, Pellegrini non poteva ricostruire le spaventose contraddizioni consumatesi a Genova, perché già setacciate e vivisezionate come mai era successo in passato a un qualsiasi altro evento. Malgrado le difficoltà e le acerbità di alcuni attori, qualche scivolata nello stereotipo e nel cliché del prototipo no-global, il film regge e comunica sensazioni forti. Soprattutto là, dove le migliaia di telecamere e telecamerine non erano arrivate, e dunque nel triste lager di Bolzaneto, dove decine di ragazzi sono stati picchiati e umiliati per giorni, alla faccia della democrazia e dello stato di diritto. Fresca e ingenua come un adolescente che pulsa di futuro, la pellicola indigna e si indigna, svolazza e corre, dentro e fuori gli spazi alternativi. Nel gruppone dei protagonisti si stagliano il bravo Edoardo Gabbriellini e la volitiva Camilla Filippi. Una produzione Fandango. Ovvero: un'altra scommessa vinta dal capitano coraggioso Domenico Procacci.
Aldo Fittante (Film TV, 18/11/2003)
https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitolo/EDA06B72F80FD505C1256F46003F8927?opendocument

martes, 29 de diciembre de 2020

Spasmo - Umberto Lenzi (1974)

TÍTULO ORIGINAL
Spasmo
AÑO
1974
IDIOMA
Ingés
SUBTÍTULOS
Español (Incorporados)
DURACIÓN
94 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Umberto Lenzi
GUIÓN
Massimo Franciosa, Umberto Lenzi, Luisa Montagnana (Historia: Pino Boller)
MÚSICA
Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA
Guglielmo Mancori
REPARTO
Robert Hoffmann, Suzy Kendall, Ivan Rassimov, Adolfo Lastretti, Monica Monet, Guido Alberti
GÉNERO
Terror. Intriga | Giallo

Sinopsis
Christian (Robert Hoffman) es un joven que, durante una visita a la playa, se encuentra a una mujer desvanecida en la arena, Barbara (Suzy Kendall) con la que inicia una relación después de este incidente. Esa misma noche, en casa de Barbara, un extraño intenta matarle y, a partir de ese momento, él y Barbara iniciarán una carrera a contrareloj huyendo de un enigmatico asesino, tratando de descubrir el por qué se han visto envueltos en esa situación. (FILMAFFINITY)
 
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Se pueden decir muchas cosas de las películas de Umberto Lenzi, pero, desde luego, lo que nunca se podrá decir es que son aburridas. Un perfecto ejemplo de ello es el frenético giallo Spasmo (1973).
Christian Bauman (Robert Hoffmann) se encuentra paseando con una amiga (Maria Pia Conte) cuando descubren una mujer tirada en la playa, al parecer muerta. Al acercarse, descubren que la mujer no está muerta, se llama Barbara (Suzy Kendall) y se marcha a la francesa tras causar una notable impresión en Christian. Poco después, Christian y Barbara se encuentran en casa de ella, pero Christian es atacado por un hombre misterioso. Christian mata al hombre y la pareja se da a la fuga. Y a partir de aquí realmente se complican las cosas para Christian. Además, ¿tienen alguna relación las muñecas de látex de tamaño natural que se están encontrando por el pueblo fingiendo ser mujeres asesinadas con lo que le sucede a Christian?
He de admitir que, normalmente, el tipo de historia que cuenta Spasmo no me suele gustar, pero, igual que con otras excepciones, gracias al estilo con que se cuenta y a la dirección de Lenzi, la película me enganchó de principio a fin (no entro en más detalles para no haceros un spoiler). También resulta interesante que este tipo de giallo, en el que tenemos a un protagonista pasivo al que atacan y persiguen, por contraste al protagonista activo que investiga, suele estar protagonizado por mujeres, como Edwige Fenech en La perversa señora Ward (Lo strano vizio della Signora Wardh, Sergio Martino, 1971), pero aquí tenemos al pobre Hoffmann corriendo de aquí para allá mientras intenta esclarecer quién le persigue y quién no.
Desde el principio, Lenzi mantiene al espectador atrapado, sin dar un segundo de descanso. Por supuesto, esto sirve para que uno no se de cuenta de lo absurda que es toda la historia, pero mientras se está viendo la película lo único que se hace es disfrutar, intentando adivinar cuál será el siguiente giro de guion al que se deberá enfrentar el sufrido protagonista.
Aquellos familiarizados con la obra de Lenzi sin duda disfrutarán con esta nueva muestra de la habilidad del director para entretener al espectador. Los demás pueden descubrir un estupendo giallo, tan absurdo como entretenido.
http://elcinefagodelalagunanegra.blogspot.com/2016/11/spasmo.html


Umberto Lenzi: El último romántico

Al director le cabe el honor de haber formado parte de aquella aristocracia del cine popular italiano que llenó salas de barrio durante los años 70 y 80

Masacrado por la censura, condenado al ostracismo por los puristas y denostado por la crítica de su tiempo, a Umberto Lenzi le cabe el honor de haber formado parte de aquella aristocracia del cine popular italiano que llenó salas de barrio en competencia directa con las superproducciones americanas durante los años 70 y 80.
Yo lo conocí a mediados de los 80, sobre las estanterías de un videoclub de Santutxu en el que sus películas se apilaban junto a las de otros obreros del celuloide tan ilustres como Enzo G. Castellari, Antonio Margheriti y Damiano Damiani, entre los clones hongkoneses de Bruce Lee y las prometedoras portadas italianas de softcore en las que Edwige Fenech y Anita Strindberg lucían sus encantos.
Eran buenos tiempos, tiempos en los que en un 3X1 podías llevarte a casa 'Los guerreros del Bronx', 'Arcana' y la penúltima entrega de 'Demons', cuando aún no se había apagado del todo la carrera de un director que comenzó a brillar a finales de la década de los 60.
Umberto Lenzi (Massa Marittima, 1931) llegó al mundo del cine tras abandonar la carrera de Derecho, y tras su paso por el Centro Sperimentale de Cinematografia, en Roma, donde se formaron Marco Bellocchio, Vittorio Storaro, Néstor Almendros o Liliana Cavani, entre otros, no sin antes haber ejercido como crítico en diversas publicaciones.
En plena fiebre por el peplum, a Lenzi le llegó la oportunidad de debutar en la dirección con 'Le Avventure di Mary Read', una modesta película de aventuras protagonizada por Lisa Gastoni, a la que le sucederían proyectos tan disparatados como 'Zorro contra Maciste' (que deja en paños menores, en términos de desprejuicio y locura, a encuentros tan disparatados como 'Freddy contra Jason'), y varias adaptaciones del Sandokan de Emilio Salgari, rodadas de forma cuasi simultánea con el propósito de economizar los costes de producción (véase la filmografía de Jess Franco, que perfeccionó la técnica del rodaje back to back traspasando todos los límites del surrealismo). Engordando su currículo con títulos menores como 'A 008: Operazione Sterminio' (1965) o 'Le Spie Amano i Fiori' (1966), ambas toscas imitaciones del exitoso Bond, y tras su paso obligado por el spaghetti-western ('Una pistola per cento bare' / 'El sabor del odio') en el que militó el grueso de los directores de su generación, Lenzi comenzó su idilio con las películas de hazañas bélicas ('Desert Commandos', 1967), que es el género del que hoy se siente más orgulloso. A este período también pertenece 'Kriminal', su primera obra de referencia, una notable adaptación de las historietas gráficas de Max Bunker con un grado de excelencia que no tiene mucho que envidiar al 'Diabolik' de Mario Bava y las hermanas Giussani.
En línea con los intereses del público que quedó fascinado con los giallos estrenados en el albor de los años 70 ('L'uccello dalle piume di cristallo' / 'El pájaro de las plumas de cristal', 'Il gatto a nove code' / 'El gato de nueve colas'), Lenzi entra de lleno en un género en el que ya había debutado con la entrega de 'Orgasmo' (1969), un sexy-thriller detectivesco protagonizado por Carroll Baker al que le seguirían 'Paranoia', 'Sette orchidee macchiate di rosso' / 'Siete orquídeas manchadas de rojo' y 'Spasmo', en la que conviene detenerse no sólo por lo que arriesga Lenzi manipulando su compleja línea narrativa, sino porque desafía algunos de los clichés repetidos como mantras por los imitadores de Dario Argento.
Llegados a este punto, y echando la vista atrás para repasar la ecléctica e intensiva filmografía cultivada por Lenzi en apenas 10 años, resulta difícil imaginar de qué manera administró el tiempo y el ingenio que le permitieron alumbrar el subgénero que se ha convertido en la marca distintiva de toda su obra (aunque a día de hoy no sea motivo de sus afectos): el cine caníbal al que pertenece la fundacional 'Il paese del sesso selvaggio' / 'El país del sexo salvaje' (con guion de Francesco Barilli). Festín de imágenes gore, vísceras y mutilaciones, protagonizada por los míticos Me Me Lay e Ivan Rassimov, una obra de culto, inspirada por las ficciones documentales de estrato sensacionalista firmadas por Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara y Franco Prosperi (el denominado cine Mondo), que dio vía libre al fenómeno internacional que se desató con el estreno de 'Holocausto caníbal' / 'Cannibal Holocaust' (1980), de Ruggero Deodato. Censurada en muchos países, 'Il paese del sesso selvaggio' / 'El país del sexo salvaje' esboza un somero análisis etnográfico como pretexto para escenificar una película de aventuras salteada por una orgía de secuencias de 'torture porn' en las que Lenzi insiste en representar una reacción lógica contra colonización del tercer mundo y la explotación de las tribus salvajes (Lenzi afirma que en la preproducción estudió los ritos ceremoniales de los aborígenes de Nueva Guinea, Birmania y Tailandia). Al igual que en 'Mangiati vivi!' / '¡Comidos vivos!' y 'Cannibal Ferox', donde la masacre de Jonestown y el reverendo Jones forman parte del discurso metanarrativo (este tema ha sido motivo de una reinterpretación reciente a cargo de Ti West en 'The Sacrament'), Lenzi articula una crítica al capitalismo que queda opacada por la violencia extrema de unas imágenes celebradas con entusiasmo por miles de fanáticos alrededor del mundo, entre los que destaca Eli Roth (autor de 'El infierno verde', una obra a medio camino entre Lenzi y Ruggero Deodato).
Casi paralelo, porque la filmografía de Lenzi crece de forma frenética en poco menos de cinco años, el director italiano prueba suerte en lo que se conoce como 'poliziesco all'Italiana' o 'poliziottesco', un subgénero del cine negro poblado de vigilantes (al estilo de Charles Bronson), gangsters sadomasoquistas y policías incorruptibles que surgió con la intención de explotar comercialmente el éxito de títulos como 'Harry el sucio' / 'Dirty Harry' o 'Death Wish' / 'El justiciero de la ciudad'. Inaugurando un modelo que sería perfeccionado por la magistral 'Cani arrabbiati' / 'Semáforo rojo', de Mario Bava (1974), Lenzi factura de manera casi consecutiva una serie de espléndidas muestras de un cine violento, salvaje y directo, en el que no hay concesiones a la emotividad y la nostalgia cuando la cámara se lanza a tumba abierta a la colección de escenas que denuncian la impotencia de la justicia ante la oleada de atentados criminales. De entre ellas destacan 'Milano odia: la polizia non può sparare', 'Roma a mano armata' / 'Roma a mano armada' (oído a su BSO a cargo del gran Franco Micalizzi) y 'Il giustiziere sfida la città' / 'Desafío a la ciudad', las tres unidas por el común denominador de Tomas Milian, un actor clave para comprender la historia del cine italiano y las particularidades del exploitation.
Impelido por los gustos cambiantes del público, y haciendo valer su condición de realizador todoterreno, el siguiente reto de Lenzi le lleva a pasar por la trituradora del exploit los hits de George A. Romero, lo que da lugar a lo que el director reivindica como un subgénero propio en el que subraya las diferencias con las películas de zombies conocidas hasta la fecha (véanse las aportaciones del propio Romero y Lucio Fulci a un género que en el presente no tiene memoria de sus maestros). Hablamos de las películas de infectados por la peste nuclear a propósito de 'Nightmare City' / 'La ciudad de los zombies atómicos' (su origen está en un accidente real en las instalaciones de una planta química en la localidad italiana de Séveso, una zombie flick tremendamente irónica y pesimista que hace su mejor baza de la admirable dirección artística a cargo de Pino Ferrante, y de una estructura circular que se revela como el golpe de efecto definitivo para el ánimo del espectador. En 'Nightmare City' destaca la presencia de estrellas internacionales -con mención especial para el bando español representado por Francisco Rabal, Eduardo Fajardo y Manuel Zarzo-, y la particularidad de que la masa de infectados se mueve a una velocidad que no tiene nada que envidiar a la de los zombies de 'Guerra Mundial Z'.
A partir de mitad de los 80 comienza el declive que es el de todo un cine italiano que no es capaz de adaptarse a las expectativas del público, aunque Lenzi aún es capaz de resplandecer con un último fogonazo ('Nightmare Beach', 1989) cuando ya está sumido en la indiferencia de productores y espectadores.
Concentrado en su faceta literaria, la cual retomó tras la decepción que sufrió con motivo de su frustrado intento de entrar a formar parte de la versión italiana de la serie 'Masters of Horror' (para la que sonaron Lucio Fulci y Sergio Martino), Lenzi ha publicado un abanico de novelas de marcado acento cinéfilo ('Delitti a Cinecittá', 'Terrore ad Harlem', 'Morte al Cine Villaggio' y 'Scalera di sangue') que podrían servir como prólogo a un regreso anunciado tras la exitosa campaña de crowdfunding en la que ha unido fuerzas con el veterano Tom Savini para hacer posible un remake digital de 'La ciudad de los zombies atómicos' (aquí es importante señalar que Lenzi es enemigo declarado del cine de terror low cost contemporáneo).
Hasta entonces los neófitos pueden explorar su vasta e irregular filmografía (donde caben desde infumables secuelas apócrifas de 'Conan' hasta joyas como 'Spasmo') o repasar la edad de oro del cine caníbal con el visionado de 'Eaten Alive! The Rise and Fall of the Italian Cannibal Film', de Calum Waddell.
JOSU EGUREN
https://www.elcorreo.com/butaca/201511/27/umberto-lenzi-ultimo-romantico-20151126181225-rc.html?ref=https:%2F%2Fwww.google.com%2F

 


lunes, 28 de diciembre de 2020

Policarpo, ufficiale di scrittura - Mario Soldati (1959)

TÍTULO ORIGINAL
Policarpo, ufficiale di scrittura
AÑO
1959
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
104 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Soldati
GUIÓN
Arnaldo Gandolini, Agenore Incrocci, Antonio Navarro Linares, Furio Scarpelli
MÚSICA
Angelo Francesco Lavagnino
FOTOGRAFÍA
Giuseppe Rotunno
REPARTO
Renato Rascel, Tony Soler, José Isbert, Carla Gravina, Romolo Valli, Luigi de Filippo, Trini Montero, Roberto Rey, Lidia Martora, Ernesto Calindri, Renato Salvatori, Peppino De Filippo, Massimo Pianforini, Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi
PRODUCTORA
Co-production Italia-Francia-España; Titanus, Société Générale de Cinématographie (S.G.C.), Hispamer Films
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
La acción se centra a finales del siglo XIX. Policarpo De Tappetti es un calígrafo que trabaja a las órdenes de Don César Pancarano de Rondò. Desde hace muchísimos años, Policarpo busca un ascenso y un aumento de sueldo que nunca llegó, y, por lo que parece, nunca llegará. Cierto día, Jerónimo, el hijo de Don César, conoce a Celeste, la hija de Policarpo, y se enamora de ella. Policarpo ve en esa relación la solución a sus aspiraciones en el trabajo, y hace todo lo que está en su mano para que dicha relación fructifique. Don César, que presume de ser Conde, ve con muy malos ojos que su hijo se vea con una chica de tan diferente posición social, y hace justamente todo lo contrario... (FILMAFFINITY)

Premios
1959: Cannes: Mejor comedia
1958: Premios David di Donatello: Plato dorado (Renato Rascel) 

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Una delle commedie più simpatiche ed intelligenti di Mario Soldati, al suo ultimo film. Basato su un romanzetto umoristico di inizio secolo scritto da Luigi Vassallo (adattato assieme alle mani sacre di Age e Scarpelli), è il racconto buffo ed umanista di un calligrafo ministeriale che sgobba dalla mattina alla sera per dar lustro al suo ruolo. Succede che la carina figlia entri nelle grazie del vanesio figlio del suo superiore. Peccato che lei si innamori di un ragazzo di ben più modesta estrazione. Ma tutto è bene…
Con piglio soave ed elegante, Soldati mette a segno una commedia piena zeppa di trovate spassose ma non priva di un suo soffice sentimentalismo. E se la ricostruzione degli ambienti di inizio novecento sono puntuali, non si può tacere sulla prova magnifica del cast stellare impegnato nel film.
Lo strepitoso Renato Rascel infila la sua prova migliore assieme a Il cappotto, forse perché tenuto mirabilmente a freno da un regista come dio comanda e non sprecato in farse di quarta lega. Non gli è da meno Peppino De Filippo, superspalla di lusso, infallibile come al solito. E poi i giovani e già bravissimi Carla Gravina, Luca De Filippo e Renato Salvatori.
E soprattutto uno stuolo di comparsate e cammei da rendere questo Policarpo come il nostro Giro del mondo in ottanta giorni, successo di qualche anno prima: è abbastanza straniante, infatti, per il cinema di casa nostra vedere tante star impegnate in piccoli o piccolissimi ruoli. C’è chi ha più spazio, come Romolo Valli ed Ernesto Calindri. E poi ci sono altri che passano e lasciano un saluto: Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Amedeo Nazzari, Ugo Tognazzi, Maurizio Arena, Memmo Carotenuto, Mario Riva. Quando si dice un film d’attori. Ma soprattutto di perfetta orchestrazione registica.
https://lorciofani.com/2009/11/11/policarpo-ufficiale-di-scrittura-mario-soldati-1959/

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Comincio con il grande Mario Soldati dal suo ultimo film come regista: "Policarpo, ufficiale di scrittura", che vinse a Cannes nel 1959 il premio come Miglior Commedia. Siamo solo all'inizio quindi, e subito è un Olimpo, film meraviglioso in ogni suo aspetto. Chiudo l'incipit citando cosa dissero 2 illustri personaggi riguardo al Mario Soldati scrittore (fonte wiki):
 

"Fra gli scrittori del novecento italiano, Soldati è l'unico che abbia amato esprimere, costantemente e sempre, la gioia di vivere. Non il piacere di vivere, ma la gioia; il piacere di vivere è quello del turista che visita i luoghi del mondo assaporandone le piacevolezze e le offerte ma trascurandone o rifuggendone gli aspetti vili, o malati, o crudeli; la gioia di vivere non rifugge nulla e nessuno: contempla l'universo e lo esplora in ogni sua miseria e lo assolve."
Natalia Ginzburg

"L'assoluta leggerezza della scrittura di Soldati significa fraternità. Il suo rapporto col lettore non è autoritario, ma mitemente fraterno."
Pier Paolo Pasolini

Esprimere la gioia di vivere... la sua scrittura significa fratenità...
Chi non vorrebbe parole simili sulla propria lapide, dette poi da cotanti personaggi? Non mi metterò certo a fare la biografia del grande scrittore ed intellettuale italiano, ma quelle 2 citazioni, e se ne potrebbero mettere altre che recitano all'unisono, sono talmente belle che era atto dovuto. E poi ribadisco, sembrano la descrizione della quintessenza di questo film!

Siamo nella c.d. Roma Umbertina (1890 - 1910). Il buon Policarpo De' Tappetti (Renato Rascel, da inchinarsi) è impiegato nella pubblica amministrazione come ufficiale di scrittura. Guadagna pochissimo, malapena ci riesce a mantenere la famiglia ed è costretto ad un vita morigeratissima. Non di meno è fiero e zelante nel suo lavoro, al punto da suscitare ben poche simpatie sia tra i colleghi che nel suo capufficio, il Cav. Pancarano (Peppino De Filippo). La scena iniziale è un gioiello di regia e recitazione, con Policarpo che arriva in ufficio per primo, ignorato persino dall'usciere che dorme; entra nel deserto ed enorme ufficio, controlla che ogni singolo componente l'essenziale cancelleria sia al suo posto, si prepara abbigliamento ed accessori per scrivere (compreso un cuscino gonfiabile per la seduta): un Monologo Muto.
Le necessità della vita impongono a Policarpo qualche piccolo opportunismo e molti piccoli risparmi. Ha l'ossessione di ottenere un passaggio di livello al lavoro, per pochissime lire in più al mese che in qualche modo potrebbero cambiargli la vita. Quando scoprirà la bella figlia (Carla Gravina, un bijoux) è insidiata ai giardini nientedimenoché dal rampollo dei Pancarano (Luigi De Filippo, figlio anche nella vita di Peppino) chiamerà i carabinieri, salvo allontanarli appena chiarità l'identità dell'insidiatore. Svariate gag tra i possibili consuoceri Rascel e De Filippo, finché il gagà dei Pancarano tornerà a rincorrer ballerine mentre la pulzella proseguirà il suo filarino con Mario (Renato Salvatori), bravo "meccanico specializzato" della fabbrica di macchine da scrivere, relazione osteggiata da Policarpo finché non scoprirà la sana agiatezza, fatta di piatti abbondanti e brocche piene di vino (e pure caffé-caffé, non quello d'orzo), della famiglia del ragazzo. Ultimo scoglio da superare l'avvento negli uffici proprio delle macchine da scrivere. A questo proposito, inconsapevolmente, troverà il capo divisione (Romolo Valli) intascare una mazzetta per garantire la fornitura proprio alla ditta dove lavora il vero amore della figlia. Lui, grande artista della scrittura e studioso dei caratteri d'ogni corpo e stile, mal digerisce il macchinario, ma troverà modo di far tornare la cosa a suo vantaggio... finale felice e spensierato ovviamente, con un po' di spettacolo, il recupero d'un cavallo imbizzarrito, nei giardini colmi del passeggio festivo, da parte di un carabiniere molto speciale: Amedeo Nazzari.

Altri premi furono il David di Donatello 1959: Targa d'oro a Renato Rascel per la migliore interpretazione. Il Nastro d'argento 1960 per i migliori costumi.
Commedia piacevolissima, garbata e ricca di battute e sfarzo storico nei costumi e nelle ricostruzioni ambientali, con dei colori sgargianti curatissimi dalla fotografia di Giuseppe Rotunno. Cast incredibilmente ricco. Oltre ai già notissimi citati ci sono piccole apparizioni anche di Vittorio De Sica (prestigiatore), Alberto Sordi (ombrellaio ambulante), Ugo Tognazzi (un professore), meno piccole quelle di Ernesto Calindri (collega di Policarpo), Tony Soler (moglie di Policarpo), e tanti altri nomi pregiati del cinema dei '50 italiani, come Memmo Carotenuto, Mario Riva, Maurizio Arena... Una particolare menzione, con l'occasione, per i genitori del meccanico Mario, interpretati da due grandi del teatro dialettale romano, icone storiche del noto Teatro Belli e coniugi anche nella vita: Checco Durante e Anita Durante (nata Bianchi).

E' un ritratto corale di un periodo particolare. L'Italia sognava il boom della democrazia e alcuni personaggi come Policarpo sognavano il personale boom economico, si ponevano come borghesia intermedia ai piedi di scale difficili da superare ma non impossibili. Fatto senza polemiche, con piccole satire sociali sempre all'impronta della verità storica, del rispetto delle persone in ogni loro ruolo e posizione sociale con tanto, tantissimo buon gusto.
Lezione di vita non solo di Cinema. Nel mio Olimpo personale, non si discute.
Robydick
http://robydickfilms.blogspot.com/2011/11/policarpo-ufficiale-di-scrittura.html



domingo, 27 de diciembre de 2020

Ultra' - Ricky Tognazzi (1991)

TÍTULO ORIGINAL
Ultrà
AÑO
1991
IDIOMA
Italiano y Español (Opcional)
SUBTÍTULOS
Italiano y Español (Opcional)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Ricky Tognazzi
GUIÓN
Graziano Diana, Simona Izzo, Giuseppe Manfridi (Historia: Ricky Tognazzi)
MÚSICA
Antonello Venditti
FOTOGRAFÍA
Alessio Gelsini Torresi
REPARTO
Claudio Amendola, Ricky Memphis, Gianmarco Tognazzi, Giuppy Izzo, Alessandro Tiberi, Fabrizio Vidale, Krum De Nicola, Antonello Morroni, Michele Camparino
PRODUCTORA
Numero Uno International, Raidue
GÉNERO
Drama | Fútbol

Sinopsis
Sigue las andanzas de un grupo ultra de la AC Roma, en las postrimerías de un gran partido frente a uno de los eternos rivales: la Juventus de Turín. "Príncipe", el líder del grupo, ha obtenido un permiso carcelario unos días antes… (FILMAFFINITY)

Premios
1991: Festival de Berlín: Oso de Plata - Mejor director (ex aequo "El silencio de los corderos")
1991: Premios del Cine Europeo: Nominada a mejor actor (Claudio Amendola)
1990: Premios David di Donatello: Mejor director y sonido. 8 nominaciones

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3 
 

La "Brigada Veneno" es un grupo de hinchas ultra del club de fútbol de la Roma. Su próximo partido es ante la Juventus de Turín, uno de sus mayores adversarios deportivos. Principe, el antiguo líder del grupo, acaba de salir de la cárcel y, a su regreso, se da cuenta de que Red, su mejor amigo, no sólo se ha convertido en el nuevo jefe, sino que también le ha quitado a su novia. La rivalidad entre el vehemente Principe y el sensible Red provocará toda clase de tensiones en el grupo, que llegarán a su cenit cuando Smilzo, otro miembro de la Brigada Veneno, muera durante una pelea con un grupo de hinchas de otro equipo.

Un drama no exento de compromiso social y loable por haber sabido evitar tocar un tema como éste sin hacer ninguna clase de demagogia. Fue dirigido por Ricky Tognazzi, hijo del desaparecido actor Ugo Tognazzi y autor de otra destacable película: "Pequeños equívocos". 
 
***
El Mundial de Italia ’90 fue el caldo de cultivo ideal para que los aficionados más radicales siguieran haciendo de las suyas en los estadios del país transalpino en una época en que los ultras, sobre todo los hooligans y los tiffosi (la tragedia de Heysel en 1985 aún seguía muy presente), pasaban por su momento de apogeo. Poco tiempo después, Ricky Tognazzi escudriñó las entrañas de uno de aquellos grupos de fanáticos a través de la ficticia Brigata Veleno, compuesta por hinchas de la Roma y encabezada por Príncipe, que sale de la cárcel tras cumplir dos años de condena y descubre que su novia lo dejó por su colega Red y que este tomó el control de la brigada. Bajo esta atmósfera de traición y tensión se desarrolla una trama centrada en el inminente choque entre la Roma y la Juventus y sus respectivas aficiones, muy habituales y cargadas de violencia en los 80 y 90, aunque en la actualidad continúan produciéndose.
https://www.fantasticmag.es/estas-son-nuestras-10-peliculas-sobre-futbol-preferidas-en-toda-la-historia-del-cine/
 

Siamo alla fine degli anni ’80, inizi ’90, periodo nel quale tifosi e sportivi attendevano con impazienza 90° minuto e si collegavano alle radioline isolandosi dal resto del mondo. Si andava allo stadio presto, perché le coreografie venivano esposte a pochi minuti dal fischio iniziale dell’arbitro e gli striscioni, insieme ai fumogeni, davano maggior colore alla curva della squadra del cuore. Il tifo era organizzato, si divideva solitamente per gruppi e molti di essi portavano il nome del quartiere di una  città.
Sono gli anni in cui le curve erano al centro delle attenzioni  sia nel  bene, con i loro colori,  tifo, tamburi che rullavano costantemente,  che nel male, punto di ritrovo, dove molto spesso si raggruppavano  anche chi non adorava la squadra e cercava modo di richiamare l’opinione pubblica.
Spesso questi gruppi erano formati da personalità diverse: si passava dal tifoso accanito a quello che recita la volontà di sfogare il proprio malessere interiore; dal tifoso idolatrore  e affascinato dal capo ultrà [Ciafretta, interpretato da GianMarco Tognazzi] a colui che vive religiosamente la propria curva.  Comune denominatore per tutti :  vivere quotidianamente per i colori della squadra.
Ultrà mette in chiara luce tutto ciò: la violenza premeditata e strategicamente organizzata per l’incontro Juventus – Roma, sfociata con la morte di Smilzo, è solo l’epilogo di un retroterra inconfondibile dove viviamo il forte disagio sociale di ragazzi che prendono il treno per andare a Torino, un mezzo di trasporto che sembra proprio la metafora delle loro vite: un percorso lungo, con interruzioni, imprevisti. Uno scompartimento zeppo di giovani percorre i binari nella notte. Un mostro incrocia gallerie, lunghi tunnel. Principe, Nazi, Nerone, Morfino, Teschio, Red, Cobra, Smilzo, Mandrake e Ciafretta, sono i protagonisti  appartenenti ad un fantomatico gruppo organizzato, la Brigata Veleno, capaci di offrirci sottostorie alquanto forti e di spaccato sociale.  Incrociamo personaggi vinti, pallidi eroi; individui paurosi di ammettere la volontà di cambiamento come Red (Ricky Memphis). Il film è scritto e  girato  in un periodo di particolare mutazione nella Curva Sud Giallorossa e in quelle di altre tifoserie.
Teschio rappresenta il nuovo insediatosi nei mesi a venire :  gruppi di estrema destra all’interno di una nuova arena . La politica entra nelle curve, quella politica fatta di simboli forti, dove in molti possono coprirsi e giustificarsi dietro gli scontri fuori o dentro lo stadio. Un modo apparente per cacciare via la solitudine, i problemi familiari, ritrovarsi solamente nel muretto del quartiere dove sei cresciuto e mettersi in luce. L’apparente consapevolezza di riuscire a scaricare le proprie tensioni fatte di malcontento generale. Proprio  Red, disegnatore degli adesivi del gruppo, sentenzia  in qualche modo il passaggio da una politica  negli stadi ludica, identificabile con gli eroi [quelli del Che non vanno più –spiega ai compagni ],  a quella prepotentemente entrata in modo grezzo e crudo, dalla quale fuoriescono  le prime avvisaglie di razzismo e di estremo campanilismo,  dietro  vessilli, slogan, bandiere e look  da naziskin.
Ultrà sottolinea profondamente (la sottostoria) la sfida tra Principe(Claudio Amendola) e Red per una ragazza, Cinzia, un’amica che ha avuto una relazione con entrambi, ora in procinto di spostarsi con Red a Terni per cambiare vita, ma prima che Principe finisse in carcere per fatti extra calcistici sua amante ufficiale. Principe è un ragazzo duro, coerente con il proprio stile di vita, rancoroso  non solo verso gli insuccessi della propria squadra, ma anche contro il lavoro, i padroni ed  mondo intero. Questa acredine riesce a sputarla fuori solamente con la violenza. La telefonata a Goal di notte, trasmissione in diretta condotta da Michele Plastino, accende il suo animo: comincia a  criticare il presidente della Roma sull’aumento ingiustificato dei biglietti e degli abbonamenti, per finire a masticare parole di pura violenza contro una società  che l’ ha isolato fin da piccolo e messo nelle condizioni di usare solo le maniere forti per sopravvivere. Questa crudele visione della vita gli ha tolto ogni carineria e sensibilità.Gli sguardi (immortalati perfettamente da Ricky Tognazzi) evidenziano una tensione continua, una volontà di proseguire sulla strada che finora gli ha permesso di farsi rispettare e diventare leader di un gruppo emarginato dalla tifoseria ufficiale, quella del Commando Ultrà Curva Sud.
La sua astuzia l’ha raccolta per la strada, nelle trasferte, mettendosi a confronto con persone più grandi e solitamente violente. Percepisce subito che tra Red e Cinzia c’è stata una storia mentre era in carcere e forse c’è proprio in queste ore. Difatti nel momento in cui va a trovare Cinzia non sappiamo se i due hanno fatto l’amore. Forse no, proprio per il suo orgoglio, ma si diverte a raccontare da vero capobanda ogni dettaglio della notte precedente, cercando reazioni ed ira da parte di Red. La maschera fin qui mantenuta con disagio dai due cade a terra  proprio alle prime luci dell’alba, quando Red confessa a Principe come stanno i fatti tra lui e la ragazza. Red viene schernito, provocato, spinto alla reazione e colpisce con un pugno in pieno volto il compagno,  accendendo così il motore di una prossima sfida che comincerà al termine di Roma -Juventus.
Red vive con passione la curva, anche se non si è mai tirato indietro dalle risse contro le altre tifoserie. E’ un momento di disorientamento e di cambiamento per lui,  associato ad una crisi interiore: sta crescendo, vuole cambiare vita, prova sentimento verso Cinzia, ma trova enormi difficoltà ad abbandonare  i compagni o rimuovere esperienze. Il film evidenzia proprio quanto questo gruppo di ragazzi viva di ricordi. Durante il viaggio  è restio ad accettare i consigli del buon Smilzo, il quale cerca di fargli notare quanto la vita sia frutto proprio di cambiamenti e quanto possa sembrare più semplice, rispetto ai suoi pensieri,  la trasformazione da ultrà a uomo maturo.  Per Red tutto questo rimane difficile, poiché è un ragazzo assuefatto alle abitudini. Uscire dal guscio lo metterebbe in piena discussione, entrerebbe in un nuovo mondo senza difese immunitarie. Ciò che lo contraddistingue da Principe è il suo lato protettivo, quasi paternalistico, se ancora non completo: è lui che ha voluto portare in trasferta  Fabietto, fratello di Cinzia, un bimbo di undici anni. Lo sgrida come un fratello maggiore, attirandosi amore e repulsione dal fanciullo e nel contempo facendogli  conoscere la dura realtà del mondo Ultras.
Fabietto osserva tutto con occhi trasognanti: il treno speciale del Commando, i tipi duri all’interno dello scompartimento, i discorsi dei grandi, il maneggiare  coltelli tra Principe e Teschio. Ora sostiene Principe, ora lo “zio” Red (così chiamato dal primo quando lo saluta e va a riposare). Il fantastico mondo di Fabietto crolla proprio mentre osserva i due litigare e quando gli scontri prima della gara si scatenano  ferocemente tra le tifoserie (Brigata Veleno e Drughi). Solo allora s’impaurisce e torna nel mondo ordinario.  Crollano certezze e miti. Proprio in questa rissa, vicino l’ingresso in curva, muore  Smilzo, accorso a proteggere Principe e accoltellato involontariamente nello stomaco da quest’ultimo.
Smilzo è accompagnato dentro lo stadio e li cede di vivere. Red s’accorge che la sciarpetta rubata durante la rissa del ragazzo è bucata da una lama  ed allora vuole spiegazioni dal suo rivale. In quest’ultimi  minuti assistiamo ad una delle scene più drammatiche del film: alla fine di una lunga discussione violenta  Principe ammette indirettamente  di aver ucciso involontariamente il suo amico ed è proprio per questo che chiede immediata giustizia, sostenendo i compagni di vendicarlo, perché “un ultrà non molla mai”. All’arrivo della polizia i ragazzi si dileguano dopo aver strappato le tubature del bagni per continuare la battaglia nella Curva Maratona e fuori lo stadio.Rimane solo Red completamente alienato e smarrito mentre stringe  a sé il corpo dell’amico di cui conosceva solo il suo soprannome .
https://stradeperdute.wordpress.com/2009/09/22/ultra-1991-un-film-di-ricky-tognazzi/
 

sábado, 26 de diciembre de 2020

Vogliamo anche le Rose - Alina Marazzi (2007)

 TÍTULO ORIGINAL
Vogliamo anche le rose
AÑO
2007
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
No
DURACIÓN
85 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Alina Marazzi
GUIÓN
Alina Marazzi
MÚSICA
Ronin
REPARTO
Documental
PRODUCTORA
Co-production Italia-Suiza; Mir Cinematografica, RAI, Ventura Film, RTSI, Fox International Channels
GÉNERO
Documental

Sinopsis
En 1912, miles de trabajadoras de la industria textil de Massachusetts fueron a la huelga bajo el lema “Queremos pan, pero queremos también las rosas”. Participando de este espíritu, Voglila película retrata el profundo cambio provocado por la segunda ola feminista en Italia, durante los años 60 y 70, a través de imágenes de archivo, procedentes de la publicidad, el cine o los noticiarios, que dialogan con los diarios íntimos de tres mujeres donde se revelan sus singulares trayectorias hacia la emancipación. Un collage crítico e irónico en el que las motivaciones personales devienen en argumentos políticos con los que construir una sociedad opresiva para las mujeres. (FILMAFFINITY)

Premios
2007 Premios David di Donatello Nominada a mejor documental 

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En 1912, miles de trabajadoras de la industria textil de Massachusetts fueron a la huelga bajo el lema “Queremos pan, pero queremos también las rosas”. Participando de este espíritu, Voglila película retrata el profundo cambio provocado por la segunda ola feminista en Italia, durante los años 60 y 70, a través de imágenes de archivo, procedentes de la publicidad, el cine o los noticiarios, que dialogan con los diarios íntimos de tres mujeres donde se revelan sus singulares trayectorias hacia la emancipación. Un collage crítico e irónico en el que las motivaciones personales devienen en argumentos políticos con los que construir una sociedad opresiva para las mujeres.
https://www.cinetecamadrid.com/programacion/5000-feminismos-vogliamo-anche-le-rose

 
Tre donne vivono la propria emancipazione in tre modi e momenti storici diversi: sono i diari di Anita, Teresa e Valentina a fare da fil rouge nei cambiamenti del ruolo della donna dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta.
Presentato a Torino nella sezione Panorama Italiano, dopo il successo ottenuto al Festival di Locarno, il documentario Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi riprende uno degli slogan del femminismo anni Settanta – a sua volta ereditato dalle proteste di inizio secolo – per una ricognizione nella storia dell’emancipazione femminile e, di conseguenza, nella storia dei cambiamenti sociali che hanno attraversato gli anni Sessanta e Settanta, prima di assopirsi definitivamente negli anni Ottanta.
L’opera nasce da una ricerca approfondita, partita dalle Teche Rai per approdare a diverse cineteche italiane e allargarsi al vissuto quotidiano attraverso documenti privati, filmini super8 e fotografie.
A far da collante tra le diverse testimonianze, assemblate con stili diversi e con linguaggi che alternano l’ironia e il sorriso a drammi personali e proteste collettive, sono tre diari, selezionati da un nucleo di venticinque provenienti dal Centro di documentazione diaristica di Pieve Santo Stefano e “concentrati” con l’aiuto della scrittrice Silvia Balestra. Tre storie molto intime che tracciano altrettanti momenti storici del femminismo italiano: l’emancipazione da un padre oppressivo, le riflessioni di una femminista tra sentimenti e militanza politica e l’esperienza drammatica dell’aborto.
Ideale conclusione della trilogia iniziata da Alina Marazzi nel 2002 con Un’ora sola ti vorrei, ritratto della madre morta suicida, e proseguito nel 2005 con Per sempre, dedicato alle monache di clausura, l’opera non prende posizione, anche se, come ha dichiarato dalla regista “il documentario è una forma in cui si può sperimentare, partendo dall’osservazione della realtà per esprimere il proprio punto di vista”.
Se l’idea iniziale era quella di raccontare la liberazione sessuale in Italia, il progetto ha ampliato i propri orizzonti diventando una riflessione sul rapporto con la corporeità e le relazioni interpersonali. Così è più immediato, nello spettatore, il confronto con un presente ancora contraddittorio.
Siamo tuttavia di fronte ad un’opera con caratteristiche da cinema sperimentale, di non sempre facile lettura. Ma il verdetto definitivo arriverà dal pubblico in sala, dopo l’uscita, prevista per il mese di marzo 2008, in occasione della festa della donna.
https://www.nonsolocinema.com/VOGLIAMO-ANCHE-LE-ROSE-di-ALINA.html

***

Vogliamo anche le rose è un atto d’amore, essenziale e sentito, alle donne che come la regista (prima di lei, considerando il fattore anagrafico) sentirono la necessità di riscoprire il loro ruolo, il loro senso, le proprie esigenze vitali.
Dobbiamo essere sinceri: ciò che ci ha maggiormente rassicurato, al termine della visione di Vogliamo anche le rose, è stata la memoria retrospettiva di Per sempre. Il precedente lavoro documentario di Alina Marazzi (visto in anteprima sempre a Locarno, dove la cineasta italo-svizzera è per ovvie ragioni di casa), ci aveva lasciato freddi; forse per l’eccessiva vicinanza con la visione dello stupefacente Un’ora sola ti vorrei, forse per il carico di aspettative che avevamo riposto in lui, ma il ritratto della vita monacale ai giorni nostri aveva prodotto in noi un senso di delusione duro da cancellare.
Sono passati due anni da quella visione, ed è stato necessario incontrare Vogliamo anche le rose per farci comprendere realmente il senso di Per sempre: potrà forse apparirvi come un paradosso, ma senza questo lungometraggio – il primo, per la Marazzi – dedicato alla questione femminile negli anni ’60 e ’70, avremmo continuato a ricacciare l’opera immediatamente precedente nel limbo indistinto e scomodo dei lavori incompiuti, minori, tutt’altro che indispensabili. Intendiamoci, non siamo arrivati al punto di ribaltare completamente il nostro pensiero, e senza dubbio Per sempre continua a lasciare in noi una serie non indifferente di dubbi, ma per lo meno ora siamo in grado, forse, di comprendere la molla che spinse la regista a muoversi in quella direzione.
C’è un filo invisibile che collega le ultime tre opere della Marazzi, legandole con forza; potremmo addirittura arrivare a considerare Un’ora sola ti vorrei, Per sempre e Vogliamo anche le rose una trilogia (del tutto espandibile: non ci sorprenderemmo nello scorgerci, nei prossimi anni, a rielaborare questo scritto parlando di tetralogie, pentalogie, decaloghi), dove a svolgere il ruolo primario e duplice di soggetto e oggetto è la donna, nella sua accezione più ampia. In questo caso la Marazzi va a scandagliare l’evoluzione della donna come corpo sociale a se stante, un processo ancora in fase di definizione ma che visse il suo apice, il momento di gloria (come l’intera storia degli sconvolgimenti sociali nel nostro paese), in quel periodo storico che va a cavallo dagli albori del ’68 – e dunque dal biennio ’66/’67 – fino agli ultimi residui del furore barricadero del ’77. Lo fa, ed eccola subito la prima intuizione geniale, non elaborando un documentario classico, ma affidandosi alla lettura dei diari di tre donne che attraversano, come una lama incandescente, l’intero spettro dell’Italia dell’epoca: Anita è una giovanissima adolescente oppressa dalla figura paterna e in cerca di un proprio spazio nel mondo, spaventata dalla sessualità e disgustata dalla prassi amorosa che la circonda. Teresa è una barese che regala al suo diario lo straziante travaglio di una interruzione di gravidanza (“ho scoperto che è un mio diritto decidere sul mio corpo” è l’affermazione, magari naïf agli occhi di oggi, che ne fotografa con maggior chiarezza lo stato d’animo), Valentina tratteggia con precisione quasi certosina la sua ricerca di un equilibrio reale tra le esigenze della vita militante all’interno dei gruppi femministi e il rapporto burrascoso con l’altro sesso, amato e disprezzato allo stesso tempo.
Le rievocazioni di questi tre elaborati intimi si mescolano, da un punto visivo e sonoro, con una ricerca d’archivio che spazia dal cinema d’avanguardia (quanto appaiono al contempo desueti e attuali i frammenti presi da Anna e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro di Alberto Grifi, a loro volta fotografie lucide di un mondo in sommovimento) ai caroselli, dagli inserti dei telegiornali a documentari di vario tipo, in un percorso cognitivo non solo dell’evoluzione del ruolo della donna, ma della stessa educazione allo sguardo per una nazione che, come segnala un giovane intervistato all’uscita di Helga di Erich F. Bender, si è mossa in questo senso con notevole ritardo rispetto al resto dell’Europa.
Ma Vogliamo anche le rose permette, nella sua analisi che parte dal particolare per adattarsi a una riflessione sull’universale, di rintracciare il nocciolo dell’esistere al cinema di Alina Marazzi: non c’è alcuna pretesa di oggettività all’interno del documentario, così come non viene mai meno la presenza dello sguardo della regista. È la sua elaborazione quella a cui assistiamo, e la forza con la quale ci viene esposta è tale che è impossibile non ammirarla: non serve entrare in profondità nelle idee e nelle necessità dell’intera popolazione (per quanto vi sia, nella pellicola, un minimo di equità, non è possibile rintracciare alcun personaggio guida maschile) perché Vogliamo anche le rose è un atto d’amore, essenziale e sentito, alle donne che come la regista (prima di lei, considerando il fattore anagrafico) sentirono la necessità di riscoprire il loro ruolo, il loro senso, le proprie esigenze vitali.
Ed ecco che arriviamo a riallacciarci ai lavori immediatamente precedenti a questo: i dubbi e le paure di Anita, Teresa e Valentina sono esattamente gli stessi che si poneva – in maniera maggiormente ansiogena, ma la questione non cambia poi di molto – Liseli, la madre morta suicida quando Alina aveva appena sette anni, il grande rimosso, la scomparsa immane che ne ha segnato in maniera lacerante quel Un’ora sola ti vorrei che continuerà a rimanere il suo capolavoro per la capacità di agitare le acque del cinema inquinandole con il dolore privato, intimo, insondabile della perdita degli affetti. Ma sono allo stesso modo anche i dubbi che turbavano l’animo di alcune monache in Per sempre, spinte a riflettere dalla solitudine e dal silenzio ieratico della vita in clausura; perché, questo sembra realmente volerci dire la Marazzi, le rivoluzioni sessuali che si sono susseguite (e delle quali ci viene fatto un sintetico elenco prima dei titoli di coda) non hanno ancora raggiunto la loro vera maturazione, non sono ancora riuscite a spingersi al di là del senso comune, al di là del tempo a cui appartengono. Le menti delle donne sono ancora in subbuglio, il raggiungimento della pace tra i sessi forse solo un miraggio, per una serie di motivi che sarebbe stupido, oltre che sfiancante, stare qui a enunciare: quando Valentina afferma, alla fine del diario “dal 1977 gli uomini e le donne escono entrambi sconfitti” è impossibile non annuire in segno di approvazione. La nostra società – ma forse, velatamente, tutte le società occidentali – ha mascherato il problema dietro una tenda di apparente tranquillità, ma i mari sono ancora in burrasca.
C’è ancora bisogno di riscoprirsi parte di un mondo che non possiamo conoscere (come cercarono di fare Don Milani nel suo Lettera a una professoressa e, in maniera forse meno “universale”, Carla Lonzi attraverso i suoi scritti) per poterne leggere le pieghe, anche quelle nascoste dal rutilare del tempo.
Diventa dunque ancora una volta essenziale l’azione documentaria di Alina Marazzi, accompagnata qui dalle musiche (puntuali, irsute e sbarazzine) dei Ronin di Bruno Dorella – colui che fu batterista nei seminali Wolfango e che, a capo di OvO e Bachi da Pietra, sta segnando il rock indipendente di questo millennio –, perché ci permette di fotografare un’epoca senza la sgradevole sensazione di cristallizzarla e di renderla sbiadito retaggio mnemonico, atto ai nostalgici sorrisi a mezza bocca; al contrario, Vogliamo anche le rose è un film vivo, perché la materia del passato non ha timore di proporsi come contemporanea e, chi lo sa, futura. Ed è della sua vita, della sua (ancora una volta!) aura privata, che noi oggi ci nutriamo.

Alina Marazzi
https://quinlan.it/2007/08/04/vogliamo-anche-le-rose/

viernes, 25 de diciembre de 2020

Il delitto Matteotti - Nelo Risi (1956)

TÍTULO ORIGINAL
Il delitto Matteotti
AÑO
1956
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
No
DURACIÓN
12 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Nelo Risi
GUIÓN
Mario Bernardo, Giovanni Pirelli
MÚSICA
Mario Nascimbene
FOTOGRAFÍA
Carlo Ventimiglia (B&W)
REPARTO
Documental
PRODUCTORA
Cortimetraggi
GÉNERO
Documental | Cortometraje. Crimen. Política

Sinopsis
"En 1924, un evento grave terminó con más de medio siglo de democracia parlamentaria italiana". Así comienza la narración que se centra en el delito del diputado Giacomo Matteotti que marca el comienzo del fascismo en Italia. (FILMAFFINITY)

1 


DESCRIZIONE DELLE IMMAGINI

01 : Da: 00:46:40:20
Riprese di un comizio per le elezioni politiche

02 : Da: 00:47:32:22
Inq fissa di Montecitorio dall'esterno. Ripresa dell'interno deserto di Montecitorio

03 : Da: 00:48:24:20
L'esterno della casa di Giacomo Matteotti sul Lungotevere. Part dei fari di una Lancia Limusin. Foto di Amerigo Dumini. L'automobile percorre Ponte Milvio

04 : Da: 00:49:16:05
L'automobile percorre le campagne romane. Part della macchina parcheggiata in campagna

05 : Da: 00:50:06:14
Part di ritagli di giornale riguardanti il rapimento di Matteotti. Riprese dell'interno deserto di Montecitorio

06 : Da: 00:51:22:06
Riprese delle vie di Roma, immagini del funerale, immagini di giornali

07 : Da: 00:51:51:15
Il popolo in piazza dà fuoco ai giornali, i cittadini sotto Montecitorio

08 : Da: 00:52:12:00
Alla ricerca del corpo di Matteotti. Panoramica delle campagne romane

09 : Da: 00:54:57:12
Nella città natale di Matteotti, Prasta Polesine, i cittadini alla stazione aspettano la salma

http://patrimonio.aamod.it/aamod-web/film/detail/IL8300001312/22/il-delitto-matteotti.html?startPage=0&idFondo=IL8000000009

 

jueves, 24 de diciembre de 2020

Sballato, gasato, completamente fuso - Steno (1982)

TÍTULO ORIGINAL
Sballato, gasato, completamente fuso
AÑO
1982
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
96 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Steno (Stefano Vanzina)
GUIÓN
Steno, Enrico Vanzina, Cesare Frugoni
MÚSICA
Detto Mariano
FOTOGRAFÍA
Luigi Kuveiller
REPARTO
Edwige Fenech, Diego Abatantuono, Liù Bosisio, Mauro Di Francesco, Enrico Maria Salerno, Cinzia de Ponti, Stefano Gragnani, Peter Berling, Maria Rosaria Spadola
PRODUCTORA
Dean Film
GÉNERO
Comedia | Crimen

Sinopsis
Una periodista frustrada porque su jefe no la tiene en consideración le lanza un desafío, y escribe un gran artículo. (FILMAFFINITY)
 
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Sub 

Patrizia, giovane bellissima e attraente, lavora come giornalista "avventizia" al periodico "La Settimana". Delusa di essere tratta solo come una "donna oggetto" propone al suo direttore, Zafferi, una sfida: ella farà una inchiesta sulle avventure erotiche degli italiani. Se lo scritto sarà pubblicabile, bene, altrimenti avrà perso e si concederà a lui. Zafferi che oltre ad essere un ottimo giornalista è anche un "vero" uomo accetta. L'inchiesta, data la venustà di Patrizia, procura alla giovane una serie inimmaginabile di guai e contrattempi. Il più eclatante si presenta con un autista di taxi, emigrato meridionale, pasticcione e fanatico del quale la ragazza si serve per far ingelosire il suo direttore che nel frattempo ha preso una cotta per la sua giornalista. Come era prevedibile, Patrizia non riesce a scrivere un articolo valido per essere pubblicato. Ne seguirà una situazione del tutto imprevedibile.
http://www.archiviodelcinemaitaliano.it/index.php/scheda.html?codice=AG4832

 

Elenco delle frasi del film "Sballato, gasato, completamente fuso"
Patrizia: Senta, io ho una fretta pazzesca. Le ho detto "ambasciata americana", "Stati Uniti", via Veneto, va bene?

Duccio: Ah, via Veneto! Quella di Fellino, La Dolce vita, il vitellone, la bella epòca, dove c'è la Mukberg che fa il bagno dentro la piscina di Trevo... capito, capito.
--
Duccio : Al paesello ci volevo tornare, ma ricco spietato, istesso del Conte di Montecristo: con una ragazza sfarzesca al fianco pe' fa' crepa' d'invidia quei fetenti degli indigeni del luogo. Invece mi tocca torna' con la coda tra le gambe, istesso di Lilli il vagabondo...
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Duccio : Guarda tu, presempio: vedi come sei ridotto? Tu sei una schifezza: sembri uno zompi, uno dei morti che saltano.
https://aforismi.meglio.it/frasi-film.htm?n=Sballato%2C+gasato%2C+completamente+fuso

 

Sballato, gasato, completamente fuso (1982) [4 errori]

Trucco: [N° 58866] Nell'inquadratura in cui Patrizia in versione prostituta salta dal cellulare al calesse, la Fenech e' sostituita da uno stuntman, riconoscibile oltre che per la corporatura diversa (eh, ma va'?) dal fatto che indossa scarpe prive dei tacchi a spillo della passeggiatrice.

Microf./CastTecnico: [N° 58867] Durante la scena in cui Patrizia-prostituta viene scarrozzata sul motorino dall'esilarante emulo di Thomas Milian ("er piu' der Tufello, Giggi er monnezzaro"), in alcune inquadrature (la curva iniziale, ad esempio) nella parte bassa dell'inquadratura campeggia una specie di grosso detrito, finito contro il vetro dell'obiettivo della cinepresa e non rimosso durante le riprese!

Continuità: [N° 58868] Il direttore si avvicina a Patrizia per la prima volta per controllare a che punto sia l'articolo. I due parlano: inquadrata da davanti, la Fenech tiene il braccio destro alzato, con la sigaretta sospesa in aria a una certa distanza dal volto. Nel controcampo, la mano con la sigaretta non e' visibile.

Trucco:
[N° 58869] E' piuttosto ovvio ma lo segnalo ugualmente: quando la lettiga con Patrizia a bordo viene sbalzata fuori dall'autoambulanza, nelle prime inquadrature, quelle piu' rapide e "pericolose", la Edwige nazionale e' sostituita da un manichino.
https://www.bloopers.it/testo/index.php?id_film=7970&Lettera=S
 

miércoles, 23 de diciembre de 2020

Ai margini della metropoli - Carlo Lizzani (1953)

TÍTULO ORIGINAL
Ai margini della metropoli
AÑO
1953
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACIÓN
96 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Lizzani
ASISTENTE
Fernando Birri
GUIÓN
Carlo Lizzani, Angelo D'Alessandro, Alessandro Ferraù, Lamberto Martini, Massimo Mida
MÚSICA
Franco Mannino
FOTOGRAFÍA
Gianni Di Venanzo
REPARTO
Massimo Girotti, Marina Berti, Giulietta Masina, Michel Jourdan, Lucien Gallas, Giuliano Montaldo, Giovanna Ralli
PRODUCTORA
Elios Film
GÉNERO
Drama | Crimen

Sinopsis
Un joven desocupado es acusado del asalto a una muchacha. Arrestado, consigue fugarse y esconderse en casa de una amiga. (FILMAFFINITY)
1 
2 
3 

TRAMA AI MARGINI DELLA METROPOLI
Mario Ilari, giovane operaio disoccupato, è accusato dell'uccisione di una ragazza con la quale ha avuto dei rapporti. Arrestato, fugge e si nasconde in casa di Gina, un'amica, con la quale convive; ma viene nuovamente arrestato. Un'amica di Gina, Luisa, che fa la dattilografa, prega l'avvocato Roberto Marini d'assumere la difesa dell'Ilari. Marini accetta l'incarico, convinto che il processo gli darà modo d'affermarsi come difensore. La situazione dell'accusato, contro il quale stanno gravi indizi, appare critica: gli nuoce la testimonianza di Calì, vecchio vagabondo, che l'ha visto sul luogo del delitto poco prima dell'ora presumibile dell'uccisione. Ilari si protesta innocente: ha rivisto la ragazza per fare, per mezzo suo, la conoscenza di Greta, che doveva facilitargli l'espatrio. L'avvocato Marini si propone d'incriminare Calì come falso testimone, ma questi s'uccide. Le cose si mettono male per Ilari, quando succede un colpo di scena. Si trova il cadavere dell'introvabile Greta; il suo uccisore, che la teneva sequestrata per non essere da lei denunciato, ha precedentemente commesso il delitto, del quale è accusato Mario Ilari. Questi può ora riabbracciare Gina, che ha sposato durante la detenzione, mentre l'avvocato e Luisa si confessano il loro reciproco amore.
https://www.comingsoon.it/film/ai-margini-della-metropoli/22142/scheda/

...
Va sicuramente meglio il secondo, misconosciuto film di Lizzani, Ai margini della metropoli (febbraio 1953; 95 min.) complesso racconto giudiziario immerso nell’universo dei miserabili che vivono nelle borgate intorno a Roma, nonché ispirato a un fatto di cronaca dell’epoca (alla sceneggiatura collaborano Massimo Mida, il regista stesso e altri). Mario Ilari (Michel Jourdan) è accusato di avere pugnalato una prostituta sotto un ponte; l’avvocato rampante Roberto Martini (Massimo Girotti), in cerca di notorietà e in procinto di sposare un’altezzosa fanciulla dell’alta borghesia, si accolla il caso: dapprima lo sfrutta senza troppi scrupoli, poi finalmente dà ascolto al poveraccio ingiustamente accusato, a sua moglie (Giulietta Masina) e alla sua amica Luisa (Marina Berti), una modesta dattilografa che finirà per divenire l’aiutante sul campo dell’avvocato e probabilmente sua moglie.
La matassa è ingarbugliata tra false testimonianze (un barbone incastra il falso colpevole per portargli via un pezzetto di terra), un racket di malavitosi che si occupa di espatri clandestini e un universo giudiziario classista e sordo alle ragioni di un uomo qualunque, schiacciato da troppi indizi. Il finale, tuttavia, riserva colpi di scena a ripetizione, sparatorie e la scoperta dei veri colpevoli.
Lizzani se la cava piuttosto bene, sviluppando quel talento narrativo, influenzato dagli stereotipi hollywoodiani, che già era evidente nell’opera prima. L’autore ne è cosciente tanto da far dire a una figurante che Girotti sembra un attore americano. Ma la buona riuscita del lavoro non consiste solo in questo: il ritmo serrato, il gusto per il mystery (gli assassini vengono scoperti solo nell’ultima sequenza) e l’organizzazione a puzzle del racconto (in un andirivieni cosante tra passato e presente, con dettagli che emergono solo gradualmente) si coniugano con un bel gusto figurativo, un occhio attento alla descrizione delle borgate (al punto che si respirano già le atmosfere di Le notti di Cabiria, Fellini, 1957) e una capacità di accostare tipologie umane svariate e non manichee. Infatti se l’universo altoborghese viene tratteggiato con l’abituale disprezzo socialfascista (ossia tipico sia del cinema del regime, sia di quello di sinistra), il mondo dei poveracci non è tutto rose e fiori: ci sono i criminali, gli assassini, i trafficanti, i vagabondi che testimoniano il falso per disfarsi di un concorrente nell’utilizzo di un terreno pubblico e infine ci sono anche i proletari “classici”, “neorealistici” come il protagonista alla perenne ricerca di un lavoro, la sua eroica e fedele moglie, la sua generosa amica dattilografa. Lo spaccato è ben dipinto e avvince, anche quando i troppi tentennamenti dell’avvocato (un bravo Girotti mal servito da un copione con troppe giravolte) - ora attratto dall’universo degli umili, ora da quello dei ricchi, ora nuovamente pronto a giocarsi tutto (fidanzata altolocata compresa) per salvare l’innocente dal carcere - mettono a dura prova la pazienza dello spettatore.
Il quadro viene completato dall’intenso patetismo della colonna sonora di Franco Mannino, il cui calore, tipicamente italiano, contribuisce al riuscito connubio di differenti tradizioni artistiche. Le regole del noir giudiziario americano sembrano infatti acquisire nuova vita allorché immerse nella tradizione melodrammatica, tipica della penisola: semplici schemi narrativi ad effetto si caricano pertanto di un’umanità vera e quotidiana e approdano a una narrazione di notevole intensità emotiva.
La critica “impegnata” dell’epoca, che tanto ha applaudito allo scolastico film resistenziale, non esita a sparare a zero su questo dramma giudiziario, definito “sgangherato” e “falso” (sulla autorevole rivista “Cinema”, n. 112) nel disegno dei personaggi. In realtà è probabile che quella visione così articolata e chiaroscurale dei meandri del mondo proletario, con le sue bassezze e i suoi crimini, sia risultato indigesto agli intellettuali progressisti, sempre pronti a celebrare in modo stereotipato, le presunte qualità degli umili come nettamente contrapposte al presunto cinismo antisolidale dei borghesi.
In ogni caso il fim è un solenne fiasco commerciale ed é tutt’ora una pellicola completamente dimenticata.  
http://www.giusepperausa.it/achtung__banditi___ai_margini_.html

Esperienza storica e cinema in Carlo Lizzani
Gualtiero De Santi

1. Cineasta legato alla storia un po’ quasi per definizione – per propria scelta e poetica – sin dai lontani documentari che lo videro avviarsi alla regia e sin dai primi lungometraggi, Carlo Lizzani è stato ed è tuttora anche un critico ed uno storico del cinema. Le tematiche dei film da lui diretti hanno infatti privilegiato – pur se non nell’interezza della sua produzione – le vicende pubbliche della nazione e del nostro popolo, concentrandosi in un primo momento sugli anni compresi tra il fascismo e la ricostruzione del dopoguerra, con un ideale epicentro nella guerra di Liberazione e nella Resistenza, di lì volgendosi verso una linea di tendenza che ha guidato il nostro alla rivisitazione e al recupero di un certo Ottocento (si pensi alle fatiche abbastanza recenti de Le cinque giornate). A riprova – come hanno indicato grandi saggisti e commentatori politici e come, per rimanere nell’ambito del cinema, dimostrò a suo tempo Luchino Visconti – che si debbono e possono rinvenire le radici e persino i nodi irrisolti della questione italiana nel fondamento dato a suo tempo alla nostra unità nazionale.
Ne era consapevole lo stesso Lizzani quando, al momento dell’uscita del Processo di Verona nei primi mesi del 1963, si trovò a sottolineare in un articolo ospitato dalla rivista di Aristarco “Cinema Nuovo” la correlazione esistente tra l’impianto storico e critico del proprio film e quanto egli si aspettava che sarebbe arrivato col Gattopardo di Visconti, ancora inedito e non conosciuto dal grande pubblico.
Da un lato abbiamo dunque il regista, mirante il più spesso a organizzare materiali storici. Ma per altro lato andava in Lizzani sempre più disponendosi e affinandosi il lavoro critico. Un lavoro che in un certo senso antecede persino il suo ingaggio nel cinema e nella regia, risalendo ai primi anni '40, quando egli era ancora un giovane di belle speranze al quale però era arrisa la fortuna di collaborare con testate prestigiose, non soltanto di cinema. Un impegno ostensibilmente mai cessato (ne fanno fede i numerosissimi interventi saggistici e critici, raccolti ad esempio nel volume Attraverso il Novecento, e i diversi libri editi in tanti anni), che avrebbe raggiunto l’apice nel saggio sulla storia del cinema italiano, a diverse riprese aggiornato ma comunque indiziabile in quel non corposo volumetto (172 pagine di testo, seguite da una filmografia e da indicazioni di metodo stilate da Leopoldo Paciscopi e Giorgio Signorini), che l’editore fiorentino Parenti, un benemerito della nostra cultura civile e avanzata, mandò alle stampe nel 1953 chiudendone la realizzazione nel mese di giugno di quello stesso anno. Il titolo che il volume portava era – senza presunzione e senza accademismi – Il cinema italiano. Si voleva un’opera aperta e soprattutto non paludata, che non esibisse dall’inizio le proprie referenze accademiche e scientifiche. Ma quell’indicazione del titolo era poi assai precisa giacché, più che comporre una storia, serviva a dar risposta alle domande che ormai sorgevano in tutto il mondo sulla natura del cinema neorealista.
Un particolare curioso fu che sulla sovracoperta esterna di Lizzani compariva solo il cognome, un po’ alla sovietica o almeno come si faceva nei cast creditdei film provenienti dall’Urss, mentre il risarcimento del nome di battesimo si poteva incontrare sulla copertina e nel frontespizio. Poi, come si sa, approfondendo e accogliendo altri umori e esperienze, e anche allargando l’originario punto di vista, il titolo originale si sarebbe variamente modificato. Così, ad esempio, l’edizione impressa nell’aprile 1979 a cura degli Editori Riuniti recitava espressamente Il cinema italiano 1895-1979 (ma si ricorse in ogni caso anche a Storia del cinema italiano, con il che si rientrava nella norma e nel genere).
Per un cospicuo corso d’anni, in Lizzani, il lavoro del regista e quello dello storico (sia pure con un sale e un piglio critico sempre versati sul presente) sono comunque proceduti in parallelo. Si sono unificati e forse per così dire hanno comunicato nella persona dell’autore, nelle idee da lui professate, in breve nella militanza culturale. Poi ad un certo punto si è visto con piena nettezza come Lizzani, pur continuando a raccontare storie e a fare insomma fiction, piegasse gli strumenti del proprio cinema verso una scelta, o comunque una misura, di tipo storiografico. Nell’esempio appena sopra menzionato de Il Processo di Verona, quello che appariva il concatenamento tra vicenda privata e tragedia nazionale risultò tale da costringere a linee interpretative che non potevano restare indefinite, nel senso che c’erano dettagli importanti del racconto non celabili alla cinepresa, che non dovevano rimanere in sospeso o restare imprecisati per l’economia e il senso narrativi.
Non era soltanto questione di gettare una maggiore luce su tutta una serie di interrogativi e incertezze ancora a quei tempi largamente impregiudicati. Tale, ad esempio, la misteriosa e forse sovrastimata avventura dei diari di Galeazzo Ciano, utilizzati per salvarsi dall’esecuzione capitale come armi di ricatto verso fascisti o nazisti, oppure il ruolo tenuto in quei tragici frangenti dalle diverse personalità, a cominciare da Edda Ciano per venire a Mussolini e ai diversi gerarchi. Ancora alcuni anni dopo, nel 1974, un problema simile si sarebbe ripresentato con un film sempre di stretto impianto storiografico, Mussolini ultimo atto. Dato che il cinema è un’arte della visione e dell’azione fu giocoforza far vedere come fossero stati uccisi il Duce e la Petacci: qui la scelta drammaturgica diveniva la risposta a uno dei quesiti storici su cui più ci si era inquisiti e scontrati nell’ultimo trentennio (e su cui, come si sa, si continua ancora molto a discutere).
Ma, appunto per il senso e le linee del cinema, la macchina formale che ne surcodifica e infine organizza le regole obbligò, nel caso dei film d’impianto storico, a una scelta anche storiografica (del resto presente nel Luchino Visconti del Gattopardo, quantunque pochi dei critici italiani si fossero avveduti che, nell’affresco cinematografico del romanzo di Tomasi di Lampedusa, l’autore milanese aveva fatto largo uso dei più recenti testi della nostra migliore storiografia sul Risorgimento, testi inesistenti nel tessuto connettivo dell’opera letteraria, dove quelle tesi e quelle specifiche notazioni non erano state affatto prese in considerazione).
Se i problemi di un legame tra un pensiero in qualche modo interpretativo e storiografico e la realizzazione di film storici agiscono in Lizzani già apertamente con L’oro di Roma e con Il Processo di Verona, si direbbe più rilevante e sintomatico quanto avvenne in seguito. Allorché in un qualche modo gli capitò di superare le soglie fluide del racconto di finzione, da cui in fondo avevano ricevuto connotazione i suoi maggiori film del decennio '50–'60, da Achtung! Banditi! a Cronache di poveri amanti sino a Il gobbo, per approdare ad uno standard sia rosselliniano, sia un po’ documentaristico. Penso a quei film che raccontano la vita e le convinzioni ideali di grandi personalità del secolo passato. Tale ad esempio il film del 1986 su Giorgio Amendola (Un’isola). Tuttavia il passo ulteriore e definitivo, su cui alla fine si sarebbe saldato tutto – il cinema e la storia, la storia del nostro paese e quella del cinema italiano (e che anzi fa del nostro cinema a cominciare da Roma città aperta lo specchio esatto delle nostre vicende nazionali) – fu quando Carlo Lizzani si diede a realizzare i suoi ritratti d’autore. Quelli di Rossellini, di Luchino Visconti, di Cesare Zavattini; poi i tanti realizzati per il Museo del Cinema di Torino su personalità grandi e piccole della nostra cinematografia. Così in conclusione, per il regista romano fare storia del cinema dirigendo film storici e portando sullo schermo personaggi prima comuni (i partigiani di Achtung! Banditi! o i cornacchiesi della Firenze di Cronache di poveri amanti), poi appartenenti alla storia ufficiale, da Mussolini sino al dirigente rivoluzionario Bucharin in Caro Gorbaciov, ha avuto lo stesso significato di delineare quella che era ed era stata la storia del cinema. Prima tracciandola e argomentandone gli snodi nei libri e nelle riviste, indi trasportando in un qualche modo la scrittura saggistica sul grande schermo, facendola insomma divenire scrittura cinematografica. Da un lato abbiamo film storici come Fontamara, pur con tutto il suo portato romanzesco, o come Il Processo di Verona oppure L’oro di Roma; dall’altro pellicole sulla storia del cinema come Celluloide.
È forse dirigendo per il grande schermo il libro di Ugo Pirro sulla nascita di Roma città aperta, il film-manifesto del neorealismo, costruendo cioè un racconto intorno ad un film – quello di Roberto Rossellini e Sergio Amidei – che era sì di finzione, ma avvertito e sentito da tutti alla stregua di una rappresentazione oggettiva degli anni dell’occupazione e della guerra, che a Lizzani deve essere venuta in mente l’idea di excursus e medaglioni filmati sulla straordinaria vicenda del nostro cinema dal dopoguerra a tutto il trentennio-quarantennio successivo. Affidati però – e questo è il fatto – alla scrittura non unicamente della penna ma altrettanto della cinepresa.
Insomma, per Carlo Lizzani fare storia col cinema ha voluto dire anche raccontare la storia del nostro cinema con l’ausilio e il tramite dell’occhio cinematografico.

2. Forse non è propriamente intorno al cardine del realismo e nemmeno in senso stretto del neorealismo, che ruota l’asse del discorso di Lizzani. Si può invece individuare la più importante carta d’identità formale della sua produzione, sia critica che creativa, in una peculiare difesa di una linea civile del film cui la storia per sua parte concorre. Ben ovvio che, su questa posizione, l’influenza di maggior forza sia stata quella della corrente neorealistica (usiamo intentivamente tale formula perché non crediamo nella definizione che individua tanti neorealismi in ciascheduno degli autori maggiori o intermedi: pur nello svolgimento a confronto e a divario, non solo stilistico, ricorrono evidentemente in questi autori comuni e condivisi denominatori formali). Del resto Lizzani, che ha sempre ostacolato con l’arma della riflessione il processo di revisione che al riguardo è venuto divampando nella critica italiana dopo il lontano e per noi sorpassato convegno di Pesaro del settembre 1974, è tornato su tali questioni con la consueta lucidità a diverse riprese. Ultima delle quali l’articolo scritto in ricordo di Alberto Lattuada per la rivista “Libero” legata al Premio Bizzarri: «Non voglio qui allargare il discorso al tema più generale dell’identità stessa del movimento neorealista. Da decenni insisto sugli aspetti di rivoluzione formale, oltre che di contenuti, del movimento, relegando nell’aneddotica le tante motivazioni contingenti che certamente ne aiutarono la nascita: i pochi mezzi a disposizione, la mancanza di teatri di posa ecc.».
La tensione e gli ideali anche formali del dopoguerra e degli anni '50 – con un cinema che si vuole espressivo della totalità del popolo e della società, in grado di recare contributi essenziali alla crescita del paese e alla sua riconoscibilità attraverso la cultura – compongono per così dire una delle cellule armoniche dell’opera di Lizzani, pur con i sostanziali e in certi casi decisivi cambiamenti intervenuti nel quarantennio successivo e con quella varietà di tematiche e stili che ne hanno connotato il lavoro. Avendo egli infatti praticato se non tutti almeno numerosi generi, dalla commedia al dramma al western, dal documentario al film storico, sino alle cronache filmate quasi in presa diretta nel cosiddetto instant movie.
Se gli intendimenti e le speranze degli anni d’avvio hanno offerto anche a Lizzani vari pretesti di figura per i suoi film maggiori e per i tanti non realizzati, quelle attese hanno pur dovuto confrontarsi con la realtà della macchina cinematografica e del potere economico e politico. L’emarginazione che gli venne comminata negli anni '50, pur dopo i successi di Achtung! Banditi! e soprattutto di Cronache di poveri amanti, venne in seguito superata. Prima facendo vedere – con Lo svitato, una commedia del tutto fuori riga e decisamente innovativa, e insieme con un documentario bello e ben godibile quale fu La muraglia cinese – le capacità conquistate sul piano del lavoro di regista e narratore di storie. Poi anche registrando e imprimendo nel proprio lavoro le variazioni e le crisi del nostro cinema, ma anche aiutandone, o almeno seguendone da presso, le trasformazioni.
L’opera di Lizzani, dalla metà degli anni '50 e poi dagli anni '60 in avanti, ha certo tradito l’esigenza e la foga di un costante adeguamento alle novità. Si potrebbe anche pensare con qualche probante ragione – e del resto è stato detto – che il suo impegno anche ideale abbia infine rinvenuto una propria ubicazione nel mestiere e nelle propensioni etiche della regia. Laddove all’opposto la pratica mai abbandonata della scrittura saggistica e critica poteva essere più sciolta dai lacci delle esigenze produttive e contingenti e, magari, continuare ad agire se non oppositivamente quantomeno criticamente.
Eppure è anche nel cinema vivo e vissuto, nell’impegno della realizzazione dei propri film pur nel dedalo delle regole e delle costrizioni, che Lizzani si è mostrato non libero ma sicuramente non conforme e omologato alle dominanti linee culturali. Già la vicenda di Alvaro, il gobbo del Quarticciolo, raccontata appunto ne Il gobbo, stava in netta difformità dalle regole del film resistenziale raccontando un caso di delinquenza banditesca insorto sul ceppo della guerra di liberazione: un caso, si sarebbe potuto dire dopo, di deviazione che offriva già materia di riflessione se non al revisionismo storico certo a una diversa considerazione storica.
Lo scarto più forte e radicale avviene nondimeno con Il Processo di Verona. La parola d’ordine della storia inverata e calata in un corpo collettivo non vi è disattesa, ma viene in parte traslata in un dramma di corte dalle cupe note shakespeariane. Lizzani concede il primo piano a personaggi familiari al grande pubblico e ad un pubblico avveduto e politicizzato: Rachele Mussolini, il di lei consorte, il genero Galeazzo, la figlia Edda. Non era mai accaduto in un’opera italiana, se non nei film di costume e ottocenteschi (da Scipione l’africano a Camicie rosse, per intenderci). Insieme alla notorietà delle figure principali e dei comprimari, furono le sottolineature in primo piano dei volti e dei gesti, determinate appunto dal cinema, a costringere a un tipo di introspezione psicologica, e insomma di partecipazione che in parte parve rasentare l’ambiguità.
La scoperta e la lezione del film è che la storia anche quotidiana non fluisce nel solco della prevedibilità dialettica o pseudodialettica. Quasi essa, e il racconto che la sorregge, si prendessero gioco dell’ovvietà. Qualcosa di affine si sarebbe poi ripresentato col successivo La vita agra, tratto dal libro anarchico e disperato di Luciano Bianciardi tuttoché travasato nei gradienti di una commedia all’italiana dal tono temperato che non si nega nel finale un guizzo apocalittico. Anche le pellicole sul neo-gangsterismo metropolitano (da Svegliati e uccidi a Banditi a Milano) e quelle sulla delinquenza e devianza sociale in ambito rurale e isolano (Barbagia), si sottraggono palesemente alle regole del “politically correct”. Nel senso che lo schema ormai corrivo e facile dell’identità tra banditismo e ribellione sociale, che era stato imperante nel dopoguerra e negli anni '50 (da Il lupo della Sila a Non c’è pace tra gli ulivi, da La città si difende allo stesso secondo film di Lizzani, Ai margini della metropoli) e anche negli anni ‘60 (Banditi ad Orgosolo, Il brigante) e poi nei parametri della contestazione, viene forzatamente abbandonato a favore di un modello sociologico, e dunque anche interpretativo, che risulta ben differente.
Nella mutata vita metropolitana cambiavano le regole fondamentali di convivenza; stava avanzando il consumismo; cadeva la solidarietà dei decenni antecedenti, mentre apparivano fenomeni nuovi che non potevano venir spiegati con le regole dell’emarginazione e della povertà. I film di Lizzani del periodo vennero così avversati da certa critica di ultrasinistra (penso ad esempio alla rivista “Ombre rosse”) per il loro coraggioso punto di vista. Questa vocazione un po’ controcorrente avrebbe avuto seguito in Fontamara, dove l’assunzione del tema dell’affrancamento sociale e anche certa proclività all’illustrazione escludono perentoriamente il modello millenaristico e palingenetico – e anche ingenuamente populista – di Silone; poi sarebbe tornata nei film sul terrorismo politico, fenomeno che Lizzani fu tra i primi ad affrontare al cinema, persino nelle strutture degli instant movies. In un qualche modo anche i medaglioni filmici sui protagonisti maggiori e minori del nostro cinema, segnatamente i due su Rossellini e Visconti, non seguono le usuali trafile e le consuete modalità interpretative.
Una tale attitudine non si direbbe in Lizzani predeterminata, ma invece quasi rinvenuta sul campo, nel vivo della realtà e delle contraddizioni messe sotto l’occhio della cinepresa. Il gobbo non è infatti aprioristicamente un film di deviazione nella resistenza (o se lo è, sembra più un film gangsteristico all’americana ambientato tra guerra e dopoguerra in un quartiere di Roma). Né gli instant movies presuppongono un punto di vista preventivo dell’autore. Come negli anni '50 non c’era in Lizzani prospettivismo, così nei decenni successivi lo schema valutativo ed espressivo, e dunque anche storico, non si affida a un movimento risolto e condizionato.
Il fatto è che il regime di segni del cinema lizzaniano, pur nella conformità alle sceneggiature e nel complessivo disegno di una regia esecutiva e inscenante, traccia nel proprio divenire – e nel divenire delle immagini – un proprio piano di consistenza, in contrasto appunto con le più ovvie risoluzioni, ma in stretto legame con un livello di complessità percepito emozionalmente. Alvaro il gobbo non è insomma sempre buono perché proletario e combattente, né Edda Ciano e Claretta Petacci (quest’ultima in Mussolini ultimo atto) sono creature dell’orrore e della crudeltà quantunque abbagliate dal fascismo e di esso indubbie complici.
A un primo livello di enunciazione affidato allo scenario (ai cui lavori Lizzani assai spesso prende parte), fanno seguito le riprese. È a questo punto che il cinema si interna nelle cose. Ed è lì che mutano le intenzioni di partenza. Come se all’assicurazione concessa da soggetto e sceneggiatura elaborati in collaborazione con solide figure professionali (tra le quali spicca Ugo Pirro), e regolati dalla stessa figura e ideologia del regista, facesse poi riscontro l’ingresso in un territorio aperto e in una linea di discorso impregiudicata e nuova. Un po’ appunto secondo quei modi rosselliniani, che Lizzani ben conosceva e che aveva sperimentato ai tempi di Germania anno zero.
Non voluta ma connaturata alla personalità di Lizzani, questa maniera di procedere si modella sulle caratteristiche entro cui si sviluppa il processo di preparazione del film e poi delle specifiche riprese. Potremmo addurre gli esempi de La muraglia cinese e de L’oro di Roma. Nel primo caso ciò che un qualunque semiologo (Deleuze o Parnet) avrebbe potuto designare sotto la formula di un concatenamento tra desiderio e enunciazione, subisce lo scacco della realtà. La voglia infatti di abbozzare un’opera che descrivesse un paese accerchiato e isolato dall’imperialismo ma nobilitato dalla sua operosità, deve fare i conti con le chiusure di una burocrazia implacabile e cieca. Il più durevole vestigio che lasciò a Lizzani l’esperienza de La muraglia cinese, fu l’utilizzo di una criticità applicata al comunismo reale ma poi altrettanto all’ideologia. Viene in questo modo anche aperta la strada al Gobbo e congiuntamente a Il Processo di Verona.
L’ulteriore esempio è quello de L’oro di Roma. Pochi erano stati i film – in Europa ma ancor più in Italia – che avevano raccontato l’odissea degli ebrei. Quel che oggigiorno, invadendo integralmente il proscenio della memoria storica sugli anni di guerra, viene definito impropriamente Olocausto, negli anni '50 e '60 era avvertito soltanto come un momento della complessa vicenda bellica e della lotta al nazi-fascismo.
Se il merito di Carlo Lizzani è stato di affrontare – primo tra i registi italiani di qualità dopo il Gillo Pontecorvo di Kapò, apparso appena l’anno precedente – le vicende di una comunità ebraica, il lavoro di organizzazione del film e la concreta messinscena hanno evidenziato le non poche reticenze e anche le contraddizioni della comunità israelita romana. L’elegia sulle vittime dell’intolleranza e del razzismo non delinea insomma, per converso, una quadratura del tutto limpida della parte perseguitata. Il gesto effrattivo e in questo senso complesso della vita reale – che Lizzani sempre coglie – taglia infine fuori ogni prospezione ideologica. La scrittura oscilla sempre su margini di imprevedibilità. La storia di prima linea e ufficiale cede il posto a una cronaca che si miniaturizza in un dedalo di simultaneità tra le persone concrete e i vortici del quotidiano. E anche questo, diremmo, appartiene alla forza inventiva e intellettuale di Carlo Lizzani, alla sua idea di storia.
http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=I12006&id=23