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lunes, 30 de noviembre de 2020

Perez. - Edoardo De Angelis (2014)


 TÍTULO ORIGINAL 
Perez.
AÑO 
2014
IDIOMA 
Italiano
SUBTÍTULOS 
Español (Separados)
DURACIÓN 
94 min.
PAÍS 
Italia
DIRECCIÓN 
Edoardo De Angelis
GUIÓN 
Edoardo De Angelis, Filippo Gravino
FOTOGRAFÍA 
Ferran Paredes
REPARTO 
Luca Zingaretti, Marco D'Amore, Simona Tabasco, Giampaolo Fabrizio, Massimiliano Gallo
PRODUCTORA 
O' Groove, Tramp Ltd, Medusa Produzione
GÉNERO 
Drama. Thriller | Mafia. Crimen

Sinopsis
Pérez es un abogado de oficio cuya carrera no termina de despegar por miedo. Sin embargo, cuando el peligro amenace a su hija, se verá obligado a infringir todas las reglas y leyes. (FILMAFFINITY)
 
2 

Perez è il secondo film di Edoardo De Angelis, girato in una Napoli architettonicamente e forse psicologicamente diversa dalle altre volte in cui è comparsa al cinema. Racconta la storia di un uomo qualunque costretto a fare delle scelte suo malgrado (Luca Zingaretti) e che ha un cognome, Perez, spagnolo ma molto comune a Napoli.

Edoardo De Angelis: Si ci sono proprio degli avvocati che si chiamano Perez. Soltanto una piccola chiosa su quello che dicevi tra il primo e il secondo film. Per questo secondo film ho deciso io insieme al mio socio di fondare una piccola società di prodizione per poter produrre questo film. Ovviamente non siamo i soli a produrla perché è prodotta anche da Medusa però è stato importante per noi avere la possibilità di decidere e sviluppare il film in maniera autonoma e dopo andare a cercare altre produzioni.

Lo sviluppo lo abbiamo curato io, lo sceneggiatore Filippo Gravino e l’altro produttore Pierpaolo Verga in solitudine ma anche in autonomia. Questo ci ha permesso di proporre agli altri un film che avesse già la sua identità compiuta con il rischio di piacere o non piacere. Al contrario però il rischio di iniziare con una produzione forte ti può portare a perdere la bussola di quello che stai facendo e di dove stai andando. 
 
 
 
C’è un pezzo di Caserta alla Mostra del Cinema di Venezia. Edoardo De Angelis, regista cresciuto a Caserta, presenta venerdì 5 settembre fuori concorso al festival lagunare il suo nuovo film “Perez”. Accanto a Luca Zingaretti ci sarà anche un altro attore casertano, Marco D’Amore che di recente è stato protagonista della fortunata serie per Sky “Gomorra”. A far gli auguri al regista casertano anche il sindaco Pio Del Gaudio.
“Racconto la storia di Demetrio Perez, un avvocato, uomo di legge, e della sua discesa agli inferi per difendere sua figlia perché, dopo Mozzarella Stories, avevo voglia di raccontare una storia che si basasse su un unico individuo, avevo il desiderio di un racconto più rarefatto. Un lavoro che scavasse nelle viscere morali e sentimentali di un individuo”. Queste le parole di Edoardo De Angelis.
Perez poteva essere un grande avvocato, e invece fa l’avvocato d’ufficio, come l’amico di sempre Merolla, senza passione, senza un ideale. Poteva essere un grande uomo di legge ma la paura lo ha fregato. Un uomo che ha sempre considerato la mediocrità un efficace “riparo dall’infelicità”. Quando il pericolo si insinua in casa sua, scopre fatalmente che non è così. Incalzato dagli eventi, nello strenuo tentativo di difendere la vita di sua figlia, innamorata dell’ambiguo Corvino, infrange ogni regola. E ogni legge. Fino a fare patti con un pluriomicida reo confesso, fino a recuperare dei diamanti nella pancia di un toro.
Si tratta dell’opera seconda di Edoardo De Angelis (Mozzarella Stories), scritta con Filippo Gravino (Una vita tranquilla), il film è prodotto da Attilio De Razza, Pierpaolo Verga, Edoardo De Angelis e lo stesso Luca Zingaretti, per la prima volta anche produttore, in collaborazione con Medusa che lo distribuirà anche in sala a partire dal 2 ottobre. Oltre a Luca Zingaretti e Marco D’Amore, tra gli interpreti anche Simona Tabasco, Giampaolo Fabrizio e Massimiliano Gallo.
https://www.matesenews.it/edoardo-de-angelis-regista-casertano-presenta-al-festival-di-venezia-il-film-perez-storia-di-un-avvocato-con-gli-attori-luca-zingaretti-e-marco-damore/
 
 
Demetrio Perez, un avvocato d’ufficio, ha come rivale l'ambiguo Corvino, innamorato di sua figlia Tea, e quando il pericolo si insinua nella sua casa, per Perez tutto cambia. Per difendere sua figlia è pronto a qualunque cosa. Anche a farsi manipolare dal machiavellico Buglione detto “Centopercento”, con la strana complicità del suo unico amico, con cui litiga continuamente, un avvocato d’ufficio anche lui senza aspirazioni e speranze. Ma arriva un momento della vita in cui è necessario mettere un punto. E andare accapo. Per Perez è arrivato ed è pronto a infrangere ogni regola. E ogni legge. Sullo sfondo la Napoli inedita, metallica, del Centro Direzionale: un quartiere di grattacieli progettati da grandi architetti che oggi si rivela una promessa mancata di progresso e prosperità, proprio come Perez...

Si sente che Edoardo De Angelis (Mozzarella Stories) e Filippo Gravino (Alì ha gli occhi azzurri) hanno scritto Perez, la perfetta antitesi alle sciroppose fiction sulla mafia targate Mediaset, sapendo bene quale spina dorsale dare alla trama. Si sente perché nonostante la sceneggiatura sia ovviamente maturata nel corso del tempo dal punto di vista tecnico-narrativo, il film vibra di una drammaticità e di un’alienazione umana e sociale raramente reperibile nelle piatte mafia-dramas apparentemente dirette a un pubblico adulto maschile. Piacerà infatti molto ai più maturi, grati di trovarvi un nuovo e diverso classico del filone Il caso Mattei/Cento giorni a Palermo/Dimenticare Palermo, con il bonus di un intreccio pieno di colpi di scena e un nuovo volto addosso a Luca Zingaretti ormai parzialmente sostituito dall’incommensurabile Commissario Montalbano.

Quella di Edoardo De Angelis, in più, è una artistica cinepresa politicamente scorretta, interessata a descrivere l’intima corruzione di un personaggio quasi neutrale che si trasforma, in nome dell’amore, in uno privo di principi, di valori condivisi, inguaribilmente già perduto e senza ormai più dignità e onore. Un individuo che, proprio per questo, appare più spietato di tutti quelli che gli ruotano attorno. Perez, insomma, è il ritratto di un’Italia contemporanea, devastata dalla paura della minaccia vera o presunta. Un’Italia che perde tutta la sua naturale predisposizione alla buona giustizia, in una scenografia urbana, modernissima, quasi sempre notturna e straordinaria, optando per la difesa di ciò che presume gli appartenga, anche a costo di scegliere il male. Ingentilisce la pellicola la bellissima fotografia che crea spazio, anche mentale, per questa indagine antropologica e politica su un uomo mediocre al centro di una violenta avventura.



domingo, 29 de noviembre de 2020

Anna - Alberto Lattuada ( 1951)


TÍTULO ORIGINAL Anna
AÑO 1951
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español (Separados)
DURACIÓN 111 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Alberto Lattuada
GUIÓN Dino Risi, Rodolfo Sonego, Giuseppe Berto, Franco Bursati, Ivo Perilli
MÚSICA Nino Rota
FOTOGRAFÍA Otello Martelli
REPARTO Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Raf Vallone, Jacques Dumesnil, Gaby Morlay, Sophia Loren
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia;
GÉNERO Drama | Religión


Sinopsis
Anna es una novicia a punto de profesar. La llegada al hospital donde trabaja de un antiguo novio, herido en un accidente, suscitará en ella un serio conflicto personal. (FILMAFFINITY)

Enlaces
Subtítulos

*Cinema e società
L’abusato accostamento dei due termini solleva un tasso di problematicità che necessita, inevitabilmente, di una distinzione preliminare. Qualunque sia il periodo preso in esame, la trattazione che ne deriva varia a seconda che si punti l’attenzione sul primo dato o sul secondo, distinguendo pertanto il cinema nato e prodotto dai mutamenti sociali, da quell’influenza “climatica” esercitata dalla società stessa sulla settima arte. Nel caso degli anni Cinquanta, tuttavia, il discorso non può prescindere da un’intersezione tra i due piani, giacché ogni ripartizione netta mal si addice allo studio di un’epoca di transizione totale.

*L’Italia del dopoguerra è un paese attraversato da contraddizioni imponenti, sospeso tra le rovine da raccogliere e l’avvio di quello che sarà ribattezzato enfaticamente “miracolo economico”.
Le fratture che ne compongono l’identità determinano solchi profondi, il divario tra nord e sud viaggia di pari passo con la forbice – nei decenni successivi insopportabile – tra paese reale e paese legale. Nel mezzo l’analfabetismo, l’abbandono delle campagne, il corpo delle donne come oggetto di possesso e campo d’analisi ancora in nuce. In tale contesto, il cinema si pone come la forma di spettacolo più diffusa, la sola in grado di soddisfare l’anima impegnata del paese e la sua controparte popolare, chiamate a interagire lungo un tracciato dai contorni sfumati in cui neorealismo e melò comunicano a vicenda. È proprio quest’ultimo genere a racchiudere in sé i tratti caratteristici di una società instabile, la sua fame di storie drammatiche e il bisogno di esorcizzare, attraverso le lacrime per gli altri, i propri problemi.

*Il melò cinematografico è un collettore di spinte d’agitazione e forme narrative.
La sua natura di «genere fantasma» lo rende perfetto crocevia di espressioni artistiche, un ponte sospeso tra il passato della sceneggiata e del dramma e il futuro dell’incomunicabilità, della decostruzione totale. Comprendere ciò che si agita al suo interno, dietro e attraverso l’espediente delle lacrime, consente la ri-scoperta dei caratteri di un’epoca, esercizio quanto più necessario se compiuto col senno di poi, alla luce delle conquiste dei decenni successivi. Quello melò, come ricorda opportunamente Morreale, è non a caso il cinema in cui “trionfano” – perlomeno a livello di presenza – le figure femminili.

*Grandi dive, personaggi indimenticabili
Le donne sullo schermo si fanno portatrici del nuovo rapporto tra famiglie e media, innescando al contempo meccanismi di messa in rilievo delle contraddizioni del privato, spazio di un ripiegamento imposto e interiorizzato. Da una fase di partecipazione come quella resistenziale, in cui al «maternage di massa» si univa un’ormai attestata opera di azione in armi, la donna subisce un ritorno al passato di marca prefascista, in cui si annidano tuttavia i germi di quanto esploderà col movimento femminista. È questo tipo di figura che il melò pone al centro, traendo spunto da una stereotipia che pesca nella cultura popolare e di massa per essere poi stravolta, con incredibile lucidità, da registi già proiettati verso forme e problematiche future.

Tra questi vi è Alberto Lattuada, autore di smisurato talento che nel 1951 dà vita a un «memorabile polpettone erotico-religioso» incentrato sulla figura di Silvana Mangano: Anna.
Forte del successo di Riso amaro (1949), la pellicola prodotta da Ponti ripropone uno schema rodato e riconoscibile, vera e propria carezza per il pubblico medio. Alla Mangano-eroina fanno da contorno, come figurine sullo sfondo, il farabutto Vittorio Gassman e il buono Raf Vallone. Il trattamento che spetta alla diva, tuttavia, è funzionale alla costruzione di un personaggio che incarni le contraddizioni di un’intera società e del modello di donna che ne è espressione, annullata su un ruolo materno che ne definisce i compiti in ambito domestico ed extra.

Il lavoro di cura ad essa connaturato si esplicita nella scelta di lavori che reiterano il mestiere di madre, secondo l’idea «di un’italica unità familiare (e sociale) faticosamente raggiunta».
Così, prima che il movimento delle donne cominci a discuterne, Lattuada fa della sua Anna una suora-infermiera, emblema pieno e concreto della dedizione verso il prossimo. Le convenzioni del melodramma ci sono tutte, dall’elemento cattolico all’ambientazione contemporanea sino al drammatico, inevitabile, atto di sacrificio finale: la rinuncia all’amore in nome di un dovere superiore. Proprio la conclusione, tuttavia, segna il punto di rottura operato da Lattuada, il lavoro di sagace smontaggio critico del melò. La sua manipolazione è da ascriversi a un desiderio di riflessione sul rapporto tra i sessi, operazione pienamente realizzabile, nel suo obiettivo finale, proprio grazie al repertorio narrativo del genere più in grado di parlare al pubblico.

La conclusione, dunque, è la porta d’accesso un immaginario su cui si discuterà per decenni.
Anna, rincontrato in ospedale il lontano amore Andrea (Vallone), lo lascerà di nuovo andare per occuparsi dei malati. Il discorso del professor Ferri (Jacques Dumesnil), primario dell’ospedale, serve proprio a racchiudere il destino della donna entro il perimetro di uno spazio già dato, quello del dovere verso gli altri a scapito di se stessa. In tal senso, la scelta di affidare tale monito alla parola maschile si accompagna al deciso aspetto claustrofobico conferito all’ospedale. Attraverso un bianco accecante e un nero nettissimo, Lattuada definisce i contorni di figure schiacciate, quasi appiattite su un ambiente asettico che ha le sue regole, i suoi orari – sottratto al ritmo, dunque, di una vita normale.

La sensazione di clausura appare ancor più netta se letta alla luce del flashback che narra il passato di Anna come signorina di night-club, in cui lo schermo nero di ombre e musica sembra richiamare alla mente un mondo perduto, ormai da allontanare.
La natura “doppia” della protagonista – donna divisa, interiormente scissa come i migliori soggetti borghesi degli anni a venire – è risolta da Lattuada nell’indelebile e ineludibile marchio della «prigioniera». Ancorata al dovere, prigioniera del suo ruolo di madre, Anna non può che ritrovare unità soltanto attraverso la rinuncia al suo corpo, alla sua individualità, all’erotismo stemperato dal velo da suora. È un terreno d’analisi su cui si ragionerà per decenni, lasciando purtroppo spazio a reflussi, inevitabili come le ondate storiche. Il film di Lattuada ha dalla sua il merito di aver trattato il tema con vocazione nazionale-popolare, attingendo al repertorio del classico per intercettare le future coscienze. E in questo, nonostante le riserve di molti, resta senz’altro un maestro assoluto.

*Tre motivi per vedere il film
La celebre scena della Mangano che balla sulle note di El Negro Zumbon.
L’impatto visivo costruito da Lattuada, con blocchi cromatici nettamente definiti.
Il cameo dell’allora esordiente Sophia Loren, accreditata come Sofia Lazzaro
https://www.culturamente.it/cinema/anna-alberto-lattuada/

 

La Lux Film, dopo l’inatteso trionfo di Riso amaro, mette in cantiere Anna (dicembre 1951; 108 min.), film fotocopia nel quale però si eliminano le delicate questioni sociopolitiche, sostituendole con un encomio per l’universo del volontariato caritatevole di marca cattolica. La regia viene affidata a Lattuada, reduce dal fiasco di Luci del varietà (vedi), gli sceneggiatori (Giuseppe Berto, Franco Brusati, Rodolfo Sonego e altri) sono differenti (con l’eccezione di Ivo Perilli) mentre la fotografia è sempre curata da Otello Martelli e il montaggio da Gabriele Varriale. Ciò che conta è che al centro della narrazione ritroviamo il triangolo Gassman – Mangano – Vallone animato da dinamiche emotive sostanzialmente identiche a quelle del film di De Santis.
La cantante di tabarin Anna è anche l’amante del perfido Vittorio (Gassman), piccolo malvivente che bazzica il night e al cui fascino non riesce a sottrarsi, neppure quando l’onesto Andrea (Raf Vallone) la chiede in sposa. Anna lotta con se stessa, riesce infine a lasciare il torbido universo dei locali notturni milanesi e si rifugia nella casa di campagna del fidanzato. Qui però la raggiunge Vittorio il quale viene immediatamente scoperto da Andrea: i due uomini lottano e il malvivente rimane ucciso (come in Riso amaro, anche se ora ad ucciderlo è Vallone e non la Mangano). Tutto parrebbe sistemato senonché – con una pessima trovata di sceneggiatura - Andrea caccia la fidanzata la quale, disperata, si fa suora. La cornice del film (il racconto avviene in flashback) è appunto quella dell’intensa vita ospedaliera di Niguarda (Milano) nella quale suor Anna si è compiutamente riscattata ed ha trovato la propria giusta dimensione. Nel finale – nonostante le pressioni di Andrea – la donna rimane tra i suoi malati.
Lattuada contrappone con efficacia le geometrie luminose e asettiche dell’ospedale milanese (recente costruzione del regime mussoliniano) con i toni scuri, contrastati e notturni della storia della ballerina e cantante Anna ed azzecca un paio di sequenze indimenticabili nelle quali la Mangano – sempre imbronciata e poco comunicativa –  dà il meglio di sé (l’attrice adorava soprattutto ballare e lo dimostra nell’interpretazione della canzone El Negro Zumbon (composta per l’occasione da un giovane Armando Trovajoli); tale sequenza verrà poi citata da Moretti in Caro diario, 1994). Per il resto il film ricalca senza troppa fantasia lo schema melodramamtico e un po’ fumettistico di Riso amaro e di tante altre pellicole del periodo. I personaggi sono estremamente monolitici e prevedibili: il bravo lavoratore e la sua famiglia cattolica, il malvivente sbruffone, la donna di facili costumi che si redime nella fede; le svolte narrative suonano artificiose e meccaniche (si è detto dell’assurda cacciata di Anna da parte di uno sconvolto Andrea; altrettanto banale è il loro successivo ritrovarsi con Andrea in fin di vita a Niguarda dopo un incidente). L’occasione per creare un potente melodramma c’era - grazie anche alla presenza di Rota - ma viene sprecato: le musiche sono poco significative, l’approfondimento delle situazioni lascia a desiderare, l’intreccio non comporta eventi originali e il quadro ospedaliero è ridotto a una serie di bozzetti senza interesse.
Restano comunque nella memoria alcune immagini di una fredda Milano alle luci dell’alba, con la protagonista che passeggia dalle parti di via Larga (dove si notano ancora numerose case vecchie destinate alla demolizione), perplessa e incerta dopo l’ennesima notte d’amore con Vittorio. Vi è inoltre una stimolante incursione nell’universo scaligero: suor Anna vi si reca per avvisare il primario di un caso urgente (il suo Andrea è in fin di vita) mentre è in corso la rappresentazione, giunta al brillante coro finale, del singspiel Il ratto dal serraglio (Mozart, 1782; opera che realmente era in scena in quel 1951 nel celebre teatro con una giovane Maria Callas nel cast). L’allusione non poteva essere più netta: anche Andrea, come il Belmonte mozartiano, ha cercato di strappare la sua Anna a una sorta di harem, con esiti meno felici.
Nonostante il carattere abbastanza audace e perfino morboso del ritratto femminile (che peraltro ripete quello della mondina di Riso amaro), incapace di dominare il proprio impulso sessuale anche in presenza di una prospettiva seria ed onesta (quella offerta da Andrea), il Centro Cattolico apprezza il senso complessivo e la scelta di rinuncia fatta nel finale da suor Anna e, quindi, chiude un occhio sugli elementi scabrosi assegnando al film con un compiacente “adulti con riserva”.
Il successo fu enorme: Anna è una delle prime pellicole italiane a incassare più di un miliardo di lire. Tre anni dopo Hollywood affiderà una sorta di remake a Robert Rossen il quale girerà Mambo (1954) con la Mangano e Gassman. Tra gli sceneggiatori figura di nuovo Ivo Perilli.
Nel film successivo Lattuada si ispira a un noto racconto di Gogol e gira Il cappotto (ottobre 1952; 85 min.). Il testo dello scrittore russo fa parte de I racconti di Pietroburgo (1842) e narra le peripezie dell’impiegato Akakij il quale, dopo penose privazioni, riesce a mettere da parte il denaro sufficiente per acquistare un nuovo cappotto il quale però gli viene immediatamente rubato. Per il dolore Akakij ne muore e ritorna tra le vie di Pietroburgo come fantasma per vendicarsi di tutti coloro che non gli avevano reso giustizia quando era in vita.
Lattuada, basandosi su una sceneggiatura di Cesare Zavattini e Luigi Malerba, adatta questa storia alla provincia italiana (il film è girato a Pavia) in un dopoguerra abbastanza astratto nel quale appaiono evidenti le allusioni al recente regima fascista. La miscela spazio-temporale tuttavia non giova al film che appare stravagante come spesso accade quando si cala nella nostra realtà storie tipiche di altre culture e, in questo caso, perfino di un altro secolo (si veda in tal senso l’analoga distonia che caratterizza Ossessione di Visconti, ispirato al noir americano Il postino suona sempre due volte di Cain). Il tessuto sociale, fatto da impiegati poverissimi ed eccessivamente succubi dell’autorità, appare legato alla realtà russa ottocentesca (la ritroveremo simile in certe narrazioni di Dostoevskij); la figura del presuntuoso sindaco e del suo codazzo clientelare appare invece equamente debitrice sia alla realtà del recente fascismo, sia a quello della nascente speculazione edilizia del dopoguerra; la perenne presenza dei questuanti, rappresentanti di una classe sociale diseredata e poverissima, sembra coniugare il pauperismo russo con le macchiette di Miracolo a Milano; il furto del cappotto è l’ennesima riformulazione del desolato destino degli umiliati e offesi (si aggiunge quindi al celebre furto della bicicletta di Ricci, alla perdita del cagnolino di Umberto D ecc.); la figura dell’impiegato strambo rinominato Carmine De Carmine – con le sue tirate sconclusionate e dementi – si estranea dal racconto di Gogol e si ricongiunge alla comicità della rivista di Rascel e Totò (non a caso Lattuada avrebbe voluto il comico napoletano nel ruolo principale); la svolta gotica del finale – fedele al racconto di Gogol -  vira il film verso esiti fantastici e si avvale, in questa parte, di una suggestiva caratterizzazione visiva, memore dello stile dell’espressionismo tedesco degli anni venti.
Siamo quindi in presenza di un film eclettico in cui convivono faticosamente tradizioni filmiche e letterarie differenti, senza approdare a un risultato soddisfacente. Si può apprezzare più l’uno o l’altro episodio, ma è difficile accettare l’insieme. Rascel – lodato da tutti – appare in realtà piuttosto monocorde come ripetitiva è la scarna vicenda (in fondo un breve racconto che bisognava arricchire con storie secondarie più originali) e quando l’attore abbandona il serioso tono patetico per passare a quello giullaresco dell’avanspettacolo (l’assurda lettura del verbale di fronte al siondaco, episodio ovviamente inesistente in Gogol) il salto di registro è esagerato e incomprensibile. In fondo se Carmine fosse realmente il fesso che risulta dalla stesura di questo verbale (ma in altre circostanze appare dotato di un’intelligenza normale), allora il suo stato di povero emarginato apparirebbe perfino coerente e tutt’altro che straordinario.
L’ambientazione pavese invece è eccellente: senza mai ritrarre strade troppo definite (con l’eccezione del ponte coperto, sede delle due sequenze apicali: il furto del cappotto e il dialogo finale con il sindaco), Lattuada riesce a conferire al racconto un’aura quasi universale e atemporale. La sottostoria del sindaco (Giulio Stival) con la giunonica amante (Yvonne Sanson) – di cui si è invaghito anche Carmine -  è invece una vicenda dozzinale le cui connesse gag ritorveremo in decine di commedie erotiche degli anni settanta (quelle dominate da Banfi e Montagnani). L’universo pauperistico che circonda il protagonista è eccessivo e stucchevole, possiede i tipici tratti zavattiniani dell’universo dei barboni di Miracolo a Milano virato in immagini distorte e un po’ mostruose, anch’esse ispirate al cinema espressionista tedesco; inoltre, quando gli autori vogliono ricreare l’opposto ovvero un salotto simbolico del benessere borghese, ecco di nuovo – come nello zavattiniano Umberto D – comparire la tradizione lirica con il direttore generale (Ettore G. Mattia) che intona Una furtiva lacrima (dall’Elisir d’amore di Donizetti) durante il suo elegante ricevimento. In questo dopoguerra la tradizione lirica, da genuina componente di una cultura popolare o comunque interclassista, sembra essersi trasformata in simbolo elitario della borghesia più agiata.
In definitiva vale quanto detto per Miracolo a Milano: per formulare uno spettacolo pullulante di figurine caratteristiche e privo di un intreccio forte ci voleva la fantasia straripante di un Fellini (amico di Lattuada con il quale – due anni prima - aveva firmato il suo esordio alla regia), capace di colorare in modo intrigante i singoli differenti episodi e di renderli incisivi e taglienti, al di là del loro debole eclettismo. Lattuada e Zavattini, invece, si perdono in una scrittura monocorde e lamentosa che stanca presto. Ben altri risultati aveva ottenuto il regista con un soggetto molto simile, quello del dannunziano Delitto di Giovanni Episcopo (1947; tra l’altro sempre con la Yvonne Sanson; vedi) nel quale la vicenda drammatica di un impiegato, sistematicamente frustrato dalla moglie e dal contesto sociale, veniva affrontato con un unico stile (quello melodrammatico), approdando a esiti notevolissimi.
A differenza delle recenti pellicole zavattiniane, dirette da De Sica, Il cappotto ottiene un lusinghiero successo di pubblico.
...
http://www.giusepperausa.it/anna.html


 

 

sábado, 28 de noviembre de 2020

Arrangiatevi - Mauro Bolognini (1959)

 

TÍTULO ORIGINAL Arrangiatevi!
AÑO 1959
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español (Separados)
DURACIÓN 105 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Mauro Bolognini
GUIÓN Leonardo Benevenuti, Piero de Bernardi (Historia: Mario De Majo, Vinicio Gioli)
MÚSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Carlo Carlini (B&W)
REPARTO Peppino De Filippo, Totò, Laura Adani, Cristina Gaioni, Cathia Caro, Mario Valdemarin, Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Adriana Asti
PRODUCTORA Rizzoli Film
GÉNERO Comedia | Familia

Sinopsis
La historia trata de un marido y su mujer, obligados a buscar en cualquier lugar un sitio donde vivir. Tienen hijos y están lo suficientemente desesperados como para coger cualquier cosa que puedan encontrar. Lo que el padre encuentra - sin avisar previamente a su familia - es una casa de mala reputación recientemente clausurada. Se van allí, pero al padre le es difícil poder ocultar constantemente la verdad sobre su alojamiento. (FILMAFFINITY)

 Enlaces
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Subtítulos
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Si deve convenire che questo film di Bolognini, pur non discostandosi fondamentalmente dal filone della commedia cinematografica dialettale, compiacentemente illustrativa di un'Italia volgare e qualunquistica, oziosa e cinica, che trova la sua emblematica raffigurazione nell'attore-personaggio Alberto Sordi, si fa notare poi per una più decorosa e misurata esecuzione e per un cauto tentativo di sostituire alla consueta e compiaciuta indolenza morale un atteggiamento di distacco e di giudizio attraverso il ricorso alla notazione satirica e all'ironico contrappunto. Basti pensare, per contrasto, a un altro film italiano che sta riscuotendo in questi giorni il più largo successo di pubblico, Costa Azzurra di Vittorio Sala, la cui torbida e irritante volgarità è una ennesima riprova della vocazione e dei metodi esplicitamente ideologici della nostra censura clericale, così sollecita nel soffocare sul nascere ogni esperienza che si muova all'insegna delle idee e della cultura e così generosa invece nel dare via libera, anzi nell'incoraggiare un cinema di evasione e di mortificazione dell'intelligenza; anche se questo comporti il rischio calcolato della pornografia e dell'indecenza.
Il film di Bolognini invece si fa notare subito per l'accuratezza e la dignità della realizzazione che si avvale di una sceneggiatura fluida e scorrevole, di un dialogo vivace e brillante, di un'interpretazione calzante e priva di sciatteria di Laura Adani (la cui scelta per il ruolo della protagonista è già un fatto significativo e lodevole) e di un De Filippo e un Totò che si impegnano, con risultati talora felici, a non affidare interamente le loro parti al tranquillo e monotono calco di un logoro cliché. Ma queste qualità di esecuzione, di correttezza formale, sarebbero ben povera cosa, costituirebbero un risultato modesto e marginale, se il film non si segnalasse per l'immediatezza con cui sa cogliere taluni volgari luoghi comuni e pregiudizi ipocriti del costume italiano, dandone una versione ironica e divertita, di un divertimento ambiguo però, a mezzo tra le velleitarie impennate satiriche e gli effetti comici di dubbio gusto.
Nel proporci il caso di una modesta e numerosa famiglia che, assillata dalla necessità di trovare un'abitazione, finisce di sistemarsi in una ex casa di tolleranza, Bolognini tocca un motivo inconsueto, non tanto alla luce delle isolate e interessate proteste suscitate dalla recente disposizione legislativa, quanto per le implicazioni e le risonanze che un simile tema può rivestire sul piano di una indagine di costume spregiudicata, della rivelazione dei tradizionali atteggiamenti e delle tenaci incrostazioni conformistiche dell'italiano medio intorno al tabù del sesso e dei suoi problemi.
Il limite di Bolognini è invece quello di fermarsi all'aspetto più facile, anche se non più inutile, della polemica, prendendo di mira i nostalgici delle "case" e le loro povere ossessioni (e si vedano infatti l'espressione di stolido rimpianto che si disegna sul volto del fattorino e tutta la sequenza finale con quell'affluire eccitato e disordinato dei militari) e di trarre partito dalla singolarità della situazione per ricavarne il consueto repertorio di effetti comico-sentimentali e di divertimento epidermico e talora volgare. Tuttavia si avverte qua e là la presenza dispersa di un atteggiamento più serio e meditato, una volontà di partecipazione e di giudizio (…) nel disegnare le figure del protagonista, con le sue dignitose e preoccupate reazioni, e della moglie ossessionata dal prevalere dei pregiudizi ipocriti e morbosi che sono in lei e negli altri. E si pensi ancora alla mordace animosità di talune battute, di certi ironici e inconsueti sottintesi. E c'è poi in quella ricorrente commistione della religione con gli affari e le scommesse, in quell'accostamento dell'opulento monsignore col sedicente regista di "fumetti sacri", una certa prontezza nel cogliere, in chiave di modesta e superficiale riduzione di taluni modi felliniani, aspetti e episodi della malsana confusione del nostro costume.
Adelio Ferrero, Recensioni e saggi 1956-197, Edizioni Falsopiano, 2005
https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/12C84CB18D830406C12575FD003E5D79?opendocument 

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Tre anni dopo Guardia, Guardia scelta... (1956), Mauro Bolognini gira un altro film corale originale e incisivo ovvero Arrangiatevi (set. 1959, 110 min.) che mette in immagini la commedia Casa nova... vita nova (1956) di .Vinicio Gioli e Mario Da Majo.
La famiglia Armentano, guidata dal capofamiglia Peppino (P. De Filippo), è costretta, nell’immediato dopoguerra, a condividere l’abitazione con una famiglia di profughi istriani. Dieci anni dopo, finalmente, Peppino riesce ad ottenere una casa spaziosa ad un prezzo stracciato, in quanto si tratta di una ex casa chiusa (quella che vediamo è realmente una casa di tolleranza chiusa nel 1958). L’uomo decide di trasferire la famiglia, tacendo loro la realtà dei fatti. Tuttavia la vecchia funzione della casa riemerge in mille modi differenti: telefonate provocatorie, soldati in congedo che, a frotte, si presentano a tutte le ore, il vicinato che ironizza apertamente e addirittura gli amici uno dei figli di Peppino che scambiano le sue sorelle per prostitute. Quando le donne di casa (Laura Adami e Crisitna Gajoni) scoprono la verità, dapprima pensano di abbandonare la casa a tutti i costi, anche lasciandovi il riluttante Peppino; poi, in un sussulto di orgoglio, rivendicano il loro diritto ad abitare in quell’edificio, alla faccia di tutto e di tutti.
Bolognini ha saputo abilmente miscelare commedia umoristica con passaggi realmente spassosi e  tono “neorealistico” laddove si parla delle difficoltà dei ceti meno abbienti. In ogni caso quest’ultima tematica rimane ai margini e non deprime un racconto che sa divertire, inanellando battute spiritose e situazioni equivoche, orchestrate con garbo. Peppino De Filippo è in gran forma nel dar vita al consueto ritratto di un italiano che sa che deve comunque arrangiarsi, chiedendo, pregando e supplicando. Notevole la sequenza in cui, mentre cura i piedi (di lavoro è podologo) ad un importante monsignore, chiede raccomandazioni a raffica (un figlio lo ha spedito in seminario... ); riuscita anche la figura del pappone (Vittorio Caprioli) e della sua donna (Franca Valeri) che truffano in svariati modi il povero Peppino. La presenza di Totò, sebbene non centrale (è il padre di Peppino) è spesso decisiva: i suoi numeri sono tutti incisivi, in particolare la gag in cui lungamente, a più riprese, si interroga sulla vera natura di quella strana abitazione in cui è finito a vivere e che gli sembra di conoscere...
La questione delle case chiuse rimane sullo sfondo: se ne parla con aperta ironia - tutti i maschi ammettono di esserci stati, anche il giovane figlio di Peppino e la cosa appare assolutamente normale mentre le donne reagiscono in modo drammatico quando scoprono dove sono finite. Lo iato che separa le prostitute dalle donne maritate è profondissimo e lo si percepisce con forza allorché la madre decide che, piuttosto che essere accomunata a “quelle” è meglio separarsi dal marito e dalla famiglia. D’altronde la tematica della chiusura delle case, tipica di altri film (Adua e le compagne su tutti) qui non è minimamente affrontata anche perché il testo teatrale di Gioli e De Majo risale a un’epoca in cui le case erano ancora perfettamente funzionanti. In ogni caso la questione della prostituzione non è oggetto di alcuna riflessione: è solo un’antica e radicata consuetudine che riguardava donne “perdute”, costrette a quel lavoro dalla miseria. Il film non partecipa al coro moralistico di chi ha voluto strenuamente quella chiusura (la legge Merlin dei socialisti) ed infatti la pellicola, pur con tutte le sue notevoli qualità, venne liquidata all’epoca con sufficienza dalla critica che emarginò il lavoro tra le pellicole di mero intrattenimento (si parlò di “farsa di grana grossa”), non paragonabili a quelle in cui simili temi erano trattati in maniera più “seria” (leggi predicatoria e deprimente).
Gli incassi furono discreti.
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http://www.giusepperausa.it/toto_e_marcellino.html 

Soggetto
La famiglia Armentano vive da più di dieci anni in una scomodissima coabitazione con una famiglia di profughi slavi, Peppino Armentano, il padre fa il callista e non riesce mai a racimolare la somma necessaria per procurare ai suoi una casa nuova. L'unica possibilità sarebbe lasciare che la figlia Maria Berta si fidanzi con un fantino che è disposto ad aiutarli, se non altro per amore della rispettabilità della futura moglie. Ma Peppino non ha simpatia per lui, e soprattutto è troppo orgoglioso per accettare. Un giorno la situazione diventa insostenibile: gli slavi annunciano la nascita del settimo figlio e il vecchio nonno Illuminato Armentano, sfida a un esercizio difficile il nonno slàvo (non senza avergli prima allentato il cinto erniario) per mandarlo all'ospedale e ridurre i profughi in condizioni di non poter pagare l'affitto. All'ospedale, però, ci finisce anche lui, e mentre i profughi non pagano nessun conto medico, gli Armentano sono ridotti a zero. Peppino si rassegna ad accettare l'offerta del fantino. Ma quando ha nelle mani i soldi è tale l'umiliazione che si lascia incantare da un trafficone e li perde tutti, scommettendo su una " fumata" delle elezioni del Papa. Atterrito al pensiero della reazione della moglie e dei figli, il callista fa quello che forse negli ultimi sei mesi è venuto in mente a molti poveracci : affitta, per una cifra irrisoria, una ex casa chiusa. La famiglia trasloca, ignara e felice. Ma è una felicità di breve durata. La verità, scoppia, e Peppino non sa far di meglio che scappare, mentre la moglie si scioglie in lacrime e in recriminazioni : per lei è stata la più grossa illusione e quindi la più grossa delusione in tanti anni. Anche il destino dei figli sembra essere minacciato dal ridicolo, dalle complicazioni e dagli equivoci che nascono dalla "casa nuova": Nicola, il figlio bersagliere, è vittima degli scherzi crudeli dei compagni, Bianca, la figlia minore, viene scambiata per una "ragazza squillo", Maria Berta perde il fidanzato. Mamma Armentano, disperata, vuole andare a fare la donna di servizio, pur di abbandonare quel luogo malfamato. Nulla serve a smontarla, nemmeno la "benedizione della casa" organizzata segretamente dal quarto fìglio, il seminarista Salvatore, arrivato il giorno del trasloco e rimasto fortunatamente nella più perfetta innocenza fino alla partenza. Il povero Peppino si sente crollare la casa sulle spalle. Tutti sono disperati, per colpa sua. Tutti l'accusano, tranne nonno Illuminato che anzi, si trova benissimo fra le mura che sono state teatro di tante, lontanissime, dolci battaglie. E alla fìne, effettivamente, la casa nuova porta fortuna a tutti quanti: Maria Berta e Bianca trovano ognuna un vero innamorato, Nicola diventa un uomo. E mamma Armentano, da coraggiosa chioccia, riprende in mano le redini della famiglia e si dispone a combattere ogni nuovo equivoco, ogni nuova malignità che voglia distruggere la pace riconquistata. La rispettabilità di una casa, tutto sommato, non è nei muri, ma nella gente che vi abita. Cambiati gli inquilini, cambiata casa.

Critica e curiosità
Il film trae spunto dalla chiusura delle case chiuse avvenuta l'anno precedente a causa delle legge Merlin , viene girato in una autentica ex casa chiusa in via Fontanelle Borghese suscitando le rimostranze di alcuni deputati . Il ruolo di Totò è secondario ma formidabili sono i duetti con Peppino , l'amico e collega ritrovato . Al film partecipa anche Luigi De Filippo nel ruolo di un soldato doppiato con accento ligure .
Scriveva Pietro Bianchi : " E' un film d'argomento grasso che soltanto l'abile regia dell'intelligente Bolognini riesce a non far scivolare quasi mai nel cattivo gusto .[..] Gli attori sono bravissimi . [..] Totò un nonno da Oscar [..] " .
E Morando Morandini : " [..] Arrangiatevi! rischia di diventare la più divertente e importante commedia che il cinema italiano ci abbia dato negli ultimi anni . [..] C'è un Totò in gran forma , all'altezza dei suoi giorni migliori [..] " .
http://www.antoniodecurtis.com/arrang.htm 

Una comicità diversa, attenta al sociale senza cadere mai nel serioso

Incluso tra i “cento film da salvare”, Arrangiatevi (di Mauro Bolognini) è una delle più divertenti e importanti commedie degli anni 50′. Un esempio di comicità grottesca, dalla battuta sagace che da al dialogo un ritmo scorrevole.

Nella parte iniziale del film viene bypassato l’umorismo che caratterizza le commedie del tempo. Una decisione interessante supportata da bizzarri sketch che danno all’ambientazione un senso naif.

Arrangiatevi è una commedia sobria che non evita momenti grotteschi ed esilaranti. Uno spaccato di realtà avvalorato dalla tendenza neorealista di Bolognini
La società viene romanzata quel tanto che basta senza edulcorare troppo il coraggioso impegno sociale che Bolognini tenta di catturare. Obiettivo supportato dall’appiglio diretto che Totò – seppur personaggio secondario – affronta, mostrando, a differenza di altre pellicole, la condizione sociale di una realtà che lentamente stava tornando alla normalità dopo i drammi della seconda guerra mondiale. Un fil rouge interessante che trova la propria ragion d’essere nella tendenza neorealista di Bolognini.

Arrangiatevi è una commedia in cui si evidenzia senza timori i limiti dell’Italia pre-boom, quella che con fare bigotto, provicialotto e superficiale, giudica chi con coraggio – ma anche con fatica e timore, ossessionati dalla rispettabilità e morale dell’epoca – tenta di andare oltre le apparenze e i pregiudizi. Un passo in più nel superare retaggi culturali e sociali arcaici e limitanti.

Questo obiettivo trova il suo culmine nella scena finale delle finestre che si spalancano. Attimi in cui lo spettatore sembra percepire un senso di libertà.
Interessante è la coppia Totò – Peppino. Partendo dal presupposto che la storia nel suo complesso è qualitativamente migliore di altre prodotti cinematografici che li ha visti insieme. Singolare è il ruolo di Totò. Non un protagonista, né una spalla destra, ma una guest star. Un piccolo ruolo che da al film un grande valore aggiunto grazie ad una recitazione incisiva, pura, domestica e poetica.

In conclusione, Arrangiatevi è una commedia girata con maestria, e con Bolognini alla regia non poteva essere altrimenti. La sua sobrietà, unità a una tendenza neorealista, regala allo spettatore un viaggio su un binario agrodolce: non ci sono sketch troppo teatrali né la “questione sociale” diventa il perno fondante del film. Un prodotto cinematografico equilibrato, leggero a tratti divertente.

Tre motivi per guardarlo
*La presenza di Totò – pur in un ruolo marginale – regala una recitazione poetica.
*Divertimento assicurato quando inizieranno i disguidi.
*Guardare un film anni 50′, soprattutto in questo periodo, ci regala attimi di leggerezza e semplicità insita nell’arte di arrangiarsi.

Curiosità
Gli interni del film vennero girati in una vera e propria ex casa di tolleranza che si trova a Roma in via Fontanella Borghese.
Errori di inquadratura. Quando arrivano i seminaristi per la benedizione della casa, Peppino De Filippo appare distante dall’attrice che interpreta la moglie. Dopo la battuta rivolta a De Filippo i “coniugi” appaiono vicinissimi. Nella successiva inquadratura allargata sono di nuovo lontani.
https://www.culturamente.it/cinema/arrangiatevi-toto-peppino/
 

viernes, 27 de noviembre de 2020

Una Vita Difficile - Dino Risi (1961)

TITULO ORIGINAL Una vita difficile
AÑO 1961
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 118 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Dino Risi
GUIÓN Rodolfo Sonego
MÚSICA Carlo Savina
FOTOGRAFÍA Leonida Barboni (B&W)
REPARTO Alberto Sordi, Lea Massari, Franco Fabrizi, Lina Volonghi, Claudio Gora, Antonio Centa, Loredana Nusciak, Mino Doro, Daniele Vargas
PRODUCTORA Dino de Laurentiis Cinematographica
GÉNERO Comedia. Drama. Bélico | Comedia dramática. II Guerra Mundial. Años 40. Años 50. Años 60

Sinopsis
La historia de dos décadas cruciales en Italia, a través de la vida de un hombre y sus experiencias durante los años comprendidos entre 1944 y 1961. (FILMAFFINITY)

Premios
1961: Premios David di Donatello: Mejor producción

Enlaces
https://mega.nz/file/A8ZTyCzL#5nMP3oFvx1MVhPL8Z_CEWLVkqUY3Z6p0MbG8ls5qDTg
https://mega.nz/file/ckABhABK#f4thWeiQitHjwu02_5X8vugclkugANZKZhbNJ_sf0sc

Subtítulos
https://mega.nz/file/FxQ3SQ5K#7ypP1tXjOyzpK65YzwOwl0jDnCTWmIpc5zcPq9cqakk

¿Es la Italia eterna lo que posibilita que haya películas así o son este tipo de películas las que terminaron haciendo una Italia eterna?

Uno llega al cine de Dino Risi y parece que acabe de descubrir la pólvora, ¡a buenas horas! Y más si se hace a través de Una vida difícil, llenísima de memorables escenas, de principio a fin: la cena en casa de la principessa, con el advenimiento de la República; el despecho de la pareja enfrente de la sala de fiestas, ya amaneciendo; el golpe crítico final en casa del commendatore… Y quizás, especialmente, ese Sordi a contracorriente del tráfico, escupiendo a todo vehículo que se encuentra.
Si esta película es un ejemplo de comedia italiana, la cosa entonces es bien seria: el sabor agridulce del humor dramático, a medio escalón de un realismo mágico entrañable, estimulante, inolvidable. Y con la carga adicional de crítica al sistema social; a veces soterrada, otras (la escena final) desbordada, siempre aleccionadora.

Una estupenda película para repasar un cuarto de siglo de historia italiana -de la lucha partisana al desarrollismo de los sesenta- a través del personaje de un periodista políticamente comprometido, llevado en volandas por Alberto Sordi a golpe de muecas, de cócteles espumosos y ácidos, como la escena del tribunal examinador, cuando este rechaza las excusas señalando que las luchas civiles no tienen ningún valor, y el protagonista salta:

¿O sea que la Resistencia no da valor? ¿Entonces qué debería haber hecho? ¿Lo que muchos hicieron en 1944, vestirme la camisa de las Brigadas Negras y conseguir el título apuntando con una pistola a los profesores?

Furia, ruido, sátira, bufonada, desengaño, sensibilidad… Una tragicomedia vital.
https://pedaladasabuenritmo.wordpress.com/2014/03/07/dino-risi-una-vita-difficile-1961/

Oltre il Neorealismo
Il Neorealismo, che nell’immediato dopoguerra, era stato il mezzo privilegiato per raccontare vizî e virtù degli italiani. Ad un certo punto si avvia al declino, e le maestranze, così come le forze artistico-intellettuali che prima si erano incanalate in tale movimento, si mettono alla ricerca di strade diverse da percorrere. Il filone privilegiato per raccontare e denunciare i vizî e le virtù degli italiani diventa la commedia (fino allora legata ancora al cabarettismo), che presto verrà denominata “all’italiana”. Un maestro di questo genere cinematografico è Dino Risi. Di cui in questo articolo prenderemo in esame uno dei film meglio riusciti: Una vita difficile (1961).

Una vita difficile
Va detto però che Una vita difficile si avvale anche del sostanzioso contributo dello sceneggiatore Rodolfo Sonego il quale, autore di fiducia di Alberto Sordi, gli regala forse il più bel ruolo della sua carriera. E a sua volta Sordi regala al film di Risi un’interpretazione memorabile. L’attore romano è qui chiamato ad impersonare la figura di un uomo eternamente in bilico fra vigliaccheria ed eroismo, fra pigrizia ed impegno, fra bassezza ed altezza. È – ed è evidente – il ritratto di un italiano-tipo (o perlomeno dell’italiano-tipo che il cinema nostrano prediligeva raffigurare in quegli anni), e più ancora del Sordi-tipo, che il comico aveva già avuto modo di mettere in scena in numerosi film precedenti, come ad esempio

Il vedovo (1959), dello stesso Risi (e per alcuni aspetti ancor più da vicino ricorda il Sordi de La grande guerra, 1959). Tale modello di riferimento è però qui in un certo senso estremizzato ed elevato, accentuando alcuni elementi patetici del personaggio, smussando alcuni lati più cialtroneschi, e dotandolo di alti ideali politici: ma, cosa ancor più notevole, diventa il mezzo attraverso il quale gli autori possono mostrarci vent’anni di storia italiana, con le sue speranze, i suoi successi, le sue delusioni, le sue sconfitte.

Squilibri e ingenuità in Una vita difficile
Viene spesso, negli scritti sull’argomento, posto l’accento su alcuni squilibri del film, e su alcune sue ingenuità. Intendiamoci: siamo in effetti lontani dalla resa di operazioni analoghe come ad esempio il più recente C’eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola. Tuttavia non per questo lo sguardo di Risi è meno intelligente: probabilmente il modo migliore per leggere il film è “a cassetti”, come dichiarò egli stesso. Una successione di episodi che, presi di per sé, mantengono una carica satirica e critica di grande potenza.

Il Referendum Costituzionale
Come non annoverare ad esempio la scena in cui i due protagonisti Silvio Magnozzi ed Elena Pavinato (Alberto Sordi e Lea Massari) per ragioni fortuite si ritrovano a cena in una casa nobiliare proprio durante l’annuncio degli esiti del referendum su monarchia e repubblica, e mentre intorno a loro gli aristocratici sono presi dalla disperazione e dal caos, essi sono gli unici a rimanere a tavola, gustando con estrema soddisfazione un bel pasticcio, mentre risuonano le note dell’inno della Repubblica.

Scarpe rotte
O, da un punto di vista più intimistico, la scena in cui Silvio, ubriaco, tenta di riconquistare la moglie promettendole che le avrebbe dato “tutto quello che vuole” (peccato però che un’inquadratura ci riveli come abbia le scarpe rotte). E dopo una zuffa con il nuovo compagno della moglie, un rappresentante del nuovo ceto benestante che si andava formando proprio in quegli anni del “boom”, si mette a sputare alle automobili di passaggio, simbolo del progresso (si veda a tal proposito anche il capolavoro di Risi Il sorpasso, 1962) e di quello che il Magnozzi sente come un tradimento dei valori resistenziali.

Il finale
Memorabile anche il finale: persino Magnozzi è costretto a piegarsi alla nuova realtà, e accetta di lavorare per quello stesso imprenditore la cui offerta aveva rifiutato sdegnosamente subito dopo la guerra. Durante una festa, Elena ha modo di vedere come il marito debba sopportare continue angherie dal proprio datore di lavoro, mettendo continuamente da parte i suoi valori e la sua dignità. Dopo l’ennesima umiliazione pubblica, e dopo uno sguardo della moglie Elena, il Magnozzi prende le misure e assesta un sonoro ceffone al commendatore facendolo finire in piscina (altro simbolo del “boom”): Alberto Sordi e Lea Massari escono trionfalmente dalla villa, rifiutando l’automobile (ancora un simbolo) e affermando di voler “fare due passi”.

Critiche ingenue
La sequenza è stata oggetto di ripetute critiche in quanto, come già accennato, molti la trovarono troppo ingenua e liberatoria. In realtà essa è la degna conclusione di una pellicola che si regge su quello che è il “vitalismo” del regista (come lo ha chiamato Risi stesso), e che pur presentando un’acuta analisi della storia italiana recente e contemporanea, non ha certo ambizioni di realismo. Si può insomma perdonare a Risi di aver voluto regalare questa soddisfazione al pubblico, in quanto preferirà un finale assai meno ottimista nel di poco successivo Il sorpasso
Francesco Grilli
https://www.culturainrete.it/complessita-ed-ingenuita-in-una-vita-difficile-1961-di-dino-risi/

Prima del Sorpasso e I mostri, Dino Risi costruisce questo piccolo affresco di quindici anni di vita italiana osservati attraverso gli sforzi e i fallimenti di un modesto giornalista in lotta per vedere trionfare i suoi ideali democratici. Il film è essenziale nel suo collocarsi a cavallo fra lo spirito costruttivo rivolto all'avvenire del neorealismo e il cinismo, lo sbeffeggiamento della commedia all'italiana degli anni Sessanta. Una vita difficile è il film delle speranze deluse, della generosità ridicolizzata, una prima tappa, apparentemente irreversibile, nel processo di disillusione della società italiana. Se si tratta, moralmente e socialmente, di un'opera di transizione, Una vita difficile è perfettamente riuscito sul piano formale, mantenendo un equilibrio ammirevole fra l'ambizione, la serietà dei propositi (che anticipano i film affresco degli anni Settanta come C'eravamo tanto amati di Scola) e lo humour, l'ironia, l'amarezza ancora piena di emozione (per l'ultima volta) del tono. Le sequenze della cena dei monarchici e dell'esame di Sordi, le due scene di ubriachezza di quest'ultimo sono da antolo-gia. Bisogna d'altra parte considerare come coautori del film, allo stesso titolo di Risi, Alberto Sordi e il suo sceneggiatore di riferimento Rodolfo Sonego. Per quarant'anni, incarnandone speranze e disillusioni, ha per così dire elaborato una vera biografia sociale del popolo italiano. Nessun autore in Europa può su questo piano rivaleggiare con lui.
Jacques Lourcelles

De Laurentiis voleva fare un film per Sordi che non fosse il solito film comico. Con Sonego, che è stato gran parte di questa operazione, ci siamo detti: "perché non fare un affresco, una cavalcata italiana, qualcosa che sia un po' lo specchio della realtà degli anni precedenti?". Volevamo raccontare una storia di quegli anni significativa per gli anni che vivevamo. In fondo era un film drammatico e c'era un po' di paura nell'usare Sordi. Partiva come un ex partigiano, era un Sordi idealista! Uno che credeva in qualcosa mentre nei suoi film non credeva mai a niente, come anche nella vita. Era un bel rischio, c'erano anche momenti di commozione. Sordi fu bravissimo e mi pare che questo resti uno dei suoi film più importanti. Il film ebbe successo ma non enorme, direi che ha guadagnato con gli anni. Tanto che in qualche modo Scola è partito da lì per C'eravamo tanto amati, come è partito da Straziami per Dramma della gelosia.
Dino Risi
http://www.cinetecadibologna.it/vedere/programmazione/app_11440/from_%7Bdatefrom%7D/h_%7Boraproiez%7D
 


L’odissea di Silvio è anche nostra
Dall’immediato dopoguerra agli anni del boom economico, dalla dittatura alla democrazia, da De Gasperi all’attentato a Togliatti: la vita di Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) è un’odissea, metafora della storia italiana.

Nell’epopea di un uomo come tanti di Una vita difficile, diretto da Dino Risi e scritto da Rodolfo Sonego, c’è in controluce il dolore di un intero paese, sempre in bilico tra rassegnazione e gioia, fame e appagamento. La grande Storia travalica i confini e penetra nella piccola storia,quella di chi soffre la fame e si aggrappa a tutto per non affogare. Una vita difficile è una poesia sofferente e poco umoristica che racconta uno strappo violento, una delusione lenta e continua, mostra la frustrazione derivante da investimenti eccessivi, da grandi desideri. Silvio ha principi morali ben radicati e idee di sinistra ma non riesce ad applicarle alla realtà, modificatasi nel profondo: i potenti lo violentano, la corruzione si insinua dovunque. Prima è partigiano, poi giornalista, “in armi” sembra forte, a Roma un ragazzino mosso dall’utopia, fin troppo onesto non si piega alla corruttela. C’è sempre un cortocircuito nelle sue scelte, mentre sta perdendo tutto, sacrifica più di ciò che possiede, negandosi anche ciò che ha già. Mentre i compagni rischiano la vita, Magnozzi si rifugia tra le braccia di Elena; arrivati a Roma, Silvio scrive articoli, mentre lei muore di fame; viene condannato perché partecipa ai moti del ’48, incurante del fatto che la donna, incinta, lo preghi di cedere al compromesso. C’è una lacerazione evidente tra desiderio – di ciò che manca come dice Jacques Lacan – e ridimensionamento delle aspirazioni: riceve schiaffi in faccia da tutti, viene abbandonato, mentre continua a credere nelle proprie idee; cerca di piegarsi al mondo, ma la sua vera natura si ripresenta. Il “danno originario” di cui parla Lacan colpisce anche Silvio che aspetta una qualche soddisfazione che non arriva. Nei primi piani di Sordi c’è tutto il patimento e la sofferenza di un individuo oppresso dalla vita (metafora di questo è la sequenza di fronte alla commissione d’esame in cui è perdente), espressione diversa è quella della sequenza finale, quando si ribella al capo, gettandolo in piscina con uno schiaffo ben assestato, simbolo di cambiamento per Silvio e Elena. Dino Risi con Una vita difficile racconta il dramma malinconico di un uomo semplice e di una nazione piena di fragilità e ipocrisie, in grado di colpire nel profondo tra un sorriso e una lacrima.
https://www.mediacritica.it/2016/07/16/una-vita-difficile-1961/

jueves, 26 de noviembre de 2020

Il Grande Cocomero - Francesca Archibugi (1993)

TITULO ORIGINAL 
Il grande cocomero
AÑO 
1993
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
Español (Separados)
DURACIÓN 
95 min.
PAÍS 
Italia
DIRECCIÓN 
Francesca Archibugi
GUIÓN 
Francesca Archibugi
MÚSICA 
Roberto Gatto, Battista Lena
FOTOGRAFÍA 
Paolo Carnera
REPARTO 
Sergio Castellitto, Gigi Reder, Laura Betti, Anna Galiena, Armando de Razza, Alessia Fugardi, Raffaele Vannoli
PRODUCTORA 
Coproducción Italia-Francia-Países Bajos (Holanda); Ellepi, Italian International Film, Chrysalide Film, Rai Uno Radiotelevisione, Moonlight Films, Eurimages Council of Europe
GÉNERO 
Comedia. Drama


Sinopsis
Después de muchos años de tratamiento por epilepsia, Valentina ingresa en una clínica psiquiátrica. Allí conoce a Arturo, un joven psiquiatra, que a pesar de su conflictiva vida personal y de la enorme ineficacia de la Sanidad Pública italiana, entabla una intensa relación con ella. Centrando la terapia más en su vida familiar que en las drogas, acaba descubriendo la verdadera naturaleza de la enfermedad de Valentina. (FILMAFFINITY)

Premios
1993: Cannes: Premio del Jurado Ecuménico - Mención Especial
1992: Premios David di Donatello: 3 premios, incluyendo Mejor película. 7 nominaciones

1

2 

3 

Sub 

Trama

A Roma Valentina, una dodicenne soprannominata Pippi, figlia di Cinthya e Marcello arricchiti ma senza ideali, in seguito ad un attacco di epilessia viene ricoverata nel reparto di neuropsichiatria infantile. Un giovane psichiatra, Arturo - appena uscito da una crisi coniugale che sta sforzandosi di esorcizzare - sebbene convinto che il caso sia piuttosto di natura neurologica che psichiatrica, accoglie la ragazzina nel suo reparto, preso da spontaneo interesse per lei. Pippi rivela subito un carattere scontroso e provocatorio, e risulta in difficile rapporto con i genitori, per cui Arturo si propone di tentare con lei una terapia analitica, studiandone attentamente le reazioni al fine di riportarla alla normalità.

Critica 

È un'opera rara nel nostro cinema, perché la storia di un neuropsichiatra infantile e dei suoi casi disperati non è raccontata per farci dividere il mondo del reparto psichiatrico in buoni e cattivi, ma piuttosto per spingerci a conoscere, cercare di capire, interrogarci: è un film che finalmente ti riconcilia col cinema. Esemplare. È in sostanza un discorso di minoranze il cui peso va rivendicato soprattutto oggi che le maggioranze hanno espresso tutta la loro miseria attraverso i rappresentanti di cui per tutti gli anni ottanta si sono fatte opportunistiche complici.
Gofredo Fofi (Panorama)

Ispirato alla figura di Marco Lombardo Radice - giovane neuropsichiatra infantile prematuramente scomparso, che utilizzava terapie non convenzionali per curare i suoi piccoli pazienti - il film si struttura sulla relazione intergenerazionale tra Pippi e Arturo, che trascende presto le formalità di una relazione tra paziente e medico per trasformarsi in una relazione umana più intensa. Se all'inizio i ruoli appaiono ben definiti, con Pippi che deve essere curata e Arturo che deve trovare il modo giusto per aiutarla, la progressione del film sembra mettere in crisi tale ripartizione schematica. I momenti chiave della relazione tra i due protagonisti, soprattutto nella prima metà, sono infatti quelli in cui apparentemente si verificano delle crisi, con Arturo che sembra meno sicuro di sé.
La rinuncia alla sicurezza professionale, la capacità di non rifugiarsi in un ruolo sclerotizzato e la capacità di mettersi in discussione sembrano quindi diventare elementi fondamentali non soltanto in relazione alla figura del medico, ma più in generale a quella di un adulto che voglia realmente confrontarsi con i problemi, le esitazioni e le contraddizioni di una preadolescente in crisi.
Pippi negli anni ha inconsciamente utilizzato la malattia come scudo per difendersi da un contesto di adulti che non la comprendevano e che la opprimevano, a partire dai genitori. La sua esigenza primaria sembra in primo luogo quella di poter esperire una reale comunicazione con l'altro, fatta anche di provocazioni e di silenzi, che le permetta di essere considerata per quello che è realmente, non per quello che dovrebbe essere o per quello che vorrebbero gli altri, secondo modelli sociali e culturali ben definiti. In questa luce è emblematica la sequenza della terapia familiare, con i due genitori che iniziano sorridenti e finiscono litigando, scordandosi completamente che sono lì per la figlia, ammutolita. Solo Arturo riesce a recuperare, facendo una carezza a Pippi: senza parole, le dimostra immediatamente la sua vicinanza.
La famiglia appare dunque il luogo primario del disagio della protagonista. Oltre le difficoltà di coppia che hanno segnato fin dall'origine il rapporto tra i genitori, il film insiste molto sull'incapacità del padre e della madre di mettere da parte le proprie incomprensioni per aiutare realmente la figlia nella quotidianità. In questo senso il supposto disagio psichico di Pippi diventa funzionale ai genitori per giustificare non solo le proprie preoccupazioni, ma anche, pur in buona fede, per scaricarsi la coscienza: l'invadenza continua e ossessiva della madre, che ritiene la figlia incapace di qualsiasi autonomia; i crucci del padre, che spende comunque molti soldi per "far curare" la sua bambina. La separazione finale, in coincidenza con la guarigione di Pippi, rende l'avvenuta presa di coscienza, sia in chiave genitoriale che coniugale.
Constatato tale arroccamento intorno alla malattia, che di fatto non fa che acuirla, Arturo sceglie di destrutturare l'identità pregressa di Pippi come soggetto malato e la inserisce il più possibile in relazioni amicali con i suoi pari e in un contesto controllato ma non eccessivamente protetto, in cui c'è spazio per un'uscita in città, per scherzi e battute, ma anche per confrontarsi con il dolore e la morte, come capita nell'episodio chiave della morte della bimba cerebrolesa. Consapevole che nessuno può realmente crescere, se non gli si permette di confrontarsi con le contraddizioni della vita.
Michele Marangi (Aiace Torino)

Al reparto di Neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma viene ricoverata una ragazzina di 12 anni, Pippi, presunta epilettica. Si prende cura di lei Arturo, un giovane psichiatra dalla vita privata instabile (vive solo dopo essere stato lasciato dalla moglie) ma capace di sentire e, soprattutto, dì cercare nel disagio sociale e familiare la causa di molti drammi. Nel caso di Pippi, una famiglia di arricchiti prossima allo sfascio.
Il reparto soffre di tutta la precarietà tecnico-organizzativa che si può immaginare, tuttavia Pippi, grazie alla costanza del medico che viene coinvolto anche per una esigenza personale di chiarimento, vi trova un ambiente affettivo accettabile. Ben presto, anzi, è chiamata a collaborare assistendo una bambina cerebrolesa di 6 anni. Quando quest'ultima muore, Pippi sembra sul punto di regredire, ma Arturo riesce a mantenerla nel solco della cura e ad avviare, con fatica e dedizione autocritica, un cammino di "guarigione".
Giunta al suo terzo lungometraggìo (ma anche i corti andrebbero considerati per rintracciare i segni di una vocazione) Francesca Archibugi si addentra in luoghi drammatici sempre più difficili: finora era rimasta nel chiuso della famiglia - anche se quella di Mignon rappresentava un mondo variegato, e la casa di Verso sera avvertiva le pressioni di un esterno imprescindibile - adesso si allarga sulla città ponendo gli individui a confronto con relazioni ambientali "oggettive". Il processo della regista implica dunque una evoluzione del rapporto col comico e con una tradizione italiana che ha sempre tenuto in alta considerazione; all'uscita di Verso sera aveva detto: “ ... Della "Commedia all'italiana" a me piace l'elemento fondamentale: che ha sempre fatto ridere sulle cose più drammatiche del nostro paese. Questo e non tanto i modi, cioè il modo registico di realizzare le storie ... ( ... ) Adesso sto scrivendo una storia ancora più drammatica e dunque più tragicomica di quelle che ho scritto finora; spero di riuscire a completarla col giusto equilibrio, perché se non va in sceneggiatura non la giro ... ”
Mi sembra che Il grande cocomero dia esiti confortanti sia riguardo alla sceneggiatura - è infatti un film ben scritto che conferma nell'Archibugi un talento cineletterario specifico sia nel rapporto con la tradizione comica, grazie a un distacco e a una continuità di stile capace di evitare le cadute che appesantivano le prove precedenti. I modi della commedia restano e sono usati dalla regista per trovare un respiro quotidiano a una storia di amori e dolori, ma senza indulgenze al carattere greve; quasi un bisogno di resistenza di fronte alla severità di un "caso clinico" che si evolve (l'epilessia di Pippi si rivela finta, cioè come difesa di fronte ai mali insostenibili della crescita) e informa di sé un ambiente alla deriva. Un ambiente che pesa a sua volta e sul quale lo sguardo viene puntato con disagiata precisione e limpido risentimento: strade anonime e rumorose - la città vagolante e stordita che appare dagli stacchi, dai luoghi paralleli, dagli scorci stressati - parrocchie "terzomondiste", abitazioni eternamente provvisorie.
Immersa in tutto ciò con ispirazione sincera e con un senso di ineluttabilità "lieve" che le permette di reggere la concretezza della materia scelta, Francesca Archibugi vuole anche offrire una sua testimonianza; pur essendo molto giovane ha potuto cogliere il sapore di una stagione, il dopo-sessantotto, assai intensa. Ne danno prova la lettura e l'utilizzo dei testi "psichiatrici" di Marco Lombardo Radice e soprattutto la ricerca, pur faticosa, di un impegno che dura. Mi sembra, insomma, che il male dei suoi personaggi sia anche il nostro di ogni giorno; nostra la loro difficoltà a reggere nell'indifferenza e nella scarsità di prospettive; nostro il loro isolamento, il rischio e l'"anacronismo".
Altra conferma, se si pensa ai film precedenti, viene senz'altro dall'abilità che la regista dimostra nel tenere assieme corpose e disomogenee compagnie di attori: Castellitto le offre lo stesso decisivo contributo che, in tutt'altro stile e carattere, le aveva offerto il Mastroianni di Verso sera; ma anche gli altri, dalla Galiena a Laura Betti, dalla bravissima Alessia Fugardi ai giovani non professionisti, sono messi nelle condizioni migliori per interagire. Per quel che riguarda il lavoro di regia in senso stretto, si può misurarlo per rifrazione da quello di scrittura, di dosaggio della messa in scena e di armonizzazione, cioè nel segno di una "castità" che implica aderenza ai personaggi e nascondimento. Non mancano però i colpi d'ala come quello, per ricordarne uno, che ci mostra la morte della bambina cerebrolesa dai due lati di una barriera trasparente.
Tullio Masoni (Cineforum n.322)

https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitolo/4F42035D329974CCC1256C0F005088B8?opendocument
 

miércoles, 25 de noviembre de 2020

Capriccio all'Italiana - Mauro Bolognini, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini, Steno, Pino Zac, Franco Rossi (1968)

 

TITULO ORIGINAL Capriccio all'italiana
AÑO 1968
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español (Separados)
DURACIÓN 95 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Mauro Bolognini, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini, Steno, Pino Zac, Franco Rossi
GUIÓN Roberto Gianviti, Agenore Incrocci, Pier Paolo Pasolini, Furio Scarpelli, Steno, Bernardino Zapponi, Cesare Zavattini
MÚSICA Sergio Battistelli, Ricky Gianco, Marcello Giombini, Piero Piccioni, Gianni Sanjust, Carlo Savina
FOTOGRAFÍA Tonino Delli Colli, Silvano Ippoliti, Giuseppe Rotunno
REPARTO Totò, Ugo D'Alessio, Regina Seiffert, Dante Maggio, Sandro Merli, Renzo Marignano, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Ninetto Davoli, Laura Betti, Carlo Pisacane, Silvana Mangano, Adriana Asti
PRODUCTORA Dino de Laurentiis Cinematographica
GÉNERO Comedia | Película de episodios. Sátira

Sinopsis
Film colectivo dirigido por seis realizadores, que consta de los siguientes episodios: La bambinaia (La niñera) dirigida por Mario Monicelli. Una niñera no quiere que los niños lean los cómics "Diabolik" y "Satanik", así que comienza a leerles las fábulas de Charles Perrault. Il mostro della domenica (El monstruo del domingo) dirigida por Steno. Un señor maduro que odia a los "melenudos", hace infinidad de cosas para capturarlos y hacerlos desaparecer. Al final es detenido por la policía y cuenta cual es el motivo de sus actos. Perché? (¿Por qué?) dirigida por Mauro Bolognini. Un automovilista, instigado por su mujer para que vaya más rápido, termina teniendo un accidente y una riña con otro conductor. Che cosa sono le nuvole? (¿Qué son las nubes?) dirigida por Pier Paolo Pasolini. Al término de una representación de Otello en un teatro de títeres, el público salta sobre el palco y destruye dos. Los títeres terminan en el basurero mirando el cielo sin saber dónde se encuentran. Viaggio di lavoro (Viaje de trabajo) dirigida por Pino Zac y Franco Rossi Una reina en visita a un país africano lee por error un discurso de otro país, hiriendo profundamente la susceptibilidad de los miembros del gobierno local. Es una mezcla de dibujo animado y actores de carne y hueso. La gelosia (Los celos) dirigida por Mauro Bolognini. Silvana cree que su marido Paolo la engaña, por eso no para de perseguirlo. (FILMAFFINITY)

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Capriccio all’italiana è commedia all’italiana in cinque episodi realizzata da un gruppo di registi tra loro molto diversi che compongono un affresco divertente della società, a tratti realistico, per altri versi surreale. Il difetto della pellicola è la mancanza di un filo conduttore e di una vera e propria uniformità. A noi interessa soprattutto Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini, dove spicca la presenza di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Vediamo in sintesi gli altri episodi. La bambinaia di Mario Monicelli prende di mira i falsi moralismi e critica la messa al bando dei fumetti neri. Silvana Mangano è una bambinaia che non vuole far leggere Satanik e Diabolik ai bambini ma in compenso li terrorizza con le fiabe di Perrault. Il mostro della domenica di Steno è interpretato da Totò, un integerrimo signore ossessionato dai capelloni, al punto che si traveste, attira i giovani con l’inganno per poi raparli a zero. Viene arrestato, ma il commissario di polizia è dalla sua parte, perché ha un figlio capellone, quindi lo rilascia è affida il ragazzo alle sue forbici. Perché? di Mauro Bolognini vede ancora protagonista Silvana Mangano, che istiga all’omicidio il fidanzato dopo un tamponamento stradale. Viaggio di lavoro di Pino Zac e Franco Rossi, è composto da un mix di cartoni animati e fiction. Silvana Mangano in visita a un paese africano rischia il linciaggio perché sbaglia discorso. In realtà il regista è solo Franco Rossi, mentre il cartoonist Pino Zac si limita a realizzare le animazioni. La gelosia di Mauro Bolognini vede protagonista Ira Fürstemberg, moglie gelosa che segue il marito Walter Chiari per scoprire i suoi tradimenti.


Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini è l’episodio più importante della pellicola, interpretato magnificamente da Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti e Adriana Asti, nei panni di surreali marionette. La storia rivisita l’Otello con un taglio fantastico. Le marionette interpretano il dramma di Shakespeare e nelle pause si pongono domande sui motivi delle loro azioni. Il pubblico presente in teatro a un certo punto interrompe la recita e impedisce l’omicidio di Desdemona (Betti) da parte di Otello (Davoli), facendo a pezzi le marionette di Jago (Totò) e del principe in preda alla gelosia. Il finale poetico vede lo spazzino Domenico Modugno portare alla discarica le marionette distrutte mentre canta una struggente melodia (Tutto il mio folle amore/ lo soffia il cielo…). I due fantocci restano incantati a guardare le nuvole e la scena conclusiva finisce per dare il titolo all’episodio.


Che cosa sono le nuvole? è uno dei film più poetici e surreali di Pier Paolo Pasolini. Gli interpreti sono eccellenti, a cominciare da un Domenico Modugno monnezzaro che canta, per finire con un ispirato Ninetto Davoli nei panni del tormentato Otello che parla romanesco, passando per un grandissimo Totò nel ruolo del perfido Jago. Brava anche Laura Betti come romantica Desdemona, molto calato nella parte Franco Franchi (Cassio) e Ciccio Ingrassia, aiutante di Iago. Alcune sequenze sono pura poesia e si ricordano come grandi pagine di letteratura. “Noi siamo in un sogno, dentro a un sogno”, dice Jago. Otello commenta dietro le quinte: “Iago, come sei cattivo…”. Il tema della gelosia è affrontato con Otello versione popolare e Jago marionetta dipinta di verde, diabolico invidioso della felicità altrui. “Qual è la verità? Quello che penso io di me o quel che pensano gli altri?”, si chiede Otello. “Cosa senti dentro? Ecco, quella è la verità, ma non bisogna nominarla, altrimenti scappa”, risponde Jago. Il finale vede Jago e Otello fatti a pezzi dal pubblico che parteggia per la mite Desdemona. Alla discarica le marionette scoprono per la prima volta le nuvole. “Quanto so’ belle”, dice Otello. “Oh, straziante meravigliosa bellezza del creato…”, mormora Jago.


Capriccio all’italiana è l’ultimo film interpretato da Totò, esce nel 1968, ma lui non può vederlo perché muore il 15 aprile 1967.  Paolo Mereghetti concede due stelle con questo commento: “Tenuto insieme senza nessuna logica, il film si salva solo per la bravura di Totò e per l’improvviso squarcio di poesia dell’episodio di Pasolini”. Una tantum condividiamo l’opinione dell’illustre critico milanese, ma aggiungiamo che anche Ninetto Davoli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono impiegati al meglio da una regia abile e ispirata. Pino Farinotti assegna tre stelle, trova il solito difetto della mancanza di filo conduttore, che condividiamo. In ogni caso l’episodio di Pasolini giustifica ancora oggi la visione del film. Morando Morandini concede due stelle e mezzo: “Spiccano gli episodi interpretati da Totò e non soltanto perché furono gli ultimi che interpretò. Quello di Pasolini fa perno su una sgangherata e buffissima rappresentazione di Otello in una compagnia napoletana di marionette”. Un piccolo capolavoro fantastico pervaso da momenti lirici e sorretto da dialoghi poetico - esistenziali.
Gordiano Lupi
http://cinetecadicaino.blogspot.com/2012/03/capriccio-allitaliana-1968.html 

 
 
Critica:
Negli anni Sessanta, il film a episodi era piuttosto di moda. Super cast ed alcune perle come la partecipazione di Pier Paolo Pasolini per raccontare vizi e virtù degli italiani.

Qualche momento pieno di poesia come appunto nell'episodio Che cosa sono le nuvole, da non perdere.

Viaggio di lavoro firmato da Pino Zac in realtà è stato diretto da Franco Rossi. Zac ne realizzò solamente le animazioni.

Totò da accostumato e stravagante conformista ha modo di far vedere le sue sperimentate "macchiette", non di più. Il regista è quasi assente, si è solo adoperato a aiutarlo con un canovaccio più attuale.

E il "Capriccio" è divertente per merito e per colpa del comico così sfacciatamente esibito a tirare avanti con gli occhi chiusi. Alfonso Gatto, Vie Nuove, Roma 30 maggio 1968.

Il mostro della domenica. Una banale e debole satira sceneggiata e recitata sulla falsariga degli sketch televisivi interpretati da Totò, del tipo "Il tuttofare", "Don Giovannino" e soprattutto "Totò yè yè", tutti del 1967. L'episodio, che si conclude con Totò che inserisce una lunga forbice nella fondina ed esibisce una targhetta con su scritto "KO7 con licenza di rapare", si riduce ad una barzelletta sceneggiata senza vita, con Totò vestito da prete, da prostituta e da viveur, che adesca giovani capelloni per raparli a zero.

Scontate e deboli le trovate comiche, tra cui quella di Totò che spruzza il DDT sui giovani capelloni. Un solo gioco linguistico, con mi era parvo in luogo di mi era parso e la celebre espressione tomo tomo, cacchio cacchio.

Totò appare in tutta la sua implacabile spietatezza con un volto decrepito, corroso dalle rughe, con delle grosse borse sotto gli occhi, un volto stanco, forse malato, ma la voce, la recitazione, il modo di dire le battute sono sempre gli stessi, inalterati ed efficaci, il segno di un mestiere che ha assorbito "secoli" di teatro, di cinema, di spettacolo, di umana saggezza.

Il grande clown, con tutta la sua stanchezza, ormai quasi completamente cieco, riesce come sempre ad incantare con la sua recitazione semplice, lineare, garbata, basata sui dettagli più marginali, che fanno il risultato finale. La chiusura del modesto episodio, con il commissario (il bravissimo Ugo D' Alessio) che non solo lascia libero il "mostro", ma gli consegna anche suo figlio per farlo rapare, sancisce la definitiva mediocrità di quanto viene rappresentato.

Che cosa sono le nuvole. Incredibile gioco del caso, che ha voluto Totò nella sua ultima interpretazione nel ruolo di una marionetta umanizzata. Così come era dunque nato al teatro egli muore al cinema e non avrebbe potuto lasciare un "testamento" di più alto valore poetico. Questo racconto misterioso e affascinante di Pasolini, che conclude la trilogia con Totò è di difficile interpretazione, per la complessa rete di rimandi e di intrecci poetici e stilistici.

Potrebbe essere: un apologo sulla morte, sulla vita, sul potere ingannatore dell'arte, sui diritti dei popoli a non più subire l'ipnosi del bello, che educa alla passività; una diagnosi sui danni devastanti provocati da una rivoluzione che può distruggere anche i valori più alti su cui si fonda la convivenza civile; un monito sui rischi dell'ignoranza; un inno straziante sulla distrazione dilagante, che impedisce di vedere la straordinaria bellezza della natura violentata dal consumismo; un lamento elegiaco sulla disumanizzazione del mondo, che riduce gli uomini a marionette e le marionette ad uomini; insomma, quanto più si coglie la profondità del messaggio, tanto più ci si accorge che ogni sua interpretazione è parziale e riduttiva.

Pasolini costruisce un pezzo di virtuosismo poetico eccezionale, portando pienamente alla luce il volto di Totò: surreale, astratto, ma sempre legato ad una dimensione di profondo lirismo; malinconico, come quello di tutti i grandi clown apparentemente ridicolo, ma insieme sempre profondamente triste. L'apologo si consuma nella cornice surreale e pirandelliana del racconto, con la splendida canzone composta e cantata da Domenico Modugno, che accompagna il destino delle povere marionette umane, fino a quando saranno rovesciate nella disca rica dell'immondizia, come esseri ormai non più utilizzati.

Il netturbino Modugno, che carica nel suo camion quei corpi inanimati fatti a pezzi dal popolo che non ha capito o non ha sopportato il sottile gioco della finzione artistica, e poi li rovescia tra l'immondizia di una  periferia, sembrerebbe Dio, che con la sua indifferenza e lontananza dalle vicende e dalle sofferenze umane, elimina quello che ha creato.

Su quel teatrino assurdo dove si sta recitando l'Otello, la vita si esprime e condiziona gli attori-marionette, che, come i sei personaggi pirandelliani, escono dal testo per parlare di se, fino alla frase che sembrerebbe tutto spiegare e ricomporre: "Siamo in un sogno dentro un sogno", alla domanda: "Che cos'è la verità?" e alla spiegazione psicanalitica del burattinaio, che, di fronte al comportamento incomprensibile di Desdemona, afferma risoluto: "A Desdemona piace essere ammazzata".

Totò, vestito e truccato da marionetta e da clown, recita la parte di uno Jago odioso, che però porta alla luce e rivela i suoi piani, senza paura ne pudore. È una maschera da clown che non è più Augusto, ma un triste clown bianco, lunare e buffo, anche antipatico, che non ha rinunciato ai sui tipici gesti, quelli di sempre (per esempio il portare in avanti la bocca con le labbra chiuse, mosse ripetutamente e accompagnate dalla parola "mosca", per dire "silenzio assoluto").

Questo spettacolo della vita e delle passioni, esibito come fosse una sceneggiata napoletana, bruscamente interrotto dal pubblico, ha il suo triste ed elegiaco epilogo con le due marionette, quella di Totò-Jago e quella di Otello-Ninetto Davoli, ormai accomunati nella stessa fine, che, immersi nell'immondizia, nonostante il loro così amaro destino, hanno il coraggio e la forza di guardare in alto, verso il cielo.

Il film si conclude con la frase di Totò, che à anche l'ultima, nell'ultimo fotogramma della sua vita di attore: "Straziante, meravigliosa bellezza del creato".  >Articolo correlato 3.3 Che cosa sono le nuvole<
http://www.antoniodecurtis.org/capric.htm


 

martes, 24 de noviembre de 2020

Scusate il ritardo - Massimo Troisi (1983)

TITULO ORIGINAL Scusate il ritardo
AÑO 1983
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (opcional) y Español (Separados)
DURACIÓN 109 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Massimo Troisi
GUIÓN Anna Pavignano, Massimo Troisi
MÚSICA Antonio Sinagra
FOTOGRAFÍA Romano Albani
REPARTO Massimo Troisi, Giuliana de Sio, Lina Polito, Franco Acampora, Olimpia Di Maio, Lello Arena, Luigi Uzzo, Nicola Esposito, Stefano Tosi, Ciro Di Mola, Valeria Veneruso
PRODUCTORA Yarno Cinematografica
GÉNERO Comedia

Sinopsis
Vincenzo, joven napolitano de carácter manso, y desempleado, se contenta con vivir como un parásito en la familia. Escucha las penas de amor de su amigo Tonino, y se enamora de Anna. (FILMAFFINITY)

Premios
1982: Premios David di Donatello: Mejor actor (Arena) y actriz (Polito) secundarios

 
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La trama del film Scusate il ritardo è molto semplice, a conferma della caratteristica fondamentale di questa storia: si tratta di un racconto, dove a farla da protagonista sono i dialoghi e le riflessioni di Massimo Troisi, con il semplice supporto tecnico delle riprese  a inquadratura fissa.

Nel film Scusate il ritardo, Massimo interpreta il personaggio di  Vincenzo, un ragazzo  che ricorda un po’ Gaetano, il protagonista di Ricomincio da tre. Entrambi napoletani, entrambi disoccupati/sottoccupati, sulla trentina, di famiglia tradizionale napoletana, entrambi estremamente timidi e timorosi nei rapporti con l'altro sesso.
Come in Ricomincio da tre, Vincenzo ha un amico "invasivo", Tonino, interpretato alla grande da Lello Arena: infatti, anche in quest' occasione, Lello riesce a dare il massimo nell'interpretare l'amico rompiscatole, "appiccicoso", pronto al "tocco e ritocco" continuo. Tonino è stato lasciato dalla sua fidanzata e scarica per tutto il film su Vincenzo tutto il suo dolore (nel caso, costringendolo ad ascoltare le sue lamentazioni anche sotto un temporale!).
Vincenzo s'innamora di Anna (Giuliana De Sio),un'amica della sorella, con la quale intreccia una complicata relazione; Vincenzo non riuscirà mai a comunicare alla ragazza i suoi sentimenti così come lei vorrebbe.
La loro storia va avanti fino a quando Anna, insoddisfatta da questo rapporto, non decide di lasciare Vincenzo.
Il film Scusate il ritardo termina con la preghiera di Vincenzo alla ragazza : " RESTA!".


Le critiche e i riconoscimenti per Scusate il ritardo

Il film Scusate il ritardo ha goduto di ottime recensioni ed è anche riuscito a conquistare importanti riconoscimenti.
La critica, non sempre generosa nei confronti di Troisi, ha complessivamente giudicato il film Scusate il ritardo come uno dei migliori tra quelli interpretati dal grandissimo attore-regista-autore napoletano. Per quanto riguarda poi i riconoscimenti, Scusate il ritardo conquistò ben due David di Donatello nel 1983: il primo per il migliore attore non protagonista con Lello Arena; il secondo,  per la miglior attrice non protagonista con Lina Polito. Ricordiamo che, in Scusate il ritardo, Lello interpreta il ruolo dell'amico di Vincenzo (Massimo Troisi), mentre la Polito è la sorella di Vincenzo.
 

Scene e frasi famose del film Scusate il ritardo

Cinquanta giorni da orsacchiotto
L'amico Tonino minaccia il suicidio per le sue pene d'amore. Sintetizza il tutto ponendosi delle domande, alle quali risponde Vincenzo con una delle battute più famose del film:
Tonino: "Meglio un giorno da leone? Meglio cento giorni da pecora? Meglio un giorno da leone!!!".
Vincenzo: "Che ne so io delle pecore e del leone? Fai cinquanta giorni da orsacchiotto, stai in mezzo, non fai la figura di merda della pecora e nemmeno il leone che campa un giorno".

Il regalo del televisore alla mamma                  
Massimo e la sorella Patrizia hanno deciso di regalare un televisore alla mamma in occasione del suo compleanno. Hanno però bisogno della partecipazione di Alfredo, il fratello benestante, per raggranellare la somma necessaria.
Si arriva a una delle battute di Massimo più celebri, e non solo di Scusate il ritardo:
Vincenzo: "Senti Alfredo, noi abbiamo pensato, tutti noi i figli, poiché venerdì è il compleanno di mammà, le volevamo fare un regalo tutti insieme e avevamo pensato di comprarle la televisione; sta sempre davanti alla televisione, i colori però... ; abbiamo pensato di farla tutti noi, Patrizia e…. mettevamo 5000 lire io, 5000 lire Patrizia e unmilioneedue tu!".
   
          
Consigli per il suicidio di Tonino
Tonino, sempre sofferente per essere stato abbandonato dalla fidanzata, brandendo un coltello fa credere di volersi ammazzare. Vincenzo, conoscendo bene l'amico non si preoccupa, e dice ad Anna che, preoccupata, sta andando a consolare Tonino:
"Se si dà una coltellata, se la desse a sinistra perché a destra ha il fegato che gli fa male!".

Il miracolo della Madonna
Il parroco viene a benedire la casa della famiglia di Vincenzo. La mamma ha acquistato un biglietto per andare in pellegrinaggio presso una non meglio individuata effigie di legno della Madonna, oggetto di culto perché avrebbe pianto. Un professore dell'Università di Napoli ha però chiarito scientificamente il fenomeno, giustificandolo con una variazione di temperatura.
Vincenzo non vuole accompagnare la mamma perché afferma che non gli va il pianto della Madonna.
Vincenzo: "Se la Madonna rideva, ci venivo".
Il parroco "Eh sì, la Madonna rideva!".   
Vincenzo: "Sempre miracolo è! Cioè una statua o ride o piange è sempre un miracolo. Uno va a vedere, secondo me è meglio pure per voi perché così il professore di Napoli si doveva stare zitto. Perché il legno può trasudare ma non ridere. Si è mai visto un albero o una sedia che per un improvviso cambiamento di temperatura l'albero: ah!ah!ah! (NDR si mette a ridere)?".
                 

Il massimo della solitudine
Vincenzo: "il massimo della solitudine: la macchinetta del caffè per una sola persona!".

Il ritiro del premio                                
Vincenzo accompagna il fratello al ritiro di un premio. Un tale, seduto vicino a Vincenzo, critica il fratello perché, dopo aver ritirato il premio, si è limitato a ringraziare e a salutare: "E' un attore, doveva fare almeno una battuta".
Vincenzo interviene a difesa del fratello: "E allora, allo scienziato premiato prima dovevano chiedere - Questo è il premio, per il pubblico inventi qualcosa!- "

Il tormentone del film Scusate il ritardo

Il tormentone del film Scusate il ritardo è rappresentato dalle tante uscite di Vincenzo causate dal suo complesso d'inferiorità in genere e in particolare nei confronti del fratello affermato Alfredo:
-si offende quando la sorella Patrizia lo presenta alla futura fidanzata Anna come "l'altro fratello";
-si presenta ad Anna sottolineando che lui era ben il terzo come merito a scuola, e dei due che lo precedevano (Cimmino e Balocco), uno era raccomandato;
-si offende perché la sorella gli chiede di aiutarla a "fare il letto", cosa questa che non chiede mai all'altro fratello;
-rimprovera alla sorella di minacciare la figlia dicendole "Ti faccio mangiare da Vincenzo!", ma solo perché non inserisce mai nella stessa minaccia il nome del fratello Alfredo;
-se la prende con la madre perché gli chiede di portare il pranzo al professore (la madre offre, a pagamento, vitto e servizi vari a quest'anziano condomino), ma non lo chiede mai al fratello Alfredo;
-si offende perché, quando squilla il telefono, al fratello i familiari domandano sempre se è disponibile a rispondere, cosa che invece a lui non viene mai chiesta.

Curiosità del film Scusate il ritardo

-le musiche del film Scusate il ritardo sono di Antonio Sinagra (in Ricomincio da Tre erano di Pino Daniele)
-la location della casa di Vincenzo è in via Andrea d'Isernia, numero 2; sulle scale che collegano questa strada a via Crispi avvengono i due maggiori  "sfoghi" dell'amico Tonino (il primo sotto una pioggia battente).

Intervista ad Alfredo Cozzolino su Scusate il ritardo

Quicampania: Scusate il ritardo è il secondo film che vede Massimo impegnato nella sceneggiatura, nella regia nonché nell'interpretazione del ruolo del protagonista. Anche in Scusate il ritardo Massimo si avvalse, nella creazione delle scene, del vissuto dei suoi amici?
Cozzolino: Si, anche nel film Scusate il ritardo, molte scene e molti personaggi traggono spunto dalle esperienze vissute; vorrei ricordare in particolare il personaggio del fratello, al quale Massimo diede non a caso il mio nome, Alfredo.
La mia era una famiglia numerosa e purtroppo già da alcuni anni avevamo perso nostro padre. All'epoca ero l'unico fratello "sistemato" con un lavoro sicuro; in casa mia c'era quindi una sorta di "rispetto" nei miei confronti dovuto, anche se non sempre accettato da tutti. E' un po’ la situazione che vede coinvolto Massimo con il fratello in Scusate il ritardo: nel film Massimo è un disoccupato trentenne, il fratello un attore affermato; Massimo più volte nel film sottolinea il diverso trattamento che la sorella e la mamma riservano a lui e al fratello. Non so se ricordate la scena della telefonata in Scusate il ritardo: Massimo e Alfredo in due diversi momenti manifestano il desiderio di negarsi al telefono; la richiesta viene accolta nel caso di Alfredo e non quando a farla è Massimo; ebbene questa scena trae origine da un fatto veramente accaduto: nel giro di pochi minuti, mia sorella passò una telefonata a mio fratello e non passò un'altra telefonata a me, pur avendo chiesto entrambi di non essere disturbati.
Anche la famosa scena del film Scusate il ritardo dell'acquisto del televisore trae origine da un episodio che si verificò a casa mia: nacque infatti l'esigenza di acquistare un televisore a  colori (uno dei primi)  per mamma: la raccolta dei soldi presso i miei fratelli fruttò a un totale di poche decine di migliaia di lire. A questo punto decisi di comprare l'apparecchio (costava più di un milione) con annessa antenna da solo: facendo apparire però a mamma che il regalo era di tutti.
Quicampania: Hai qualche altro ricordo di Scusate il ritardo?
Cozzolino: Simpatica è anche l'origine della scena del ritiro del premio. Nel film Scusate il ritardo, il fratello di Massimo, attore, viene invitato a una premiazione che si tiene in un grande albergo. Alfredo si limita a ritirare il premio e a ringraziare, senza aggiungere una parola o una battuta.
Ebbene, qualche mese prima ero andato a ritirare un premio per conto di Massimo durante una manifestazione all'Eremo del Vesuvio. Si aspettavano Massimo e invece arrivai io. Mi diedero il premio e si aspettavano almeno che interpretassi una piccola scenetta o che dicessi qualcosa: niente! Ringraziai e andai via!
http://www.quicampania.it/troisi/scusate-il-ritardo.html