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viernes, 31 de diciembre de 2010

EXTRA: Música > Tutto Fellini



Extra mes de diciembre: La música de las películas de Federico Fellini

Track list:
Tomados de: 
1993 Sony Music Entretainment (Spain) SA (EPC 474717 2)
Disc: 1 
1. LUCI DEL VARIETA’ / VARIETY LIGHTS music by Felice Lattuada 
2. LO SCEICCO BIANCO / THE WHITE SHEIK music by Nino Rota 
3. I VITELLONI / SPIVS music by Nino Rota 
4. L’AMORE IN CITTA’ / LOVE IN THE CITY music by Mario Nascimbene 
5. LA STRADA music by Nino Rota 
6. IL BIDONE / THE SWINDLE music by Nino Rota 
7. LE NOTTI DI CABIRIA / NIGHTS OF CABIRIA music by Nino Rota 
8. LA DOLCE VITA music by Nino Rota 
9. BOCCACCIO ’70 music by Nino Rota 
10. 8 1/2 / EIGHT AND A HALF music by Nino Rota 
11. GIULIETTA DEGLI SPIRITI / JULIET OF THE SPIRITS music by Nino Rota 
12. TRE PASSI NEL DELIRIO / SPIRITS OF THE DEAD music by Nino Rota 
13. FELLINI SATYRICON / FELLINI SATYRICON music by Nino Rota 
14. I CLOWNS the clowns music by Nino Rota 
15. ROMA FELlini’S ROMA music by Nino Rota 
Disc: 2 
1. AMARCORD music by Nino Rota 
2. IL CASANOVA DI FEDERICO FELLINI FELLINI’S CASANOVA music by Nino Rota 
3. PROVA D’ORCHESTRA ORCHESTRA REHEARSAL music by Nino Rota 
4. LA CITTA’ DELLE DONNE CITY OF WOMEN music by Luis Bacalov 
5. E LA NAVE VA AND THE SHIP SAILS ON music by Gianfranco Plenizio 
6. GINGER E FRED GINGER AND FRED music by Nicola Piovani 
7. INTERVISTA FELLINI’S INTERVISTA music by Nicola Piovani 
8. LA VOCE DELLA LUNA THE VOICE OF THE MOON music by Nicola Piovani 
9. A NINNO music by Carlo Savina

Enlace de descarga:

Parenti serpenti - Mario Monicelli (1992)


TÍTULO Parenti serpenti
AÑO 1992 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 105 min.
DIRECTOR Mario Monicelli
GUIÓN Carmine Amoroso, Suso Cecchi d'Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli
MÚSICA Rudy De Cesaris
FOTOGRAFÍA Franco Di Giacomo
REPARTO Paolo Panelli, Alessandro Haber, Marina Confalone, Pia Velsi, Monica Scattini, Eugenio Masciari, Tommaso Bianco, Cinzia Leone
PRODUCTORA Clemi Cinematografica
GÉNERO Comedia | Familia. Navidad

SINOPSIS Al llegar la Navidad, y con toda la familia reunida en casa, una pareja de ancianos comunica a sus hijos su deseo de pasar los últimos años de su vida con uno de ellos, al que transmitirían la mayor parte de la herencia. El problema es que ninguno quiere asumir esta responsabilidad. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Unir con HJ Split)
 
 
Si comincia come in Benvenuti in casa Gori. In provincia, fratelli e sorelle, sposati e qualcuno anche con prole, tornano per le feste di Natale nella cittadina in cui sono nati e in cui li aspettano i vecchi genitori. Prima sono tutti buoni, si amano, si scambiano doni, poi, come nel film di Benvenuti, svelano presto i loro lati negativi, soprattutto quando – e qui è la novità – la mamma li mette a parte del suo desiderio di chiuder casa e di andar a vivere, con il papà, insieme con uno di loro, a scelta. Le piccole cattiverie di prima sono niente rispetto a quelle che subito esplodono dopo una simile notizia; anche se la mamma ha promesso di dar parte della pensione al figlio o alla figlia che li accoglieranno, insieme con l’eredità della casa, ecco subito tutti pronti a trovare scuse, a dir di no e a rinfacciarsi reciprocamente un’infinità di torti: spiattellando spesso verità tutt’altro che gradevoli. Si arriverà comunque ad una soluzione, ma sarà addirittura, un... omicidio che, pur paradossale ed implausibile, tinge di nero quella che sembrava solo una commedia: trasformandola in una farsa crudele. Per raccontarcela, Mario Monicelli si è rivolto a un testo di un esordiente abruzzese, Carmine Amoroso, in cui però si è fatto coadiuvare da alcuni dei suoi collaboratori di sempre, Suso Cecchi d’Amico e Piero De Bernardi. Una trovata c’è che, anche all’inizio, trasforma un po’ lo schema di Benvenuti in casa Gori: tutto è spiegato da un bambinetto, figlio di una delle coppie venuta per Natale dai genitori e sia la presentazione dei personaggi, sia, in seguito, certi eventi, svelano spesso, così, dei succhi ironici che nascono proprio dall’ottica di un ragazzino incapace di leggere sotto le apparenze di quella famiglia e sempre perciò in contrasto ameno con quéllo che vede e quello che ci vien rappresentato. E sarà questo bambino, alla fine, continuando ad interpretare i fatti dal proprio punto di vista, a smontare – forse – con la lettura di un suo compito in classe quello che sembrava il “delitto perfetto” dei suoi parenti. Oltre a questo, superate certe stasi nella prima parte, dove la descrizione dello pseudo idillio familiare e natalizio inciampa un po’ nel ripetitivo, senza molti colori, non si può non annotare con attenzione, nonostante l’incresciosità del tema e il cinismo del finale, quel rapido mutare degli atteggiamenti di tutta quella gente una volta ascoltata la proposta della mamma: le battute sapide di dialogo, le psicologie adesso molto ben incise, il crescendo dei ritmi narrativi sempre in giusto equilibrio, grazie all’abile regia di Monicelli, tra l’ironia a freddo, dura fino al sarcasmo, e l’atroce gesto che prima si medita e poi si compie: in cifre che restano leggere anche quando precipitano quasi nell’orrore, con una comicità che non si spegne neanche quando suscita, d’istinto, repulsione. Certo, un film “cattivo” e verso la fine anche sgradevole, ma oltre ai pregi di un black humour all’italiana, lo sostiene quella descrizione della vita di provincia, ambienti, tipi, consuetudini, in cui Monicelli svela uno spirito di osservazione quanto mai caustico e graffiante, adeguando alle cornici uno stile che – grazie anche alle scenografie di Franco Velchi, ai costumi di Lina Taviani e, soprattutto, alla fotografia di Franco Di Giacomo – riesce a ridarci sempre tutti i colori e i sapori della piccola gente: con modi che, specie quando a vedere è l’occhio del bambino, riescono ad avere, nel loro cronachismo, perfino qualche tono favolistico (la processione notturna nella neve, ad esempio). Colorati, solidi, corposi tutti gli interpreti: Pia Velsi, specialmente, una madre quasi contadina che non si rende conto di nulla, Paolo Panelli, un padre ultraottantenne perso nei suoi vaniloqui e, più incisiva di tutti, Marina Gonfalone, nel disegno ora caricaturale ora beffardo di una delle figlie. Dà fastidio, ma non si può non ammirare, quel suo abile trascorrere in cucina dai fornelli al delitto: in climi compunti di funerale.
Gian Luigi Rondi
Da Il Tempo, 27 marzo 1992


jueves, 30 de diciembre de 2010

Il giardino delle delizie - Silvano Agosti (1967)

TITULO 
Il giardino delle delizie
AÑO 
1967
IDIOMA  
Italiano
SUBTITULOS 
Español, francés e inglés (Separados)
DURACION 
95 min.
DIRECTOR 
Silvano Agosti
GUION 
Silvano Agosti
PROTAGONISTAS 
Evelyn Stewart, Lea Massari, Maurice Ronet, Franco Bertoni. GENERO Dramático

Sinópsis 
Carlos y Carla están en viaje de bodas. Ella embarazada de tres meses, él, furioso por un matrimonio impuesto por la conveniencia, evoca el pasado y medita sobre "El jardín de las Delicias" de Hieronymus Bosch, querido por los surrealistas. Mientras ella tiene una hemorragia, él pasa la noche con una bella desconocida. Debut de Silvano Agosti, responsable también de la escenografía y del montaje, con un drama de corte psicoanalítico cercano más a Bergman y a Bellocchio que a Fellini. Solamente en parte logra adecuar los elementos expresivos al ambicioso tema de una represiva educación católica.
 

Film fuertemente censurado (18 minutos) en Italia. Vencedor del primer premio del público en el Festival cinematográfico de Pesaro (Italia), fue elegido como uno de los diez mejores films del año en la exposición Universal de Montreal en 1967. El jurado estaba compuesto por: Jean Renoir, Fritz Lang, John Ford, Glauber Rocha, Dusan Makaveiev y Monte Hellman.

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Il poetico Agosti gira nel 1967, in epoca precedente alla legge sul divorzio, questo suo primo straordinario lungometraggio incentrato sulle due notti susseguenti al matrimonio di Carlo e Carla, coppia ordinaria, apparentemente radioso prodotto di una vincente borghesia, allevata nel rigoroso rispetto delle convenzioni sociali e morali universalmente riconosciute.
Nel film emerge e deflagra il disagio esistenziale del protagonista, interpretato da un meraviglioso Maurice Ronet, vittima suo malgrado di una rigida educazione schizofrenicamente ambigua, che provoca nella sua psiche diversi nodi irrisolti.
Si tratta di un film molto complesso, personale e toccante, in cui ogni sequenza non è messa a caso, ma profondamente sofferta e pensata, in cui si assiste ad un continuo alternarsi di passato e futuro e di mondo fenomenico e immaginazione. Agosti, sin dal suo esordio, si dimostra un virtuoso del montaggio e riesce a comunicarci con esso, veramente, una miriade di messaggi…nel tentativo di parlare del film mi sono infatti dissolto nei sottili rivoli di senso a cui portano le sue fulminanti immagini, vero e proprio flusso di coscienza psichico e psicanalitico, materializzato in celluloide.
Il funambolico intreccio tra fantasia e realtà, tra reminescenze traumatiche dell’infanzia e immagini preveggenti della futura vita coniugale, ci mostra come la vita del protagonista sia in realtà sequestrata entro un percorso a priori preordinato e scontato, in cui egli è stato addestrato a “comportarsi come un cane da circo”, praticamente docilmente ammaestrato a camminare sulle zampe posteriori.
Centrale nel film è il tema del peccato e della conseguente punizione, che letteralmente ossessiona l’incolpevole protagonista, vittima di un’educazione spirituale fondata sulla pratica della repressione e sul permanente rinvio della soddisfazione del piacere. Ciò che emerge è il conflitto fra l’anèlito di libertà del singolo e le soffocanti gabbie (matrimonio, famiglia borghese, riti religiosi) che, incessantemente, il potere gli erige attorno.
Lo stile delle splendide inquadrature di Agosti è estremamente concentrato sul particolare, consapevole di come dalle impercettibili sfumature degli atteggiamenti fisici dei suoi personaggi e parallelamente dai loro occhi, vero e proprio specchio dell’anima, si possano cogliere molte più informazioni e verità, che dalle loro parole ormai svuotate di senso, in quanto inesorabilmente obbedienti a rituali e circostanze prefissati.
Uno dei temi che ha scatenato contro Agosti gli strali del potere religioso e politico, all’epoca dell’uscita della pellicola, è stato il mostrare una volta per tutte ed inequivocabilmente l’ipocrita binomio fra un atteggiarsi esteriormente sessuofobo delle istituzioni che presiedono all’educazione formativa del bambino (chiesa, scuola e famiglia), e la paradossale recondita pratica morbosa e violenta della sessualità stessa da parte di coloro che di quelle istituzioni sono esponenti e sostenitori (il padre che costringe la madre a un rapporto sessuale forzato e violento, il prete che dà a Carlo una carezza un po’ troppo ambigua subito prima di punirlo, la traumatica esperienza scolastica in cui Carlo subisce le avances sessuali del suo maestro…).
L’attacco frontale al matrimonio (e a tutte le convenzioni sociali e religiose che si porta dietro) è implacabile, nel ripercorrere gli impeccabili rituali viene selvaggiamente evidenziato l’elemento di insanabile frattura…il protagonista è ammalato di una malattia esistenziale, ormai incurabile, sicuramente causata dagli equivoci messaggi di una società repressiva, autoritaria ed ipocrita. Tenta di opporsi in molti modi, posseduto da una rabbiosa insofferenza, ma il suo coinvolgimento nelle maglie perverse del sistema è talmente avanzato che il suo destino è comunque ineluttabilmente segnato. La moglie, incinta di tre mesi, è invece ormai definitivamente un burattino del sistema, un’attrice perfettamente in parte nella sciatta banalità del quotidiano, che in ogni situazione rispetta le regole e i rituali prestabiliti…alla domanda innervosita di lui sul perché legarsi a doppio filo per tutta una vita…lei risponde candidamente “Carlo, io non lo so, ma se si è sempre fatto vuol dire che un senso c’è”. A tal proposito viene ad essere geniale l’utilizzo del rumore dello sciacquone guasto del water, come accompagnamento costante alla prima notte di nozze dei due sposini.
Magnetica ed enigmatica la figura della silenziosa donna coi capelli neri, d’aspetto antitetica alla bellissima bionda moglie, in realtà chimera di libertà, materializzazione della soddisfazione del famelico desiderio di Carlo, che si evidenzia in una pulsante sequenza in cui i due hanno un proibito e lacerante rapporto, “girato con affannosi primi piani su toni drammatici, quasi infernali”. La punizione non tarderà ad arrivare…(ma non la svelo per non rovinarvi la visione).
Altra mirabolante sequenza è quella della danza gioiosa e spensierata, al ritmo di un’ipnotica musica beat, dei giovani sulla spiaggia che viene intercettata da una irreprensibile processione. Il contatto tra i due mondi porta all’interruzione della danza da parte dei ragazzi alla ricerca di un qualche tipo di scambio comunicativo, mentre la processione continua ottusamente la sua marcia, e questo la dice lunga sul diverso grado di apertura mentale…
E ovviamente punto di partenza e di arrivo del film è “il giardino delle delizie” di Bosch, vero e proprio summa di tutto ciò che possono essere i rapporti umani.
 
 
Con il suo primo lungometraggio Il Giardino delle Delizie (conosciuto all’estero come Garden of Delights) il regista bresciano Silvano Agosti fece subito centro: realizzò un film maturo, fortemente influenzato da Bergman e dalla nouvelle vague francese, mantenendo comunque uno stile personale, non di mero richiamo delle grandi influenze a cui la sua idea di cinema si appellava. Lo stesso Bergman, il maestro, incoraggiò Agosti, l’allievo, a continuare a produrre film quando quest’ultimo era ormai quasi deciso a smettere, a causa della barbara censura italiana (o meglio, del Vaticano) che era stata applicata alla sua opera prima (quasi 20 minuti di scene tagliate).

Quello che il Vaticano non aveva capito, era che non era sufficiente tagliare qualche scena da un film del genere per cancellare il messaggio che Agosti intendeva dare; evidentemente non aveva compreso l’incredibile forza del film nel trasmettere l’idea del regista, un’idea di fallimento completo della morale cattolica e dell’insegnamento dei valori borghesi nell’educazione di un bambino a metà del Novecento. Il Giardino delle Delizie, nonostante la censura, contiene ancora scene fortemente anti-clericali, come quella del protagonista da bambino che, notando che il prete si è addormentato durante la confessione, gode nel confessargli i peccati più scabrosi; oppure la finta eucarestia (precedentemente rubata in chiesa) che il protagonista, sempre da bambino, somministra alla sorellina in una cantina buia e maleodorante, davanti ad una bambola crocifissa a sostituire Cristo (una scena analoga si vedrà qualche anno dopo in Mais ne nous délivrez pas du mal, di Seria).

Il Giardino delle Delizie prende il nome dal famoso quadro di Hieronymus Bosch, nel quale vengono illustrate tutte le disgrazie ed i patimenti dell’uomo. Il protagonista Carlo (Maurice Ronet – già star decadente della nouvelle vague in Le Feu Folle di Luis Malle del 1963), durante la sua prima notte di nozze con la novella sposa Carla (Ida Galli) medita sul dipinto sopracitato di Bosch. Concentrandosi in particolar modo su tre scene significative (Il sogno di Adamo, il peccato originale, la cacciata dall’Eden) Carlo evoca i ricordi della sua vita e si pone domande esistenziali sul suo matrimonio, domande che lo conducono inevitabilmente alla distruzione progressiva del suo ordine di idee.

Carlo non crede nel matrimonio, che vede come una cerimonia priva di senso: esso è stato fortemente voluto dai genitori e dalla sposa Carla, rimasta incinta accidentalmente. Inoltre non prova desiderio sessuale nei confronti della sua sposa: la sua gelida e perfetta bellezza gli provoca anzi repulsione, eccezion fatta nei casi in cui vede tale bellezza come suscitatrice di pensieri in contrasto con la morale comune (a Carlo viene improvvisamente una pulsione sessuale non appena si accorge che un ragazzino sta spiando le gambe della moglie da sotto il tavolo di un caffé). Ma per il resto delle volte Carla è quasi un essere inanimato per Carlo, un bellissimo quadro che però non gli suscita alcuna sensazione, come si capisce dalla scena in cui egli la guarda attraverso il buco della serratura della porta del bagno pur avendola a sua completa disposizione per tutta la notte.

Dal momento in cui Carla si addormenta dopo un malore, probabilmente causato dall’incedere della gravidanza, la notte diventa per Carlo un incubo interminabile, durante il quale egli vaga come un fantasma nella camera d’albergo, senza una meta né uno scopo; la sua occupazione principale sembra essere riparare il guasto allo scarico della toilette, che con i suoi gorgheggi gli impedisce di prendere sonno. Ronet è perfetto nel ruolo assegnatogli da Agosti: c’è qualcosa in lui, nel suo sguardo apatico e alienato, nei suoi movimenti svogliati, nella sua bellezza disfatta, che ricalca pari pari lo stereotipo dell’anti-eroe esistenzialista, tant’è che non stonerebbe affatto come protagonista di un romanzo di Sartre. La prova definitiva di ciò si può avere facilmente guardando la sua prova in Le Feu Follet.

Carlo trova un sollievo solo quando si sta già facendo mattina: insonne, esce dalla camera per fare due passi nel corridoio (un ambiente che ricorda da vicino l’hotel che Bergman scelse per Il Silenzio, con i suoi corridoi bianchi e i mobili art noveau) ed incrocia lo sguardo annoiato di una donna, che dorme nella camera di fronte alla sua. Introducendosi come un ladro nella sua stanza, la possiede senza dire una sola parola (Il Peccato Originale nella tavola di Bosch), mentre nella sua stanza la moglie Carla giace distesa sul letto come un corpo morto, silente ed immobile; sembra che durante la notte quella che doveva essere per Carlo e Carla la camera incantata della loro prima notte di nozze si trasformi invece nella camera ardente di una veglia funebre che riguarda entrambi (Carla per quanto riguarda il fisico, Carlo per quanto riguarda la mente).

Nel frattempo, nell’arco della notte, la mente di Carlo viene assalita dalle reminescenze della sua infanzia. Si ricorda innanzitutto i dettami dell’educazione catto-borghese che i suoi genitori gli hanno inflitto (lui stesso dice di essere stato “addestrato alla vita come si insegnano i cani a camminare”), i litigi in famiglia, le ipocrisie e le bugie dell’ambiente familiare, le ore passate a spiare i genitori in camera da letto con addosso un’inquietante maschera di Carnevale (un’anticipazione delle maschere che poi sarebbe stato costretto a portare anche da adulto?).

Gli vengono poi alla mente gli anni del collegio: le sberle ricevute dai preti ogni volta che si sottoponeva alla confessione, le molestie subite dai docenti. Agosti dispiega così una spietata critica della società catto-borghese di metà Novecento, mettendo in luce i mostri che fa nascere, alleva e cresce un sistema di valori ipocriti e ingiustificatamente rigidi come quelli della borghesia coadiuvati con l’educazione cattolica, che viene vista dal regista come strumento di repressione delle giovani menti. Si capisce facilmente che Il Giardino delle Delizie assume un forte rilievo anti-clericale e rivoluzionario nonostante la barbara censura applicata dal Vaticano.

Inevitabilmente, queste riflessioni esistenziali portano Carlo a meditare anche sul matrimonio con Carla; in un lucido sogno (o meglio incubo) ad occhi aperti, egli lo interpreta come l’ennesima imposizione dall’alto, da parte di un sistema che fin dalla nascita lo opprime, al punto che gli appare quasi come un rito di magia nera, con le fedi nuziali (simbolo del vincolo del sacramento cristiano) che diventano anelli incandescenti che marchiano per l’eternità le dita dei due sposi (tanto è vero che successivamente, quando in preda ad un raptus cercherà di possedere Carla, prima di spogliarla e di avventarvisi contro sfilerà la fede dall’anulare della moglie e la getterà a terra con rabbia).

Ultimo tassello dell’incubo di Carlo non può che essere la morte della moglie, abbandonata al suo destino nella sua alcova funebre, a fissare una siringa colma di un medicinale che stava preparando per lei il marito frantumarsi poco a poco fino ad esplodere, curiosamente proprio nell’attimo in cui ella spira definitivamente. Lui, Carlo, rientrando frettolosamente dopo un secondo amplesso con il corpo estraneo della donna della camera di fronte (si noti che anche l’atto sessuale sembra più una lotta, a sottolineare ancora una volta l’irrimediabile situazione di insoddisfazione della persona umana ne Il Giardino dell Delizie), manterrà per il resto della vita l’immagine del suo sguardo terrificante, a metà tra il rimprovero e la richiesta d’aiuto, che riempie gli ultimi secondi della pellicola rimanendo così indelebile anche negli occhi dello spettatore.

Tutto nel film è curato nei minimi dettagli. Oltre ai due attori principali, perfetti nel loro ruolo, anche gli attori secondari si distinguono per le loro interpretazioni. Si noti come Agosti diriga i suoi personaggi da farli trasparire tutti quanti malati del “mal di vivere” che angustia in primis Carlo e Carla: vuoi per la palese affettazione dei comportamenti di alcuni (il proprietario dell’hotel, i camerieri, il receptionist – d’altra parte come il receptionist del già nominato Il Silenzio di Bergman), vuoi per l’approccio perennemente insoddisfatto e arrendevole all’esistenza di altri (la donna senza nome che si fa prendere due volte da Carlo senza dire una sola parola), vuoi per la cieca inconsapevolezza della tragicità di un futuro già segnato (Carlo da bambino). Tutti quanti sembrano afflitti da quella che Alberto Moravia in un suo noto romanzo ribattezzò “Noia”.

Uno degli elementi migliori del film è la fotografia in bianco e nero che appare elegante, sublime, addirittura magistrale, debitrice dei lavori di Bergman e della nouvelle vague francese (Godard su tutti); sembra essere presa pari pari dai lavori del maestro, con i suoi bianchi infiniti ed i suoi sporadici neri densi di peccato e dannazione. Per finire, anche la colonna sonora di Ennio Morricone si adatta perfettamente al tipo di film, trasportando lo spettatore ora sulle corde dell’angoscia esistenziale e dell’alienazione del protagonista, ora sottolineando l’inconsistenza e l’irrealtà delle cose che lo circondano.
https://bmoviezone.wordpress.com/2010/11/05/il-giardino-delle-delizie-1967/
 

 
 

miércoles, 29 de diciembre de 2010

Dieci Inverni - Valerio Miele (2009)


TÍTULO Dieci inverni
AÑO 2009 
IDIOMA Italiano

SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACIÓN 99 min.
DIRECTOR Valerio Mieli
GUIÓN Valerio Mieli
MÚSICA Francesco De Luca, Alessandro Forti
FOTOGRAFÍA Marco Onorato
REPARTO Isabella Ragonese, Michele Riondino, Glen Blackhall, Sergei Zhigunov, Sergey Nikonenko, Liuba Zaizeva, Alice Torriani, Sara Lazzaro, Francesco Brandi, Luca Avagliano, Francesca Cuttica, Roberto Nobile, Luis Molteni, Vinicio Capossela
PRODUCTORA Coproducción Italia-Rusia; Centro Sperimentale di Cinematografia / Rai Cinema / United Film Company (UFC)
GÉNERO Comedia | Comedia romántica

SINOPSIS Es el invierno de 1999. Un barco atraviesa los canales de Venecia. Camilla, de 18 años, acaba de llegar a la ciudad para estudiar literatura rusa. Silvestro tiene la misma edad que Camilla, y también acaba de llegar a Venecia. (FILMAFFINITY)


Quando l'inverno cerca di fare rima con le anime gemelle
A Camilla e a Silvestro ci vogliono dieci anni per capire che sono anime gemelle. Dieci incontri occasionali e fugaci sempre in inverno, il più delle volte in una Venezia marginale, nebbiosa e piovosa, qualche volta in una Mosca coloratissima dove Camilla si è trasferita per perfezionare i suoi studi di slavistica e dove ha trovato il tempo di intrecciare una relazione con un russo.
A priori una trovata. Che difatti ha fatto entrare subito il soggetto tra i finalisti del Premio Solinas. L'ha portato poi sullo schermo Valerio Mieli esordendo nel lungometraggio ma già con vari corti al suo attivo dopo studi di cinema a Roma e a New York e una laurea in filosofia.
Due personaggi ben disegnati al centro. Camilla, in arrivo dalla campagna, all'inizio un po' timida e impacciata, Silvestro, più intraprendente ma, come lei diciottenne. frenato dall'inesperienza anche se gliela riscaldano presto quei sentimenti che comincia a provare per l'altra, ancora incerto, sulle prime, se definirli amore.
I capitoli si susseguono. In primo piano il lento, progressivo dipanarsi degli atteggiamenti di entrambi nei reciproci confronti. Fra attrazioni, ripicche, equivoci, fraintendimenti e a un certo momento anche distacchi. Attorno oltre a figure minori di amici e conoscenti, mai però secondari e, quelle cornici naturali che danno il titolo al racconto: degli inverni che suggeriscono via via scorci veneziani sempre diversi, del tutto insoliti comunque, e che finiscono per proporsi come un vero e proprio personaggio, non meno importante del duetto al centro. Il grigio, la pioggia, l'acqua alta, solo di sfuggita piazza San Marco, perché il resto spazia soprattutto fra calli periferiche e canali fin qui ignorati dal cinema.
La cifra è l'amore. Cova, incombe, via via si propone finendo, ma solo da ultimo, per farsi accettare. Senza nessun sentimentalismo, però (intenzionalmente tutti quegli sfondi veneziani si sottraggono a climi romantici). Mentre, analizzate da vicino, si evolvono sempre in modo sommesso le psicologie dei due. Con accenti sospesi, delicati, trattenuti. Rifuggendo da ogni possibile effetto. Le ricreano, e le manifestano, due interpreti che meritano l'applauso, Isabella Ragonese e Michele Riondino. Il cinema italiano che vince. Con i giovani.
Gian Luigi Rondi
da Il Tempo, 13 dicembre 2009

martes, 28 de diciembre de 2010

Malizia - Salvatore Samperi (1974)

TÍTULO 
Malizia
AÑO 
1974 
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
Español (Separados)
DURACIÓN 
98 min.
DIRECTOR 
Salvatore Samperi
GUIÓN 
Salvatore Samperi, Ottavio Jemma, Alessandro Parenzo 
MÚSICA 
Fred Bongusto
FOTOGRAFÍA 
Vittorio Storaro
REPARTO 
Laura Antonelli, Turi Ferro, Alessandro Momo, Tina Aumont, Lilla Brignone, Pino Caruso, Angela Luce, Stefano Amato, Gianluigi Chirizzi, Grazia Di Marzà, Massimiliano Filoni
PRODUCTORA 
Clesi Cinematografica / Dino de Laurentiis Cinematografica
GÉNERO 
Comedia. Drama | Erótico

Sinópsis
Una dama ha muerto dejando viudo y tres hijos. Poco después del entierro, aparece una bellísima mujer que solicita empleo en la casa de la difunta... (FILMAFFINITY)
 
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Dopo le dissacrazioni di Grazie zia e Cuore di mamma, Salvatore Samperi torna ad occuparsi della famiglia; e dei ricordi dell’infanzia. In una cornice siciliana, però, che sembra tolta a qualche romanzo minore di Vitaliano Brancati e a qualche novella solo giocosa di Ercole Patti. Un padre vedovo e tre figli, un bambinetto, un ragazzo, un giovanotto. A ridar vita alla casa arriva una domestica giovane e carina; il padre se ne innamora e vuol sposarla, il figlio giovanotto ci va per le spicce ma ne riceve solo schiaffi, il ragazzetto sospira, offre rose, si abbandona a giochi viziosetti e qualcosa raccoglie, soprattutto perché l’altra ha capito che è il solo modo per tacitarlo ed averlo alleato. Alla fine, così, vincerà il padre (e la domestica) e tutto si risolverà in un matrimonio rispettabile.
Uno scherzo, dunque, e sugli amori ancillari, che però, non si tiene sempre nel dovuto equilibrio fra i toni ameni della commedia, (i più diffusi), e quelli, meno insistiti ma petulanti, del drammetto sentimentale.
Soprattutto all’inizio, infatti, di pari passo con la descrizione quasi farsesca di quella famiglia borghese siciliana, si tentano ricerche psicologiche, analisi di caratteri, studi di comportamenti che, oltre a contraddire spesso, con i loro accenti romanzati, quell’ironica atmosfera familiare, rallentano il ritmo dell’azione, ne attenuano la scioltezza, ne smorzano la disinvoltura, accogliendo poi, in un contesto che aspirerebbe ad esser sempre amabile e leggero, delle notazioni, dei preziosismi che vi suscitano discrepanze inutili: di gusto, di stile. (Come, ad esempio, la scena d’amore fra la domestica e il ragazzetto che si svolge, in una notte di temporale, sulle lane sparpagliate di materassi in via di rifacimento, in un’oscurità interrotta solo a tratti dal bagliore dei lampi e dalla luce di una lampadina tascabile).
La parte centrale del racconto, tuttavia, soprattutto quando cominciano ad essere descritte in chiave di satira le reazioni di quel quartetto familiare nei confronti della nuova venuta, propone spesso motivi vari d’allegria, vuoi nel disegno non di rado addirittura caricaturale di questo o quel personaggio, vuoi nello svolgimento di alcune situazioni che giungono ad imporsi in una cifra non lontana dal “grottesco” per certi loro guizzi semiseri, certi loro toni graffianti, spigolosi; cui nuoce soltanto un puntiglioso, costante richiamo all’erotismo di moda, qua e là riscattato, comunque, da un sospetto di beffa, di canzonatura.
I protagonisti sono Laura Antonelli nel carattere non sempre molto definito della domestica (il suo piano per farsi sposare non è precisato del tutto, è solo accennato, fatto intuire), Turi Ferro, un vedovo un po’ troppo vernacolo ma solido e concreto, Alessandro Momo, il ragazzetto.
Di gusto fervido e pittorico la fotografia di Vittorio Storaro, tenuta tutta su tinte un po’ fumose, rosso-cupe, giallo-scure, di singolare derivazione fiamminga, barocca. Lietissime, ammiccanti le musiche di Fred Bongusto.
Gian Luigi Rondi
Da Il Tempo, 31 marzo 1973 
 
***
 
Esta comedia dramática fue una de las películas clave para que Laura Antonelli se convirtiese en una de las principales sex symbols europeas de los años 70. Laura arrebata con sus estupendas formas a la familia La Brocca, una panda de voyeurs de distintas edades ávidos de contemplar (y palpar) curvas femeninas.
Es una historia de iniciación, coerción y deseo sexual que explota sin demasiada imaginación el innegable atractivo de Antonelli como objeto de fantasía masculina, alcanzado en el clímax “de linterna” su máximo esplendor físico-erótico y el auge de su base voyeurística.
La fotografía de Vittorio Storaro otorga un trato refinado a la estética de un film narrado con cierto estilo por Salvatore Samperi.
Tras el triunfo en taquilla, Laura Antonelli y Alessandro Momo repitieron protagonismo con dirección de Samperi en “Me Gusta Mi Cuñada”.
https://www.alohacriticon.com/cine/criticas-peliculas/malicia-malizia-1973/ 
 
 
L’altra sera mi sono rivisto Malizia il film con Laura Antonelli a regia di Salvatore Samperi (1973) di cui lo stesso Samperi ne è l’ideatore: suo è il soggetto e ha collaborato alla sceneggiatura. Ecco in rete un commento, tra i molti che si possono trovare: “Ottima la visione, restaurata, film sopravvalutato, per i parametri di oggi fiacco e privo di malizia, appunto. Oggettivamente molto datato, da vedere per la presenza di Momo, morto di lì a poco. La Antonelli è brava ma oggi le sue nudità fanno ridere…”.

Il nostro commentatore ha detto tutto? Forse no, ed allora permettetemi di esternare alcune mie considerazioni su questa pellicola. Partirei dal riferimento di Wikipedia: “commedia sexy all’italiana” e precisa fu la pellicola che consacrò l’attrice istriana (la città natale della Antonelli - Laura Antonaz - è Pola) come icona erotica nazionale.

Essere un icona sexy negli anni in cui i film che trattavano i temi dell’erotismo, della sessualità e che vedeva in ogni provincia italiana dei “covi” espressamente preposti per pellicole a luci rosse, non è cosa banale. E questa è una prima osservazione. Oltre a ciò aggiungo che nello stesso anno una delle due opere che superò negli incassi il film di Samperi (in Italia) fu L’ultimo tango a Parigi di un certo Bernardo Bertolucci dove brillava Marlon Brando e in cui salì alla ribalta Maria Schneider; quest’ultima a soli vent’anni entrerà nella storia del cinema internazionale per la famosa scena di sesso anale. Laura Antonelli quando interpretò Angelina, in Malizia, di anni ne aveva 32, e per molti anni a seguire anni rimarrà nell’immaginario italico come fantasia erotica. Per la cronaca il film che fece più incassi quell'anno fu Il padrino: salire sul podio in quell’anno non sarebbe stato agevole per nessuno e Malizia ci riuscì.

Successo momentaneo? Direi di no, sempre Wikipedia precisa che i dati aggiornati a fine 2016 vedevamo il film di Salvatore Samperi quale l’undicesima pellicola più vista di sempre del cinema italiano a partire dal 1950. Malizia quindi non può essere considerata una pellicola “buttata lì” e i nudi della Antonelli più che ridere forse stuzzicano, e lo fanno a distanza di decenni.

Questo lavoro forse merita un approfondimento. Che immagine di donna emerge da questa sceneggiatura in piena epopea di femminismo? Siamo negli anni dell’emancipazione e l’aspetto è di un qualche interesse. I dialoghi, ad un primo veloce analisi, lasciano intendere una visione poco edulcorata delle donne. Porceddu (Stefano Amato) l’adolescente amico di Nino, riferendosi alla propria sorella Luciana afferma testualmente: “Perchè è puttana, tutte puttane sono,... no?”. Lo stesso Nino, (Alessandro Momo, l'adolescente protagonista del film) riferendosi alla sorella di Porceddu rincarerà la dose, in un alterco con l’amico: “... tu e quella gran vacca di tua sorella”! Interessante notare la reazione della giovane che ascoltava con le mani appoggiate alla spalle di lui in un tentativo di giovanile seduzione.

La ragazza si limita ad esclamare “Ahh!” e il tutto finisce li, con uno sguardo della smaliziata ragazza che esprime quasi un senso di compassione per il giovane; la sberla che ci si poteva attendere e che mi sarei sicuramente preso io se mi fossi permesso una simile affermazione con qualsiasi delle mie "amiche" non c’è stata! Non meno dolce è il dialogo che Nino ha con Angelina quando le da della "puttana," per essersi spogliata nonostante avesse compreso ci fosse anche Porceddu che ne osservava la sua nudità dal lucernario. Non entro nei dettagli, ma la povera Angelina fu obbligata allo strip-tease proprio dal giovane. Angelina quindi prende della puttana da chi l'aveva costretta a spogliarsi.

Messe così queste testimonianze parlano di donne viste come delle “troie”, e in un film che si presenta come erotico la cosa non deve stupire, fossero tutte delle “suore caste e pure” la trama ne avrebbe risentito. Al di là di questi dialoghi la realtà è che tutte, e dico tutte, le figure femminili proposte, alla fine giocano con i maschi come il gatto fa con i topi e muovono gli uomini come dei burattini, sfruttando la loro avvenenza e magari appagando i loro appetiti. “...il più bel culo di Catania” era in dote alla vedova Corallo (Angela Luce). Questa donna ha voglia di sentirsi giovane e non teme di giocare le sue carte anche con un minorenne, Nino; in uno degli ultimi dialoghi svoltosi durante il matrimonio di Angelina, si intuisce che le sue trame molto probabilmente hanno avuto per lei l’esito sperato. Anche la sorella di Porceddu, Luciana (Tina Aumont) sa quel che vuole e getta le sue esche con leggiadria.

Nino non sa coglierle ma è il ragazzo che si dimostra impacciato, non Luciana che vive le sue pulsioni con spensieratezza. La figura di Luciana non è per nulla eccessiva, al contrario vive con serenità e naturalezza la sua giovinezza al contrario di Nino che palesa tutte le contraddizioni dell'adolescenza. E il tema di come gli adolescenti vivono con stati d'animo tormentati il germogliare della sessualità è un altro degli aspetti trattati dal film. Non va dimenticato infatti che è Nino il vero protagonista della pellicola, un adolescente, e tutta la trama del film altro non è se non il percorso che il giovane compie nel mettere a fuoco che Angelina, aspirante moglie del padre rimasto vedovo da poco, è il suo oggetto di desiderio.

Laura Antonelli è Angelina, una serva che conscia del suo fascino decide di sfruttarlo per accasarsi con un borghese benestante e di prestigio, Ignazio la Brocca (Turi Ferro). Anche lei riesce in pieno nel suo progetto, nonostante il suo piano sia ostacolato dalla infatuazione del figlio di Ignazio, Nino per l’appunto, che por tutto il film ne ostacolerà l’esito, sino a capitolare. Angelina cederà alle richieste dell'adolescente, ma l’amplesso che metterà tutti col cuore in pace, lei, Nino, Ignazio e gli spettatori della pellicola che aspettavano il gran colpo finale, è di fatto una sorta di stupro che lei impone al ragazzo. Anche in questo caso quindi la donna non ne esce sconfitta, anzi si potrebbe quasi dire che finisce per essere una prevaricatrice. E' questa però una sorta di rivincita di Davide verso Golia, Angelina era sempre stata corretta con tutti gli appartenenti della famiglia e agli occhi dello spettatore i soprusi che Nino aveva imposto alla donna meritavano forse una contropartita.

L’ultima figura femminile che il film disegna e di cui non ho ancora opinato è la madre di Ignazio, (Lilla Brignone) che seppur essere la sola a non proporre aspetti legati alla seduzione e non esibire parti del corpo è l’unica che un uomo da bar definirebbe con un epiteto ben preciso, a causa della sua antipatia. Anche lei è una prevaricatrice e il suo bersaglio preferito pare essere il figlio Ignazio che viene deriso e reso una sorta di zimbello di fronte a tutti i membri della famiglia. Non esita a farsi scarrozzare stando seduta sulla sedia portata a peso dai parenti e taccia Angelina con il vocabolo “serva”! pronunciato a più riprese sempre con timbro di assoluto disprezzo. E’ l’unico momento in cui emerge una visione politica, una visione in cui la società è divisa in classi e che un borghese vada ad “impegolarsi” con una domestica è visto dall’anziana signora come palese perdita di prestigio e simbolo di decadenza: una sconfitta sua e per l'intera famiglia, forse un segno di degrado sociale! Ecco il dialogo testuale che la capofamiglia esprime ad Ignazio: “Ci vuoi fare i tuoi comodi… e fatteli! Una serva pure a questo serve, da che mondo è mondo…” e via nel esternare il concetto che io riassumo, usando un linguaggio estraneo al film in "te la vuoi scopare, e fallo, ma poi rimandala al lavoro"!

E’ questo se vogliamo l’unico momento in cui una donna viene vista come “essere inferiore”, ma, come spiegato, è un'altra donna a tracciare un simile ritratto ed è quest'ultima l’unica figura femminile che non vive con positività la sessualità (anche perchè anziana). Alla fine si potrebbe dire, ma è una mia interpretazione, che chi non fa sesso finisce per inacidirsi. Per altro costei è l'unica donna che la trama del film designerà come perdente perché Angelina sposerà chi voleva sposare. E gli uomini come sono visti? Ignazio è un tontolone, e il figlio maggiore non pare essere molto meglio. Porceddu e Nino sono due adolescenti che cercano di capire come muoversi nel mondo del sesso e non pare abbiano le idee chiare mentre l'unico senza malizia è il fratello più piccolo di Nino. La malizia quindi è parte delle pulsioni sessuali.

Tirando le somme la donna è una figura che si emancipa grazie al proprio fisico ed alla propria capacità di sedurre. Questo da lei potere e se lo sa fare vive serena e anche felice. Nulla di sessantottino quindi, anzi, direi l'esatto contrario perchè se per vivere bene una donna deve sfruttare la sua avvenenza va da sè che quando questa se ne va, le cose si complicano. La frase "le donne son tutte puttane" a ben guardare quindi è solo uno stereotipo posto in essere da chi, i maschi, finiscono per essere succubi del fascino femminile e ne diventano i loro giocattoli.

Altri aspetti paiono a me interessanti ed emergono da questa pellicola oltre al già citato tema della sessualità adolescenziale che merita una parentesi: ai giorni nostri chiunque cerchi di corteggiare una sedicenne viene visto come un pedofilo, mentre qui il giovane Nino può essere associato ad un ragazzo quattordicenne, e ripeto, la scena dell’amplesso è da lui subita, dopo che con i suoi ricatti l’aveva "provocata". E' quindi trattato, sempre in modo velato, anche il tema della violenza, questa volta di una donna nei confronti di un uomo, peggio, si direbbe, di un minorenne.

Questo aspetto però è ben intrecciato ad un altro, ovvero che nel film c’è un rapporto di dominazione posto in essere da parte del giovane nei confronti della ragazza. Oggi il tema della dominazione ha una sua sigla bdsm, nel film di Samperi emerge come i ricatti e gli obblighi, anche le menzogne, facciano parte del gioco sessuale e siano strumenti indispensabili per raggiungere dei fini. Abbiamo scritto sopra che nel film sono le donne che tirano le fila, e la tradizione vuole che siano le persone mature a governare chi è inesperto, ma qui è il minorenne che costringe al suo volere e piega ai suoi ricatti l'avvenente ragazza. Tutte le scene “piccanti” sono in realtà volute e orchestrate dal giovane che si fa guidare dalla sua fantasia e dalla sua energia adolescenziale.

L’ultimo aspetto che traspare è quello di una sorta di leggero complesso di edipo, perché, alla fin fine pur se non legati da rapporto di sangue, ma il giovane si accoppia con quella che dovrà chiamare mamma. Mi si permetta di aggiungere una ulteriore annotazione, la sensazione che si ha osservando il film è che l’interesse sessuale sia favorito dalle chiacchiere. Mi spiego, ad attirare l’attenzione di Nino sul fondoschiena della vedova è la frase del fratellino piccolo. Incuriosito andrà a focalizzare e ciò produrra delle conseguenze. E sempre su istigazione di Porceddu che il giovane va a osservare di nascosto la nudità di Luciana, e sono gli interessamenti del fratello maggiore, del padre e dell'onnipresente Porceddu nei confronti della donna di casa che spingono Nino a concentrare le sue attenzioni sulla cameriera la quale lo stregherà con la sua avvenenza confermando le chiacchiere e l'interessamente che la vedevano protagonista.

E' come se il desiderio si nutra anche delle azioni e delle opinioni di chi ci circonda. Voglio qui esprimere il concetto uscendo dalla trama del film... Laura Antonelli era una bella donna anche prima che uscisse questa pellicola, ma le chiacchiere e l'attenzione generale che questo film ha suscitato ha contribuito a rendere quel corpo uno di corpi più ambiti della nostra penisola. Se prima molti non l'avevano notato l'interesse generale ha contribuito a caricarlo di pàthos e da bella donna, come ce n'erano a milioni nel nostro paese è diventata l'icona erotica in assoluto. Nino si fa contagiare dall'interesse del fratello e del padre per Angelina, coinvolgendo lo spettatore nel suo percorso di ricerca. Chi osserva il film viene coinvolto dall'evolversi dello stato d'animo del giovane e tifa per lui sperando che riesca a far spogliare la donna: non è più Nino che vuole far spogliare la donna, sei tu che osservi che speri questo accada. E' in quest'opera di immedesimazione che sta la grandezza della pellicola, non in altro.

E qui mi pongo un dilemma, se ogni maschio eterosessuale tifa per l’adolescente e vive come una liberazione l’amplesso con la Antonelli, una donna come potrà vivere la visione di questa pellicola? Qui non ho una risposta. La sensazione è, ritornando ad uno dei punti iniziali, che questo film sia "un prodotto" per gli uomini e che percorra un sentiero dove le donne (e gli uomini) seguono degli stereotipi ben definiti.

Ancora due osservazioni e poi vado in chiusura. Molte sono le situazioni di voyeurismo, Nino, Porceddu, il fratello maggiore e il papà cercano di vedere le virtù di Angelina che le cela quasi sempre non solo ai loro occhi, ma anche a quelle dello spettatore. Le scene di nudo totale sono molto rare e molto brevi, stuzzicando l’immaginazione dello spettatore soprattutto con l'attesa. Oltre al  voyeurismo vi sono scene riconducibili al feticismo: Nino La Brocca nella scena più scabrosa del film obbliga Angelina a togliersi le mutandine ed a consegnarle. Non si vede nulla e il tutto si risolve nel passaggio dell'indumento intimo che dalle gambe della ragazza si trasferisce alle mani del ragazzo. La parte protetta dalla lingerie non sarà vista dallo spettatore.

Riassumendo in Malizia le scene di sesso esplicito latitano, ma tutta la trama ha aspetti che stuzzicano l'appetito maschile. Da notare che Samperi si attivò affinché fosse Laura Antonelli la protagonista della sua opera riuscendo a resistere alle pressioni del suo produttore che avrebbe voluto la più nota (allora) Mariangela Melato. Non vi è controprova ma ritengo la Antonelli fosse la figura più idonea per interpretare il ruolo di Angelina grazie al suo suadente timbro di voce, determinante a mio avviso.

Malizia non è quindi un capolavoro di recitazione, non è un dipinto politico, sociale, economico dell’epoca; non descrive la realtà siciliana. Non ha dialoghi di grande intensità o degni di nota. E’ un film che vuole dare dello svago e che vuole stuzzicare le fantasie maschili. A mio avviso ci riesce bene. Lo volessi paragonare ad un vino direi che è un prosecco, una bevanda leggera che si prende prima di un pasto importante e che si apprezza per la facilità con cui si consuma. Per cenoni o eventi capitali ci sono altri vini, più impegnativi. Mi trovo quindi in totale disaccordo con l’opinione espressa in apertura di articolo e se questo film meriti la posizione di undicesimo più visto non ho la competenza ed il bagaglio per sostenerlo, che però questo film sia associato alla saga dei Pierini con Alvaro Vitali o ad altre pellicole dove la Fenech o la Rizzoli stuzzicano il pubblico con una semplice doccia mi disturba: non bisogna confondere il prosecco con il barolo, ma rimanendo nella similitudine neppure il vino con l’acqua. Sono cose differenti e da buon veneto ed ex alpino questo lo devo sottolineare!

Mirco Venzo, Treviso 26/11/2020 #qzone.it
http://www.qzone.it/index.php/q-movies/706-malizia-di-samperi

 

 

lunes, 27 de diciembre de 2010

La Bella Vita - Paolo Virzi (1994)

TITULO 
La bella vita
AÑO 
1994
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
No
DURACION 
92 min.
DIRECCION 
Paolo Virzì
GUION 
Francesco Bruni, Paolo Virzì
FOTOGRAFIA 
Paolo Carnera
ESCENOGRAFIA 
Attilio Caselli
VESTUARIO 
Maria Giovanna Caselli
MUSICA 
Claudio Cimpanelli
MONTAJE 
Sergio Montanari
PRODUCCION 
Time International
GENERO 
Comedia
PROTAGONISTAS 
Claudio Bigagli, Sabrina Ferilli and Massimo Ghini

Sinópsis 
Storia di un triangolo sentimentale nella Piombino del 1992: lui è un cassintegrato delle acciaierie con velleità d'imprenditore, lei commessa di supermercato con pruriti alla Bovary e l'altro un fatuo imbonitore televisivo. Ci sono pulizia descrittiva nell'analisi del malessere – antropologico e culturale prima che sociale – del ceto operaio che ha smarrito la propria identità, un trio di attori che funzionano, comprimari con le facce giuste, ma anche una certa mancanza di energia narrativa, visibile specialmente nella ricerca annaspante di un finale
 
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La bella vita sottolinea la duplice valenza della narrazione fin dal titolo. Fare la “bella vita” è un modo di dire popolare che sottintende un’esistenza priva di preoccupazioni. Per l’opinione pubblica chi, come Bruno, è in cassa integrazione e non lavora, percependo ugualmente parte dello stipendio, è uno che conduce una ‘bella vita’. Così come Mirella, scegliendo di diventare la compagna del noto presentatore locale, non può che avere optato per una ‘bella vita’. Virzì ci dimostra che non è così e per raccontare la sua storia decide di ambientarla, in modo non casuale, a Piombino. Sull’“Enciclopedia della geografia-Compact” , edita da De Agostini, alla voce Piombino si legge quanto segue: “Città (comune di 13O,13 km2   con 39.OOO abitanti), 81 km a SE del capoluogo Livorno, a 21 m all’estremità meridionale del promontorio omonimo di fronte all’isola d’Elba, con la quale è collegata da regolare servizio di battelli. I suoi grandi impianti siderurgici ne fanno uno dei centri più importanti della lavorazione del ferro. Agricoltura, pesca. È l’antica Falesia, porto di origine romana. “ Queste brevi note consentono di comprendere come la scelta dello sceneggiatore-regista sia efficace. In un luogo solo si possono concentrare più elementi utili alla narrazione. Piombino è una città di antiche tradizioni culturali che ha vissuto nel suo tessuto sociale, in modo più profondo che altri luoghi, le lacerazioni prodotte dalle profonde modificazioni dell’industria. La classe operaia locale, all’avanguardia da sempre nelle lotte sindacali (famosa la proclamazione di un ‘soviet’ in occasione dell’attentato a Togliatti), ha subìto forti contraccolpi dalle riconversioni degli impianti. La   cittadina   però   sorge   sul   mare   e   ha,   seppure   in   misura   molto   ridotta, un’attività di tipo turistico. L’isola d’Elba, che le sta di fronte, può diventare il luogo classico da cui partire e a cui fare ritorno per la protagonista Mirella. È in questo contesto che Virzì racconta la storia del ‘farsi’ e del ‘disfarsi’ di una coppia, senza mai dimenticare il contesto sociale facendo abilmente ricorso alla voce narrante di Bruno. È una storia di licenziamenti e di trattative,   di   scioperi   che   non   arrivano   a   ottenere   i   risultati   sperati   e   di giapponesi che ‘insegnano’ come ottimizzare la produzione. La sceneggiatura si muove costantemente in equilibrio tra cronaca e racconto anche se è la prima a costituire una sottotraccia che, apparentemente tenuta ai margini, si interseca nel racconto commentandolo facendo sapiente uso di incisi. Nel contesto provinciale e operaio in cui Bruno e Mirella vivono, la televisione ha un peso determinante. Si osservino in proposito (oltre all’evidente ‘peso’ assunto dal personaggio di Gerry Fumo) le occasioni in cui il televisore compare e le reazioni degli astanti. Illuminante in proposito (quasi una sorta di ‘morale’ del film) la battuta della sindacalista che afferma che una volta l’operaio si cantava nelle canzonette mentre oggi fa calare l’audience in tv. Quella che emerge in modo netto è la perdita dell’identità e dell’orgoglio di classe. Ciò che resta ben ferma è la coscienza del fatto che il mondo sta cambiando è non si lascia costringere entro chiavi di lettura precostituite. Tutto ciò si riflette nel percorso che Bruno compie all’interno del suo ‘privato’. Troppo concentrato sui calcoli per la liquidazione per accorgersi della relazione iniziata dalla moglie prima.   Troppo   sofferente   poi   quando   la   relazione   di   Mirella   con   Gerry   fa esplodere la convivenza matrimoniale procurandogli un attacco cardiaco. Nel sottofinale sono in due a tentare di rimettere insieme i cocci di un legame che non c’è più così come non è rinsaldabile il rapporto tra operai e fabbrica. Ognuno con le proprie ferite, i due cercheranno di ripartire da soli conservando (nell’epoca dei fax e dell’internet) il tenue legame di lettere in cui raccontarsi le poche novità della vita. La ‘bella vita’ quindi si trova, in un film che è omaggio allo stile di scrittura della   commedia   ‘all’italiana’   degli   anni   Sessanta,   anche   a   rinviare   la memoria dello spettatore a La dolce vita di Fellini. Come quel film, con il suo titolo volutamente fuorviante, dava una forte scossa all’autocompiaciuta civiltà del boom economico, così Virzì (senza pretese di assurgere al capolavoro) racconta di un Belpaese che non è poi così bello. Anche qui, però,   il   regista   compie   una   scelta   in   controtendenza   scritturando   per   il ruolo di Mirella, cassiera alla Coop, la bella e prorompente Sabrina Ferilli. Solo l’aspetto esteriore è florido o stravagante (vedi l’orecchino di Bruno) in questa ‘tranche de vie’. Le abitazioni sono più che dignitose ma i tracolli (di lavoro, di affetti, fisici) sono sempre in agguato. La speranza di poter ricominciare non viene meno ma la riconversione sta più nel sorriso di un immigrata dell’Est che non nell’effettivo raggiungimento di una stabilità economica. Paolo Virzì nasce a Livorno il 4 marzo 1964. Diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove è allievo di Furio Scarpelli, ha svolto prima di questo film attività di soggettista e sceneggiatore sia per il cinema che per la televisione. È autore, tra l’altro, del soggetto di Turné di Gabriele Salvatores e di quello di Centro storico di Roberto Giannarelli. Sono suoi inoltre il soggetto e la sceneggiatura di  Condominio di Felice Farina e la sceneggiatura di Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo e di Una questione privata di Alberto Negrin. La bella vita costituisce il suo esordio nella regia. 
 

 La Bella Vita (1994) è l'opera prima di Paolo Virzì il regista che si è posto tra i migliori continuatori della commedia all'italiana. Nel 1994 Sabrina Ferilli (MIrella), Massimo Ghini (Gerry Fumo) e Claudio Bigagli (Bruno) erano tre attori emergenti del nuovo cinema italiano.

Siamo nella Piombino operaia dei primi anni 90 quando l'ILVA è in crisi e sta per cedere le sue attività ai giapponesi (in realtà, come sappiamo, subentrerà il gruppo Lucchini che ritroveremo, nuovamente in crisi, in Acciaio. Rispetto al romanzo-film la situazione è diversa: gli operai, anche quelli giovani, sono PCI-FIOM e sono in lotta per difendere il loro futuro.


Si affacciano all'orizzonte i nuovi modellli consumistico-effimeri impersonati da Gerri Fumo di Canale 3 Toscana una TV che esiste ancora oggi e fa della buona informazione nel senese. Gerri Fumo è un tombeur de femmes, di quelli che lasciano conti da pagare presso tutti i fornitori ed è proprio lui a stringere d'assedio la bella Mirella sposata con Bruno in occasione di una recita di solidarietà con gli operai dell'ILVA in lotta.

Gerri è lì per fare un servizio e, folgorato sulla via di Damasco, incomincia a marcare stretto Mirella che, un po' perché in crisi di comunicazione con Bruno, un po' perché affascinata dal bel mondo che Bruno sembra rappresentare (la Mercedes, i ristoranti, una dedica in diretta) finisce per cedere le armi (e il mitico seno della Ferilli).

In casa si parla di cassa integrazione e non si comunica. Bruno, con alcuni compagni di fabbrica (il film inizia proprio con loro che si recano al matrimonio con una Ritmo cambiandosi dalle tute blù alle camicie bianche sull'auto), è uscito malconcio da un mese di sciopero duro. C'è un accordo sindacale al ribasso e ci sarà la mobilità; così i quattro accarezzano l'idea di accettare una dimissione consensuale in cambio di 40 milioni a testa con i quali si pensa di fare il salto di classe: comperare un terreno, metterci un capannone e iniziare a produrre semilavorati per l'edilizia lavorando l'acciaio comperato all'ILVA.

La storia tra Mirellla e Gerri Fumo è nota a tutti: ne discutono i compagni di Bruno, se ne parla al sindacato anche perché, con tutte le possibili cautele, è impossibile che non ti notino. Si arriva al chiarimento-separazione; ma Bruno continua a stare male e Mirella continua ad essere inquieta, anche se si è trasferita a casa di Gerri.

Per mettere su l'impresa, oltre ai 100 e rotti milioni di lire per il terreno, serve un fido bancario dell'ordine di un miliardo. Bruno mette una ipoteca sulla casa del babbo, un vecchio operaio dell'ILVA, comunista duro e puro che prima di mettere la firma sui documenti gli dà una lezione di vita. Ma nonostante tutto l'operazione non va in porto (il direttore della filiale del Monte dei Paschi, portato a cena per stringere, li lascia a bocca asciutta: troppi rischi, poche garanzie).

Bruno ha un infarto e viene accudito da amici, genitori e da una vecchia fiamma della FIOM (Rossella). Carine le scene in ospedale con Rossella che sta dietro a Bruno (si erano baciati a un concerto degli Inti Illimani nel 1974) sino alla ricomparsa di Mirella. I due tentano di rimettersi insieme ma la cosa non funziona e Mirella se ne ritorna dai genitori all'Elba.

C'è un messaggio finale di speranza tra Bruno e Mirella che si scrivono e sul futuro di Bruno; la fabbrichetta non si farà, ma sul terreno ormai acquistato nascono un parcheggio, un bar e le cabine per il mare (peccato si vedano le ciminiere, "ma ci metteremo una siepe").

E' un'opera prima con tutti i limiti del caso. Molto meglio Ferie d'Agosto girato l'anno successivo.
http://www.ceredaclaudio.it/wp/2013/09/la-bella-vita-paolo-virzi/

domingo, 26 de diciembre de 2010

La Commare Secca - Bernardo Bertolucci (1962)


TÍTULO La Commare Secca
AÑO 1962 
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 93 min.
DIRECTOR Bernardo Bertolucci 
GUIÓN Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti (Historia: Pier Paolo Pasolini)
MÚSICA Piero Piccioni, Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Giovanni Narzisi (B&W)
REPARTO Gabriella Giorgetti, Giancarlo de Rosa, Vincenzo Ciccora, Alvaro D'Ercola, Romano Labate
PRODUCTORA Cinematografica Cervi / Cineriz
GÉNERO Drama. Intriga | Policíaco. Prostitución

SINOPSIS Aclamada ópera prima de un jovencísimo Bernardo Bertoluchi (tenía sólo 22 años) basada en un guión de Pier Paolo Pasolini sobre la investigación de la policía en el asesinato de una prostituta en un parque de Roma. Cerca de un parque público, en un pedregal del Tevere romano, aparece el cadáver de una prostituta. Las investigaciones de la policía se centran en el submundo romano de ladronzuelos, proxenetas y otros marginados sociales... (FILMAFFINITY)


Enlaces de descarga (Unir con HJ Split)

Subtítulos

Ópera Prima de Bernardo Bertolucci (Novecento) con un brindado guión de Pier Paolo Pasolini sobre los testimonios e indagaciones alrededor del asesinato de una prostituta en Roma, a orillas del Tíber. Bertolucci, al igual que otros cineastas como el propio Pasolini o Sergio Citti, exhibe la cara más marginal de unas gentes "olvidadas", parias en una periferia urbana y un relato de relatos que podría acercarse al género policíaco pero que su crudez testimonial no da concesiones para concebirse como tal.
Bertolucci solamente contaba con veintiún años y estaba influenciado por la avalancha de cine de denuncia que en Italia se tradujo como segunda etapa del Neorrealismo. "Commare Secca" aún sin dejar de ser el gran film que es, parte de base de otras obras como "Accatone", o "Mamma Roma", ambas de ese gran cineasta, poeta y referente que fue Pier Paolo Pasolini.
"La Cosecha Estéril" dio fama a Bertolucci en el panorama de realizadores europeos más internacionales, y todavía no asentado en la polémica de films posteriores como "El Último Tango en París" o las incursiones hollywoodienses de "El Último Emperador" o "Pequeño Buda".
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------Bernardo Bertolucci era stato l’aiuto regista di Pier Paolo Pasolini in Accattone. Poco dopo fece il suo primo film, La commare secca, nato da un soggetto dello stesso Pasolini. Il segno di quella presenza e delle suggestioni dell’universo poetico pasoliniano sono molto forti nell’opera prima di Bertolucci. C’è la Roma delle borgate, i sottoproletari, una storia di morte e di fuga. Bertolucci sembra soffrire una dimensione che non gli appartiene, delle tinte, dei caratteri troppo forti. La sua terra è lontana, è tra le nebbie della Padana, dove tornerà con quel capolavoro assoluto e incompreso che è la prima parte di Novecento. Il suo primo film è anche attraversato dalle mille suggestioni di un cinefilo d’eccezione, di un ventitreenne colto e raffinato, capace di attingere alla cultura classica come al film giapponese. Questa dimensione ha consentito poi a Bertolucci di divenire il più cosmopolita dei nostri autori. Tutto cominciò da lì, dai pratoni di una Roma smarrita, dall’occhio incerto di una macchina da presa guidata da un giovane genio. Così, come il primo atto di una grande sinfonia, bisogna guardare questo « Ritratto dell’autore da cucciolo».
Walter Veltroni
Da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994

 

sábado, 25 de diciembre de 2010

La messa é finita - Nanni Moretti (1985)


TÍTULO La messa é finita
AÑO 1985 
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 95 min.
DIRECTOR Nanni Moretti
GUIÓN Nanni Moretti & Sandro Petraglia
MÚSICA Nicola Piovani
FOTOGRAFÍA Franco di Giacomo
REPARTO Nanni Moretti, Margarita Lozano, Ferruccio de Ceresa, Enrica Maria Modugno
PRODUCTORA Faso Films
GÉNERO Comedia. Drama | Comedia dramática

SINOPSIS Tras ejercer sus funciones en una isla del sur de Italia, un joven sacerdote es destinado por sus superiores a una parroquia de Roma. Allí se reencuentra con su familia y sus amigos, e intenta en la medida de sus posibilidades cambiar las cosas, pero el fracaso le acecha, y su posterior crisis personal y profesional le hace cuestionarse su labor dentro de la Iglesia... (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Unir con HJ Split)
http://www.mediafire.com/?vw6an4btcw0fru7

Subtítulos

Don Giulio (Nanni Moretti), giovane parroco di Ventotene, viene improvvisamente trasferito a Roma, in una borgata periferica. Abbandonato il regno dell’innocenza, è ora per Don Giulio di tuffarsi nella difficile realtà della grande città. Superata la tentazione di installarsi nella comoda e - apparentemente - serena casa dei genitori, prende finalmente possesso della nuova parrocchia. Tutto è difficile, ma una cosa soprattutto gli riesce insopportabile: la solitudine. Per fortuna ci sono i bambini, con i quali può giocare liberatorie partite di pallone. A poco a poco prende corpo tutta una serie di personaggi: i vecchi amici, la sorella Valentina, gli anziani genitori, l’ex parroco Antonio, ora sposato e forse veramente felice. Ma nessuno di loro, con la parziale eccezione di Antonio, riesce ad incarnare l’aspirazione più profonda di Don Giulio: la gaiezza, la felicità. Tra gli amici, uno non vuole più vedere nessuno dopo una cocente delusione d’amore un altro sconta una lunga detenzione per reati di terrorismo un terzo insegue disperatamente nei cessi dei cinema impossibili incontri amorosi ed infine Cesare, in preda a crisi mistica, riesce a rendersi soltanto ridicolo. Per non parlare della famiglia: il papà si innamora di un’amica della figlia la mamma, disperata, si suicida Valentina, profondamente sola, si trova a dover affrontare una gravidanza non desiderata. Oppresso da questo generale sfacelo, incapace (un po’come il Nazarin bunueliano) di aiutare gli altri, di rendersi utile, Don Giulio, colpito da un colloquio con un vecchio frate (Pietro De Vico), decide di andarsene lontano, in Patagonia, “là dove il vento ti fa impazzire”. Abbandonato, almeno in parte, l’usuale personaggio alter ego di Michele, Nanni Moretti approfondisce in La messa è finita lo sguardo pessimistico sul mondo e sulle persone già proposto in tutti i film precedenti, e soprattutto nell’ultimo Bianca. Sembrerebbe quasi che al giovane autore romano stia passando anche la voglia di ridere: riesce difficile, leggendo la trama del film, pensare che egli sia nato come autore comico o presunto tale. Giunto al suo quinto lavoro - oltre a dirigerlo ne ha scritto come sempre anche la sceneggiatura, assieme a Sandro Petraglia - Moretti ha raggiunto una facilità espressiva che, una volta superate le tentazioni un po’troppo “autarchiche”, lo conferma come uno degli autori più seri della nuova generazione.
Luigi Paini, da Il Sole 24 Ore (22 Dicembre 1985)

viernes, 24 de diciembre de 2010

La Bocca del Lupo - Pietro Marcello (2009)


TÍTULO La bocca del lupo
AÑO 2009 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 76 min.
DIRECTOR Pietro Marcello
GUIÓN Pietro Marcello
MÚSICA Era
FOTOGRAFÍA Pietro Marcello
REPARTO Vincenzo Motta, Mary Monaco
PRODUCTORA Indigo Film / L'Avventura Film B.V. / Rai Cinema / Babe Film 
GÉNERO Drama. Romance | Biográfico

SINOPSIS Enzo, emigrante siciliano, vuelve a Génova tras haber pasado catorce años en la cárcel y haberse enamorado de Mary, un travesti que acabó en prisión por un asunto de drogas y que le ha estado esperando pacientemente todo este tiempo. Enzo está ahora libre y puede por fin cumplir su sueño de vivir una vida tranquila en una casa de campo junto a su pareja. (FILMAFFINITY)

Archivos de descarga (Unir con HJ Split)
 
 
L'amore dietro le sbarre
Un esperimento curioso, ma andato incontro a vari consensi. Due persone vere, nomi e cognomi autentici, pronte a esibire, anche nei titoli di testa, la loro identità. Sono Vincenzo, siciliano, che è stato in prigione per molti anni, e Mary, una ex prostituta, anche transessuale, che, dopo averlo conosciuto e amato in prigione, uscita molto prima, lo ha atteso tutto il tempo in una casupola nei bassifondi di Genova, fedele quasi con devozione al suo ricordo. I Padri Gesuiti della Fondazione San Marcellino, che dal dopoguerra seguono e assistono gli emarginati di cui pullula il sottobosco genovese, hanno affidato a un regista esordiente, Pietro Marcello, autore fino ad oggi di un documentario, di avvicinare i due e di farli raccontare se stessi di fronte a una macchina da presa che si muove con discrezione davanti a loro e poi anche attorno a loro non solo nel presente, nei quartieri più miseri della città, ma anche, grazie a filmini amatoriali conservati nelle cineteche, nel passato di quella stessa gente: per evocare un clima, ricostruire degli ambienti. Al centro però ci sono soprattutto i due protagonisti, ora presentati da una voce narrante - asciutta, mai letteraria - ora ascoltati mentre ci dicono di sé, del loro passato, dei loro sentimenti reciproci, delle loro piccole aspirazioni per un futuro in cui si vedono finalmente riuniti in una casetta in collina da cui, però, sia possibile vedere il mare... Il risultato, da definirsi in equilibrio fra il documentario e un certo tipo di cinema verità, ha valori cinematografici così saldi che, di recente, hanno fatto vincere al film il Primo Premio al Festival di Torino (la prima volta, in ventisette anni, per un film italiano), aprendogli la strada anche a manifestazioni di prestigio a Parigi, come quella al Centre Pompidou dedicata al «cinema Du réel». L'esperimento, così, anche se insolito, può dirsi riuscito e nonostante faticherà un po' a trovare adeguate risposte in platea, resterà una tappa felice nell'ambito del cinema italiano di ricerca.
Gian Luigi Rondi
da Il Tempo, 20 febbraio 2010

jueves, 23 de diciembre de 2010

La Carne - Marco Ferreri (1991)

TITULO 
La carne
AÑO 
1991
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
Español y Francés (Separados)
DIRECTOR 
Marco Ferreri
GUIÓN 
Marco Ferreri, Lilian Betti (Argumento: Marco Ferreri)
REPARTO 
Francesca Dellera, Sergio Castellitto, Philippe Léotard, Farid Chopel, Petra Reinhardt, Gudrun Gundlach
GÉNERO 
Comedia | Erótico

Sinópsis
Comedia de amor, sexo y antropofagia. Paolo y Fancesca, hartos de la neurosis imperante en la vida urbana, deciden alejarse de ella y refugiarse en una pequeña casa cerca de una playa para practicar el sexo sin ningún tipo de límites. Exhuberante y posesiva, la mujer utiliza técnicas aprendidas de un gurú del sexo para convertir a su amante (casado y padre de dos hijos) en un esclavo...(FILMAFFINITY)
 
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Marco Ferreri entró en el mundo del cine a través de la realización de cortometrajes publicitarios. Más tarde, se dedicó a la producción y llegó a España como representante comercial de los objetivos Totalscope, la versión italiana de los Cinemascope americanos. Aquí conoció a Rafael Azcona, con el que colaboró en El pisito en 1959 y El cochecito en 1960, dos comedias españolas marcadas por un feroz sarcasmo antiburgués. De vuelta a Italia, Ferreri siguió rodando con su L’ape regina en 1962, una sátira anticatólica que fue censurada, incluso su título modificado debido a la crítica que hacía sobre la institución del matrimonio.
En Se acabó el negocio (La donna scimmia), de 1963, habla sobre las relaciones entre los sexos dominadas por la explotación del más débil, con el final también censurado, esta vez por decisión del productor Carlo Ponti.
Más adelante, realizó el capítulo de Il professore dentro de la película colectiva Controsesso en 1964, y luego el cuento antimachista El harén (L’harem) de 1967. Sin embargo, la que se cosidera su obra maestra es Dillinger ha muerto (Dillinger è morto), de 1969, un ensayo sobre la soledad del hombre contemporáneo en la sociedad capitalista.
Luego rodó la triste alegoría sobre el futuro El semen del hombre (Il seme dell’uomo) en 1970, un cuento kafkiano anticlerical, y La audiencia (L’udienza) en 1971. Más tarde, realizó una curiosa por no decir surrealista relectura de la derrota del general Custer en Little Big Horn llamada No tocar a la mujer blanca (Non toccare la donna bianca) en 1975.
Pero cuando alcanza de nuevo la cumbre es gracias a la adaptación del cuento de François Rabelais La gran comilona (La grande abbuffata), de 1973, que anticipó la furia iconoclasta del Saló o los 120 días de Sodoma de Pier Paolo Pasolini.
Desde entonces podríamos citar las siguientes obras: La última mujer (L’ultima donna), de 1976, y La casa del sorriso, de 1988. Homenajeando el cine que ya no existe en Nitrato d’argento (1995), concluyó con una nota de melancolía su recorrido como cineasta, a la vez genial e inclasificable.
 

La pija grita en el cine de Ferreri. A veces, de tanto gritar termina llorando. En el final de La última mujer Gerard Depardieu se castra y sostiene el miembro ensangrentado entre sus manos mientras se escucha el llanto de un bebé. La carne empieza con un montaje de varios dinosaurios mecánicos de museo, e imprime sus títulos sobre uno en particular al que la cámara recorre en su totalidad. El cuello largo y venoso del bicho hace pensar en una erección. Sobre la imagen se escucha una grabación que más parece un grito desesperado que un rugido. A los hombres ferrerianos la virilidad les pesa y les duele. La mujer es portentosa como la naturaleza misma, libidinosa hasta el milagro. El hombre es un hijo eterno, creyente y cándido. En La carne, Paolo (Sergio Castellito) desespera por Francesca (Francesca Dellera), enloquece por completo, y la única manera que encuentra de librarse de su celestial penitencia es que ella desaparezca. Paolo busca o se inventa un dogma glorificando a una mujer que es más carne que espíritu, y su propio cuerpo se convierte en un mecanismo subyugado al estimulante capricho de Francesca, de una lucidez sexual superior. Después de coger juntos por primera vez, Paolo, vestido con una túnica blanca, se corta las venas frente al mar mientras clama a los gritos que a Dios se lo ve una sola vez, pero su muerte es impedida por la propia Francesca, que bebe de su sangre y, con ese gesto, hace converger en la escena vampirismo y cristianismo.
Entender la mirada de Ferreri sobre Francesca como misógina es desatender su mirada sobre Paolo. Tampoco su enfoque puede ser considerado misántropo. Ferreri retrata chicos y juega como uno, con las imágenes y los sonidos, con los diálogos, con las ideas, con los límites. Todo es juego, y uno de verdad: intenso, libertario, políticamente incorrecto. En sus personajes hay algo del espíritu payaso, lúdico y melancólico. Son  pibes con vida a cuestas queriendo volver a las tetas de la vieja. O al mismísimo vientre, como Charles Serking (Ben Gazzara) en Historias de locura común, cuando intenta meter su cabeza entre las piernas de una mujer obesa para terminar rompiendo en llanto ante su propio patetismo. Si no lo hacen de manera tan radical o literal como en este caso, lo harán buscando siempre el mar. En The Master, Paul Thomas Anderson retoma estos conceptos sobre la mujer como fuerza absoluta cuya capacidad dominante es innata, mientras que la potestad del hombre requiere de un aprendizaje metódico. Esta  película guarda otras similitudes con el cine de Ferreri, como la mujer de arena casi idéntica a la de El semen del hombre a la que Phoenix se abraza en posición fetal, y la conducta física simiesca de su protagonista, manifestación de las pulsiones primitivas del hombre y de la decadencia del macho. Al contrario del personaje de Amy Adams, el de Francesca Dellera no presenta su misma sagacidad despótica. Ella es en cierta forma tan ingenua como él. Ambos están condenados a un deseo carnal que no pueden controlar, como los personajes de la Divina Comedia que les dan nombre. La mujer dominante se encarna en la figura de la ex esposa y madre de los dos hijos de Paolo, más cercana ideológicamente al repudiado padre del protagonista y antítesis sustancial del carácter religioso de este. Paolo es un artista y un idealista, mientras que aquella se desempeña como funcionaria y se opone al bautismo de sus hijos debido a su ateísmo.
En los chicos se plasman esas diferencias esenciales entre hombre y mujer. Mientras que la hija, una adolescente en plena maduración erótica, reta al viejo constantemente, el hijo, de unos ocho años, presenta una personalidad mucho más juguetona, al punto de romper la cuarta pared mirando detrás de cámara mientras se ríe por las muecas graciosas de Castellito, en una escena por demás divertida y de una tensión sexual que puede resultar incómoda sólo si se la ve desde una perspectiva conservadora. Paolo se encuentra solo en su cama luego de que Francesca le provocase una erección imbatible que lo deja inmovilizado de pies a cabeza cuando recibe la visita sorpresiva de sus hijos, enviados por la madre a reclamarle el dinero de la manutención. Postrado, con el pene erguido, y sólo cubierto por una túnica, vemos a la hija mirando tentada el miembro erecto de su padre en plano y contra plano, naturalizando la sexualidad entre padre/hija (cuyo extremo incestuoso se da en Historia de Piera). Segundos después la nena repite irreflexivamente el discurso demandante y celoso de su madre y ex esposa de Paolo. Este queda expuesto como el chico que es en el fondo, atrapado en un cuerpo adulto y sin ánimos de asumir las responsabilidades sociales de la paternidad. En el inicio mismo de la película se presenta a los tres frente al dinosaurio/pija, sólo amenazante para este adulto/niño que conoce las consecuencias de la procreación. Paolo enfrenta al aparato mecánico y los pibes prácticamente se le cagan de risa en la cara menoscabando su  autoridad patriarcal.
La voracidad sexual se desplaza o se combina con la comida, aditamento habitual en el cine italiano. Francesca es un pedazo de carne tentador. En el supermercado, Paolo la utiliza como modelo para explicarle al carnicero el corte que quiere comprar. Ella se ofende, pero él, obsesionado con el hinduismo, se excusa diciéndole que en la India la  vaca es la madre sagrada. La escena pareciera ser más una provocación de Ferreri hacia quienes han cuestionado el papel que las mujeres desempeñan en sus películas, pero por las características concedidas a Paolo no se puede dudar de la honestidad del comentario en boca de ese personaje. Para él la carne es un vehículo espiritual, alimento primario, paraíso materno, que a un nivel estrictamente sexual se convierte en un mecanismo fatigoso y despiadado. El sexo es abrumador por real y en la concreción se anula toda posibilidad de idealismo. Ante el inminente abandono de Francesca que se va a ir tras una cigüeña, el personaje de Castellito decide quitarle la vida clavándole un cuchillo en el vientre para luego cortarle uno de los brazos y servírselo, en un final típicamente ferreriano (vale decir drástico).De esta forma logra cumplir su sueño de infancia de comerse a Dios entero frente al mar mientras el sol se pone.
https://cinefiliaerrante.wordpress.com/2013/04/10/la-carne-marco-ferreri/


miércoles, 22 de diciembre de 2010

La pelle - Liliana Cavani (1981)

TÍTULO 
La pelle
AÑO 
1981
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN 
130 min.
DIRECTOR 
Liliana Cavani
GUIÓN 
Liliana Cavani & Robert Katz (Novela: Curzio Malaparte)
MÚSICA 
Lalo Schifrin
FOTOGRAFÍA 
Armando Nannuzzi
REPARTO 
Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Burt Lancaster, Ken Marshall, Alexandra King, Carlo Giuffrè, Yann Babilée, Liliana Tari, Giuseppe Barra, Cristina Donadio
PRODUCTORA 
Coproducción Italia-Francia; Opera Film Produzione / Gaumont
GÉNERO 
Drama | II Guerra Mundial

Sinópsis 
Nápoles, año 1943, en plena Segunda Guerra Mundial. La ciudad acaba de ser liberada por las tropas americanas en una época en la que nadie sabe cuándo acaba la guerra ni dónde empieza la paz; vencedores y vencidos se enfrentan... (FILMAFFINITY)
 
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Liliana Cavani lleva al cine "La piel", de Malaparte
Un macabro reportaje sobre los absurdos de la guerra

La novela, que apareció en 1949, está ambientada en Nápoles en 1943, durante el final de la segunda guerra mundial. Sus personajes son italianos, norteamericanos, ingleses y alemanes, y constituye una especie de macabro reportaje de todas las crueldades y absurdos de la guerra. El personaje principal -el propio Malaparte, que cuenta las historias sucesivas- estará interpretado por Marcello Mastroiani, que vuelve al cine tras un breve descanso que se tomó a raíz de interpretar La ciudad de las mujeres, de Fellini.El libro ha sido adaptado por la propia Liliana Cavani y Robert Katz. Hasta ahora, sólo otra obra de Malaparte, Cristo prohibido, había sido llevada a la pantalla y por su propio autor, en 1950. Liliana Cavani descubrió La piel hace cinco años, pues la obra de Malaparte no goza de gran actualidad ahora en Italia, donde siempre fue un personaje rebelde, ambiguo y conflictivo. Otros personajes serán interpretados por Burt Lancaster, Claudia Cardinale y los americanos Alexandra King y Ken Marshall, siendo el productor Renzo Rosellini.
«Quisiera dar una imagen vivida de aquellos años», ha declarado Liliana Cavani, «de la guerra, la llegada de las tropas aliadas y su encuentro con los napolitanos. No intento hacer neorrealismo, pero quisiera lograr una discreta pintura sobre aquellos años».
En realidad, el verdadero nombre de Curzio Malaparte, hijo de alemán e italiana y nacido en Prato en 1898, era el de Kurt Erich Suckert. Separado de su familia desde niño, criado por unos campesinos toscanos -su última obra fue precisamente un libro de relatos y crónicas titulado Malditos toscanos-, a los dieciséis años se fugó de su casa, abandonando los estudios, para enrolarse en la Legión extranjera francesa y participar de esta manera en la primera guerra mundial, donde fue herido ' condecorado y quedó inútil para el servicio militar afectado por los gases.
Entró en la carrera diplomática, asistió a la conferencia de Versalles, y fascinado por el primer Mussolini entró en el partido fascista en 1922. Al propio Mussolini le explicó el porqué de haber elegido su seudónimo de escritor: «Napoleón se llamaba Bonaparte y terminó mal. Yo me llamo Malaparte y terminaré bien». Lo cierto es que fue un fascista rebelde, más escéptico, crítico, más modernista que lo permisible en un partido, al fin y al cabo dogmático y autoritario. Dirigió el semanario La conquista del Estado, creía en la simplificación nietzscheana del superhombre, era mujeriego y bohemio, pero el mismo Mussolini sentía por él una evidente condescendencia.
Ataques a Mussolini
En 1929, tras el pacto de Letrán entre el régimen fascista y el Vaticano, atacó directamente a Mussolini en un célebre libelo, Don Camaleón, y tras numerosos viajes por Europa, Asia y Africa abandonó ruidosamente el partido, en 1931, y se fue a París, Allí publicó El buen hombre Lenin y la Técnica del golpe de Estado, que le hicieron repentinamente célebre en todo el mundo occidental. Marchó a Londres como corresponsal político, pero regresó a Italia, a manera de bravata, cuando Mussolini le llamó en 1933. Nada más bajar del tren, fue detenido por « manifestaciones antifascistas en el extranjero» y confinado durante cinco años en las islas Lípari.Cumplida la condena regresó a Roma, donde dirigió una revista de oposición, Prospectivas, en la que colaboraron distinguidos antifascistas, como Moravia y Paul Eluard. Tras el estallido de la segunda guerra mundial fue corresponsal de guerra en la campaña transalpina y en Grecia. En 1941 fue enviado al frente oriental, a Polonia, donde trató al gobernador nazi Franck, a quien retrató cruelmente en Kaputt, el libro que describe sus experiencias de aquellos años de guerra, donde también aparece otro amigo suyo, mucho mejor tratado, el poeta, escritor y diplomático español Agustín de Foxá.
Esta obra, que con La piel forma un díptico escalofriante sobre los horrores de la guerra, no fue publicada hasta 1944, en Nápoles, que ya estaba ocupada por los americanos. Tras seguir la campaña de Finlandia, al terminar la guerra se instaló, en 1945, en París, pero volvió después a Italia, a su espléndida mansión de Capri, donde pasó los últimos años de su vida. En 1956 hizo un viaje a China y pregonó su admiración por el régimen de Mao Zedong, hasta el punto de que en su testamento legó su casa a las jóvenes generaciones chinas. La piel, obra trágica, esperpéntica, tremendista, repleta de amargura y escepticismo, fue incluida por la Iglesia católica en el ya fenecido Indice de libros prohibidos, lo que no impidió la conversión final del cínico y escandaloso escritor.
 

Non un film di guerra, piuttosto un film dell’orrore. La guerra resta sullo sfondo, ci sono aerei, plotoni in divisa e carrarmati, nemmeno un combattimento. Non ricordo un altro film italiano così sgradevole, aspro, pieno di immagini crudeli e disperate. Mi è venuto da paragonarlo a I Diavoli di Ken Russell, e la Napoli del 1944 non appare meno pagana, satanica e depravata della Loudon ai tempi della peste e dell’Inquisizione. La regia non rinuncia a niente, e si compiace di numerose scene ripugnanti.

Tratto dall’omonimo romanzo di Curzio Malaparte, interpretato da un Mastroianni che solo di rado si accende, il film può contare sulla presenza di Burt Lancaster e Carlo Giuffré, Claudia Cardinale e Jacques Sernas, con Alexandra King nei panni della fanatica moglie aviatrice del senatore Usa e Ken Marshall del giovane ufficiale che finisce per innamorarsi della “vergine di Napoli”.

Ufficiale di collegamento con l’esercito americano, Malaparte mostra lo sguardo degli sconfitti. Difficile distinguere fra nuove macerie e vecchie miserie, la morale della sopravvivenza giustifica qualsiasi nefandezza, la Quinta Armata scivola su questi abissi senza capirne la profondità. I dollari diventano agenti di corruzione: prigionieri tedeschi ingrassati per essere venduti a peso (la Convenzione di Ginevra), un intero carrarmato smontato dagli scugnizzi mentre due soldati si illudono di ricavarci qualcosa, bambini (maschi e femmine) prostituiti dalle rispettive madri, fino all’eruzione del Vesuvio (un fatto vero, che non conoscevo), che sembra alludere al giudizio divino su questa nuova Sodoma.
https://rudighedini.wordpress.com/2015/04/28/la-pelle-id-liliana-cavani-1980-filmtv39-5/
 
 
La pelle: innocenza e crudeltà dell’Italia di Malaparte

Siamo a Napoli, 1944, la Quinta Armata  americana, al comando del generale Mark Cork, interpretato da Burt Lancaster, occupa la città e si prepara a marciare su Roma, ci vuole arrivare per primo e prendersi l’onore di avere liberato la Città Eterna, di vedere il papa e le rovine della Roma imperiale.

Dall’America arriva però la prima aviatrice donna, Deorah Wyatt per portare aiuti alla popolazione civile e fare propaganda per il marito senatore in corsa per  la Casa Bianca, ma il generale non la vuole e le mette alle costole il Capitano Malaparte, (interpretato da Marcello Mastroiannni) come guida e accompagnatore per orientarsi in una Napoli semidistrutta e pericolosa e per fare in modo che se torni a casa.
Comincia così il viaggio nell’inferno dantesco dei bassifondi napoletani nei luoghi lugubri del degrado e della prostituzione ma dove nessuno si sente realmente degradato nemmeno quelle madri che vendono i loro ragazzini ai giannizzeri pedofili nordafricani perché la fame ed il cuore di mamma giustificano tutto.

A loro modo quelle strane prostitute malvestite e succinte, con una ridicola parrucca pubica bionda perché i soldati neri americani preferiscono le bionde, quelle frasi invitanti che fanno sembrare tutto normale e meraviglioso, riescono in qualche modo a salvare uno straccio di dignità, peggio sarebbe se si presentassero come vittime di violenza continuata dall’infanzia alla morte. E quelle madri, con bambini abbracciati mentre li vendono ai marocchini che spudoratamente toccano loro il fondo-schiena, anche loro vanno perdonate perché sono lì, condividono quel dolore e lo anestetizzano con l’amore, peggio sarebbe se li mandassero soli nelle mani dei beduini.  La Wyatt si ribella, aggredisce il marocchino che le taglia soddisfatto una ciocca di capelli biondi, poi se la prende con Malaparte: Com’è possibile un tale degrado? Ma lui non fa una piega e accusa la fame e la forza corruttrice del dollaro su un popolo vinto e disperato. E lì capisci che non esiste una morale universale, una legge divina valida sempre, che tutto è relativo e tutto si può giustificare.

C’è poi l’episodio  di Jimmy, ufficiale di collegamento affidato al capitano Malaparte che si innamora di una ragazzina e la vuole sposare, per accorgersi poi che il padre si fa i soldi mostrando la passera della figlia  “l’ultima vergine di Napoli” a file interminabili di soldati americani per un dollaro a visita. Jimmy non lo sopporta e la svergina con le dita distruggendo l’infame commercio di quel padre sciagurato.

C’è ancora l’episodio dell’orgia omosessuale, una checca simula un parto, un’altra prepara una grande spaghettata, altri cantano e ballano una specie di tarantella e, alla fine, la checca partorisce la figura grottesca di un omino con un grande pene eretto al cielo… Mastroianni si scusa con la Wyatt, non sapeva cosa sarebbe successo. Di tutto il resto che le fa vedere non si scusa anzi sembra che sia la sua missione mostrare al mondo ipocrita e puritano americano la miseria dell’uomo.

Alla fine, anche il Vesuvio si ribella, siamo nel marzo del ‘’44, la famosa eruzione che portò le ceneri fino in Puglia, Deborah Wyatt è sconvolta dal volto cinico e amorale della città ma il peggio deve ancora venire, prende l’aereo, vuole fuggire da Napoli e tornare a casa ma il suo piccolo aereo da combattimento cade tra gli alberi, lei si salva, in abito da sera strappato vagola per la città in cerca di aiuto, alta, bionda, elegante si distingue dalla massa delle donne napoletane basse, scure e malvestite, chiede un passaggio ad un camion militare pieno di soldati americani e si lascia insultare e violentare dai connazionali senza dire un a parola, senza dichiararsi, senza farsi riconoscere come ufficiale e moglie di un senatore americano. Questa è la scena più strana e incomprensibile del film, a un certo punto tutte le difese cadono, per qualche motivo inconoscibile lei accetta di vivere il destino di una donna di un popolo vinto dalla guerra e dalla miseria.

A quel punto, però, la Wyatt è vinta e se ne torna a casa, il generale commenta: “Malaparte, lei è un genio”.
La Quinta Armata è alla porte di Roma, le donne escono di casa e abbracciano i soldati liberatori, è festa, un papà col figlio in braccio si mette festante davanti a un carro armato invocando una cioccolata per il bambino, cade, finisce spiaccicato sotto il cingolo, una scena tremenda, il bimbo riesce a sgattaiolare da sotto il carro armato e va a consolarsi tra le braccia della madre inorridita, la gente guarda smarrita ma certo non sconvolta, tanto è abituata alla morte cruenta, poi la marcia riprende alla conquista di Roma città aperta ormai da secoli: dai Galli, dai Vandali, dai Lanzichenecchi, dai Nazisti e dagli Americani.

Quando il film è uscito, ai tempi di Craxi e di Pertini, certo non fu ben accolto dalla critica e dal pubblico, nessuno voleva rivedere quell’Italia piegata dalla sconfitta, volevamo uscire dagli Anni Settanta e andare incontro ad nuovo miracolo economico, anch’io quando lo vidi in prima visione, ne rimasi sconvolto e non volli capirlo, non accettavo quello scene, quel degrado, quelle donne esposte senza vergogna, quei bambini prostituiti dalle madri, ho dovuto rivederlo per capirlo, per comprendere che sono necessari grandi quadri di negatività per staccarsi da un passato impresentabile e costruire il nuovo.

La pelle, sembra l’ultimo omaggio al Neorealismo ma non ha lo sguardo amorevole di De Sica, non è un popolo che risorge quello che viene rappresentato ma un mondo che si spera possa finire sotto i colpi del Vesuvio. E’ uno sguardo amaro, cinico, impietrito quello della Cavani-Malaparte che osserva e denuncia una realtà esplosa con la guerra ma che forse era sempre esistita dai tempi Tiberio e di Giovanna la pazza, degli angioini e degli spagnoli, dei Borboni e dell’Unità d’Italia quando soltanto una classe di generali felloni e traditori potevano permettere a Garibaldi di arrivare a Marsala indisturbato e fare finta di combattere a Calatafimi.

Cinismo, indifferenza, amoralità, tradimento e prostituzione dello spirito sono sempre esistiti nei bassifondi della storia di tutti i tempi.
Giacinto Lombardi
https://www.minervinolive.it/rubriche/4189/la-pelle-innocenza-e-crudelta-dell-italia-di-malaparte