ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS
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GUION Camillo Mastrocinque, Mario Brancacci, Gianni Puccini
REPARTO Franco Caruso, Bruna Corrà, Enzo Donzelli, Maria Fiore, Luciano Fatur, Lucien Gallas, Violetta Gragnani, Manlio Grau, Maria Pia Giordani, Carlo Giuffré, Nino Imparato, Renato Navarrini, Giovanni Onorato, Piero Palermini, Mario Passante, Amelia Perrella, Luciano Paoli, Andrea Petricca, Anna Pretalani, Beniamino Maggio
FOTOGRAFIA Alvaro Mancori
MONTAJE Gabriele Varriale
MUSICA Tarcisio Fusco
PRODUCCION Giovanni Addessi pata Trionfalcine
GENERO Drama / Musical
SINOPSIS Vittorio e Margherita si amano ma lui, per debolezza, viene coinvolto in giri di camorra e nell'omicidio di una bella canzonettista. Melodramma povero al servizio di Rondinella per sciorinare qualche canzone alla maniera di "chiagnazzaro" per la sua modulazione un po' troppo accorata. All'epoca l'Italia di Sanremo delirava per lui. (Il Morandini)
Vittorio Spasiani, proprietario di un'oreficeria, è promesso a Margherita: i due si vogliono bene, ma Vittorio non dimostra molta fretta di sposarsi. Egli ha occasione di fare la conoscenza di Lidia Florette, bella canzonettista, amica del barone De Lise, e per assistere allo spettacolo, cui partecipa l'artista, trascura Margherita. Con un pretesto Lidia invita Vittorio a casa sua, dicendo di dovergli rivelare dei fatti importanti. Recatosi da lei, scopre che è stata uccisa: sorpreso nella casa, Vittorio è accusato d'assassinio ed arrestato. Margherita è certa dell'innocenza del fidanzato e il suo arresto la getta nella disperazione. La polizia ha dei sospetti sul barone De Lise, capo della camorra, ma non ha prove, né indizi sufficienti per poterlo incriminare. Col consenso del commissario di polizia, Margherita accetta le galanti premure del barone, del quale ha preso a frequentare la casa. Scoperto il gioco della ragazza, il barone sta per sopprimerla; ma viene ucciso egli stesso da un camorrista, che vede in lui un traditore. Accertata la responsabilità del barone nell'assassinio di Lidia, Vittorio viene liberato. Egli crede d'esser stato tradito da Margherita; ma quando apprende che essa non solo gli è stata fedele, ma ha rischiato la vita per poter provare la sua innocenza, corre ad abbracciarla.
CRITICA:
"E' un lavoro modesto: la vicenda, i tipi, l'ambiente, tutto è convenzionale e mediocre". (Anonimo, "Segnalazioni Cinematografiche", Vol. XXXVI, 1954).
NOTE:
AUGUSTO GENINA NEL 1937, IN FRANCIA, AVEVA DIRETTO UN FILM CON UNA TRAMA PRESSOCHE' IDENTICA DAL TITOLO ORIGINALE "NAPLES AU BAISER DE FEU" DISTRIBUITO COME "NAPOLI TERRA D'AMORE".
TITULO ORIGINAL Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca
AÑO 1975
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 105 min.
DIRECCION Mario Morra
REPARTO Renato Pozzetto, Alberto Sordi, Claudia Cardinale, Vittorio De Sica, Alain Delon, Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida, Anna Magnani, Ugo Tognazzi, Totò, Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Nino Manfredi
MONTAJE Paolo Wohicievich
MUSICA Lelio Luttazzi
PRODUCCION Merope Film
GENERO Comedia
FORMATO: B/N-Color
SINOPSIS Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca è un film antologico del 1976 diretto dal regista Mario Morra. Presenta spezzoni di film italiani prodotti dalla Titanus dal 1947 al 1962, commentati ironicamente dalla voce di Oreste Lionello e presentati da un giovane Renato Pozzetto, all'epoca star emergente. (Wikipedia)
Il film, tratto esclusivamente dal materiale delle pellicole Titanus 1946/1964 (con qualche inserto documentaristico dell'Istituto Luce) è un "collage" di scene in prevalenza umoristiche o di commedie-varietà. L'antologia è presentata da Renato Pozzetto che appare all'inizio dello spettacolo, a metà e alla fine, in una sorta di scontro pugilistico con i divi e le dive che lo hanno preceduto nella carriera cinematografica. Alcuni dei film sfruttati appaiono più volte (es. "I due gondolieri", "Pane amore e fantasia", "L'armata Brancaleone", ecc.), ma la preferenza è stata data al chilometrico ballo de "Il Gattopardo" che in un certo qual modo dovrebbe fungere da leitmotiv. Numerosi sono gli attori e le attrici che vengono così menzionati insieme ad alcuni dei loro film.
CRITICA:
"Renato Pozzetto presenta un'antologia delle commedie prodotte dalla Titanus dal 1946 al 1964. Una rassegna del neorealismo rosa e dell'Italietta di Scelba in un come eravamo che non manca di spunti satirici. Fa sempre piacere rivedere la Magnani, Sordi e Totò: però l'operazione resta una furbata per fare un film praticamente con niente." (P.Mereghetti - Dizionario dei film).
La Titanus compie un secolo. Sono cent’anni di cinema e di televisione che ci prepariamo a celebrare, in questo 2004, soprattutto per onorare il lavoro di tanti uomini e donne, famosi o sconosciuti, la cui professionalità e la cui passione ci hanno consentito di arrivare fin qui.
Io di anni ne ho qualcuno di meno della Titanus. Ho comunque l’età giusta per poter dire con orgoglio di aver vissuto con il cinema italiano, continuando una tradizione di famiglia che, nata con mia madre Leda Gys e con mio padre Gustavo, prosegue ora con mio figlio Guido. La nostra è una storia di spettacolo (ieri il cinema, oggi la fiction tv), dunque è la storia di un magico mondo di sogni, di emozioni, di gratificazioni e di entusiasmi; ma anche di scelte impegnative, di costosi sacrifici, di audaci scommesse.
Centinaia e centinaia di film, centinaia di storie raccontate per immagini nell’arco di un secolo. Prima immagini mute e tremolanti, proiettate in bianco e nero, col pianista nel buio che, tenendo d’occhio il lenzuolo dello schermo, batteva sui tasti per ricavarne un commento musicale. Poi il sonoro, il colore, lo smalto del cinemascope, le suggestioni del surrounding. E gli attori più amati, i registi più celebrati, i premi più prestigiosi, i titoli delle opere che resteranno per sempre nell’albo d’oro della settima arte.
Nel frattempo, con cent’anni sulle spalle (ma un uomo, ha scritto Vitaliano Brancati, può avere due volte vent’anni senza sentire il peso dei quaranta), la Titanus si proietta in avanti, costruisce giorno dopo giorno il suo futuro. E se prima si occupava di cinema, ora si dedica soprattutto alla tv, produce le fiction, i grandi serial televisivi. Insomma investe la sua esperienza e la sua passione per fabbricare nuove storie e nuove immagini destinate a farci compagnia scorrendo ogni sera sul piccolo schermo di quell’elettrodomestico che a volte molti dicono di odiare come le noccioline americane (lo diceva il grande Orson Welles). E tuttavia non riescono a smettere di mangiare le noccioline americane.
GUION Tullio Pinelli, Pietro Germi, Piero De Bernardi, Leo Benvenuti
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Luigi Kuveiller
PREMIOS 1975: Premios David di Donatello: Mejor película y actor (Ugo Tognazzi)
REPARTO Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Duilio del Prete, Renzo Montagnani, Paolo Stoppa, Milena Vukotic
PRODUCTORA Rizzoli Films
GENERO Comedia | Amistad
SINOPSIS Cuatro amigos cincuentones, que llevan toda la vida juntos, se pasan el día organizando bromas pesadas para burlarse de los demás. Son el periodista Giorgio Perozzi, perseguido por la reprobación de su hijo y su ex-mujer; el arquitecto Rambaldo Melandri, sensible a los asuntos del corazón; el barman Guido Necchi, propietario del bar en el que el grupo se reúne cada noche; y el conde Mascetti, un noble venido a menos, obligado a vivir en un sótano, que no tiene ningún escrúpulo a la hora de alejar a su mujer y su hija para disfrutar de una relación clandestina con su joven amante, Titti. Todos ellos, conscientes de que les ayuda a seguir unidos, recurren a las bromas para prolongar su juventud y defenderse de las penas de la vida. (FILMAFFINITY)
Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli: cinque amici con la mentalità di altri tempi. Ormai cinquantenni, ma rimasti ragazzi, sono pronti a improvvisare situazioni burlesche a Firenze e nei dintorni. All'inizio erano quattro e il Sassaroli, primario di una clinica, li conobbe quando - ricoverati per un incidente - misero a soqquadro l'ospedale. Cominciò a trattare con loro quando il Melandri si innamorò di Donatella, moglie del clinico, fraternizzò con tutti dopo che lo stesso Melandri dovette cedere davanti all'irruenza della Donatella, del cane Birillo e del resto della famiglia appioppatogli. Eccoli, i cinque ragazzi, schiaffeggiare dalla pensilina i viaggiatori di un treno, oppure seminare il panico in un paesino camuffandosi da tecnici stradali e decretando l'abbattimento delle case nonché della chiesa per far spazio a un'autostrada, eccoli trasformarsi in spacciatori di droga per punire l'ingordo pensionato Righi. Quando il Perozzi muore, la loro goliardia viene messa a dura prova, ma nel corso del funerale trovano il modo di improvvisare un ennesimo feroce scherzo per il Righi.
CRITICA:
"Campione d'incassi oltre ogni previsione, il film, pensato da Germi (poi deceduto) e preso in consegna da Monicelli, vorrebbe essere un'amara riflessione (con il sorriso sulle labbra) sul fatale scorrere del tempo. Ma la volgarità supera il livello di guardia; essere fiorentini è tutt'altra cosa. Germi avrebbe lavorato diversamente". (Francesco Mininni, "Magazine italiano tv")
"Intrisa del gusto toscano per la beffa e l'irrisione, venata di misantropia (e di misoginia in particolare), è una commedia di costume che ha grinta, scatto e invenzioni comiche soprattutto nella prima parte. Gran quintetto". (Laura e Morando Morandini, "Telesette")
NOTE:
- AIUTO REGIA: CARLO VANZINA.
- GIRATO NEGLI STUDI INCIR-DE PAOLIS, ESTERNI A FIRENZE E ALTRE LOCALITA' DELLA TOSCANA.
- DAVID DI DONATELLO (1976) COME MIGLIOR FILM E MIGLIOR ATTORE (UGO TOGNAZZI).
Un film dall’atmosfera impregnata di comicità. Ambientato nella Firenze degli anni 70 e dintorni, narra degli episodi che vivono quattro amici (a cui poi se ne accoderà un altro) e dello stile di vita che questi conducono, il quale è basato sullo scherzo e sul riso.
Le scene rimaste nella storia del cinema italiano sono molteplici: gli schiaffi ai passeggeri affacciati ai finestrini di un treno in partenza, i bizzarri discorsi dal fantasioso lessico che si inventa Lello (Ugo Tognazzi), i cori intonati dal magnifico quartetto, specie quello in ospedale che manda in bestia il personale. Ma anche il fittizio scenario di sparatorie (con tanto di fuochi d’artificio) messo su dai protagonisti, per far credere a un personaggio chiamato il Righi (Bernanrd Blier) che fossero coinvolti in un giro d’affari con la malavita organizzata, al fine di tirarlo dentro quelle situazioni che ai suoi occhi appaiono tanto losche da farlo spaventare.
Il tutto gira intorno allo spirito di superficialità e lo schietto umorismo che dai personaggi stessi scaturisce. E nonostante il fatto che il loro modo di scherzare sia per l’appunto schietto, e quindi palese, il ‘povero’ Righi non riesce lo stesso a comprendere quanto sia in realtà deriso dai protagonisti.
Resta da evidenziare comunque quanto i quattro amici siano stati bravi nel giro di pochi secondi (mentre giocavano a carte) a mettere su la scena che erano dei gangster con della droga da smerciare quando invece nella scatola c’era scritto in grande ‘ZUCCHERO’. Ovviamente quello scherzo, e tutta la seguente fila di montature che ne consegue, sono state rese possibili dall’estrema ingenuità del Righi, ma anche dalla prontezza d’ingegno dei quattro e dall’intesa micidiale che li legava. Gli attori principali recitano con una tale spontaneità da far sembrare agli spettatori che anche loro si stiano divertendo ‘da matti’ durante le riprese.
Tra tutti i personaggi il vero protagonista è il Perozzi (Philippe Noiret), che funge da narratore e che racconta all’inizio del film della sua incontenibile voglia di trascorrere un po’ di tempo con i suoi amici, dopo una nottata di lavoro alla sede di una testata giornalistica. Essendo lui che fa da intermediario tra gli spettatori e la commedia, ci dice con un pizzico di riflessività, che cosa sia la ‘zingarata’, ovvero nient’ altro che un viaggio “senza meta e senza scopi, un’evasione senza programmi che può durare un giorno, due o una settimana”.
Riflessività che notiamo anche quando, nel cantare in auto con gli amici, si sofferma un attimo a realizzare quello che stava accadendo, come per immortalare il momento che a lui sembrava così magico, e ci parla di quanto i quattro adulti siano legati tra loro fin dai tempi della scuola e del servizio di leva militare.
Il quinto elemento del gruppo, il dottor Sassaroli (Adolfo Celi), entra in azione quando, per far rispettare le regole che vigono nel suo ospedale, punisce i quattro scalmanati con metodi piuttosto singolari.
Così facendo si dimostra più scaltro di loro, ma a farlo entrare in simpatia al Perozzi, a Lello, e al Necchi (Duilio Del Prete), è il modo in cui riesce psicologicamente a prevalere sul Melandri (Gastone Moschin), il quale si era innamorato di sua moglie.
Questa pellicola è il prototipo della nuova commedia all’italiana. Perché riproduce una realtà così vicina alla nostra generazione, come mai nessun precedente. I tempi dei “Soliti ignoti”, dove la miseria impera e ci si deve arrabattare per rimediare un po’ di denaro, sono finiti. Così come lo sono quelli di “Pane e cioccolata”, dove la realtà di un emigrato italiano in Svizzera, un po’ci rattrista. Dalla pubblicazione di Amici Miei è iniziata l’epoca del cinema che mostra il piacere provato nello sguazzare nel, perdonatemi la parolaccia, fancazzismo.
E il gusto della ‘zingarata’ è così saporito, che vengono rimandati gli impegni di lavoro (vedi il Melandri che delega il lavoro al geometra e non si occupa delle commissioni, oppure il Sassaroli che, quando sente i colpi di clacson degli amici fuori della clinica, rimanda un’operazione chirurgica che stava per avere inizio) e la famiglia viene trascurata (è il caso di Lello che lascia la moglie e la figlia con solo due cipolle da mangiare per tutto il giorno).
Forse un ventennio prima nel capolavoro felliniano “I Vitelloni” quest’aspetto venne già proposto al pubblico italiano; ma in maniera diversa.
Mentre Lello è l’unico personaggio povero del racconto (ma rimembriamo bene, povero ma fiero, poiché non vuole prestiti finanziari dagli amici) gli altri vivono nel piacere di chi ha un lavoro e una condizione economica non cattiva, e che quindi, da questo punto di vista, si può anche permettere di vivere in tal modo.
Del resto Mario Monicelli si rende ancora una volta maestro nel farci immergere completamente nelle atmosfere da lui create; anzi in tal caso risulta più corretto dire: ricreate, visto che egli, per elaborare un costrutto cinematografico così marcato, attinge da un patrimonio unico e assoluto, quello della realtà contemporanea.
Il realismo infatti è uno dei marchi di fabbrica del regista toscano.
Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli: cinque amici con la mentalità di altri tempi. Ormai cinquantenni, ma rimasti ragazzi, sono pronti a improvvisare situazioni burlesche a Firenze e nei dintorni. All'inizio erano quattro e il Sassaroli, primario di una clinica, li conobbe quando - ricoverati per un incidente - misero a soqquadro l'ospedale. Cominciò a trattare con loro quando il Melandri si innamorò di Donatella, moglie del clinico, fraternizzò con tutti dopo che lo stesso Melandri dovette cedere davanti all'irruenza della Donatella, del cane Birillo e del resto della famiglia appioppatogli. Eccoli, i cinque ragazzi, schiaffeggiare dalla pensilina i viaggiatori di un treno, oppure seminare il panico in un paesino camuffandosi da tecnici stradali e decretando l'abbattimento delle case nonché della chiesa per far spazio a un'autostrada, eccoli trasformarsi in spacciatori di droga per punire l'ingordo pensionato Righi. Quando il Perozzi muore, la loro goliardia viene messa a dura prova, ma nel corso del funerale trovano il modo di improvvisare un ennesimo feroce scherzo per il Righi.
Critica
È la storia di quattro amici, vitelloni cinquantenni che poi diventano cinque che coltivano l'antico gusto toscano delle burle ora estrose, ora crudeli. Li tiene insieme la voglia di giocare e di non prendere nulla sul serio, nemmeno sé stessi. Venata di misantropia (e di misoginia, in particolare), è una commedia di costume che, soprattutto nella 1a parte, ha grinta, scatto e ricchezza di trovate comiche. Qua e là poco attendibile sociologicamente e una premeditata vaghezza nell'ambientazione, ma un ottimo quintetto d'interpreti. Sette milioni di spettatori nella stagione 1975-76. Un film di Pietro Germi, si legge nei titoli di testa. Benvenuti, Pinelli e De Bernardi l'avevano scritto per lui.
Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
«Tu muori e chi ti ricorda più? Certo, sarebbe bello se qualcuno di noi potesse durare. Ma io non ci spero, cioè... ci spero poco». Così Pietro Germi in una delle sue ultime interviste prima di morire. E l’applauso grande con cui il pubblico di Taormina, chiudendosi il Festival delle Nazioni, ha salutato il film Amici miei, da Germi avviato e da Monicelli condotto in porto, è stata la risposta a quella speranza: Germi durerà. Almeno fin tanto che qualcuno, interrogandosi sulla vita, troverà anche nel cinema, dietro la facciata d’un film burlesco, non dico le ultime risposte, ma nuove amare domande, e cercherà di difendersi dalla paura buttandola in ridere. Amici miei, alla cui sceneggiatura hanno messo mano anche De Bernardi, Benvenuti e Pinelli, è infatti una opera crudelissima e scanzonata, cattiva come una beffa del Lasca e cupa come il racconto d’un filosofo pessimista. E' una girandola di baie e una pagina di Masoch, la ghirlanda di un delirante Piovano-Arlotto e il gioco d’un becero Gianni Schicchi. È anche il singhiozzo d’una generazione di empi. E il più bel film sulla maledizione di essere toscani che l’Italia sinora abbia fatto.
Quattro amici, oggi a Firenze, tutti sui cinquanta. Il Perozzi, capocronista, è diviso dalla moglie: vive con un figlio adulto, ma i due non hanno nulla da dirsi. Il Melandri fa l’architetto, e si vanta d’avere una bella voce. Il Necchi fa il barista: gli è morto un bambino ma non ha perso l’allegria. Il più scalcinato è il Mascetti, un nobile decaduto che pur avendo moglie e figlia da sfamare se la fa con una studentessa minorenne, un tipo che vi raccomando. Quattro amici, di scuola e di caserma, che si comportano da ragazzacci, da goliardi, e da fiorentini di buona razza. Dunque da buffoni, ma anche da eredi di Buffalmacco. La loro massima gioia è stare insieme, andar vagabondi fra città e collina, prendere per il bavero la gente e sfottere se stessi. Traguardo estremo: distruggere i minchioni. A qualcuno le loro avventure sembreranno cretine, ma un toscano di sangue sano troverà sublime il correre alla stazione a schiaffeggiare gli indifesi viaggiatori;- in partenza affacciati ai finestrini mentre il treno si muove e non possono reagire, o piombare in un paesotto e spargere il terrore fingendosi mandati a scegliere le case da abbattere subito per una nuova autostrada. Gianburrasca faceva qualcosa del genere. Viviamo in un mondo dove la cattiveria è l’unica forma rimastaci di libertà.
I quattro cavalieri dello scherno, che ridotti malconci da un incidente d’auto hanno messo a soqquadro un ospedale, a un certo momento divengono cinque. È quando, per essersi il Melandri faticosamente liberato d’una signora che gli aveva fatto girare non soltanto la testa, al gruppo si aggiunge il marito di lei, un chirurgo illustre meritatosi fiducia proprio accanendosi contro di loro. Scroccare un pranzo facendosi passare per invitati a un ricevimento di snob, e giocare uno scherzo stercorario ai genitori patrizi d’una bimbetta, sarà il meno: il capolavoro verrà quando, adocchiato il Righi, un poveraccio disposto a tutto pur di arrotondare la pensione, gli fanno credere di essere criminali incalliti, dentro il giro della droga, e il chirurgo il loro boss, e lo coinvolgono in una falsa sparatoria con una supposta banda di marsigliesi. Per liberarsene, gli daranno a intendere che il boss è morto, e lo spediranno a Reggio Calabria camuffato da frate. Ma lo rivedremo, e sarà nel momento che è la chiave del film. Mentre ai funerali del Perozzi (burlatosi anche del prete venuto a benedirlo), i quattro amici superstiti, per un momento smarriti, non sapranno soffocare la risata: felici d’aver preso a gabbo, col povero Righi, anche la morte. L’ultima cosa di cui aver paura, quando nemmeno la vita merita d’essere presa sul serio se non è una continua, disperata e se occorre malvagia sfida dell’intelligenza alla meschinità quotidiana.
Film molto più elaborato di quanto sulle prime possa sembrare, Amici miei è l’analisi di un modo di esistere a cui concorrono opposti elementi: l’oltranza del ferire e la ferocia autodistruttiva; l’elogio della vita come gioco, che quando uno esce di scena gli altri continuano il girotondo, e la condanna dell’infantilismo, socialmente improduttivo e politicamente reazionario; la lode dell’amicizia ma anche la sconsacrazione del suo mito; la gelosia degli intellettuali verso i semplici che si divertono gratis e lo sdegno per il loro disimpegno. In Amici miei c’è tutto questo, un po’ alla rinfusa, senza la compattezza d’ispirazione che avrebbe potuto mettervi uno scrittore alla Malaparte e la coerenza ideologica che aveva per esempio La grande abbuffata (un film cui per molti versi somiglia, mancando invece qualsiasi rapporto con I vitelloni, tanto sognatori quanto i fiorentini si tengono al sodo), e con sbalzi di corrente nella tensione narrativa. Ma con una varietà di prospettive, e un divertito sgomento nella perfidia, che conferiscono mordente a quasi tutte le situazioni. E, anche grazie alla fotografia di Kuweiller, con lividi riflessi nella gran baldoria, che la dilata ad affresco di città.
Chiamato dalla fiducia di Germi a realizzare il progetto, Mario Monicelli deve essere contento di sé. Ha reso un omaggio intelligente alla memoria di un amico, e ampliando gli schemi della commedia all’italiana col custodire la polivalenza di significati del soggetto ha saputo raccogliere intorno al film le simpatie di spettatori molto diversi: dei meno esigenti, che rideranno vedendo quante forme possa prendere la virtù fantastica della canzonatura (il Mascetti, che aggiunge un tocco di follia verbale agli sberleffi degli amici, è col Melandri il personaggio meglio riuscito), e di quelli più pensosi e più colti, che riconosceranno in queste cronache sarcastiche l’eco d’una lunga tradizione letteraria, il piacere del cinema della naturalezza, l’assillo d’una scelta esistenziale. Gli uni e gli altri faranno festa a Tognazzi e a Philippe Noiret, tornati a dire insieme la loro grande ricchezza espressiva, ma saluteranno con simpatia anche Gastone Moschin, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (le donne, belle e/o brave, sono Olga Karlatos, Silvia Dionisio, Milena Vukotic e Angela Goodwin). Una partecipazione coi fiocchi dà Bernard Blier. Nel ruolo attonito del Righi egli è il Calandrino d’un film che forse, con una punta in più di tragico, sarebbe piaciuto persino al Boccaccio. Certamente a Germi, che dunque aveva ragione di spera.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera (27/07/1975)
Dal 1975 ad oggi, "Amici miei" è entrato nelle case e nel cuore di tutti. E' una commedia estremamente divertente, in cui una riflessione dolceamara sulla vita fa da sottofondo ad una serie di gag strepitose e geniali.
"Amici miei" è la storia di quattro amici di mezza età, che non hanno mai perso il loro spirito allegro con cui affrontare la vita. Irresistibilmente attratti dalla celia, approfittano di ogni occasione per mettere in atto qualche fantasiosa goliardata: una battuta brillante, una frecciata ironica o una burla geniale, che può essere improvvisata ma anche architettata durante una gita fuori porta (la famosa "zingarata", termine entrato nel linguaggio comune soprattutto proprio grazie al film).
In conseguenza di un'intricata storia d'amore, al quartetto si aggiunge un quinto elemento, che in breve tempo si integra perfettamente al resto del gruppo, diventando anch'egli pedina essenziale nell'ordire scherzi elaborati ed indimenticabili.
La filosofia del non prendere nulla sul serio viene applicata con estrema coerenza. Ogni persona può essere vittima (studentesse e paesani, vigili e pensionati). Ogni luogo può essere lo scenario ideale (un ospedale o una villa, un paese o una stazione). E ogni momento può essere sdrammatizzato, persino la morte di uno degli amici.
"Amici miei" è una pietra miliare del cinema, l'apoteosi della commedia italiana.
Su una colonna sonora vagamente malinconica, che diverse volte ritorna su un notissimo tema verdiano tratto dal "Rigoletto" (chi non ha mai canticchiato "Bella figlia dell'amore" dopo aver visto il film?), si susseguono scene memorabili: il ricovero in ospedale e il corteggiamento di Donatella; l'imbucata alla festa; l'ossessione del Mascetti che chiede sempre "un gettone" per chiamare la sua Titti; lo scherzo a Nicolò Righi, "pensionato delle poste". Ma ci sono soprattutto due trovate che sono divenute le più conosciute, indimenticabili e copiatissime: la supercàzzola e gli schiaffi alla stazione.
Nei suoi toni scanzonati e nelle sue riflessioni esistenziali, "Amici miei" potrebbe essere la storia di ogni amicizia. Un sempreverde adatto per ogni generazione, perché cambiano le città, il vestiario, il modo di vivere e il tempo in cui si vive; ma il piacere cameratesco, goliardico, spensierato dello stare insieme è una sensazione che ogni uomo è destinato a sperimentare nella sua vita. Chiunque potrebbe far proprie le riflessioni del Perozzi:
"Cari amici miei. Mentre me li guardo a uno a uno mi domando, con improvvisa tenerezza, come mai quest'amicizia è durata tanto. Un'amicizia con regole precise anche se non ce le siamo mai dette. (...) E poi il diritto al reciproco sfottimento e alla canzonatura. E la totale e tacita solidarietà appena si tratta di giocare con l'esistenza. Ma più che altro la voglia di ridere e il gusto difficile di non prendersi mai sul serio".
"Amici miei" è celebrazione dell'amicizia sincera e spensierata, un unico linguaggio che accomuna persone radicalmente differenti. Basti pensare ai protagonisti: uomini dai caratteri diversi, che appartengono alle più disparate classi sociali e che vivono vicende amorose e familiari totalmente differenti.
Il Perozzi, voce narrante, è redattore presso un giornale. Un burlone, ma calmo e riflessivo. Ha un figlio ed è separato dalla moglie.
Il Melandri è un architetto. Un single estremamente facile all'innamoramento, passionale, a tratti isterico.
Il Mascetti è un conte decaduto. Povero ma orgoglioso, cerca sempre espedienti con cui mantenere moglie e figlia, ma nel frattempo impazzisce per la sua giovane amante.
Il Necchi, brillante e sereno, è proprietario di un bar e sembra felicemente sposato.
Il Sassaroli è un uomo di carattere. Medico stimato e benestante, abbandona la moglie, viziata e instabile, e il resto della famiglia in mano al Melandri, che se n'era innamorato.
Questi uomini non potrebbero essere più diversi tra loro. Eppure, la loro amicizia azzera le differenze. Non più "io", ma "noi": si passa alla dinamica del gruppo, assurto a valore tanto importante da entrare in competizione con altri valori primari, come la famiglia. Un legame così stretto che nulla (forse la morte, o forse nemmeno quella) è in grado di comprometterne la solidità.
Il gruppo è allora espressione di amicizia parificatrice e salvifica, vissuta in uno spirito divertito che esalta l'umanità dei protagonisti. Ecco perché si può dire che questo film, parlando di ogni uomo, parla ad ogni uomo.
Se in "Amici miei" si dovesse individuare una filosofia di vita, sarebbe senz'altro il non prendere mai nulla sul serio. Nemmeno sé stessi.
Si pensi al Perozzi. Un geniale burlone che vive solo. Come se avesse preferito perdere moglie e figlio, piuttosto che la capacità di sorridere. Una capacità che i musi lunghi non sanno perdonare: nell'ipocrisia sociale, è frequente l'accostamento della "risata" alla "immaturità". Il rimprovero del figlio è per il giornalista occasione di una riflessione esistenziale semplice, lineare, ma significativa:
"Io restai lì a chiedermi se l'imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui, che la pigliava come una condanna ai lavori forzati, o se lo eravamo tutti e due. Lui è un leopardiano. E io no. Leopardi, seduto dietro la siepe, in cima alla collina, pensando all'infinito si metteva a piangere a dirotto. Io invece dopo un po' mi metterei a ridere. E trovo questa mia posizione altrettanto rispettabile e degna di considerazione."
Questo spirito monicelliano non è assolutamente superficiale.
Da una parte, i pessimisti potrebbero definirlo "fuga dalla realtà": una zingarata è una dolce parentesi che allevia il mal di vivere; una risata allevia l'uomo dal pesante pensiero della vecchiaia e della morte. E' un dubbio che per un attimo si affaccia anche alla mente del Perozzi: "Notti, giorni, amori, avvenimenti. Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. Che sia per questo, per non pensarci, per non sentire il peso di tutto questo, che mi ostino a non prendere nulla sul serio?".
Dall'altra parte, gli ottimisti potrebbero definirlo "stile di vita": la vita merita di essere vissuta perché in ogni attimo se ne può ricavare un sorriso. Si pensi al Mascetti, dalla vita misera e miserevole. Eppure...
"Era felice. Questa è la sua forza e la sua bellezza. Gli basta una farfalla, nel buio più nero, per dimenticare sciagure e difficoltà; gli basta un estro di gioco o di scherzo, o una commozione che lo prenda all'improvviso, e tutta la vita gli ridiventa gioco, o scherzo, o commossa partecipazione".
Evidentemente ogni uomo ha diritto di decidere come leggere la propria vita. Entrambe queste riflessioni, come direbbe il Perozzi, sono rispettabili e degne di considerazione.
L'uomo dovrebbe solo ricordare che è molto più facile piangere su tutto che ridere di tutto.
I nomi che lavorano ad "Amici miei" sono essi stessi garanzia di qualità.
Il cast è stellare: i cinque amici sono interpretati da Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Gastone Moschin e Duilio Del Prete.
L'idea originale risale a Pietro Germi (1914-1974), importante sceneggiatore e regista (tra gli altri lavori "Divorzio all'italiana", "Sedotta e abbandonata" e "Serafino") che, a causa della malattia, dovette cedere il progetto all'amico Monicelli.
Mario Monicelli è stato un gigante del cinema italiano.
La sua lunga vita (1915-2010) si spegne tragicamente nel nuovo millennio dopo aver attraversato l'intero "secolo breve". Monicelli è l'italiano novecentesco per eccellenza: spettatore di tutti i tragici eventi storici del secolo scorso e delle evoluzioni sociali del Paese, egli ne vive la drammaticità riproponendola nei suoi lavori ("La grande guerra", "I compagni", "Un borghese piccolo piccolo"). Anche la commedia monicelliana è sempre calata in un contesto storico e sociale ben definito, che funge da sottofondo agli eventi vissuti da protagonisti che fanno ridere e piangere, sorridere e riflettere ("Vogliamo i colonnelli", "I soliti ignoti").
Nelle opere del Maestro vengono immortalati i tratti peculiari dell'italianità. Monicelli ritrae l'italiano come il cittadino di un Paese inquieto e difficile, un uomo che può essere mammone, pavido e farfallone, ma che nel momento della prova sa dimostrarsi estremamente risoluto, generoso ed ottimista. Una nobile macchietta, un perdente dal grande cuore ("Un eroe dei nostri tempi", "Il Marchese del Grillo"). Questi sono i tratti che caratterizzano la commedia di Monicelli: un'ironia mai fine a sé stessa, che non scade mai nel demenziale, ma che è sempre percorsa da una leggera venatura drammatica. O forse al contrario: una drammaticità che non scade mai nel patetico, ma che viene sempre stemperata nelle tragicomiche vicende dei piccoli grandi eroi nostrani. Personaggi che diventano icone del cinema, resi indimenticabili dalle interpretazioni dei più grandi attori del "gotha" cinematografico italiano: tra gli altri, Totò, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi.
Monicelli è da annoverare tra i padri della migliore commedia italiana, un genere a cui il Maestro ha saputo dare un rinnovato lustro, tanto da rendere le commedie italiane note in tutto il mondo. Il suo indiscusso talento e la sua creativa genialità, premiati con numerosi riconoscimenti a livello internazionale, hanno fruttato al regista ben sei nomination agli Oscar. Un livello impensabile per le commedie nostrane d'oggigiorno.
Se il lascito artistico di Monicelli consiste in un'enorme produzione cinematografica (regista di oltre sessanta film, sceneggiatore di un centinaio), il suo lascito morale risiede nello spirito sagace, intelligente ed ottimista con cui abilmente sdrammatizzava ogni situazione. Sul suo sito ufficiale campeggia tutt'oggi una significativa citazione di Sant'Agostino: "Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra".
PREMIOS 1983: Premios David di Donatello: Mejor actor (Giannini), actriz (Sastri) y productor
REPARTO Giancarlo Giannini, Lina Sastri, Aldo Giuffrè, Clelia Rondinella, Carlo Croccolo, Gerardo Scala, Marzio Honorato, Armando Marra, Leo Gullotta, Mario Santella, Carlo Taranto
PRODUCTORA A.M.A. Film / Medusa Films / Radiotelevisione Italiana / SACIS
GENERO Comedia | Mafia
SINOPSIS Narra las correrías de un ladrón de poca monta que se ve envuelto en todas las actividades ilegales del submundo de la mafia napolitana. (FILMAFFINITY)
Pasquale Picone è, all’apparrenza, un operaio che lavora all’Italsider di Bagnoli. Un giorno si dà fuoco durante una seduta del consiglio comunale di Napoli. Viene soccorso e prelevato da un’ambulanza, ma non arriverà mai in ospedale e di lui sembra perdersi ogni traccia. Sua moglie Lucia (Lina Sastri), dopo alcuni vani tentativi, decide di affidarsi a Salvatore (Giancarlo Giannini), traffichino con due scarpe spaiate che vive di espedienti. Questi ritrova l’agenda di Pasquale con una lista di nominativi che dovevano a Picone dei soldi. Presentandosi con la frase “mi manda Picone”, Salvatore intraprenderà un viaggio nel ventre di Napoli, scoprendo un realtà ben diversa, fatta di estorsioni, scommesse illegali, camorra e prostituzione.
Il sardo Nanni Loy ha sempre avuto interesse per Napoli, il suo mondo e i suoi abitanti, parimenti alla romana Lina Wertmüller, e lo si può vedere dalla sua filmografia, con ben cinque pellicole ambientate nel capoluogo campano. Con Mi manda Picone, titolo diventato quasi proverbiale, Loy realizza un’opera straordinaria per diversi motivi. Il film si presta, grazie alla sua struttura, a molteplici chiavi di lettura e definirla una commedia drammatica o grottesca sarebbe riduttivo. V’è infatti una componente molto forte di grottesco e di umorismo nero, ma anche una dose non secondaria di critica sociale che si muove, con grande agilità, tra il realismo e la macchietta. Il lavoro che ne esce fuori ha, come nota anche Morando Morandini, le cadenze di una farsa che sfocia nel fantastico sociale e nel film di investigazione, di cui sfrutta, pienamente, le tecniche. Ma, a ben guardare, Mi manda Picone è anche un film altamente pirandelliano. Nella figura di Pasquale, il marito suicidatosi e che possiamo vedere solo di spalle ad inizio vicenda e, di sfuggita, in alcune fotografie, sembra manifestarsi davvero “l’uno, nessuno e centomila” dello scrittore siciliano. Picone è, infatti, un operaio dell’Italsider, almeno così appare, ma scopriamo, insieme al protagonista Salvatore, che potrebbe non esserlo, ma anzi avere diverse e inaspettate attività. Ma Picone è anche nessuno, perché di lui pare non esserci davvero nessuna traccia.
Loy ci mostra una Napoli viscerale e surreale allo stesso tempo. È un pozzo che inghiotte prima Picone e poi Salvatore nei suoi meandri. Tutto ha una doppia faccia, nella Napoli di Loy, una legale e un’altra ben più profonda e inquietante. La camorra fa da sfondo alle investigazioni di Salvatore, interpretato benissimo da Giannini, anche se essa viene nominata apertamente solo in un’occasione, a metà pellicola, in un’aula di tribunale. Ma è chiaro che la camorra è presente e rappresenta un vero e proprio sistema in cui Picone, una volta persona onesta, si deve muovere e a cui, sparendo, cerca di sfuggire. Lo stesso sitema che ingloba, o cerca di inglobare, Salvatore. Il discorso di Loy appare ancora più interessante, poiché, a ben guardare, il mondo criminale non fa nulla per far sì che Salvatore ne diventi parte, ma sembra quasi una cosa naturale che questi se ne ritrovi coinvolto.
Giannini, come detto, dà un’interpretazione splendida del povero diavolo Salvatore, uomo che vive di espedienti ma che ha, in fin dei conti, un buon cuore. Davvero efficace infine la prova di Lina Sastri, che disegna una Lucia ambigua e dalle diverse sfaccettature.
Durante un processo, l'operaio Picone per protesta si dà fuoco. L'arrivo di un'ambulanza provvidenziale lo raccoglie e lo porta via. Da quel momento di Picone non vi è più traccia. Che fine ha fatto allora?
Un mocassino color perla al piede destro, una specie di polacchina fin troppo usurata al sinistro, un abito di fortuna e una sigaretta penzolante tra le labbra. Così si presenta Salvatore Cannavacciuolo (Giancarlo Giannini), unità annoverata tra gli esperti dell'arte di arrangiarsi nell'atrio del tribunale di Napoli, in un improbabile ufficio informazioni. Con i capelli raccolti, una spiccata tendenza materna, fascino da vendere e ancora una sigaretta stavolta accarezzata, si presenta invece, Luciella coniugata Picone (Lina Sastri), in un momento di leggera agitazione nel raggiungere in tempo una riunione del Comitato dei lavoratori e contemporaneamente stare attenta ai tre figli non ancora autonomi. Dietro un comizio apparentemente tranquillo, avanza un operaio, visibile solo da tergo che infiamma (è proprio il caso di dirlo) la mattinata cospargendosi di benzina per protesta, imitando, quindi uno di quei falò che si accendono con sterpaglie di fortuna davanti ad una chitarra su una spiaggia in notturna. Una ambulanza fin troppo provvidenziale recupera il presunto carbonizzato e scompare tra i tentacoli del traffico veicolare partenopeo.
Inizia qui, in una Napoli ancora godibile ma in avanzato degrado, la rocambolesca e misteriosa storia de "Mi manda Picone", ennesima opera in napoletano del rimpianto regista sardo, fautore delle candid camera nazionali. Addò stà Picone? Addò 'ann purtat'? Ma è muort'?, sono le domande che Luciella pone al trasandato Salvatore nel suo "esercizio" per sole mille lire. All'ospedale nessuno sa niente, all'obitorio solo morti causati da arma da fuoco, carbonizzati neanche a parlarne a meno che non siano stati preventivamente sparati per sicurezza. All'Italsider, dove lavorava, lo conosceva quello alla pressa, no anzi, quello all'altoforno, anzi no, quell'altro... e tra un pacco di pastina, qualche fetta di mortadella e un panino a due stadi di farcitura, compare la misteriosa agenda dello scomparso Picone.
Si scopre così, che lo stesso Salvatore risulta tra i suoi debitori e si ritroverà, quindi, costretto a recuperare i crediti in sospeso, in compagnia di Luciella, povera moglie dello scomparso e all'oscuro di tutto. "Mi manda Picone" diventerà la chiave vocale di alcune porte ma anche il lucchetto di alcuni antri oscuri che sarebbe meglio si potessero evitare. Così in maniera grottesca e sottilmente inquietante, si svela la vita occulta dell'operaio incendiato, tra mazzette, camorristi, estorsioni, prostitute e altre attività illecite appartenenti, purtroppo, alla quotidianità della capitale del sud, anche se appaiono, in questa pellicola, raccontate con un pizzico di ironia e con una sapiente tendenza al tragicomico. Tra macellerie poco raccomandabili, interrati nascosti per la fabbricazione di esplosivi, ippodromi truccati e cunicoli fognari per una migliore riuscita di baratti nevralgici (luoghi di cui non mi meraviglierei se esistessero sul serio), si viene a sapere che la tuta indossata da Picone, al momento della sceneggiata incendiaria, aveva un substrato di amianto. Embè? Che fin' ha fatt' Picone?
Ottima prova di Nanni Loy, coadiuvato da un geniale Giancarlo Giannini ed una bellissima/bravissima Lina Sastri tra i protagonisti. Partecipazioni amichevoli eccellenti tipo, Leo Gullotta, Carlo Croccolo, Aldo Giuffrè e Marzio Honorato, nonchè una sanguigna Clelia Rondinella, nel ruolo della conturbante Teresa, infarciscono, di sfaccettature impareggiabilmente eseguibili, questa coloratissima commedia adatta ad ogni ordine di spettatore.
Duccio Tessari, Marcello Fondato (Novela: Francesco Dall'Ongaro)
MUSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFIA
Carlo Carlini
MONTALE
Franco Fraticelli
REPARTO
Michèle Morgan, Enrico Maria Salerno, Sylva Koscina, Jacques Perrin, Stefania Sandrelli, Gastone Moschin, Fred Williams, Ugo Attanasio, Mario Brega, Fredrick Hall, Massimo Ceccato, Antonio Cremonese, Luciano Gerardelli, Lucio Rama, Rodolfo Lodi, Mario Lombardini, Jacques Stany, Antonio Segurini, Rosaria Tornatore, Nino Persello
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Francia; Lux Film / Ultra Film / Société des Établissements L. Gaumont
GENERO
Drama | Siglo XVI
Sinópsis
En la Venecia del siglo XVI, un joven panadero es condenado a muerte bajo la sospecha de haber asesinado a un noble... (FILMAFFINITY)
A Venezia un giovane fornaio viene accusato ingiustamente dell'omicidio del conte Alvise e giudicato dal Consiglio dei Dieci. Egli viene condannato a morte dopo un processo che assume ben presto connotati politici a causa delle innovazioni che il conte Barbo vorrebbe portare nella Serenissima: la partecipazione diretta del popolo al governo della cosa pubblica. Ed è proprio per respingere questa iniziativa che il Consiglio dei Dieci emette un verdetto di condanna, interpretando una sentenza assolutoria come una vittoria del popolo sulla nobiltà e sul patriziato veneto. Nemmeno quando il Conte Barbo, difensore del Fornaretto, si denuncerà come l'assassino di Alvise Guoro, il Consiglio dei Dieci e quello degli Avogadori riterranno decoroso per un nobile e per tutti gli aristocratici veneziani riconoscere in lui l'autore del delitto.
(Aparecido en el nº 7 de Rosebud BSO, en junio de 1998)
Armando Trovaioli es conocido fundamentalmente por haber sido el músico habitual de las películas de Ettore Scola, realizador con el que ha mantenido una estrecha colaboración a lo largo de tres décadas. Pero, además, es uno de los pilares básicos de la música cinematográfica italiana, labor en la que viene trabajando desde comienzos de los cincuenta. En 1963 realizó la música para "Il fornaretto di Venezia", una película de corte dramático, dirigida por Duccio Tessari, que en nuestro país se llamó "El proceso de Venecia", y que musicalmente recoge algunos de los mejores momentos creados por Trovaioli.
La música de cine italiana se ha caracterizado, entre otras cosas, por su gran capacidad para crear melodías. Las bandas sonoras de Armando Trovaioli son probablemente de las que más a menudo corroboran esta tesis, a pesar de que el músico se ha adentrado regularmente en otros estilos, como el jazz o el pop, que aún así no han conseguido eliminar de la mente de los aficionados la idea de que Trovaioli es uno de los grandes creadores melódicos de la música de cine italiana.
EL MUSICO
Armando Trovaioli nacio en Roma en 1917. Cursó estudios teóricos en el Conservatorio de Santa Cecilia, y comenzó a trabajar para el cine a principios de los años cincuenta, desarrollando una amplia y contínua labor compositiva desde entonces, en la que destacan sus colaboraciones con Ettore Scola.
Pero también ha trabajado con Dino Risi, del que ha sido músico habitual en numerosos films, y puntualmente con Vittorio De Sica, Luigi Magni, Steno o Antonioni.
Además es un consumado intérprete de piano, tal como pudimos comprobar en el concierto que hace unos años disfrutamos en Valencia, en el que dedicó toda la primera parte a una sucesión de temas adaptados al piano e interpretados por él, que nos dejo gratamente sorprendidos.
LA PELICULA
"El proceso de Venecia" cuenta la historia de un panadero que es acusado injustamente del asesinato de un conde, siendo condenado a muerte, tras un proceso manipulado.
Posteriormente y a pesar de que el verdadero culpable se entrega a la justicia, el Consejo de los Diez de Venecia decide confirmar la sentencia del panadero, pues el asesino es un importante representante de la aristocracia local y debe quedar libre de todo cargo.
La película está basada en un drama de F. Dell'Ongaro y, además de reflejar las intrigas de la Venecia del siglo dieciseis, cuenta la eterna historia de la diferente aplicación de la justicia, en
función de la clase social del que es juzgado, e incluso, llegando más lejos, como los tribunales son capaces de establecer, a sabiendas, condenas injustas con tal de salvaguardar la posición social de los poderosos.
LA MUSICA
Trovaioli aborda musicalmente la obra desde dos líneas bien definidas:
1.- La construcción de los temas tomando como referencia la música de la época, buscando un referente musical que pueda ser fácilmente asociado a los personajes y ambientes en los que se desarrolla el argumento.
2.- La adecuación de la música a las escenas, pasando de una danza a un tema romántico, de un tema coral a otro incidental, buscando en cada momento el mejor acompañamiento para las imágenes.
El disco se abre con una Cancione Veneziana, que comienza en un movido tono de marcha antes de que la incorporación de una voz solista ralentice el tempo y aporte solemnidad a la música, que adquiere así una belleza sobrecogedora, anunciando quizás el tono trágico que ha de adquirir la historia.
Este va a ser uno de los temas principales de la banda sonora, que se va a ver modificado con variaciones y distintas combinaciones orquestales, que van extrayendo de él y mostrando al oyente toda la calidad de esta composición de Trovaioli, probablemente una de las más conseguidas de toda su carrera.
La Marcia Turca que encontramos en el segundo corte del CD y que tiene su continuación natural en la Danza Cinquecentesta, o en el resto de temas de danza que iran apareciendo en otros cortes del disco, marcan parte de esa línea "histórica" que posee la música, para acompañar y volver a situar (junto al vestuario, los decorados, etc.) el referente temporal de la película.
Por otra parte, temas como el Salotto Veneziano, que contiene una extraordinaria interpretación de guitarra, se inscriben en esa otra línea de la que hablabamos al comienzo, cuando nos referíamos a la labor de Trovaioli como creador de temas melódicos, muy gratos de escuchar y de fácil retención para el oyente desde la primera escucha.
El tema de amor es en este caso extraordinariamente triste, y recoge en una variación mucho más pausada el tema de inicio del disco. De hecho es el anticipo de temas posteriores, como Condanna o Al Patibolo, que marcan el tono más dramático de la partitura, en consonancia con el desenlace trágico de la historia.
Finalmente, podemos encontrar algunos cortes más incidentales, como Doppio Gioco o Consiglio dei Dieci, que reflejan la tensión debida al destino terrible e injusto que espera al protagonista, y la mala actuación de los que en teoría deben encargarse de administrar la justicia, pero que en realidad solo persiguen mantener el orden establecido y la jerarquía que beneficia a los más poderosos, que en realidad les controlan y determinan al final cual debe ser el resultado de sus acciones.
CONCLUSION
A pesar de ser menos conocida que otras bandas sonoras de Trovaioli, "El proceso de Venecia" es uno de sus grandes trabajos para el cine, tanto por la calidad melódica de los temas principales, como por el gran trabajo de recreación de una época y de búsqueda de la necesaria ambientación de las escenas más dramáticas de la película, y en justa correspondencia, de la partitura.
Por todo ello, Il fornaretto di Venezia es un trabajo admirable y más que recomendable, pues resume como pocos, todo lo que es la esencia de la música cinematográfica.
Il fornaretto di Venezia resta a tutt'oggi la leggenda più popolare della storia della Serenissima poiché è riuscita ad oltrepassare la prova del tempo anche per merito delle varie forme divulgative con le quali ha interagito. Si passa dai dipinti e disegni (15) raffiguranti Pietro Tasca alle commedie musicali, opere e drammi teatrali, opere cinematografiche: tutti generi che hanno contribuito nel loro modo specifico affinché la storia del fornaretto non venisse dimenticata.
La forma di divulgazione più intensa e prolifica è la cinematografia, grazie alla quale la storia arriva a tutti indistintamente. Tre sono i film che il cinema italiano nel corso del ‘900 ha dedicato alla leggenda: Il fornaretto di Venezia (16) del 1939 (17) per la regia di Duilio Coletti (con lo pseudonimo di John Bard), La storia del fornaretto di Venezia (18) del 1952 per la regia di Giacinto Solito e Il fornaretto di Venezia (19) del 1963 per la regia di Duccio Tessari. Il primo e il terzo sono basati sul dramma storico di Francesco Dall'Ongaro, mentre il regista del secondo s'ispira al racconto storico di Cianchi Arduino riportando una storia sostanzialmente diversa dei fatti accaduti ai vari personaggi rispetto alle altre due versioni.
Questi tre lungometraggi trasportano la leggenda da esempio di grave errore giudiziario tipico dell'Ottocento a qualcosa di diverso: è passato ormai più di un secolo dalla comparsa dell'Histoire de la Rèpublique de Venise del Daru e la visione della Serenissima sembra cambiare. Già nella trama del primo film si denota uno spostamento degli obiettivi della leggenda: non si trova più in primo piano il processo al fornaretto e l'ingiusta condanna a morte, bensì la classica lotta tra il bene e il male dove, alla fine, a vincere è il bene: questa è la prima versione nella quale il fornaretto riesce a salvarsi da una morte ingiusta.
"Da una parte il mondo semplice e umile e i valori della fedeltà e del matrimonio, rappresentati dalla coppia Pietro e Annetta, onesti leali e coraggiosi, e dall'altra la sete di potere il senso di corruzione e di degrado morale che traspare dai rapporti della coppia Olimpia Zeno e Lorenzo, l'inquisitore" (Giuliani, 2003, 126).
Attraverso questa trasposizione del dramma di Dall'Ongaro, si capisce che in Italia il modo di interpretare e di far percepire al pubblico la leggenda è notevolmente cambiato: in questa nuova versione del racconto si intrecciano due tipi di vita diversi con la rappresentazione della coppia povera Pietro-Annetta in contrapposizione alla coppia ricca e potente Olimpia-Lorenzo.
"La semplicità del malinteso che, nel dramma di Dall'Ongaro fa emergere anco- ra più tragico l'errore finale, nel film, diventa un incrocio di tradimenti e di amanti in una lotta fra due coppie fedifraghe, animate da un senso di rivalsa e di vendetta nei confronti dei rivali in amore e in politica. Si perdono tutte le manifestazioni del l'ambiguità del dramma originario a partire dal personaggio mascherato che perse- guita la coscienza dell'assassino e la cui identità (nel dramma non rivelata) nel film viene assunta da Marco Mocenigo "Capo dei Dieci" e rappresentante della giustizia" (Giuliani, 2003, 126).
In questa breve descrizione si denota nella storia del fornaretto un cambiamento radicale nei valori e nelle idee trasmissibili con la leggenda, passando all'umanità dei personaggi sia come elemento emotivo sia come indicatore dei loro sentimenti. In que- sta versione del racconto il personaggio che interpreta l'uomo mascherato che perseguita Lorenzo è il Capo del Consiglio dei Dieci, capovolgendo così l'idea della giustizia corrotta. Se il capo di quel consiglio che deve giudicare il fornaretto sa che Pietro è innocente e la colpa è tutta di Lorenzo, la questione cambia prospettiva, perché la giustizia non è più da considerarsi corrotta, poiché c'è solo una mela marcia nell'albero, ed eliminata, la giustizia torna ad essere un baluardo della sincerità rimuovendo le ingiustizie. Altro elemento significativo del cambiamento delle idee e dei valori della storia ottocentesca si trova nell'happy end del lungometraggio: quando ormai la speranza per la salvezza del fornaretto dalla forca sembra venuta meno, Marco Mocenigo fa il suo ingresso nella sala del tribunale e annuncia a tutti i presenti che il vero colpevole dell'avvenuto omicidio è Lorenzo Loredano il quale decide di togliersi la vita per non sopportare l'onta del disonore; Pietro torna così in libertà e può sposare la sua fidanzata.
Passano alcuni anni dalla prima versione cinematografica del fornaretto e il cinema italiano cambia sempre più: quando l'Italia esce dall'era fascista, nel cinema inizia a farsi strada il neorealismo. (20) L'Italia, che da poco è stata liberata dai tedeschi, sente il bisogno di estendere queste emozioni attraverso il cinema. Negli anni cinquanta c'è la tendenza a ritornare al rapporto tra cinema, letteratura e storia, ed è proprio in questi anni che si stende e si gira la seconda versione della leggenda sul fornaretto. Con una sceneggiatura del tutto diversa rispetto alla trama proposta dal Dall'Ongaro, si pone in un filone nel quale la visione totalmente negativa tipica del secolo XIX della giustizia veneziana scompare lasciando però intravedere alcuni aspetti discutibili della giustizia non solo veneziana ma europea dell'età moderna quali la tortura che nel film diventa il momento più crudo e intenso di tutta la narrazione. Dopo aver subito le prove più dure che si possano infliggere ad una persona, Pietro riacquista la libertà e con questa la giustizia veneziana riacquista la sua integrità nel panorama italiano e non solo.
Con la versione del 1963, la storia del fornaretto ritorna ai suoi colori classici ottocenteschi: il dramma di Francesco Dall'Ongaro viene ripreso in mano e letto attentamente dal regista Duccio Tessari.
"Questa ultima versione del fornaretto ritorna al senso originario del dramma di Dall'Ongaro e si libera di molte invenzioni consolidate dalla tradizione cinematografica. Innanzi tutto sparisce la rivalità dovuta agli incroci fedifraghi fra le due coppie protagoniste del dramma. [...]
La vicenda, per come viene raccontata da Tessari, recupera un aspetto eminen- temente politico: la responsabilità di un popolano nell'omicidio del nobile Alvise Guoro sconfessa le ragioni che il "moderato" Lorenzo Balbo pone all'attenzione del Consiglio dei Dieci a favore di un allargamento dello stesso consiglio alle rappresentanze politiche del popolo. Il gesto di cui si accusa il fornaretto, rende troppo evidenti le ragioni di chi, all'interno del Consiglio, teme uno squilibrio di poteri e un danno per l'ordine pubblico" (Giuliani, 2003, 168–169). (21)
Quello che il Consiglio non sa ancora è che a commettere l'omicidio non è stato un popolano, bensì un patrizio, lo stesso Lorenzo Balbo, il quale solo quando ormai è troppo tardi ha il coraggio di confessare quello che ha fatto. Nel dramma di Dall'Ongaro non si trova un Lorenzo Balbo come viene sceneggiato da Tessari e Fondati: il personaggio ha molte sfumature contrastanti tra le due trasposizioni. Nella versione per il teatro del 1846, Lorenzo viene descritto come un uomo privo di scrupoli e senza sentire una certa colpevolezza per l'arresto ingiusto del fornaretto, è contento di non essere stato scoperto. Al contrario nella versione cinematografica di Tessari, Lorenzo è pervaso, lungo tutta la durata del film, da un senso di colpevolezza che lo attanaglia e non lo abbandona mai; cerca in tutti i modi di salvare Pietro da una fine ingiusta cercando nello stesso momento di salvare anche la sua reputazione e la sua famiglia da uno scandalo che potrebbe essergli fatale.
"Da una parte, Balbo, ormai sopraffatto dal rimorso, vuole confessare al Consiglio il suo crimine e dall'altra sua moglie e Sofia Zeno che lo sconsigliano dal confessare adducendo ragioni di rispettabilità famigliare e di convenienza politica. An- che gli Avogadori cui si rivolge Balbo optano per la ragion di stato, ma Balbo, non convinto ("Ciò che mi proponete è un compromesso, ma una mezza verità è peggio della menzogna"), corre in Consiglio per fermare il giudizio, arrivando però a cose fatte" (Giuliani, 2003, 169).
L'aspetto politico della vicenda prevale sulla verità dei fatti; per ragioni di sicurezza interna si lascia morire una persona innocente e si cerca di insabbiare le prove che portano alla colpevolezza di un patrizio che compone la magistratura del Consiglio dei Dieci. Al termine del film, quando finalmente il Balbo confessa ai suoi colleghi la sua colpa, lo fa invano, poiché nessuno batte ciglio: è stato giustiziato già qualcuno per quel reato e dunque non c'è più bisogno di altri colpevoli. Il fornaretto è stato ucciso se pur innocente, mentre il patrizio assassino, resta in libertà e non viene nemmeno processato.
Appena un anno dopo l'ultima trasposizione cinematografica della storia del fornaretto di Venezia, il regista Antonello Falqui decide di fare una commedia musicale della vicenda capitata a Pietro Tasca. Avente come protagonisti e co-sceneggiatori insieme a Falqui e Dino Verde, Tata Giacobetti, Lucia Mannucci, Felice Chiusano e Virgilio Savona (ovvero il Quartetto Cetra), il racconto fa parte di una serie di sce- neggiati tratti da altrettante opere letterarie.(22) Come dice il regista in una sua intervi- sta, lo scopo di queste commedie musicali era di: "Divertire e fare passare il tempo piacevolmente vedendo qualcosa di elegante." (Fornario, 2001).(23)
Il regista Falqui prende in mano il dramma del Dall'Ongaro e lo traspone fedel- mente nel piccolo schermo poiché assieme all'episodio della tortura, non manca il finale drammatico nel quale il fornaretto viene giustiziato anche se innocente. Significativa è la frase finale della commedia pronunciata da una popolana veneziana "Ricordeve del povero fornareto", poiché è la prima volta che, anche se presente nel dramma del Dall'Ongaro, viene pronunciata in un'opera audiovisiva portando in tal modo lo spettatore ad avvicinarsi maggiormente alla stesura più conosciuta della sto- ria.
Negli anni in cui è di moda trasporre al cinema e in televisione i grandi capolavori della letteratura, Il fornaretto di Venezia riesce a crearsi un posto tutto suo non solo attraverso il grande schermo ma anche ad appassionare le persone attraverso la televisione.
Note
15 Il dipinto più famoso che raffigura Pietro Tasca è Il fornaretto in carcere di Mosè Bianchi conservato a Ca' Pesaro a Venezia, mentre per quanto riguarda i disegni molto particolari appaiono quelli di Luigi Gardenal poiché rappresenta varie fasi della vicenda successa al fornaretto.
16 Il racconto prende spunto dal dramma del Dall'Ongaro per narrare la storia del fornaretto. Qui sono presenti molti dei fatti scritti nel dramma ma ci sono delle diversità in alcuni dettagli rilevanti per quanto riguarda lo svolgimento della storia. La figura centrale nel film diventa quella del Capo dei Dieci Marco Mocenigo, il quale svela, prima che sia troppo tardi, che il vero colpevole dell'omicidio altri non è che Lorenzo l'Inquisitore, riuscendo in tal modo a liberare il povero Pietro da ingiusta condanna. In questo lungometraggio traspare l'idea della visione mitica della Repubblica di Venezia nella quale i patrizi facenti parte della classe dominante sono giusti e leali e che solo alcuni possono, al contrario, essere avidi di potere tanto da far condannare ingiustamente un povero popolano.
17 In questi anni due registi italiani molto famosi, Blasetti e Camerini, cercando di trasporre l'opera let- teraria nel cinema danno il via ad un tipo di film che con il passare degli anni avrà molta fortuna. Mentre Camerini cerca di trasporre fedelmente da numerosi libri altrettanti film, Blasetti lascia spazio alla sua fantasia per trasformare libri in film (Guidorizzi, 1973, 22).
18 In questo film il tema centrale è la"vendetta di un umile padre che uccide un patrizio amante della fi- glia (Alvise Guoro), dopo che questi l'ha abbandonata non riconoscendo il figlio nato dalla loro relazione. Questo intreccio è sostenuto da quello originario della rivalità fra Marco Loredan e Alvise Guoro fomentata da Bianca, cortigiana molto ambiziosa, che una volta è stata amante del Guoro e ora lo è del Loredan. Spronato da Bianca, Loredan assolda un sicario per uccidere il Guoro, reo di aver sottratto a Bianca alcune lettere, prova della loro relazione fedifraga. In realtà, il sicario Barnaba, insolita figura di cantastorie che assolve al compito di Bravo e di spia, trova Alvise Guoro già morto, colpito da Nane il padre della popolana disonorata. Loredan, una volta veduto il fornaretto ingiustamente accusato dell'omicidio, si pente di quello che crede essere stato un delitto su sua commissione. Dopo aver abbandonato Bianca che fugge da Venezia, Loredan confessa al Doge il proprio delitto nel tentativo di salvare la vita al fornaretto, riconosciuto colpevole, ma il Doge antepone la ragione di stato alla verità, per "non creare disorientamento nel popolo e mancanza di credibilità sull'onorabilità di un patrizio destinato, con le sue azioni e le sue decisioni a reggere le sorti della Repubblica". A questo punto padre Fulgenzio, figura centrale dell'intreccio, colui che aiuta sin dall'inizio Arminia e cerca di convincere Alvise a riconoscere il figlio, e che aiuta da subito Lisa a dimostrare l'innocenza del suo amato fornaretto, raccoglie in punto di morte la confessione di Nane che scagiona il forna- retto." Alla fine tutto si sistema: Loredan torna a casa con sua moglie e il fornaretto si ricongiunge con la sua amata (Giuliani, 2003, 154–155).
19 Questa terza versione cinematografica del fornaretto è la più conosciuta e ha a sua disposizione tutti attori molto famosi nell'ambito della cinematografia italiana. "Questa ultima versione del fornaretto ritorna al senso originario del dramma di Dall'Ongaro e si libera di molte invenzioni consolidate dalla tradizione cinematografica. Innanzitutto sparisce la rivalità dovuta agli incroci fedifraghi fra le due coppie protagoniste del dramma. Anzi è lo stesso Lorenzo Balbo che chiede ad Alvise Guoro di corteggiare la sua amante, Sofia Zeno, in modo da tacitare le illazioni sulla loro reciproca frequentazione. In secondo luogo l'intreccio viene sgombrato da qualsiasi possibilità di variante che contrasti con il finale tragico dell'opera originaria. Le vicende seguono lo svolgimento del dramma, si vede da subito che il fornaretto è innocente anche se le lotte politiche che si creano attorno al caso non lasciano mai intravedere il lieto fine. L'incertezza invece riguarda il nome del vero assassino, Lorenzo Balbo, che viene scoperto solo nel finale, dopo un lungo lavoro investigativo di Sofia Zeno, la quale crede di giovare alla causa del suo amante" (Giuliani, 2003, 168).
20 I registi più famosi (Rossellini – Visconti – De Sica) propongono le fasi della guerra e della realtà del dopoguerra. I film vengono girati per strada con la gente che passa normalmente. Il dramma della guerra nei film non viene rappresentato da attori famosi, ma da persone comuni che vivono in quei luoghi e che sono propri dei mestieri che vengono interpretati. Con questo si vuole rappresentare uno spaccato di realtà e guardando al verismo il regista cerca di farsi vedere al minimo nell'opera cinematografica. Gli attori rappresentano loro stessi e soprattutto attraverso La terra trema si può vedere che l'italiano non è lingua dei poveri; per questo nella maggior parte dei film si parla in dialetto (Guidorizzi, 1973, 31–37).
21 Giuliani afferma che Lorenzo Balbo desidera allargare il Consiglio dei Dieci alle rappresentanze politiche del popolo, cosa che sicuramente a quel tempo non poteva avvenire e non poteva nemmeno essere stata proposta. Questa aggiunta da parte di Tessari e Fondati, da una parte vuole dare allo spet- tatore una visione più bella della figura del patrizio Balbo mentre dall'altra c'è una mescolanza del fatto come è stato tramandato con le idee che erano diffuse durante gli anni '60 del ‘900.
22 Della serie delle opere letterarie sceneggiate fanno parte 8 puntate: Il conte di Montecristo, I tre mos- chettieri, Via col vento – La storia di Rossella O'Hara, Il dottor Jekyll e mister Hyde, Il fornaretto di Venezia, La primula rossa, Al Grand Hotel e Odissea.
23 Di questi anni sono gli sceneggiati televisivi che la Rai propone al pubblico italiano e che sono tratti da opere letterarie e da scrittori molto conosciuti e molto importanti tra cui La freccia nera tratto dal libro omonimo di Robert Stevenson, I promessi sposi tratto dal romanzo di Manzoni, ... E le stelle stanno a guardare tratto dal libro avente lo stesso titolo di A. J. Cronin e David Copperfield di Charles Dickens. Tutte queste trasposizioni sono costruite in più puntate e molte hanno contribuito ad af- fermare la fama del regista e sceneggiatore Anton Giulio Majano. Questo è stato un modo per far "leggere" a tutti, anche alle persone meno acculturate, alcuni grandi capolavori italiani e stranieri facendo divertire, coinvolgere e immedesimare gli spettatori nei personaggi delle varie storie.
GUION Sergio Amidei, Alberto Sordi, Luigi Zampa (Novela de Giuseppe D’Agata)
MUSICA Piero Piccioni
FOTOGRAFIA Ennio Guarnieri
MONTAJE Eraldo Da Roma
REPARTO Alberto Sordi (Dr. Guido Tersilli), Sara Franchetti (Teresa), Ida Galli (Anna Maria), Nanda Primavera (Mamma Tersilli), Bice Valori (Amelia Bui), Leopoldo Trieste (Pietro)
PREMIOS 1968: Premios David di Donatello: Mejor actor (Alberto Sordi)
PRODUCTORA Euro Film / Explorer Film '58
GENERO Comedia | Medicina
SINOPSIS El Doctor Guido Tersilli ha tenido que claudicar y solicitar el ingreso en la mutua. Una vez dentro, al no tener muchos medios económicos, le resulta muy duro conseguir pacientes mutualistas. Así se instala en la zona de la ciudad con menos médicos de la mutua y, gracias a la ayuda de su madre y su novia, poco a poco conseguirá hacerse con pacientes... Comedia en forma de ácida crítica sobre el funcionamiento de la Sanidad Pública italiana. Al año siguiente, Luciano Salce dirigió la secuela, titulada "Doctor Tersilli, médico de la clínica Villa Celeste, afiliada a la mutua". (FILMAFFINITY)
Siamo nel 1968, anno in cui l’Italia è teatro di grandi rivolgimenti socio-culturali che passano dalla manifestazioni in piazza e dalle contestazioni contro l’ordine prestabilito e il sistema economico e sociale dell’Italia.
Ed è inevitabile che tale contesto di fermento influisca anche sul cinema che a suo modo fa sue le istanze del popolo. Arriva così nel 1968 Il medico della mutua, film geniale diretto da Luigi Zampa, con la sceneggiatura scritta dallo stesso regista con il supporto di Sergio Amidei e di Alberto Sordi, il quale, ovviamente, ne è anche il protagonista.
A metà tra commedia e denuncia, Il medico della mutua fu un film che creò un grosso scalpore alla sua uscita, proprio perché per la prima volta un regista portava sui grandi schermi, in maniera così nitida, seppur fingendo di nascondersi dietro il velo della commedia, la verità dell’Italia del boom economico, dove ormai il denaro è divenuto principio unico e basilare al quale dedicare gli sforzi di un’intera esistenza.
Ne Il medico della mutua Alberto Sordi interpreta il Dott. Guido Tersilli. L’obiettivo del giovane medico è riuscire ad aprire un suo studio a Roma, unico mezzo possibile per ripagare la madre, e se stesso, dei tanti sacrifici fatti per guadagnarsi quella posizione. Per riuscire nel suo intento con il minor sforzo possibile la strada migliore è quella della convenzione con la
Una convenzione che vuol dire guadagnare sulla quantità di mutuati che si riesce ad ottenere e il dott. Tersilli, aiutato da madre e fidanzata, riescono ad ottenerne un buon numero. Ma non è ancora sufficiente e il dottore cerca una via ancora più comoda: sedurre l’anziana moglie del Dott. Bui, anch’egli ormai anziano, aspettando la sua dipartita per accaparrarsi anche questi altri mutuati. Obiettivo raggiunto anche questa volta, ma forse Tersilli ha esagerato.
Oltre 3000 mutuati sono una grande fonte di guadagno, ma anche di forte stress. Tersilli ha un collasso ma non può curarsi a dovere, dovendo difendere moglie e mutuati dall’attacco degli altri medici. Il finale de Il medico della Mutua è quantomai grottesco e rappresentativo delle brutture dell’Italia di quegli anni e anche dei successivi: Tersilli, comodamente seduta nel terrazzo di casa sua con in mano un drink, che visita i malati al telefono.
La figura di Guido Tersilli è quella che ha tolto il velo di purezza dalla professione medica, quella che ha rivelato l’insana abitudine di istituire un mercato dei mutuati, quella che ha svelato la poco lusinghiera consuetudine del medico di base di ottenere percentuali economiche derivanti da richieste di visite o esami strumentali specialistici. All’origine il graffiante romanzo di Giuseppe D’Agata (conseguentemente espulso dalla professione medica) e i risultati di un’inchiesta sui medici della mutua e i loro pazienti svolta in quegli anni dal regista con lo sceneggiatore Sergio Amidei. Alberto Sordi in una memorabile interpretazione, intento a fare visite lampo, sgnaccare diagnosi all’ingrosso e piazzare terapie sconclusionate, imposte però ai mutuati come necessarie e insostituibili, “tanto quello che conta è l’effetto psicologico visto che ogni malattia dopotutto ha il suo corso”. Altro che stare a cavillare sui segni semeiologici e rompersi il capo con la diagnostica differenziale come in clinica universitaria. Dall’altra parte un implacabile ritratto dei mutuati italiani, assidui frequentatori di ambulatorio e incredibili divoratori di ricette, considerati alla stregua di una mandria di buoi, che obbedisce disciplinata al momento del cambio del medico, non prendendosi la briga di effettuare una scelta autonoma poiché questo comporterebbe un certo impegno mentale e l’intera responsabilità di un eventuale errore.
Numerose le battute esilaranti come quella che configura l’aspetto eroico della medicina del tempo: “resterà per me sempre un mistero come un ferito può sopravvivere ad un trasporto in ambulanza”. Altra intuizione geniale, ripresa dal libro, è quella in cui uno sciopero dei medici della mutua per questioni economiche determina la drastica riduzione dell’affluenza negli ambulatori e pone l’arcano dilemma: “o in questo periodo tutti hanno ritrovato una salute di ferro, o la mutua e i medici hanno davvero creato i malati”. Indimenticabile anche la figura della madre che batte incessantemente tutti i luoghi di ritrovo del quartiere per fare pubblicità alle virtù del suo figliolo neo-laureato.
Apparentemente il film viene a configurarsi come una farsa divertente e paradossale su un episodio marginale della sanità italiana dell’epoca, ma forse rappresenta qualcosa di più visto che negli anni Settanta la commissione parlamentare incaricata di preparare la legge istitutiva del futuro Sistema Sanitario Nazionale, acquisì il romanzo come un vero e proprio documento sullo situazione della Sanità in Italia. Il finale poi è profetico con Sordi intento a fare diagnosi e dettare la cura per telefono, dopo essere stato costretto a chiudere temporaneamente l’ambulatorio successivamente ad una sincope da burn-out, dovuto al raggiungimento della cifra record di 3115 mutuati, numero che determina 21000 visite all’anno cioè circa 7 visite per mutuato, suddivise in 70 visite ambulatoriali e 5 domiciliari al giorno per un totale di 13 ore di lavoro quotidiane.
Tali cifre difficili da spiegare razionalmente trovano forse una giustificazione in una frase che D’Agata scriveva nel suo romanzo: “non c’è alcuna convenienza ad essere completamente sani: qualche disturbo di tipo cronico rappresenta un ottimo antidoto contro l’angoscia e il suicidio”.
La figura di Guido Tersilli è quella che ha tolto il velo di purezza dalla professione medica, il film quello che ha rivelato l’insana abitudine di istituire un mercato dei mutuati, quello che ha svelato la poco lusinghiera consuetudine del medico di base di ottenere percentuali economiche derivanti da richieste di visite o esami strumentali specialistici. All’origine il graffiante romanzo di Giuseppe D’Agata (conseguentemente espulso dalla professione medica) e i risultati di un’inchiesta sui medici della mutua e i loro pazienti svolta in quegli anni dal regista con lo sceneggiatore Sergio Amidei. Alberto Sordi in una memorabile interpretazione, intento a fare visite lampo, sgnaccare diagnosi all’ingrosso e piazzare terapie sconclusionate, imposte però ai mutuati come necessarie e insostituibili, “tanto quello che conta è l’effetto psicologico visto che ogni malattia dopotutto ha il suo corso”. Altro che stare a cavillare sui segni semeiologici e rompersi il capo con la diagnostica differenziale come in clinica universitaria. Dall’altra parte un implacabile ritratto dei mutuati italiani, assidui frequentatori di ambulatorio e incredibili divoratori di ricette, considerati alla stregua di una mandria di buoi, che obbedisce disciplinata al momento del cambio del medico, non prendendosi la briga di effettuare una scelta autonoma poiché questo comporterebbe un certo impegno mentale e l’intera responsabilità di un eventuale errore.
Numerose le battute esilaranti come quella che configura l’aspetto eroico della medicina del tempo: “resterà per me sempre un mistero come un ferito può sopravvivere ad un trasporto in ambulanza”. Altra intuizione geniale, ripresa dal libro, è quella in cui uno sciopero dei medici della mutua per questioni economiche determina la drastica riduzione dell’affluenza negli ambulatori e pone l’arcano dilemma: “o in questo periodo tutti hanno ritrovato una salute di ferro, o la mutua e i medici hanno davvero creato i malati”. Indimenticabile anche la figura della madre che batte incessantemente tutti i luoghi di ritrovo del quartiere per fare pubblicità alle virtù del suo figliolo neo-laureato.
Apparentemente il film, coadiuvato dalla splendida colonna sonora di Piccioni, viene a configurarsi come una farsa divertente e paradossale su un episodio marginale della sanità italiana dell’epoca, ma forse rappresenta qualcosa di più visto che negli anni Settanta la commissione parlamentare incaricata di preparare la legge istitutiva del futuro Sistema Sanitario Nazionale, acquisì il romanzo come un vero e proprio documento sullo situazione della Sanità in Italia. Il finale poi è profetico con Sordi intento a fare diagnosi e dettare la cura per telefono, dopo essere stato costretto a chiudere temporaneamente l’ambulatorio successivamente ad una sincope da burn-out, dovuto al raggiungimento della cifra record di 3115 mutuati, numero che determina 21000 visite all’anno cioè circa 7 visite per mutuato, suddivise in 70 visite ambulatoriali e 5 domiciliari al giorno per un totale di 13 ore di lavoro quotidiane.
Tali cifre difficili da spiegare razionalmente trovano forse una giustificazione in una frase che D’Agata scriveva nel suo romanzo: “non c’è alcuna convenienza ad essere completamente sani: qualche disturbo di tipo cronico rappresenta un ottimo antidoto contro l’angoscia e il suicidio”.
«La mutua è una grande casa, alta e ben intonacata, con entrata principale e uscite secondarie. Davanti a questa grande casa il medico si sente meschino e smarrito. Una volta non c’era, la mutua, e i medici di una volta se la passavano bene: quasi tutti diventavano ricchi, alcuni ricchissimi. Tutti facevano i loro soldi, c’erano clienti a volontà, lavoro sempre garantito. Un giovane medico non aveva bisogno di aspettare tanto, di fare una trafila di burocrazia, di scrivere domande, di armarsi di una decorosa pazienza: gli bastava aprire un ambulatorio, e subito si faceva la sua affezionata clientela. Una laurea in medicina era una laurea come si deve. Oggi purtroppo c’è la mutua: succhia il sangue di noi medici, dei mutuati e dei padroni, e lo trasforma in corridoi, uffici, ascensori, uscieri, dattilografe, impiegati, capi e dirigenti amministrativi, direttori sanitari, medici funzionari, infermieri, e così via. Tutta roba che è fatta apposta per tarpare le ali alla nostra libera professione…» (Giuseppe D’Agata, Il medico della mutua, prima edizione Feltrinelli 1964)
L’ambizioso dr. Guido Tersilli (Alberto Sordi) ha deciso che la sua laurea in medicina debba essere monetizzata al più presto e nella maniera più lucrosa possibile, quindi alla faccia del giuramento di Ippocrate punta tutta la sua attenzione sul popolo dei mutuati, un esercito di malati da sfruttare per far cassa e carriera.
Ad aiutare Tersilli la fidanzata Federica e la madre vedova entrambe impegnate a sostenere l’uomo di casa nella sua scalata, così dopo aver aperto un ambulatorio, Tersilli presta servizio anche in una importante clinica, nella quale prosegue la sua caccia ai mutuati, ma non solo grazie alla sua faccia tosta e a una massiccia dose di servilismo riesce ad ingraziarsi sia il primario che le suore infermiere che diventeranno fonte vitale per la selezione dei pozienti più ambiti.
L’ambizione di Tersilli però non ha limiti e quindi, già odiato da tutti i colleghi della clinica, riesce a circuire la moglie di un medico in fin di vita con un grandioso portafoglio mutuati e a farseli assegnare tutti, scatenando l’ira e l’invidia di tutto il personale medico con cui collabora, arrivando ad appropriarsi anche del lussuoso studio medico del moribondo.
Neanche di fronte ad un collasso che lo porterà nella stessa clinica da lui saccheggiata di mutuati e in balia dall’esercito di colleghi avvoltoi pronti a spartirsi il suo portafoglio malati dopo una sua everntuale dipartita, fermerà Tersilli che scampato il pericolo deciderà di ottimizzare ulteriormente i tempi di visita dedicati ai suoi pazienti, così escogiterà delle visite telefoniche dalla terrazza del suo attico, dopotutto perchè scomodarsi ad incontrare tutti quei pazienti?
Il regista Luigi Zampa che aveva già diretto Sordi ne Il vigile e Ladro lui, ladra lei permette all’attore romano di ritrarre l’ennesimo personaggio cinico e brutalmente realistico che Sordi smussa ad arte e rende divertente, così che lo spettatore possa metabolizzarne tutta la negatività e la cialtroneria ben evidenti, aggiungendo un’efficace satira sulla sanità dell’epoca, siamo nel ’68, confezionando un film dalle tematiche scomode e purtroppo ancora oggi molto attuali.
L’istrionico Sordi lavora su alcuni tic consolidati in anni di personaggi e maschere che poi verranno successivamente saccheggiate da attori e comici nei decenni successivi, uno su tutti Christian De Sica, Il medico della mutua diventa un classico della commedia all’italiana e fruirà ad un anno di distanza di un sequel diretto da Luciano Salce, Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue.
Note di produzione: La colonna sonora di Piero Piccioni contiene Samba Fortuna, un brano rielaborato nel sequel di Salce e che diventerà un classico delle musiche da film, nel ricchissimo cast di questo primo episodio anche Bice Valori, Leopoldo Trieste, Pupella Maggio e Tano Cimarosa.
Il medico della mutua è una satira dura e precisa del sistema sanitario italiano alla fine degli anni 60.
Sordi è Guido Tersilli, giovane medico neolaureato e arrivista che scova nella carriera di medico della mutua la strada più veloce per fare soldi. Il film racconta la sua scalata tramite trucchi e sotterfugi per accaparrarsi il maggior numero possibile di mutuati a scapito dei colleghi e naturalmente della qualità del suo lavoro.
Da ricordare la scena in cui Tersilli si lascia sopraffare dalla sua sete di successo e mette in piedi una specie di catena di montaggio rendendo sempre più brevi le visite. Al culmine della vicenda riuscirà ad avere 3000 mutuati ad ognuno dei quali toccano non più di 5 minuti di visita.
Il ritmo è naturalmente insostenibile e Tersilli collassa finendo nelle mani dei colleghi a quali si è reso odioso e che si rivelano suoi cloni perfetti.
Indimenticabile poi la colonna sonora con la traccia principale che diventerà talmente famosa da essere usata per anni come sigla di introduzione dello stesso Sordi nelle trasmissioni televisive.
Il film è divertente anche a quarant’anni di distanza, rapido, veloce, pieno di situazioni esagerate che rendono grottesco non solo il personaggio principale ma anche parecchi di quelli che gli ruotano intorno.
E l’Albertone nazionale è fantastico in un ruolo che Luigi Zampa sembra avergli cucito addosso (ma la stessa sensazione si ha con molti film di Sordi). Meschino, esagerato, arrivista, Guido Tersilli è quanto di peggio la professione medica poteva offrire nel 1968.
Curiosità: il personaggio ritornerà l’anno seguente in Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, titolo wertmulleriano in cui si analizza una situazione parimente corrotta nel mondo delle cliniche private.
I due film sono quasi un’integrazione l’uno dell’altro pur non avendo alcun riferimento all’interno della trama.