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martes, 30 de abril de 2013

Il Branco - Marco Risi (1994)


TITULO ORIGINAL Il branco
AÑO 1994
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 93 min.
DIRECCION Marco Risi
ARGUMENTO Del libro "Il Branco" de Andrea Carraro
GUION Marco Risi, Andrea Carraro
REPARTO Sasha Altea, Roberto Caprari, Giampiero Lisarelli, Ricky Memphis, Raffaella Cavoni, Tamara Simunovic, Salvatore Spada, Natale Tulli, Giorgio Tirabassi, Luca Zingaretti, Angelika Krautzberger
FOTOGRAFIA Massimo Pau
MONTAJE Franco Fraticelli
MUSICA Franco Piersanti
PRODUCCION Cecchi Gori Group, Tiger Cinematografica, Sorpasso Film
GENERO Drama

SINOPSIS Nella provincia romana un gruppo di ragazzi accetta la proposta di Sola di violentare due turiste tedesche in vacanza in Italia tenute prigioniere in una stamberga di uno sfasciacarrozze. Del gruppo il solo che si tira indietro è Raniero, gli altri accettano volentieri di seguirlo. Piano piano la notizia delle due turiste imprigionate si diffonde a macchia d'olio e attira tutti i maschi della zona. (Film Scoop)



TRAMA:
Una domenica in un paese dell'agro romano, Raniero, aspirante carabiniere soprannominato per questo "Carruba", incontra i soliti amici al biliardo. Fidanzato con Ernestina, mal sopporta il padre che gli rimprovera le balorde amicizie con Pallesecche, Ciccio, Ottorino, Sola e l'accidia. Giunge Sola con la notizia che due turiste tedesche autostoppiste, "agganciate" da Ottorino, si trovano nella baracca del sor Quintino, a disposizione. Il gruppo si reca sul posto: una ragazza, Marion, viene tenuta nell'automobile di Ottorino, e l'altra, Sylvia, attende il successivo stupratore. Si è sacrificata per salvare l'amica, vergine, dal massacro. Raniero non è capace di usarle violenza e la porta in automobile dicendo che per lei ora basta. Ciò però scatena la furia degli altri su Marion, mentre le grida di costei e i rimproveri di Sylvia, che ha colto la debolezza, nel bene e nel male, del ragazzo, non lo smuovono. Anzi, egli insegue e picchia Sylvia quando questa tenta di scappare nel bosco che circonda la zona. Pallesecche, intanto abusa di Sylvia sotto i suoi occhi, ma lui si limita a sfiorare la mano della ragazza. Mentre due del gruppo litigano, le ragazze tentano una vana fuga. Viene proposto di andare a chiamare gente in paese per abusare, a pagamento, delle due giovani. Ma il rifiuto di Marion a soggiacere all'ennesima sevizia fa si che Pallesecche la colpisca mortalmente alla testa con un martello. Mentre tutti scappano, Sylvia compresa, Ottorino picchia selvaggiamente l'assassino; quindi incarica Raniero di inseguire Sylvia verso la ferrovia, e con gli altri porta via il cadavere. Raniero rintraccia la ragazza, ma questa si rifugia presso un casellante, intervengono i carabinieri che arrestano così Raniero.

CRITICA:
"Violentissimo e fin troppo realistico film denuncia di Marco Risi, che descrive con morbosità sospetta la furia selvaggia di un gruppo di vitelloni di provincia, del tutto privi di senso morale. Le terribili scene dello stupro collettivo, che rendono esplicito quanto ci bombarda quotidianamente la cronaca nera, sono attenuate dalle immagini scure, per il dispetto dei guardoni." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 13 febbraio 2001)

NOTE:
REVISIONE MINISTERO SETTEMBRE 1994.L'EPISODIO AL CENTRO DELLA STORIA SI ISPIRA AD UN DRAMMA SUCCESSO CIRCA DIECI ANNI PRIMA IN UNA CITTADINA DEL LAZIO, MARCELLINA.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=37323&film=IL-BRANCO
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Trama
Una domenica in un paese dell'agro romano, Raniero, aspirante carabiniere soprannominato per questo "Carruba", incontra i soliti amici al biliardo. Fidanzato con Ernestina, mal sopporta il padre che gli rimprovera le balorde amicizie con Pallesecche, Ciccio, Ottorino, Sola e l'accidia. Giunge Sola con la notizia che due turiste tedesche autostoppiste, "agganciate" da Ottorino, si trovano nella baracca del sor Quintino, a disposizione. Il gruppo si reca sul posto: una ragazza, Marion, viene tenuta nell'automobile di Ottorino, e l'altra, Sylvia, attende il successivo stupratore. Si è sacrificata per salvare l'amica, vergine, dal massacro. Raniero non è capace di usarle violenza e la porta in automobile dicendo che per lei ora basta. Ciò però scatena la furia degli altri su Marion, mentre le grida di costei e i rimproveri di Sylvia, che ha colto la debolezza, nel bene e nel male, del ragazzo, non lo smuovono. Anzi, egli insegue e picchia Sylvia quando questa tenta di scappare nel bosco che circonda la zona. Pallesecche, intanto abusa di Sylvia sotto i suoi occhi, ma lui si limita a sfiorare la mano della ragazza. Mentre due del gruppo litigano, le ragazze tentano una vana fuga. Viene proposto di andare a chiamare gente in paese per abusare, a pagamento, delle due giovani. Ma il rifiuto di Marion a soggiacere all'ennesima sevizia fa si che Pallesecche la colpisca mortalmente alla testa con un martello. Mentre tutti scappano, Sylvia compresa, Ottorino picchia selvaggiamente l'assassino; quindi incarica Raniero di inseguire Sylvia verso la ferrovia, e con gli altri porta via il cadavere. Raniero rintraccia la ragazza, ma questa si rifugia presso un casellante, intervengono i carabinieri che arrestano così Raniero.

Critica:
Dal romanzo omonimo di Andrea Carraro. In una cittadina laziale (il fatto di cronaca cui s'ispira avvenne a Marcellina) un gruppo di ragazzi compie uno stupro collettivo di cui sono vittime due autostoppiste tedesche. Una delle due muore e viene scaricata in un laghetto come immondizia. Al crimine partecipano un adulto e, come complice, un anziano. Calato in un clima notturno di noir campestre in bilico sull'horror, è un film di denuncia che lascia fuori campo la dimensione sessuale, tranne che in una scena, ma è indebolito da goffi ritorni all'indietro sull'ambiguo personaggio di Raniero, il più gentile del gruppo e forse il peggiore (...).
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli

Ragazzi fuori? No, ragazzi vuoti. Questa volta Marco Risi tiene le distanze, non entra in confidenza con i suoi giovani protagonisti, non capisce, anzi ci dice che c'è poco da capire: la violenza è gratuita, espressione del nulla di una generazione allo sbando, pura bestialità rognosa e ringhiante. Brutti, sporchi e cattivi, dunque, i ragazzi del Branco: chissà se Risi si è chiesto quale grado di parentela ci sia tra Raniero e i suoi amici stupratori del sabato sera in questo suo ultimo film e i Ragazzi fuori di cui ha raccontato altra volta i casi. Perché, tutto sommato, la questione di un film come Il branco è proprio qui, nella mancata continuità di un rapporto chiaro e semplice tra un regista e i suoi personaggi.
Ci si chiede infatti dove siano finite le mille buone ragioni che avevano fatto dei ragazzi di Palermo dei Ragazzi fuori e che, ora ignorate e messe a tacere, fanno di questi ragazzi un Branco assassino. Forse sono rimaste in tasca ad Aurelio Grimaldi, e Marco Risi non è riuscito a trovarle nelle pagine di Andrea Carraro, dal cui omonimo libro (singolare esempio di romanzo-parassita, ispirato ad uno dei dodici episodi di stupro raccontati da Tina Lagostena Bassi nel suo “L'avvocato delle donne”) ha tratto ispirazione per questo suo nuovo film-verità. Non che ci siano buone ragioni, sia chiaro, nella storia di questi sbandati ragazzi dell'entroterra romano che un sabato sera, mentre il paese è in festa nel giorno del patrono, si trastullano violentando a turno due autostoppiste tedesche rapite e portate di forza nella squallida baracca di uno sfasciacarrozze. La questione, però, riguarda l'approccio di Risi alla vicenda raccontata, che, in questo caso, non si sforza neanche di andare oltre l'orrore di un atto brutale e abbrutente, fermandosi all'effetto orripilante e alla semplice condanna.
Non basta, insomma, dire che il film lavora sulle dinamiche di gruppo aberranti, sull'appiattimento che il branco opera sul singolo e sulle sue buone potenzialità, annullandolo nella devianza della violenza. Le ragioni di un triste fatto come quello raccontato nel film sono ben altre e Risi non le sfiora neanche. Il distacco e la sufficienza con cui l'autore tratta il personaggio di Raniero è in questo senso sintomatico: Risi ne fa un ragazzotto figlio di mamma, che piange quando il padre gli dà del buono a nulla, aspetta la chiamata nei Carabinieri, bamboleggia con la fidanzata, sogna di lasciare il paese, non sa andare a donne e, per la sua debolezza, rischia di essere emarginato dal gruppo. Su questo perdente senza qualità il film monta la sua struttura tematica senza però articolarla in profondità. Sicché è lui che cerca di risparmiare lo stupro ad una delle due ragazze, ma non evita di sottolineare morbose motivazioni, sino al laconico giudizio della tedeschina che gli dice: “Gli altri sono delle bestie, tu sei solo un verme!”. Ed ha ragione, la ragazza, perché Raniero, al quale pure Risi e Carraro vorrebbero affidare un doppiofondo prolifico di risvolti umani e sociali, resta una sagoma senza nerbo. Il film non riesce minimamente ad approfondire il suo rapporto col gruppo, accennando in un primo momento al fatto che, in realtà, il primo ad essere "violentato" dal branco è proprio lui, ma poi schiacciandolo sotto la responsabilità di aver suggerito agli altri l'idea di invitare tutto il paese alla "festa" per una botta a pagamento.
Sicché il finale - col suo delirio madonnaro, le memorie religiose d'infanzia, la commozione, la confusione... crolla addosso a questo misero ragazzotto, senza accrescerne di un grammo il peso narrativo. E Risi dimostra di fare cinema puramente formale, girato anche bene - ché Il branco, se é per questo, ha forza e sa toccare i nervi, soprattutto del pubblico femminile (...).
Massimo Causo, Cineforum n.337 (9/1994)
http://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/27c15722108a5db6c1256f470053d7cc/0b6f89f7c5eaa22bc1256c0f00508b63?OpenDocument


Il Branco (… Storie che non passeranno mai di moda…)
Una di quelle notti in cui puoi imbatterti casualmente in un film, e lo cominci a vedere quando è già iniziato. Prima ti cattura l’attenzione perché  riconosci il volto di attori affermati, un po’ più giovani: Ricky Memphis (pallesecche) giovanissimo e con le mechès bionde, Giorgio Tirabassi (Sola) magrissimo e con lo sguardo spiritato, e un altro grande attore del cinema italiano, Luca Zingaretti. Il film lo continui a seguire perché l’estetica dei personaggi richiama alla memoria quei bulli di paese che ricordano uno come me (vicino ai trent’anni) nei tempi in cui frequentava le scuole medie: erano i primi anni ’90, i bulli amavano moltissimo la musica dance, posizionare il motorino su una ruota, ed indossare il bomber. Dopo le prime impressioni, leggermente nostalgiche, non puoi fare a meno di seguire una storia ben intessuta, la storia di questi ragazzi di un paese del Lazio (ispirato ad un fatto di cronaca vera), dove così per caso, avviene tutto in una notte. Capitanati dagli adulti del posto,  Luca Zingaretti, “Ottorino”, e Natale Tulli, “Sor Quinto”, vengono trascinati con leggerezza: “sembra una serata tranquilla, tra amici”  che, però, si caratterizza per il rapimento di due ragazze tedesche, che culminerà in un brutale stupro di gruppo fino al paradosso tragico, non tralasciando l’aspetto goliardico e circense di come viene vissuto il tutto; trasuda, infatti, nelle loro  azioni la stupidità collettiva di certi individui. Il colpo di genio del regista sta nell’affiancare  in certe scene,  azioni  che appaiono divergenti: c’è lo stupro di massa, c’è un ragazzo che balla e degli adulti che mangiano la porchetta. C’è, poi, il protagonista Raniero che nutre dei sentimenti di pietà nei confronti di una delle due vittime: lui rappresenta l’anello debole del Branco, e forse al branco neanche appartiene; infatti, salva la ragazza; poi, subito dopo si trasforma in fautore dell’idea circense, donandola al suo branco: “Possiamo ricavarne dei soldi …”, reazione data dalla frase più emblematica del film, “Loro sono degli animali, ma tu sei un verme”, gli dice  la ragazza. Dove lo porterà questa debolezza, non è mia intenzione dirlo: il finale non ve lo rovinerò, ma sappiate che questo film si fa simbolo della crudeltà ben rappresentata, di quella crudeltà che scaturisce dalla vigliaccheria  individuale di chi da solo non avrebbe il coraggio di compiere nulla, neanche di conquistare una donna se non pagandola. Individui che ignorano anche il reale significato di desiderio… Sono forse questi gli umani?!
Antonio Di Cori
http://ilsileno.it/2012/06/16/il-branco-storie-che-non-passeranno-mai-di-moda/
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Parla lo stupratore: " Io, uno del branco "
Crielesi Franco 32 anni colpevole di aver partecipato allo stupro di Moosmann Marion Christine e Rosati Silvia due ragazze tedesche che, nel maggio del 1983 accettarono un passaggio in auto
MILANO . 20 maggio 1983, Marion Christine Moosmann e Silvia Rosati, due ragazze tedesche di 19 e 20 anni, accettano un passaggio in auto da tre ragazzi a Marcellina, poco lontano da Roma. E l' inizio di un incubo: un giorno e una notte nelle mani di dieci violentatori... La storia di Marion e Silvia ha ispirato Marco Risi per "Il branco", film presentato quest' anno a Venezia. Dopo quella atroce avventura, le due ragazze hanno cercato aiuto nella droga e nell' alcol. Silvia ne e' uscita, un grande amore l' ha riportata alla vita. Marion, che al momento della violenza era ancora vergine, non ce l' ha fatta: e' morta di overdose tre anni fa. Il processo si svolse in un clima infuocato, da una parte gruppi di femministe, dall' altra amici e parenti degli imputati. In aula gridavano che le due ragazze erano puttane, facevano l' autostop. Un difensore degli stupratori arrivo' a dire che quei dieci erano solo dei ragazzi un po' goliardi. Franco Crielesi ricorda quei fatti accompagnato dalla moglie Romina, di vent' anni. "Ce so' stato, con una sola. Come so' arrivato stava gia' in macchina... la facilona. Mica l' ho spogliata, stava gia' li' . L' altra, sinceramente, manco l' ho vista".
http://archiviostorico.corriere.it/1994/ottobre/05/parla_stupratore_uno_del_branco_co_0_9410052364.shtml

lunes, 29 de abril de 2013

...a tutte le auto della polizia - Mario Caiano (1975)


TITULO ORIGINAL ...a tutte le auto della polizia
AÑO 1975
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 95 min.
DIRECCION Mario Caiano
ARGUMENTO Novela "Violenza a Roma" de Massimo Felisatti y Fabio Pittorru
GUION Massimo Felisatti, Fabio Pittorru
REPARTO Antonio Sabàto, Enrico Maria Salerno, Gabriele Ferzetti, Elio Zamuto, Ettore Manni, Luciana Paluzzi, Bedy Moratti, Gloria Piedimonte, Franco Ressel, Marino Masé, Margherita Horowitz, Andrea Lala, Tino Bianchi, Ida Di Benedetto
FOTOGRAFIA Pier Luigi Santi
MONTAJE Romeo Ciatti
MUSICA Coriolano Gori
PRODUCCION Capitol Jarama
GENERO Policial

SINOPSIS La figlia sedicenne di un noto chirurgo romano viene trovata cadavere nel lago di Albano. Dopo aver battuto una falsa pista, la polizia scopre un traffico di minorenni. Poliziottesco all'italiana con qualche ambizione di critica del costume sulla borghesia romana degli anni '70. Salerno e Ferzetti danno decoro a personaggi scritti con la carta carbone. (Il Morandini)



TRAMA:
Fiorella Icardi, figlia sedicenne di un celebre chirurgo romano, scompare misteriosamente e viene poi ritrovata cadavere sul fondo del lago di Albano. Un colpo d'arma da fuoco alla nuca ed altri indizi fanno dapprima concentrare i sospetti della polizia, che si è messa alacremente al lavoro su di un certo Enrico Tummoli, detto Mammone, incallito guardone e proprietario di una trattoria. Seguendo le mosse di Carla, una compagna di scuola di Fiorella, si viene a scoprire un vero e proprio traffico di minorenni di buona famiglia, diretto da Franz Hekker (alias Franz Pagano), di origine olandese. Nel giro è implicato pure il Consigliere Mordini, più volte ministro e grande nume protettore di Icardi, il questore, però è stranamente interessato ad attribuire tutte le colpe ad Enrico Tummoli ed a chiudere subito la faccenda. Questo anziano vizioso viene però eliminato e la stessa sorte tocca al ginecologo della casa di appuntamenti ed allo stesso Franz Pagano. Le tracce dei copertoni dell'auto e la verifica di altri particolari conducono, infine, lo zelante Commissario Carraro a mettere le mani sul pluriomicida dott. Giacometti, collega ed amico di famiglia di Icardi.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=16112&film=-a-tutte-le-auto-della-polizia

CRITICA
[…] Pur avendo a disposizione una schiera di attori collaudati Caiano non riesce ad imprimere il ritmo giusto al racconto. Ci sono pause e ristagni, inutili sottolineature grandguignolesche, il ricorso ad espedienti logori, insomma una cinematografia di serie minore. Antonio Sabàto ed Enrico Maria Salerno sono i due commissari. Non molto convinti, a dire il vero. Si vede anche in qualche scena Gabriele Ferzetti.
C.R. - Il Giorno - 10/09/1975

[…] Mario Caiano ha diretto [il film] attenendosi alle regole d’uso, puntando ora sulla violenza, ora sull’azione, ora sulla suspense, ma con discontinuità, senza mai impegnarsi a fondo e poco curandosi di imprimere al racconto il ritmo che gli sarebbe stato congeniale. Antonio Sabato, Enrico Maria Salerno, Luciana Paluzzi e Gabriele Ferzetti gli interpreti principali, sacrificati in ruoli disegnati con approssimazione si fanno apprezzare per buona volontà insieme alla giovane promettente nuova stellina Gloria Piedimonte.
Cer. - Il Messaggero - 01/11/1975


Fiorella Icardi ( Adriana Falco) , figlia sedicenne di un barone della medicina, il professor Icardi (Gabriele Ferzetti) ammanigliato con politici e affarista senza scrupoli, scompare di casa misteriosamente. Il padre,il professor Icardi, coinvolge immediatamente le sue conoscenze, e alla polizia arriva l’ordine di impegnare tutte le forze nella ricerca della ragazza. Carraro (Enrico Maria Salerno), il capo della squadra mobile, delega alle stesse il commissario Solmi (Antonio Sabato), uomo burbero ma ligio al dovere e l’ispettrice Giovanna Nunziante (Luciana Paluzzi); seguendo la flebile pista lasciata dalla ragazza, che è andata via di casa senza soldi e con il motorino, con l’aiuto di cani addestrati, i due riscono a individuare il posto in cui giace il cadavere della povera Fiorella; è a pochi metri dalla riva, nel lago, legata al suo motorino. L’assassino le ha sparato un colpo alla nuca.
Il motivo diventa chiaro durante l’autopsia; la ragazza infatti era incinta di tre mesi. Grazie ad una soffiata involontaria, Solmi rintraccia Tummolo, un guardone che si apposta tra gli alberi nel bosco che circonda il lago per spiare le coppiette eapprende così, nonostante l’evidente reticenza dell’uomo, che la ragazza una volta a settimana si recava sul posto per amoreggiare con un uomo in possesso di un auto bianca con targa straniera.
Ma è l’ispettrice Giovanna a determinare la svolta nelle indagini: seguendo Carla (Gloria Piedimonte), un’amica di Fiorella, arriva a scoprire un giro di prostituzione minorile capeggiato da Franz Hekker, un losco individuo già implicato in precedenza in traffici del genere. Durante l’irruzione alla villa di Hekker, la polizia trova foto compromettenti delle ragazze e una lunga lista di nomi di personaggi in vista, fa cui un ex ministro. La polizia sospetta sia di Hekker che di Tummolo, ma quest’ultimo vine ucciso dal misterioso assassino.
La stessa fine fa dapprima il ginecologo che aveva visitato Fiorella, poi Carla, che si era rifugiata in casa di Hekker. Il misterioso killer sta eliminando una ad una tutte le tracce che potrebbero portare alla sua identificazione, ma una brillante trappola, preparata da Solmi, porterà alla scoperta della sua identità, con colpo di scena finale.
A tutte le auto della polizia, diretto da Mario caiano nel 1975, è un ibrido che potrebbe tranquillamente appartenere alla categoria thriller così come a quella, di gran fortuna in quegli anni, del poliziesco all’italiana. La trama è ben congegnata, e non manca la suspence per tutta la durata del film, grazie anche allo stuolo di bravi attori che fanno parte del cast, a partire da Gabriele Ferzetti, nei panni dell’arrogante professor Icardi, del sempre bravo Enrico Maria Salerno, il capo della mobile Carraro, di Antonio Sabato, un cinico e disincantato ispettore Solmi e della sempre bella Luciana Paluzzi. Bene anche Gloria Piedimonte, che ha una buona parte nel film; l’attrice avrà il suo momento di celebrità ballando nella sigla della trasmissione musicale televisiva Discoring.
Nel film compare, per pochi istanti, e nuda come suo solito il futuro onorevole Ilona Staller, nel ruolo di una prostituta che lavorava nella villa. Tutto sommato un buon lavoro, come al solito stroncato dai critici poco propensi a riconoscere una qualche dignità ai film di produzione italiana, definiti sprezzantemente B movie. Solo qua in patria, però, visto che negli Usa furono molti i registi che si ispirarono al cinema italiano per prendere idee.
http://filmscoop.wordpress.com/2009/02/28/a-tutte-le-auto-della-polizia/
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Il malcostume nell'alta borghesia romana
Fiorella, figlia sedicenne di un barone della medicina, scompare di casa. Il padre coinvolge le sue conoscenze, alla polizia arriva l’ordine di impegnare tutte le forze nella ricerca. Il capo della squadra mobile delega un commissario burbero ma ligio al dovere e un'ispettrice; seguendo una flebile pista i due riescono a individuare il cadavere della ragazza, uccisa con un colpo alla nuca. Durante l’autopsia si scopre che era incinta di tre mesi. L'assassino è stato visto da un guardone, titolare di una trattoria e da Carla, un'amica di Fiorella. Seguendo Carla, si viene a scoprire un vero e proprio traffico di minorenni di buona famiglia, diretto da un'olandese. Irrompendo nella sua villa, la polizia trova foto compromettenti delle ragazze e una lunga lista di nomi di personaggi in vista, fa cui un ex ministro legato al chirurgo. Dapprima i sospetti cadono sul guardone, ma l'anziano vizioso viene ucciso, così come un ginecologo che praticava gli aborti clandestini alle ragazze e lo stesso olandese. Anche Carla, che si era rifiugiata nella casa di quest'ultimo, subisce la stessa sorte: l'assassino cerca di eliminare tutte le tracce che potrebbero identificarlo, ma una trappola intelligente, preparata dal commissario, lo smaschererà. Tratto dal romanzo “Violenza a Roma” di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru (che sceneggiarono il film), un film molto interessante con un ottimo cast. Un po' lento nella prima parte, ma poi la storia scorre in una trama piuttosto intricata dove, come ne “La polizia chiede aiuto” dell'anno prima, il giallo finisce per prevalere sul poliziottesco. Buone musiche di Lallo Gori. Belle location. Molti nudi di giovinette. Solida regia di Mario Caiano. Nel finale si rientra nel poliziottesco da cui si era usciti per buona parte del film, con un colpo di scena che delude però chi si aspetta una soluzione coerente con la trama gialla e costituisce forse l'unico punto veramente debole del film.
Paolo 67
http://www.mymovies.it/pubblico/articolo/?id=623969

domingo, 28 de abril de 2013

Cosi ridevano - Gianni Amelio (1998)


TÍTULO ORIGINAL Così ridevano
AÑO 1998
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 124 min.
DIRECTOR Gianni Amelio
GUIÓN Gianni Amelio
MÚSICA Franco Piersanti
FOTOGRAFÍA Luca Vigazzi
REPARTO Enrico Lo Verso, Francesco Giuffrida, Fabrizio Guifini, Giuliano Spadaro
PRODUCTORA Pacific Pictures
PREMIOS
1998: Venecia: León de Oro y Mejor fotografía
1998: Premios David di Donatello: 3 nominaciones
GÉNERO Drama | Inmigración

SINOPSIS Historia de dos hermanos sicilianos emigrados a Turín. Giovanni, el mayor, acaricia un ambicioso proyecto, que aparentemente está muy lejos de sus posibilidades, pero está dispuesto a hacer lo que sea con tal de hacerlo realidad: desea que Pietro, su hermano pequeño, obtenga el título de maestro. El problema es que Pietro no quiere estudiar. (FILMAFFINITY)




Vincitore della cinquantacinquesima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Il film è una storia dell'emigrazione italiana nella Torino di fine Anni Cinquanta. Giovanni, il protagonista, ha una voglia di riscatto da donare a Pietro, il fratello minore. Vuole che diventi maestro elementare. Si intuisce fin dall'inizio che la storia è ancora la vicenda conflittuale dei rapporti tra i due fratelli. Il film si svolge in sei giornate fra il 1958 e il 1964. Giovanni è pronto a tutto pur di mantenere Pietro agli studi. Accetta qualsiasi lavoro, lo accudisce con cura e e sullo sfondo passano le lotte operaie e il boom economico. Pietro si diploma da privatista, Giovanni sempre più ossessivo si isola, si indurisce, fa fortuna sulla pelle degli altri emigranti. Fino al finale amarissimo che vede i due fratelli sempre più lontani, le rispettive identità in frantumi e il legame di sangue suggellato dal peggiore dei vincoli: l'omertà.
L'assegnazione del premio è stata accompagnata da non poche polemiche. Ecco come ha reagito la stampa italiana.

Da "La Repubblica" del 04/10/98 - Irene Bignardi:
... "Le ambizioni del film di Amelio - come tutta la sua storia di autore - sono generose e "totali": ma la scelta di mettere a fuoco, sullo sfondo di quei pochissimi formidabili anni, un rapporto tra fratelli che da una parte ricorda il viscontiano Rocco, dall'altra la Cronaca familiare di Zurlini, ma che soprattutto si propone come emblematico di un momento fondamentale della nostra storia sociale, si rivela in effetti un progetto riduttivo. Nonostante (e in parte per) la folla di personaggi e di presenze, nonostante la ricchezza della ricostruzione che fa sfilare macchine d'epoca e riveste Torino di una permanente bruma autunnale, il dramma dell'amore malinteso dei due fratelli si staglia su uno sfondo paradossalmente vuoto, che non lascia percepire granché dei grandi conflitti di quegli anni, della convivenza tra povertà e benessere, del boom annunciato, della battaglia sindacale in una città che era allora il laboratorio sociale dell'Italia in ascesa, per privilegiare piuttosto il dramma dell'incomunicabilità fraterna...".

Da "La Stampa" dell'11/09/98 - Lietta Tornabuoni
"LEONE d'oro alla Mostra di Venezia, il film bellissimo e importante racconta la storia di due fratelli siciliani emigrati a Torino, negli anni 1958-1964 di quella grande migrazione da Sud a Nord che fu il primo vero incontro tra le due parti del Paese nella storia dell'Italia unita e che confuse identità, culture e linguaggi nel passaggio Dalla civiltà contadina a quella industriale. Una tragedia della famiglia intesa come possesso e sopraffazione "a fin di bene", narrata con grande maestria cinematografica. Enrico Lo Verso è molto bravo, la scelta del debuttante Francesco Giuffrida è quasi miracolosa".

Da "Il Messaggero" dell' 11/09/98 - Fabio Ferzetti
"...Così ridevano di Gianni Amelio è un film struggente e contraddittorio, calcolatissimo e appassionato, affollato e così pudico da essere costellato di sapienti "buchi" narrativi. L'essenziale talvolta resta fuori campo, sta a noi immaginarlo. ... Un film discontinuo, incandescente e gelido insieme, ma che difficilmente non ritroveremo fra i premi".

Così ridevano...
...Nella rubrica della Domenica del Corriere: uno spazio era dedicato agli aneddoti e alle vicende quotidiane dell'Italia di allora.
http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=ridevano


Dichiarazioni
«All’inizio doveva essere Milano, l’unica altra alternativa per una storia ambientata in quegli anni, con gente del Sud che migra al Nord, il lavoro, la fabbrica, eccetera. Forse pesava il ricordo di Rocco e i suoi fratelli o forse, a sfavore di Torino, giocavano vicende mie personali, come il non essere riuscito a girarvi Colpire al cuore, e soprattutto il fatto che in un ospedale di Torino è morta mia madre e io ho cercato per tanto tempo di non metterci più piede. Così sulla prima pagina della sceneggiatura ho scritto: “Scena 1 – Stazione di Milano” […]. Ma già alla fine del primo episodio era comparsa la Mole Antonelliana (scambiata per il Duomo di Milano…) e non ho avuto esitazioni: una sfida anche con me stesso. […] La fotogenia di una città è come quella di un viso: importante è come lo si inquadra, la luce con cui lo si riprende. Torino ha questo di particolare, secondo me: respinge l’effetto “cartolina”. Mi spiego meglio. Ci sono città un po’ troppo consumate dal cinema, come Roma Napoli, o la stessa Milano. Tutte e tre hanno, nei loro punti chiave, riconoscibili, un che di eccessivo, di ingombrante, un eccesso di cristallizzazione in cui l‘immagine può apparire statica, da cartolina appunto. Torino invece no. E non perché vi abbiano girato meno film. Credo che le mura, i palazzi, le strade di Torino esprimano tutta la loro storia senza però ostentarla: i monumenti, anche i più “eccessivi”, sono come velati da una patina di discrezione. La stessa che c’è nei torinesi»
(G. Amelio, Così ridevano, Lidau, Torino, 1999).

Il film si struttura in sei capitoli apparentemente slegati tra di loro, privi di rapporti di interconnessione temporale e di causa-effetto: perciò lo spettatore è costretto a “ricostruire” con la propria intelligenza e immaginazione tutto ciò che non gli viene mostrato, assumendo un ruolo non passivo. Il fascino di questo procedimento drammaturgico ed espressivo conduce il film in una dimensione astratta e al tempo stesso completamente immersa nell\'oceano delle sensazioni, dei sentimenti, della sofferenza.
Il dramma che viene messo in scena nel film è quello dell’emigrazione, della miseria, della difficile integrazione sociale, ma è anche un dramma d’amore: un amore che consuma, divora, distrugge chi lo vive fino in fondo. Pietro e Giovanni sono uniti da un legame ossessivo, folle, totalizzante, indicibile e indescrivibile, caratterizzato da possessività perversa, omosessualità latente, dedizione incondizionata e ricattatoria. L’impossibilità di realizzare nella prassi un simile sentimento conduce la struttura drammaturgica del film non soltanto verso i canoni del melodramma, ma verso un vero e proprio ribaltamento degli schemi narrativi tradizionali.
«Due fratelli/amanti. Giovanni e Pietro, Eurialo e Niso, corpi celibi che s’inseguono e si smarriscono, si camuffano e si svelano, si rispecchiano e si abbagliano, si amano e si tradiscono […] fin dalla indimenticabile, rarefatta sequenza iniziale della stazione ferroviaria […]. Un amore che non consuma ma si consuma e comunica attraverso le forme informi, inarticolate e “viscerali” dell’ansimare: nel soffio affannoso, in quel sospiro di piacere-dolore che dà fiato – fino all’ultimo respiro… - all’esaltazione amorosa con la quale Giovanni tallona, guarda, cerca, circuisce, insidia, abbraccia, “tocca” i silenzi complici e la “passività partecipe di Pietro, già memore del suo destino» (F. Bo, in E. Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, Lindau, Torino, 1999).
Gli inconfessabili e irrappresentabili sentimenti rimossi, infatti, sono espressi in virtù della loro stessa irrappresentabilità; pertanto gli eventi che costituiscono gli snodi drammatici fondamentali della vicenda avvengono fuori scena, negati alla vista dello spettatore. L’autenticità più profonda risiede nel non detto, nelle numerose sospensioni del racconto, nelle consistenti ellissi temporali che nascondono ciò che accade “fuori dal film” tra un “episodio” e l’altro. «Ecco allora che il meccanismo dell’impossibilità amorosa, che è una delle basi narrative e psicologiche fondanti il melodramma, diventa anche una delle chiavi per interpretare “socialmente” il nostro mondo: lo sapeva Michael Powell, nel romanticismo vorticoso e stilizzato dei ritrosi anni ‘40 inglesi, lo sapeva Douglas Sirk, nel rilucente egoismo consumistico degli anni ’50 americani, lo sapeva Fassbinder nella disperazione lancinante degli anni ‘70 europei. E sembra saperlo Amelio, nello squallore colorato e danzante del qui e ora, dove non c’è più nessuno che sembri disposto ad assumersi la responsabilità del dolore, individuale e collettivo» (E. Martini, Op.cit.).
«È facile verificare che il metodo di lavoro, la poetica, lo stile espressivo di Amelio subiscono modificazioni dal suo primo film all’ultimo, ma resta sostanzialmente inalterata la coerenza a un certo tipo di sensibilità creativa. Da La fine del gioco a Il piccolo Archimede, da Colpire al cuore a I ragazzi di via Panisperna, da Porte aperte a Il ladro di bambini, da Lamerica a Così ridevano, il nodo drammatico della messinscena è sempre situato nel confronto/scontro tra vecchi e giovani, padri e figli, maestri e discepoli veri o metaforici. Tale confronto costituisce sostanzialmente lo strumento che l’autore utilizza per esprimere una propria realtà profonda: i ruoli dei personaggi contrapposti sono più apparenti che sostanziali, perché ognuno è intercambiabile con l’altro, gli corrisponde in modo perfetto o speculare, lo completa proprio opponendosi a lui. Così, anche i personaggi di Pietro e Giovanni non costituiscono propriamente due individualità distinte e contrapposte, ma rappresentano due diversi e intercambiabili modi di agire e di sentire: sono in realtà la stessa persona» (F. Prono, in G. Amelio, Così ridevano, Lidau, Torino, 1999).
Secondo questa logica “antropomorfica” e soggettiva, anche i luoghi che i protagonisti del film di Amelio attraversano, gli ambienti in cui si muovono, paiono in qualche modo più metaforici che dotati di concretezza vera e propria. Lo spazio scenico è a sua volta un personaggio, non una pura e semplice scenografia, in quanto esprime visivamente l’interiorità degli esseri che vi sono inseriti, l’angoscia provocata dal “labirinto” esistenziale in cui si trovano rinchiusi. I meridionali che alla fine degli anni Cinquanta vediamo emigrati a Torino soffrono una situazione di emarginazione, estraneità, abbandono. La città in cui giungono è mostrata dal film così come essi la vedono con i loro occhi, “scoperta” a poco a poco attraverso la loro attonita e timida curiosità. Con naturalezza essi attraversano Torino con percorsi faticosi nell’ambito del centro storico, e vengono inquadrati per lo più con campi lunghi e medi che mettono in evidenza il rapporto tra realtà urbana e singoli esseri spaesati.
Porta Nuova, piazza Carlina, via Milano, Porta Palazzo, via della Consolata, Palazzo Paesana, piazza Madama Cristina, piazza Palazzo di Città, via della Basilica, via Santa Chiara, la Galleria Umberto I, i portici di Corso Vinzaglio, non costituiscono perciò un semplice sfondo delle vicende che vi si svolgono, ma hanno un ruolo “attivo”, da veri e propri personaggi, che interagiscono con quelli in carne ed ossa. Gli esterni e gli interni torinesi paiono spesso sorprendenti per intensità e autonomia espressiva, e pur nella sostanziale “verità” della loro presenza sullo schermo essi possiedono qualcosa che va oltre la loro effettiva realtà e al tempo stesso perdono alcune delle loro caratteristiche più importanti, tanto da apparire irreali e fantastici. La città riempie di sé le inquadrature con la propria presenza fisica, ma è allo stesso tempo assente, invisibile. Come il sentimento e la realtà intima dell’uomo sono irrappresentabili, così anche il luogo in cui l’uomo vive è ugualmente irrappresentabile. Lo spazio urbano che appartiene a Così ridevano è dunque quello di una Torino metaforica, ideale, astratta, non-luogo, luogo della mente, luogo dell’interiorità, e proprio per questo motivo, alla fine, si rivela essere più autentica di quella che riconosciamo vivendovi quotidianamente.
Scheda a cura di Franco Prono
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=11

sábado, 27 de abril de 2013

Paz! - Renato De Maria (2002)


TÍTULO ORIGINAL Paz!
AÑO 2002
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACIÓN 102 min.
DIRECTOR Renato De Maria
GUIÓN Renato De Maria, Ivan Cotroneo, Francesco Piccolo (Comic: Andrea Pazienza)
MÚSICA Meme, Riccardo Sinigallia
FOTOGRAFÍA Gianfilippo Corticelli
REPARTO Flavio Pistilli, Cristiano Callegaro, Matteo Taranto, Fabrizia Sacchi, Claudio Santamaria, Max Mazzotta, Barbara Bonanni, Iaia Forte, Maxine Agusto, Roberto Freak Antoni, Bruno Ardilesi, Vittorio Attene, Rosalinda Celentano
PRODUCTORA Tangram Film
PREMIOS 2001: Premios David di Donatello: 2 nominaciones: actriz secundaria y diseño de producción
GÉNERO Comedia | Cómic

SINOPSIS Basada en cuatro historietas del dibujante Andrea Pazienza, sigue las andanzas de estudiantes y radicales durante los años 70 en Bologna. (FILMAFFINITY)





Siamo a Bologna alla fine degli anni '70.
In un appartamento, in Via Emilia Ponente 43, convivono senza mai incontrarsi, ma solo sfiorandosi, tre personaggi: Pentothal, Enrico Fiabeschi e Massimo Zanardi, detto Zanna.
Questo è il racconto di 24 ore nella vita di questi ragazzi: dalle quattro del mattino all'alba del giorno successivo, storie di mondi paralleli che convivono nello stesso spazio, cominciando e finendo alla stessa ora.
Pentothal, studente fuorisede, è un fumettista che lavora pochissimo e studia ancor meno. All'inizio della nostra storia, viene lasciato dalla fidanzata Lucilla, una femminista bella e tosta. Sempre in pigiama e con delle logore clark slacciate ai piedi, vive chiuso nella sua stanza, dove tra canne, sogni e visioni, sente il mondo scorrergli a fianco. I suoi compagni conviventi - impegnatissimi nella lotta del movimento studentesco -, la mensa universitaria, il bar affollato dal quale telefona alla madre per chiedere soldi, sono apparizioni sfocate tanto quanto i suoi sogni e la sua vera ossessione: Lucilla. Un miraggio che appare e scompare.
Enrico Fiabeschi è il classico fuorisede che è anche fuoricorso. Non gli importa nulla della politica e meno che mai dell'amore. Si fa mantenere dalla fidanzata Anna, dalla quale si fa regolarmente e metodicamente prestare 'cinque carte'. Anna lavora, Fiabeschi no. Quella mattina è l'ultimo a svegliarsi. Deve dare un esame al DAMS, altrimenti parte militare. Come argomento porta "apocalipsi now", regia di Francis Ford Coppola, musiche dei Doors. Punto, non sa nient'altro.
Massimo Zanardi, naso a becco e occhi da lupo, è il terzo abitante dell'appartamento di Via Emilia Ponente 43.
Studente liceale pluriripetente, Zanardi ha solo due amici - anch'essi pluriripetenti - dai quali è inseparabile: Roberto Colasanti, detto Colas, bello e ricco, una macchina da sesso che parla pochissimo ma c'è sempre e Sergio Petrilli, bassino, bruttino ed anche povero.
Zanna, Colas e Petrilli vengono accusati dalla preside, la signorina Corona di aver crocifisso il suo amato gatto Galileo. La prova del misfatto è l' agenda di Zanna, che la preside afferma di aver trovato nel suo giardino. Il recupero della compromettente agenda mette in moto un giallo in piena regola…
http://www.cinemaitaliano.info/paz
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E' difficile stroncare un film che mi e' piaciuto. Ma in questo caso e' assolutamente necessario.
Vedendo Paz!, la prima cosa che viene in mente sono, purtroppo, i film con Boldi e De Sica.
Abbiamo la stessa struttura a sketch, senza una storia d'insieme; abbiamo lo stesso uso delle musiche, con l'inserimento di canzoncine famose ed accattivanti; abbiamo l'inserimento di personaggi riconoscibili in qualità di comparse (Freak Antoni e Giovanni Lindo Ferretti, come Leslie Nielsen o Megan Gale per i Vanzina); abbiamo lo stesso tipo di umorismo, con allusioni e scenette sul sesso o sulle funzioni corporali (come la scena di Fiabeschi in bagno). Il tutto ovviamente rapportato ad un target totalmente diverso, con la cultura di sinistra e Bologna a sostituire gli yuppie e Cortina.
E nonostante tutto questo "Paz!" non mi e' dispiaciuto. Perché mi emoziono a sentire i CSI e gli Skiantos, perché a Bologna l'Università l'ho fatta anch'io, perché mi ha riportato nei ricordi a un periodo che ormai e' finito. Mi e' piaciuto, insomma, proprio perché sono lo spettatore a cui il film deve per forza piacere, al di la dei suoi demeriti cinematografici.
Mi e' piaciuto, ma e' un brutto film. Ed e' un peccato perché gli attori sono bravissimi, sia i protagonisti che i comprimari (immensi Antonio Rezza e Frankie Hi Nrg Mc), i personaggi indovinati, le musiche ottime. E perché il regista la passione ce l'ha messa. Aggiungendo una sceneggiatura a cui poter dare un titolo diverso da "Boldi e De Sica al DAMS" poteva essere un bel film. Ma non lo e'.
Graziano Montanini
Il cinema ha spesso tratto ispirazione dal mondo dei fumetti per costruire storie o visualizzare atmosfere, ma si tratta, occorre ricordarlo, di due modi di comunicare diversi. Nel fumetto il tratto del disegno e l'immobilità dei personaggi lasciano aperto un mondo alla fantasia del lettore. Non e' quindi detto che la trasposizione su pellicola di vignette, riesca a comunicare la stessa sensazione. Il film "Paz!!" si ispira visivamente ai fumetti e ai personaggi di Andrea Pazienza, artista di culto degli anni settanta. Chi non conosce il fumetto, però, e' tagliato completamente fuori. Davvero difficile, infatti, appassionarsi o provare il benché minimo interesse per ciò che lo schermo racconta. Sembra di ritrovare i più triti luoghi comuni sui fermenti rivoluzionari post-sessantotto: il mondo e' diviso in due, o comunisti o fascisti, la "canna" e il sesso sono il "deus ex machina" di qualsiasi azione, gli ideali politici sono ridotti a slogan privi di sostanza. Probabilmente sarà ANCHE stato così, ma l'ennesima riproposizione acritica di un modello ormai ampiamente superato, potrà piacere ai nostalgici, ma non aggiunge davvero nulla di nuovo su un periodo storico invece interessante e carico di stimoli. Anche la messa in scena di Renato De Maria non convince: non basta piazzare un "Galletto", una "Fiat 127", attaccare qualche manifesto, imbrattare i muri e vestire le comparse con l'eschimo, per creare un'atmosfera credibile. Tra l'altro l'utilizzo del digitale non risulta la scelta più adatta: alcune sgranature sono veramente brutte e cozzano con lo stile dei fumetti, ruvido nei contenuti ma non nella forma. Gli attori, a parte il divertente Max Mazzotta (il mantenuto Enrico Fiabeschi), il volenteroso Claudio Santamaria (Pentothal, l'alter-ego di Pazienza) e la sempre brava Iaia Forte, si limitano ad assomigliare ai personaggi di carta da cui derivano. Alcuni caratterristi, poi, sembrano reclutati per strada all'ultimo minuto, con il copione ancora sotto al cappotto. L'assenza di una narrazione, con lo stanco succedersi di urla e rutti, si fa presto sentire e non e' sufficiente il contributo, nelle scelte musicali, di Gino Castaldo per dare ritmo alle vignette affiancate pedissequamente dal regista. Nulla di ciò che si vede, quindi, scalfisce e l'ironia delle intenzioni sfocia in una rappresentazione grottesca di nullo interesse. Probabilmente l'intenzione era di entrare nello spirito dei fumetti di Pazienza riproponendone lo stesso mondo, ma il risultato non va oltre la superficie delle immagini. Come se il libro a fumetti venisse sfogliato velocemente senza soffermarsi a leggerlo.
Luca Baroncini
http://www.centraldocinema.it/recensioni/15/15b/paz.htm


Renato De Maria
Data nascita: 1958, Varese (Italia)

Regista cinematografico e televisivo. Dalla disorientata Bologna descritta da Paz! ai gruppi terroristici degli anni di piombo de La prima linea, De Maria ha dimostrato di saper raccontare con semplicità piccole storie di uomini, sullo sfondo di un' Italia spaesata.

Video arte, documentari e produzioni indipendenti
Si avvicina al mondo della video arte da giovanissimo ma è nel 1982 che decide di mettersi alla prova, vincendo il premio per la migliore produzione video al Festival Cinema Giovani di Torino (con filmati completamente autoprodotti, intitolati Trilogy of Banal Life e Telepornovisione, il primo videoclip dei Gaznevada, gruppo musicale bolognese attivo alla fine degli anni Settanta).
Successivamente sperimenta le capacità narrative del documentario con Love is the Answer (1988), video incentrato sull'AIDS, e con Raoni's Return (1989), girato assieme al cantante Sting tra gli alberi della foresta amazzonica. L'anno dopo fonda la casa di produzione Monochrome, grazie alla quale riesce a trovare qualche finanziamento per dirigere un documentario sul '77 a Bologna, Il trasloco (1990).

Cinema e tv
Dopo una florida esperienza nel campo del documentario, punta al lungometraggio. Esordisce, sia come sceneggiatore che regista, con il film Hotel Paura (1996), dove vediamo recitare Isabella Ferrari (sua futura compagna), Sergio Castellitto e Iaia Forte. Il film, di taglio espressionista, accompagnato dalla musica degli Avion Travel, è il racconto di un uomo in declino che, passo dopo passo, raggiunge la condizione di vagabondaggio, sullo sfondo malinconico della stazione centrale di Milano.
Anche se ancora acerbo, lo stile di De Maria convince i critici e il pubblico. Dopo non molto tempo passa alla regia televisiva con la prima stagione di Distretto di polizia (venticinque episodi nel 2000).

La passione per Andrea Pazienza
La consacrazione giunge due anni dopo, con il film Paz! (2002), scritto da Ivan Cotroneo e Francesco Piccolo, e diretto con uno stile registico crudo e realistico. Il pubblico apprezza fin da subito gli strampalati protagonisti 'fuori corso', all'università come nella vita, del film; rappresentanti di una generazione allo sbando nella Bologna 'rock' disegnata e descritta dal fumettista Andrea Pazienza.
Il suo primo grande successo avviene quindi in ambito cinematografico (Paz! vince cinque Nastri d'Argento, un Globo d'Oro e due Ciak d'Oro) ma non abbandona la televisione.
Per il piccolo schermo dirige Doppio agguato (2003), con Luca Zingaretti, sul sequestro di Dante Belardinelli, e un paio di episodi sul commissario Maigret, interpretato da Sergio Castellitto (Maigret. Ombra cinese e Maigret. La trappola, entrambi del 2004).

Amatemi con Isabella FerrariNel 2005 scrive e dirige un film su misura per la compagna Isabella Ferrari, Amatemi, splendido ritratto di una donna alla ricerca di una personale rivincita esistenziale. Il ruolo femminile mette in luce le doti di attrice della Ferrari, così tanto da aiutarla concretamente a rinnovare il suo percorso di interprete.
Dopo questa pellicola, si dedica nuovamente alla televisione, girando Medicina generale (2008), serie dedicata al mondo dell'ospedale che cerca di imitare lo stile delle rivali americane, da ER a Grey's Anatomy.

Le polemiche su La prima lineaAttratto da sempre dai temi civili, nel 2009 decide di realizzare un film ambientato durante gli anni di Piombo, periodo difficile di sconvolgimenti con il quale l'Italia sta ancora facendo i conti. De Maria ci prova con La prima linea, con Giovanna Mezzogiorno e Riccardo Scamarcio, nei panni di Susanna Ronconi e Sergio Segio, giovani terroristi degli anni Settanta. Il film trae spunto dal libro autobiografico "Una vita in Prima Linea" scritto proprio da Segio.
Nicoletta Dose


Antistoria del fumetto italiano 
La rivoluzione interrotta di Andrea Pazienza


Antistoria del fumetto italiano (da Andrea Pazienza a oggi)
Il programma, realizzato da Limbo Film, nasce da una idea di Stefano Pistolini, Massimo Salvucci, Matteo Stefanelli e Stefano Misesti, con la collaborazione di Tiziana Lo Porto, Cristiano Panepuccia, Davide Stampa; animazioni di Stefano Misesti e interventi di Francesca Ghermandi.
Partiamo dal titolo, dalla prima parte: Antistoria del fumetto italiano «vuole essere "anti" proprio nel porsi in alternativa ai luoghi comuni di una storia del fumetto che tenga conto solo dei soli grandi nomi noti», è scritto nel comunicato ufficiale di Cult Network Italia, «ma non ragioni sul talento, le idee e il desiderio di emergere di una professionalità e di un underground che non hanno smesso d'essere stimolanti e originali, in un contesto socioculturale che invece si modifica rapidamente».
Tra parentesi, invece, troviamo quel nome simbolo di un modo di fare fumetto e intendere la professione che è tutt'uno con la vita: Andrea Pazienza ha rappresentato un'attitudine non più sperimentata da e con nessuno (fortunatamente, per la tragica fine; disgraziatamente, per la potenzialità creativa). E proprio dall'autore di San Benedetto del Tronto parte la prima puntata, da quel suo grido disperato, all'inizio del film Paz!, che squarcia i cieli bolognesi: «Amatemiii!». Attraverso la testimonianza di chi lo ha conosciuto, si cerca di analizzare come il talento di Paz abbia «scombinato le carte del settore, fino ad allora placidamente suddiviso tra fumetto popolare seriale e fumetto d'autore d'area Linus (Crepax, Pratt, Altan etc)».
E' la fine degli anni Settanta e l'autore de Le straordinarie avventure di Pentothal, indica la nuova via, quella della contaminazione, dell'autobiografismo, della mescola dei linguaggi, dell'attualità assoluta. «Pazienza crea uno choc e s'impone come padre della nuova scuola», sostengono gl'ideatori della trasmissione. «Ma presto, anzi subitaneamente, muore. Ciò che così resta, nella scena del fumetto italiano, è l'assenza di un padre e il bisogno dell'elaborazione del lutto, attraverso il necessario superamento».
Questo approccio psicoanalitico alla mente collettiva del Fumetto italiano contemporaneo, che fra difficoltà economiche ed editoriali sta costruendo il proprio percorso per tornare a essere fortemente propositivo, è televisivamente strutturato in due parti: da un lato, una serie di trasmissioni tematiche che, con le dichiarazioni di autori, disegnatori, sceneggiatori, critici, ricostruiscano l'evoluzione degli ultimi 30 anni del fumetto italiano; dall'altro, una serie di micropuntate, ciascuna dedicata a raccontare il lavoro, lo stile e i segreti del successo di un autore delle ultime generazioni.
Antistoria del fumetto italiano, aperto da una bellissima sigla animata da Stefano Misesti, contiene dozzine di interviste inedite coi personaggi dei comics nazionali di oggi. Su tutto, però, tre appuntamenti che sono veri e propri scoop: un'intervista con Tiziano Sclavi, autore di culto attraverso le gesta di Dylan Dog, da sempre allergico alle telecamere; una visita nello studio di Guido Crepax con la vedova Luisa - la musa di Valentina - a farci da guida. E una ricostruzione della mitica apparizione di Andrea Pazienza sulla scena settantasettina di Bologna, attraverso le voci di coloro che c'erano e ne restarono indelebilmente segnati.
Tra gli autori intervistati: Tiziano Sclavi, Sergio Toppi, Filippo Scozzari, Pablo Echaurren, Giorgio Carpinteri, Igort, Lorenzo Mattotti, Gipi, Vittorio Giardino, Leo Ortolani, Alessandro Barbucci, Barbara Canepa, Davide Toffolo, Paolo Bacilieri, Giancarlo Berardi e molti altri.
Filo conduttore del magazine saranno, invece, gli interventi di Francesca Ghermandi, chiamata a raccontare il fumetto italiano contemporaneo dal suo particolare punto di vista e le animazioni realizzate da Stefano Misesti.
http://www.komix.it/page.php?idArt=4051

viernes, 26 de abril de 2013

Cinema Universale D'essai - Federico Micali (2008)


TITULO ORIGINAL Cinema Universale D'essai
AÑO 2008
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 70 min.
DIRECCION Federico Micali
GUION Federico Micali
MONTAJE Yuri Parrettini
FOTOGRAFIA Yuri Parrettini
MUSICA Il Generale, Neon, Diaframma, Cllettivo Viktor Yara, White Out, Naif Orchestra, Sniff
PRODUCCION Navicellai
GENERO Documental

SINOPSIS C'era una volta un posto dove il cinema si fondeva con la goliardia, la politica, il tifo, il delirio. Dove entravano gli scooter, i piccioni e volavano le lattine tra applausi e cori da stadio belluini. Dove le trasformazioni degli anni '70 e '80 e quasi '90 si vivevano in pieno. Era l'Universale, per oltre 20 anni luogo di improvvisati ed irripetibili happening collettivi. (Film Up)



Era un cinema di Firenze, in via Pisana 43 nel quartiere del Pignone, vicino alla Porta San Frediano. Si trasformò in d’essai nel gennaio 1974 con programmazione mensile su richiesta del pubblico. Divenne, riflettendo quegli anni di caos, un polo d’attrazione politico-culturale specialmente per gli studenti universitari di sinistra, una scuola d’immedesimazione anarchica per tutti coloro che trovavano al cinema quel che inutilmente cercavano nella società.
A Firenze, diventata negli anni ’80 la capitale culturale d’Italia, al culmine della contestazione arrivò l’eroina, diventò un cinema “da fumare”, ebbe il suo periodo punk. Ci si andava, con o senza biglietto, per assistere al casino che accadeva in sala più che per vedere un film: giravano piccioni, ranocchi, un tipo che in Vespa circumnavigò la sala, un altro che arrivò in Fiat 500 sino alla biglietteria. Si chiuse nel 1989. Oggi è una discoteca. Con più di 50 testimoni che ne raccontano la storia, è tutt’altro che un documentario incasinato: compatto, scorrevole (montaggio Yuri Parrettini), colonna sonora 1960-90 curata da Stefano (Il Genrale) Bettini con Giampiero Bigazzi, brevi animazione a passo uno, fiorentinamente turpiloquente. Prodotto dall’Ass., Navicellai.
*** da Il Morandini Dizionario dei Film

…è veramente uno di quei casi in cui una storia si trasforma in una leggenda metropolitana e la realtà supera la fantasia: sarebbe impensabile oggi entrare in un cinema, magari in un multiplex, fare cose del genere e essere accolti da un applauso…"
Tra film di culto, urla verso lo schermo, fumo e vespini in sala, il cinema Universale è stato un luogo unico per la Firenze degli anni 70 e 80.
Il film diventava una partitura su cui improvvisare collettivamente, interagendoci con battute, facendolo diventare proprio e rispecchiandoci sogni e ambizioni delle diverse generazioni che si succedevano sulle stesse poltroncine di legno. Non un improvvisazione jazz: piuttosto un atmosfera più psichedelica ( o per alcuni punk) punteggiata spesso da alcol e hashish.
La storia del Cinema Universale è passata prima attraverso un libro di successo, quello di Matteo Poggi edito nel 2001 con Polistampa. Adesso è diventato un film di Federico Micali che cinque anni dopo Firenze Città Aperta (e altri fortunati lavori come Nunca Mais e 99 Amaranto) torna a documentare la sua città.
Ne nasce un viaggio in una storia del cinema molto particolare: quella che per almeno tre decenni ha caratterizzato l’identità di una cittài: dal cinema di quartiere degli anni 60, alla fase di contestazione politica intorno al 77 che intonava cori e slogan su "sacco e vanzetti" o "fragole e sangue", fino ai film cult degli anni 80 equamente divisi tra calcio, droga e musica, ma anche tra piccioni che volano in sala durante "Birdy", e una vespa che sfreccia sotto lo schermo.
Una storia raccontata dalla viva voce di quella molteplice umanità che ha frequentato quella sala, dai "ragazzi di san Frediano" e del Pignone eredi diretti dei personaggi di Pratolini, ad intellettuali, musicisti, politici giornalisti e artisti: tutti pronti a reinterpretare coralmente la storia di un cinema libero.
http://www.documentaristianonimi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=142:cinema-universale-dessai
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Un luogo dove quotidianità e cultura si incontrano, dialogano, dibattono, mentre tra una proiezione e l'altra signorotti come Rainer Werner Fassbinder e Ingmar Bergman vengono goliardicamente tirati in causa tra insulti e grida.
Cinema Universale d'Essai è un documentario nostalgico, un manifesto che detta il suo amore per il cinema come entità fisica prima che come forma d'arte; è un report meticoloso e commemorativo su una delle sale cinematografiche più controverse ed interessanti degli anni 70'/80' fiorentini. Il lungometraggio ripercorre tutte le tappe esistenziali di questo luogo senza tempo né parte, un vero e proprio rione popolare dove, curiosamente, giovani e giovanissimi si riunivano per scontrarsi in ardimentosi dibattiti politici, o più innocentemente, per rivolgere calorosamente invettive agli attori proiettati sullo schermo. I testimoni lo descrivono come qualcosa di incredibile: una magica alchimia dove chiunque aveva l'occasione di guardare e commentare, più o meno intelligentemente, film di Jodorowsky e Bertolucci, lanciati in pasto a quello che oggi chiameremmo – con un po’ di puzza sotto il naso – pubblico medio. C'è chi è pronto a giurare di aver visto piccioni volare nella sala, chi ha sgommato tra le file con un motorino e chi si è fermato alla cassa con una fiat '500. In qualche modo la sala è divenuta, negli anni, un nitido emblema della spontaneità e dell'euforia fiorentina.
Un documentario piacevole, specialmente per chi l'Universale l'ha vissuto davvero, ma anche per tutti gli altri: nel corso di quasi vent’anni, la storia della sala ha abbracciato intere generazioni, accusandone la perdita di valori, l'esasperata irruenza e l'infausto ingresso della droga, spettatore pericoloso e non pagante. Pieno di lucide e spassose testimonianze, che vanno dai vecchi spettatori a personaggi famosi dello spettacolo fiorentino doc, Cinema Universale d'Essai riesce a coinvolgere lo spettatore grazie anche ad un'impeccabile montaggio, così ben realizzato da rendere il racconto filmico sempre scorrevole e mai noioso, nonostante una realtà legata a radici lontane da renderlo, almeno apparentemente, ostico ai più. Per quanto il film sia riuscito ad abbattare le linee di confine provinciali e regionali, è ovvio che non riesca a fare leva su un pubblico profano del tutto ignaro dell'esistenza di un luogo del genere. Lo spettatore è posto di fronte alla possibilità di farsi una chiara idea di ciò che la sala fiorentina è stata fino alla sua chiusura, evidenziando il profondo contenuto che emerge dall’esplosiva miscela di cinema d'autore e gente di periferia; un'analisi così schietta e disarmante da lasciare stupito chiunque.
Stefano Camaioni
http://www.silenzio-in-sala.com/recensione-cinema-universale-d-essai.html


Il cinema che parla di cinema, il documentario si apre con l’inquadratura di una cinepresa, che farà da cornice, all’interno del racconto, agli inserti di repertorio.
Il regista Federico Micali realizza un documentario ponendo sotto la lente d’ingrandimento il Cinema Universale d’Essai di Firenze, luogo che per circa 20 anni ha visto il cinema fondersi con l’interazione degli spettatori. Un luogo vissuto collettivamente.
L’Universale era un cinema di quartiere, che rifletteva il modo di essere di un quartiere. Durante la proiezione di un film all’Universale i commenti venivano fatti ad alta voce, si facevano scherzi al proprio vicino, si buttavano le lattine sullo schermo per sottolineare disappunto. Ai tempi del programma televisivo “Lascia o raddoppia”, il proiezionista interrompeva la spettacolo cinematografico, tutti guardavano il programma tv e poi si rimetteva il film dal punto in cui era stato interrotto. Questo per dare un’idea di quanto il cinema fosse in simbiosi con il pubblico.
Negli anni ’70 Braccioti decide di farne un cinema d’assai, pianificando film a cicli. Vennero presi dai magazzini le pizze di film abbandonati da tempo, apportando un’innovazione della programmazione mensile. Venivano messi nel palinsesto molti film d’autore, come “Sussurri e grida” di Ingmar Bergman, “Un uomo da marciapiede” e molti altri. Negli anni ’80 si aggiunsero film più leggeri come “Blade Runner” e i film di Mel Brooks.
Inoltre introdusse i film a richiesta dello spettatore, il quale scriveva il titolo del film in un bigliettino e lo imbucava in una cassettina messa a disposizione dal cinema. Poi ci fu l’idea di affiggere la locandina del programma mensile sulle bacheche dell’università, per attirare anche questa fascia di pubblico. In breve l’Universale era diventato un ritrovo per tutte le fasce d’età e ceto sociale e professionale, dal borghese al panettiere. Era l’unico luogo dove si viveva la musica, venivano proiettati i concerti, come quello di Woodstock.
L’Universale chiuse i battenti nel dicembre 1989, poco dopo la morte del proprietario, ma è rimasto nel cuore e nella memoria di tutti i fiorentini che hanno vissuto quegli anni e anche di quelli che non ci sono mai entrati.
Se, oggi, tutte le sale d’assai fossero qualitativamente adeguate alla preponderante concorrenza della multisala, dove c’è una fruizione passiva e standardizzata da parte dello spettatore, forse tanti cinema non chiuderebbero. Il regista ha intervistato oltre 100 persone con un girato di 80 ore. L’intento di questo documentario è che venisse fuori una voce collettiva e la riscoperta di una memoria sociale. È stato fatto un lavoro di montaggio cercando di far uscire una voce unica.
Cinema Universale d’assai è un po’ un’operazione nostalgica per mostrare una realtà, ovvero quanto intensamente e collettivamente poteva essere vissuto un cinema. Oggi è, quasi sempre, diventata un esperienza singola e fruita velocemente.
Molti sono gli aneddoti raccontati dagli intervistati che fanno scaturire ilarità nello spettatore, il più famoso dei quali vede una vespa entrare in sala e fare il giro della medesima sotto gli occhi esterrefatti dei presenti. Durante la proiezione del film “Birdy, le ali della libertà” sono stati liberati alcuni piccioni, che hanno volato davanti allo schermo.
È una dichiarazione d’amore verso il cinema inteso come luogo fisico prima ancora che come pellicola.
Un film che tutti dovrebbero vedere, chi per ricordare e chi per scoprire una realtà culturale che è appartenuta a molti.
Francesca Caruso
http://www.cinemainvisibile.it/Archivio/cinemauniversaledessai.htm
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Vicino quei luoghi della Firenze popolare descritti dalla letteratura di Vasco Pratolini, laddove oggi sorge una discoteca modaiola ormai dismessa, per quasi quarant'anni si è fatta onore una sala cinematografica di quartiere capace di attirare orde di pubblico, nonché storie e leggende più disparate: il cinema Universale. Nel tentativo di ricostruire la memoria collettiva di questo luogo ancora in grado, a vent'anni dalla sua chiusura, di riaccendere lo sguardo di molti fiorentini sopra i quarant'anni, Cinema Universale d'Essai segue un percorso storico-cronachistico costruito su numerose interviste ai più singolari e devoti frequentatori di questa storica sala che soprattutto nel suo ultimo decennio di vita è stata un centro ricreativo, una fucina di immagini e di voci, dove anche i film più ostici e di ambito "intellettuale" trovavano un sapido dialogo con lo spettatore fatto di commenti, cori e creativi neologismi (per lo più a sfondo sessuale).
In Italia, sappiamo bene dai tempi di Nuovo Cinema Paradiso che la chiusura di una sala cinematografica non è mai indolore, ma l'interruzione di una storia che è quella dei film cui ha dato letteralmente la luce e di tutte le emozioni depositate in ogni singolo spettatore. Raccontare una storia così anomala e fortemente localizzata come quella del cinema Universale era un compito arduo. Si poteva correre il rischio di narrare una storiella di provincia circoscritta nel racconto e limitata nello sguardo, oppure di cullarsi nel liquido amniotico di una nostalgia canaglia e della goliardia genuina che fu propria di quei luoghi e del più tipico spirito dei fiorentini. Il film di Federico Micali ricostruisce invece la genesi di un cinema e dei suoi fantasmi seguendo un'etica prettamente documentaristica, che compartecipa e senza dubbio tradisce pure una certa simpatia per il suo oggetto di discorso, ma che non viene mai meno al rigore e all'efficacia del suo compito, basando ogni suo passaggio su un valido lavoro di ricerca meno storiografico che antropologico. Alla naturale scarsezza di materiali d'archivio e di documenti su una sala di quartiere di epoca recente, il film risponde privilegiando la dimensione orale del racconto, ma non tradendo un approccio seriamente storicistico, che di quel luogo racconti tutta la genesi e l'evoluzione.
Il lavoro di Micali non è quindi un semplice memorabilia di immagini e di aneddoti "vintage", ma un'analisi diacronica della storia dell'Universale, raccontata per tappe ogni volta perfettamente contestualizzate nel loro clima culturale. Avvalendosi anche di qualche parentesi artigianale realizzata in stop-motion per dare un supporto visivo e un ritmo dinamico a tutta la serie di interviste, Cinema Universale d'Essai riesce saggiamente a comunicare tutto l'aspetto folkloristico della sua storia e a elevare il film da prodotto residuale destinato ad una generazione di satiri nostalgici a documentario di ampia visione, capace di parlare un linguaggio (pardon!) universale. Perché anche se l'idea stessa di un Universale oggi è non solo anacronistica (a fronte di una fruizione sempre più parcellizzata nella sostanza ed individualizzata nella forma), ma anche poco auspicabile dalla maggioranza del pubblico "cinefilo", non lo è invece un'idea di cinema come esperienza in cui la sala e le condizione della visione compartecipano allo stesso ruolo del film: il dato di fatto che un film non sia mai lo stesso in base al luogo in cui lo si vede, ma che sia fatto anche di ricordi e di emozioni che non coinvolgono necessariamente solo la vista e l'udito.
Certo, il film documentario di Micali è senza dubbio lontano dal romanticismo e dal profilo estetico di Tornatore, di Bogdanovich (L'ultimo spettacolo) o di Tsai Ming-Liang (Goodbye Dragon Inn), eppure c'è lo stesso senso crepuscolare di un qualcosa di irrimediabilmente perduto, qualcosa di più di un semplice luogo d'aggregazione, la cui testimonianza migliore sta in quella memoria collettiva fatta di voci vivaci e commosse, filtrate attraverso uno spirito cinico e salace quale quello fiorentino.
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=57619


jueves, 25 de abril de 2013

I racconti di Canterbury - Pier Paolo Pasolini (1972)


TITULO ORIGINAL I racconti di Canterbury
AÑO 1972
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 109 min.
DIRECCION Pier Paolo Pasolini
GUIÓN Pier Paolo Pasolini (Novela: Geoffrey Chaucer)
FOTOGRAFIA Tonino Delli Colli
ESCENOGRAFIA Dante Ferretti
VESTUARIO Danilo Donati
MUSICA seleccionada por Pier Paolo Pasolini con la colaboción y elaboración de Ennio Morricone
MONTAJE Nino Baragli
AYUDANTE DE DIRECCION Sergio Citti, Umberto Angelucci
ASISTENTE DE DIRECCION Peter Shepherd 
INTERPRETES Y PERSONAJES Hugh Griffith (Sir January); Laura Betti (la donna di Bath); Ninetto Davoli (Perkin il buffone); Franco Citti (il diavolo); Alan Webb (il vecchio); Josephine Chaplin (May); Pier Paolo Pasolini (Geoffrey Cahucer). 
PRODUCCION PEA Produzioni Europee Associate, Roma
PRODUCTOR Alberto Grimaldi
PREMIOS 1972: Festival de Berlín: Oso de Oro
GÉNERO Comedia. Drama | Edad Media

SINOPSIS Un grupo de peregrinos que van a Canterbury se entretienen, tras la dura caminata de cada día, relatando cuentos como el de El Mercader, el de El Fraile, el de la mujer de Bath... (FILMAFFINITY)

Son 9 de las 21 historias originales del libro:
1.- El mercader y la joven Maggio
2.- El cazador de brujas.
3.- El empalagoso y bufonesco Perkin
4.- El molinero, el leñador y la esposa infiel
5.- La venganza de Absalón, el joven engañado
6.- La viuda casamentera
7.- Los estudiantes alojados, el molinero y su hija
8.- Los amigos que se matan entre sí por codicia
9.- El fraile que sueña con un ángel que lo lleva al infierno 




Cuentos de Canterbury - Geoffrey Chaucer (pdf)http://www46.zippyshare.com/v/57080883/file.html


I commenti
I racconti di Canterbury è il secondo film di quella che lo stesso regista definì la Trilogia della vita e che comprendono anche Decameron e Il fiore delle Mille e una notte. Il riferimento è, questa volta, alle novelle di Geoffrey Chaucer, del quale nel film Pasolini stesso ricopre il ruolo.
Su alcuni aspetti relativi alle origini letterarie del film, il regista risponderà così in un'intervista: "I racconti di Canterbury sono stati scritti quarant'anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi, solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d'altra parte era più moderno, poiché in Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già una contraddizione: da un lato l'aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del Medioevo, dall'altro l'ironia e l'autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva coscienza".
All'inizio del film, Chaucer/Pasolini si unisce idealmente ai molti pellegrini diretti all'Abbazia di Canterbury; in seguito Pasolini rappresenterà il narratore che, all'interno di uno studio, penserà e scriverà i racconti.
I temi di Canterbury sono, come in Decameron, sesso, amore e morte, con un'accentuazione di quest'ultimo: in tutti gli episodi, viene infatti rappresentato un funerale, o un assassinio, o un condannato a morte, o un moribondo. 
Pasolini affronta poi con grande ironia i temi della violenza esercitata dalla ricchezza, e dell'immoralità del potere. La sgradevolezza dei personaggi dei ceti "alti" è messa in particolare risalto da un trucco molto pesante, carico, volgare. 
Nella gente comune (come al solito Pasolini utilizza attori non professionisti) si ritrovano la stessa gestualità, le stesse espressioni e fisionomie di quelle presentate in Decameron.
La musica (curata da Ennio Morricone) si richiama a canzoni popolari inglesi medievali e rinascimentali. Riappare la famosa canzone napoletana Fenesta 'ca lucive (già utilizzata in Decameron) - che parla della morte improvvisa di una giovane donna - quasi a costituire un ulteriore richiamo al tema della morte. 
Una delle regole più rigorose, nei film di Pasolini, è quella di eseguire un doppiaggio integrale. "Il doppiaggio", diceva Pasolini, "deformando la voce, alterando le corrispondenze che legano il timbro, le intonazioni, le inflessioni di una voce, a un viso, a un tipo di comportamento, conferisce un sovrappiù di mistero al film. Con il fatto poi che molto spesso, se si vuole ottenere un rapporto determinato tra suono e immagine, un rapporto di valori preciso, si è costretti a cambiare voce. Detto questo, mi piace elaborare una voce, combinarla con tutti gli altri elementi di una fisionomia, di un comportamento. Amalgamare. Sempre la mia propensione per il pastiche, probabilmente! E il rifiuto del naturale."
L'edizione italiana dei Racconti di Canterbury fu doppiata in gran parte a Bergamo con le voci di persone scelte nella città e dintorni.
Il tema sessuale sarà uno degli elementi di provocazione del film che verrà subito raccolto dai difensori di un ipocrita senso della morale e del pudore. Le denunce per pornografia e oscenità fioccheranno sul film fin dalla sua apparizione nelle sale di proiezione italiane. In un convegno tenutosi a Bologna in quel periodo sul tema "Erotismo, eversione, merce", Pasolini fece un lungo intervento, nel quale tra l'altro disse: "Perché io sono giunto all'esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una spiegazione che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura - che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa - mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo [...] Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo - e proprio per ragioni stilistiche - non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancor più sintetico, il sesso [...] I rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico borghese e benpensante [...] Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l'ideologia c'era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire".
Per la realizzazione del film furono impiegate nove settimane di riprese in Inghilterra e un lungo lavoro di montaggio e di doppiaggio. "[...] era un periodo molto particolare, ero molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all'insegna della spensieratezza, dello "stile medio", del sogno e anche del comico, per quanto astratto.", dichiarò Pasolini. "E forse se non fossi stato così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e cappello." Qui Pasolini si riferisce alla sequenza interpretata da Ninetto Davoli che fa il verso a Charlie Chaplin riproducendone alcune gag famose. Continua il regista: "Devo anche dire che il mondo che ho trovato in Inghilterra, quando giravo Canterbury, era molto diverso; a Napoli e nell'Oriente non avevo confini, potevo scatenare intorno a me questo linguaggio della terra, delle cose, dei vulcani, delle palme, delle ortiche e soprattutto della gente. Invece in Inghilterra [...] le persone che sceglievo appartenevano a un mondo ormai storicizzato, borghese, e questa costrizione pesava sul mio stato d'animo. È difficile parlare di un film come test di uno stato d'animo, ma comunque ho un rapporto sempre molto passionale con i film che giro. Si tratta di veri e propri amori". 
http://www.pasolini.net/cinema_canterbury.htm
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La obra
Un grupo de peregrinos que se dirigen al santuario de Santo Tomás de Canterbury hacen parada en una vieja posada londinense, la del Tabardo. Allí, el hostelero les propone acompañarles en su peregrinación como guía y que, para hacer más ameno el camino, cada uno de ellos relate dos cuentos, “dos en la ida y dos en la vuelta”. Quien haga de sus historias las más amenas, será invitado por el resto a un gran banquete que se celebrará en la misma taberna al finalizar el trayecto.
Primera obra escrita en inglés (la edición original data de 1478) y cumbre de la literatura medieval, la de Chaucer se enmarca en la tradición de los volúmenes de cuentos y leyendas, junto a Las mil y una noches, El libro de buen amor o El Decamerón. Precisamente fue el de Boccaccio la principal fuente de inspiración para el escritor inglés. Volumen incompleto, incluye, finalmente, veinticuatro cuentos (una cuarta parte de lo previsto), en verso -salvo dos de los textos que fueron escritos en prosa-, y de diferentes géneros  -de aventuras, románticos, de misterio…-. Los personajes narradores representan a la clase media de la época: el molinero, el fraile, el carpintero, el mercader, el médico, la priora, el capellán… Gentes de oficio que muestran su personalidad a través de las historias que escogen.

El autor
Geoffrey Chaucer (Londres, 1343-1400) fue hijo de un comerciante de vino proveedor de la Casa Real Inglesa, gracias a lo cual entró a servir como paje de Lionel, duque de Clarence, hijo éste del rey Eduardo III de Inglaterra. Ya caballero del rey, luchó en Francia en 1359 y cayó prisionero durante el asedio de Reims siendo liberado tras el pago de un rescate. Chaucer se casó, hacia 1366, con Philippa de Rouet, cortesana de Constanza de Castilla, segunda esposa de Juan de Gante, duque de Lancaster, para el que compuso en 1368 un libro homenaje a su primera esposa, Blanca, el Libro de la Duquesa que es la primera obra atribuida a Chaucer. Sirvió en numerosas campañas en Francia, Italia y España.
A los 31 años, comienza a trabajar en las aduanas del puerto de Londres, lo que le permitió disponer de tiempo para escribir. Hay que destacar su traducción del Roman de la Rose, escrito en francés por Guillaume de Lorris y ampliado años más tarde por Jean de Meung, y del Consuelo de la filosofía, del filósofo latino Boecio. En 1379 escribió La Casa de la Fama, a la que siguieron El Parlamento de los Pájaros (1382) y Troilo y Crésida (hacia 1385), obra inspirada en Boccaccio. Sin embargo, la obra por la que es más conocido es Los cuentos de Canterbury. Empezó a redactarlo a la muerte de su mujer en 1387. Se le considera el introductor de la métrica con acentos y sílabas como solución de repuesto para el metro anglosajón aliterativo. También contribuyó a regularizar el acento del sur (región de Londres) del inglés medio.
Chaucer murió el 25 de octubre de 1400. Está enterrado en la Abadía de Westminster y fue el primer ocupante del Rincón de los poetas.

La película
Segunda de las películas que conforman la “Trilogía de la vida” -las otras son El Decamerón (1971) y Las mil y una noches (1974)- la adaptación de Pasolini acabó siendo una de sus cintas más divertidas, satíricas, irreverentes y gamberras. Bien ambientado, procurando recrear la época sombría en la que fue escrito el libro, el film traslada a la pantalla ocho de los veinticuatro cuentos con desigual fortuna. La incorporación de elementos como el erotismo -que obligó a alterar historias-, o el slapstick -en homenaje a Chaplin- no fue del gusto de muchos, aunque su trabajo le valió el Oso de Oro en el Festival de Berlín. El trabajo del cineasta, que se reservó el papel de Chaucer para la ocasión, respira espontaneidad, introduciendo buena parte de sus reflexiones al material original. Es su manera de apoderarse de las historias literarias, como queda de manifiesto en la trilogía, lo que hace de esta etapa creativa de Pasolini un buen motivo de estudio sobre la relación entre el cine y la literatura, la fusión de ambas disciplinas como ejemplo de la creación y recreación con libertad absoluta sin traicionar las fuentes.
Los cuentos de Canterbury deben leerse y verse con espíritu libre, sin prejuicios y con la sana intención de divertirse.
José A. Muñoz
http://www.revistadeletras.net/filmoteca-literaria-xvi-i-racconti-di-canterbury-pier-paolo-pasolini-1972/


La Sonrisa de Pasolini y su Pluma de Luz al Paso de los Peregrinos

"Pasolini is indisputably the most remarkable figure to have
emerged in italian arts and letters since the Second World War"

Susan Sontag

Pier Paolo Pasolini siempre se consideraría a sí mismo y primero que todo, un poeta. Nacido en Bologna en 1922 como hijo de un oficial del ejército, fue afecto a la escritura desde muy pequeño; asistiría a la escuela y gozaría de cierta popularidad como poeta durante su paso por la Universidad de Bologna en 1941. Ingresa a la actividad cinematográfica con la realización del guión de La Donna del Fiume (1954) de Mario Soldati. Colabora con Fellini en la elaboración del guión de La Notti de Cabiria (1956) -Las Noches de Cabiria o Cabiria, simplemente- así como lo haría en las películas La Notte Brava (1959) y Il Bel Antonio (1960), de Mauro Bolognini (1923-2001) en donde aparecería la bella Claudia Cardinale, casi una jovencita en ese entonces. Con anterioridad, había recibido el golpe de la censura en su primera novela, Ragazzi di Vitta a inicios de los años cincuenta.
Su obra deja compartir con el público su visión, en muchos casos referida a personas marginales y excluidos; de los bajos mundos o de la criminalidad. Su primera película, Acattone! (1961) se basaría en Una Vita Violenta -Una Vida Violenta-, novela de su autoría; una sombría narración sobre la vida de un proxeneta de los bajos fondos de una deprimida parte de Roma, donde el mismo Pasolini había vivido en los años cuarenta. En Mamma Roma (1962), con Anna Magnanni, se refiere a una prostituta que aspira a una vida de clase media. Prevalece el contenido sobre la forma en las primeras obras de Pasolini y a lo largo de su producción, se exhiben sus particulares apreciaciones sobre el marxismo, la religión y la sociedad en general, con una estética muy particular.
El profundo sentido de las obras de Pasolini de hecho, no fue bien recibido en la mayoría de los casos; de su película Rogopag (1962), se resalta la censura por el episodio de "La Ricotta" (episode) (Katz, 1994, p. 1061). En El Evangelio Según San Mateo (1964) también desplegará su personal tratamiento de los temas religiosos y fílmicamente desarrolla este trabajo con actores no profesionales y la participación de su propia madre en el papel de María, en esta magistral, rústica y casi documental recreación del episodio bíblico.
La vida de Pasolini, nunca había dejado de ser polémica. Se afirma que su conversión al comunismo fue una respuesta contestataria a la condición política de su padre. Fue arrestado cuando los alemanes seguían a los simpatizantes de los aliados y en 1947 se haría secretario del Partido Comunista, dos años antes de atribuirsele cargos por corrupción de menores. En referencia a su condición de ateo, comunista y homosexual, es de notar que siempre expresaría consideración por la figura de su madre y las creencias de ella (Mónaco, 1991, p. 416); El Evangelio según San Mateo fue reconocida con el Premio Especial del Jurado en el Festival de Venecia de 1964.
Pasolini adapta obras como Las Mil y Una Noches, Arabian Nights (1974) pasando de las calles de su Roma contemporánea a los clásicos de la literatura como éste. Con fundamento en la literatura, la historia y en referencia con la edad media, realiza el Decamerón (1971) y Los Cuentos de Canterbury (1972), la segunda película de su Trilogía de la Vida. Ésta obra, conjuntamente con Saló, los Ciento Veinte Días de Sodoma (1975), su ultima película, serían consideradas "obscenas" por una corte y su rodaje se retardaría por meses (Katz, 1964, p. 1062).
Las alusiones a una forma de ver la sociedad desde su personal perspectiva, encuentran en Los Cuentos de Canterbury, la oportunidad de componer los planos y encuadres de una adaptación que recrea estéticamente, la temperatura del color y la cantidad de luz de un universo que es creación de su imaginación sobre la plantilla de la obra literaria original. Consideradas las variaciones con respecto a ésta y en especial en el cuento de el fraile, se advierte que la historia y la literatura son un puntal de creación para un maestro como Pasolini y que éste tiene una particular forma de narrar su obra cuando ésta se basa en un texto anterior, en la forma de agregación de múltiples elementos. El crítico de cine y cineasta Luis Alberto Álvarez en una entrevista con el pianista y compositor argentino Luis Bacalov daría cuenta del término “extra-histórico” aludiendo con el mismo y entre otras cosas, a aquella búsqueda que Pasolini hace “integrando cosas que proceden de diversas fuentes culturales en una misma historia” (Álvarez, 1992 p. 249); Este es un hecho a considerar de modo preponderante para una lectura de la obra de Pasolini.
Geoffrey Chauser estructura una obra que llevará a cabo durante varios años y se erige en torno a una peregrinación de Sowthwark a Canterbury, para visitar el templo de Santo Tomás de Beckett en la Catedral de Canterbury y las narraciones que de quince cuentos se hacen para quienes acompañan esta empresa. Escrita en los años 80 del Siglo XIV, fue la última obra de Chaucer y la primera escrita en inglés, pues antes de ésta, sólo se escribía en latín o francés; de ahí su relevancia literaria e histórica. Si bien existen afinidades entre la obra literaria de Bocaccio, El Decamerón y ésta, los personajes de la obra se diferencian con respecto a los de El Decamerón, en cuanto a que pertenecen a la clase media, mientras que los de Bocaccio, pertenecen a una clase acomodada, entre otros elementos. Filmográficamente, Pasolini, que también realiza una película en relación con El Decamerón, necesariamente encuentra un contexto más afín a lo popular para desarrollar la trama y comunicar estilizadamente la composición de una obra que se sigue refiriendo a temáticas siempre presentes en su obra tales como la sexualidad, la religión, el matrimonio, las artes y el trabajo; ahora evocando escenas y secuencias del medioevo pasadas por su sensibilidad de director y también de poeta.
El tratamiento dado por Pasolini a lo literario e histórico y sus preferencias compositivas en cuanto a luz, color y encuadres, determina un sello unipersonal diferente; una obra literaria no tiene que ser apegada fielmente al texto cuando se lleva al cine y así como lo literario, “lo histórico, con los vacíos documentales que pueda tener, en una adaptación cinematográfica no es el equivalente visual de la letra. Puede ser más o ser menos pero no puede ser lo mismo y en manos de los grandes maestros la historia y la literatura son una excusa más para seguir creando" (Cardona, 1997, p. 16). Pasolini, al igual que otros maestros como Buñuel es especialista en dejar en sus obras, agregaciones de elementos variados que de modo explícito o tácito se refieren a la obra. Este sentido "extra-histórico" (Álvarez), se evidencia en otras de sus obras y éste factor es precisamente, el que temáticamente se diferencie de un modo particular de otros realizadores y se afirme como un director de la escuela neorealista.
De hecho, Luis Alberto Álvarez decía que "Los momentos más profundos y bellos de Passolini son de corte netamente rosselliniano" (Álvarez, 1988, p. 359) sin dejar de advertir también que los actores naturales de Pasolini no eran el elemento más fuerte que manejara el director (Álvarez, 1998, p. 65). Se alude a este punto porque precisamente y frente a lo que representa el ideario del Neorrealismo planteado por Zavattini (1902), se da por consensuado que el movimiento neorealista, da preponderancia a lo verdadero, dejando de lado la artificialidad de la historia, de los actores y así "verter enteramente la realidad de la vida a la pantalla" (Robinson, 1981, 233). Sin embargo, el neorealismo en el puro concepto de Zavattini nunca existió (Íbid. 237) y es de citar que referentes del movimiento como Roma Ciudad Abierta (1945) de Rossellini, emplearía estrellas como Anna Magnani; o Ladrón de Bicicletas de Sicca seguiría conservando los rasgos de un cine afectado por las maneras del teatro.
Son los hombres y sus obras por sobre sus palabras; y son sus hechos por sobre sus actos, los que determinan la prevalencia de una obra en el tiempo por sobre los discursos de la historia o su historia. Humanistas como Rossellini, o realizadores como Herzog o Fassbinder, cobran valor para la cultura, en la medida que sólo gradualmente se van reconociendo para la sociedad y el mundo. Sus códigos, apreciaciones y construcciones se hacen prevalentes como un anuncio anticipado. La muerte violenta de Passolini en 1975 en el balneario de Ostia a manos de un joven de diez y siete años evocaría el underworld al que se hace referencia en Acattone! cuando al ser detenido éste, justificaba su crimen reclamando que Pasolini trató de "sobrepasarse". "Al final él fue víctima de sus propios personajes -una perfecta tragedia anticipada en sus desarrollo- sin saber que algún podría superarlo a él mismo" (Katz, 1994, 1062) como lo expresó Michelangelo Antonioni al saber de su muerte.
Con todo y los altibajos que la obra de Pasolini tiene, su muerte representa la violenta interrupción de la misma, cuando era un director de culto y ya su figura controversial se consideraba una de las más interesantes de las artes y letras occidentales. Su visión personal de la izquierda, la sexualidad y la religión, determinarán relecturas y nuevas relaciones entre variables conforme pase el tiempo y las generaciones vean desfilar cada vez más cerca de sus ciudades, calles y hogares a personajes, que como en su momento, sólo se creían en el imaginario del director y sus visiones personales, pues como diría el escritor, ensayista, guionista y director norteamericano, David Mamet: “Un artista es el explorador avanzado de la conciencia social. Como tal, muchas veces sus primeros informes no son creídos.” (Cardona, 2008, en línea). Así, el sino del artista, brutalmente cortado hara parte de otra historia que es la misma suya, la del arte y la de la historia del cine, la de un hombre brillante y transparente como su sonrisa de director y de poeta, antes que nada, como él mismo diría.
David Cardona
http://catedraluisalbertoalvarez.blogspot.com.ar/2008/03/los-cuentos-de-canterbury.html
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Esta adaptación de la renombrada colección de historias de Chaucer fue la segunda película de la cual Pier Paolo Pasolini paso a llamar la “Trilogía de la vida”, un tríptico cinemático el cual había comenzado un año antes con El Decamerón (1970), una interpretación sexualmente explicita y visualmente suntuosa de la igualmente famosa colección de historias cortas de Boccaccio, la cual terminaría años mas tarde con Il fiore di mille e una notte (1974), una hipnotizante adaptación similar de historias de Las mil y una noches.
Dado lo dificultoso y provocativo de las películas que Pasolini había inyectado dentro de la altamente cargada atmósfera política de finales de la década de 1960 en Italia –ideológicamente- confrontando con ensayos cinematográficos como Teorema (1968), y Porcile (1969) –esta trilogía de películas coloridas y altamente agradables fueron interpretadas por muchos como señalizando el abandono de Pasolini de su autoproclamado rol como un tábano intelectual y un agente provocateur de la burguesía italiana, un rechazo que fue ampliamente confirmado por el final de Cuentos de Canterbury donde el mismo Pasolini, bajo la apariencia de Geoffrey Chaucer, escribe en la pantalla: “Aquí acaban los Cuentos de Canterbury, contados por el solo placer de contar. Amén”. Mas tarde, sin embargo, paradójico como siempre, Pasolini vigorosamente lo mantendría, las películas de la Trilogía, de cierta manera, lo más ideológico de su carrera. Por el principio guiador de la Trilogía, afirmó, fue una celebración de la vida en toda su fisicalidad y carnalidad, una exaltación la cual la película llevó a cabo a través de una especie de carnaval de lo primitivo, deseando los cuerpos humanos como si instintivamente luchara y alegremente transgrediera los límites represivos instaurados por la moralidad religiosa y burguesa. Pasolini de este modo volteó la excesiva previsible carga de haber jugado demasiado con los elementos sexuales en las historias originales en una defensa. Como repetidamente trato de explicar en entrevistas, el sexo y los cuerpos desnudos eran precisamente la cuestión de sus películas; y han sido los críticos los que se lo han perdido! Habiendo luchado tan intensamente para eliminar el sexo de sus películas, dijo, muchos críticos las han encontrado vacías de contenido, completamente perdiendo de vista del hecho de que el contenido de las películas estaba ahí, en la pantalla, en ese inmenso agujero sobre sus cabezas el cual trataron tan fuertemente de no entender.
Pasolini no era, por supuesto, el único director que uso el sexo explicito como una herramienta de provocación ideológica durante este periodo; solo se necesita recordar que El último tango en Paris (1972) de Bertolucci fue también estrenada durante esa época. Pero la romántica, incluso, uno podría decir, reaccionaria creencia en lo primitivo, instintivo cuerpo como referente de la realidad, como el único punto posible de resistencia en la marea alta de la inautenticidad y desacralización desencadenada por el capitalismo consumista principalmente a través del poder de la televisión, pronto colapsada. Para, de hecho, cualquier provocación o desafío a la moral burguesa Pasolini habría originalmente intentado en el peán de la Trilogía con la sexualidad y los cuerpos desnudos, pronto fue efectivamente neutralizada tanto por la abrumadora popularidad de la película en las taquillas y por la docena de baratas imitaciones pseudo pornográficas producidas por su suceso. Para 1975, profundamente desilusionado por la imposibilidad de cualquier resistencia efectiva a lo que el llamo “masificación” cultural –y todavía funcionando en Salò y Le giornate di Sodoma donde el cuerpo humano lejos de ser “celebrado” es puesto literalmente en el potro- Pasolini asumió una retractación sobre la Trilogía y sobre su “ideología”. No se arrepintió de haber tratado de representar lo que creía era la realidad de cuerpos inocentes en su mas autentico ser sexual, declaró, pero hasta este punto, dada la manera en la cual hasta las descripciones de sexualidad se habían vuelto apropiadas e integradas en la cultura consumista establecida, debió admitir la derrota y hasta aquí “abjurar” su anterior posición.
Pero dejando las consideraciones ideológicas de lado y volviendo a Cuentos de Canterbury, uno debe admitir que, a pesar de haber ganado el Oso de Oro de Berlín en 1972, la película aparece, y ha permanecido, algo así como el primo pobre de la Trilogía, nunca logrando ni la misma aclamación crítica ni la popularidad de las otras dos películas. Para peor, de hecho, ha sido juzgada como una inánime secuela y una “re-masticación”, como un crítico italiano expuso, de la más exitosa y asombrosa adaptación de El Decamerón. A lo sumo, solo por el mero placer de la narración, estas historias sin embargo parecen condenadas a una inhabilidad para presentar el pulso de la vida sin atraer la silente pero insistente presencia de la misma muerte.
Pasolini ofreció diferentes explicaciones por lo que el mismo admitió fue la ultima película consumada de la Trilogía. En un nivel personal, dijo, en esa época estaba pasando por una gran tristeza y mucho de ese sentido de sufrimiento y angustia existencial inevitablemente se había filtrado en la película. En otro nivel, el mantuvo, era el mundo del mismo Chaucer el que era más oscuro y sombrío que los climas soleados italianos de El Decamerón y los tonos apagados precisamente reflejados en su distintivo carácter pesimista. Aunque la última validación de dichas explicaciones es sin embargo innegable que, a pesar de la superflua fanfarronería y el a veces forzado sentido del humor, en esta película Eros es inexorablemente acosado por Thanatos, de modo que, a pesar de su segundo lugar en la Trilogía de la Vida, la película a la larga aparece mas una meditación sobre la ubicuidad de la muerte.
Entre medio del desenfrenado sexo que también había caracterizado a El Decamerón hay toques de humor, por supuesto, y el Cook’s Tale –no mas que un fragmento en el original de Chaucer- es expandido en un homenaje de diez minutos a Chaplin y la comedia muda hollywoodense. Los modelos figurativos de Brueghel y Bosch también son invocados para crear buenos efectos visuales y talvez hay hasta una alusión a Antonello Da Messina en la recreación de Pasolini del estudio de Chaucer. Sin embargo, de mi parte, debo confesar que lo que siempre permaneció conmigo de esta película es el discurso del viejo en el cuento de Pardonner a los tres jóvenes matones quienes se acercan y lo reprenden mientras deambulan buscando la “Muerte Traidora” quien había “robado” a su amigo.
“He deambulado tan lejos como hasta la India”, dijo, “ y no he encontrado a nadie que quiera cambiar su juventud por mi vejez. Pobre desdichado, he recorrido el mundo y mañana y noche he golpeado la tierra con mi bastón y le he preguntado a mi Madre Tierra, `O Madre, déjame entrar. Cuando mis huesos tendrán su descanso eterno? Madre, di todo lo que tuve por esta mortaja que envuelve bajo la tierra´. Pero todavía ella no me concederá esta gentileza”.
Las palabras están en el original de Chaucer, por supuesto, pero el sentimiento siempre me ha parecido ser el presentimiento de Pasolini sobre la muerte. Al final, parece difícil no estar de acuerdo con aquellos críticos quienes han sugerido que la película tiene mas afinidades con la Muerte de Salò que con las otras dos exuberantes y vitales películas de la trilogía.
Nestor O.
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