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sábado, 31 de julio de 2021

La patata bollente - Steno (1979)

 

 

TÍTULO ORIGINAL
La patata bollente
AÑO
1980
IDIOMA
Italisno
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
98 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Steno
GUIÓN
Giorgio Arlorio, Steno
MÚSICA
Toto Savio
FOTOGRAFÍA
Emilio Loffredo
REPARTO
Renato Pozzetto, Edwige Fenech, Massimo Ranieri, Mario Scarpetta, Adriana Russo, Loris Bazzocchi, Umberto Raho, Clara Colosimo, Luca Sportelli
PRODUCTORA
Irrigazione Cinematografica
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
La película que narra las aventuras y desventuras de Bernardo Mambelli "Gandhi" (Renato Pozzetto), un ex-boxeador, devoto comunista y, sobre todo, muy enamorado de Maria (Edwige Fenech). (FILMAFFINITY)

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Ha compiuto 80 anni da pochi giorni l’eterno “ragazzo di campagna” e lo ha fatto con quella sobrietà e compostezza che hanno da sempre caratterizzato il suo irripetibile percorso artistico. Renato Pozzetto ha attraversato la storia del bel paese partendo dal basso, da quella famosa gavetta che a nominarla oggi provoca un sottile brivido lungo la schiena per il suo carattere tristemente anacronistico e irrimediabilmente perduto. Arriva al cinema nel 1974 con Per amare Ofelia di Flavio Mogherini film che gli regala il nastro d’argento come miglior attore esordiente e gli consente dopo tanti anni di tagliare in modo tutt’altro che indolore il cordone ombelicale con Aurelio “Cochi” Ponzoni, amico fraterno e insostituibile compagno di cabaret. Sarà lui stesso durante un’intervista a confermare di avergli chiesto il permesso prima di accettare il ruolo. Da quel momento la sua disarmante e stralunata comicità, lo “slang” tinteggiato di candido surrealismo irrompono sugli schermi nostrani, travolgono, conquistano e diventano tratti distintivi di un attore immerso e riflesso nelle contraddizioni di un Paese bacchettone. eternamente diviso da Nord a Sud, intriso di falso moralismo e saturo di retorica borghese.

La patata bollente arriva sul finire dei roventi anni settanta, in un clima politicamente infuocato e culturalmente irrisolto. Steno in collaborazione con il figlio Enrico e Giorgio Arlorio affida a Pozzetto il compito di introdurci nelle fabbriche, di puntare il dito contro le false promesse di un sindacato arrembante solo a parole e di scoprire attraverso la diversità il confronto e il rispetto per l’altro. E a non dubitare mai della propria intelligenza, sopratutto quando si tratta di seguire l’istinto, di mettersi in discussione e dubitare di se stessi. Bernardo Mambelli detto il Gandi è caporeparto nella fabbrica di vernici Enicem. Pugile mancato, intransigente militante del PCI e fervido attivista sindacale un sabato sera dopo un litigio con Maria (Edwige Fenech) costretta a subirsi un film russo sottotitolato invece di andare a ballare salva da un’aggressione fascista Claudio (Massimo Ranieri), giovane libraio dai modi cortesi e dall’aria innocente. Dopo averlo soccorso e ospitato nel suo appartamento scopre con una punta di imbarazzo misto a terrore l’omosessualità del ragazzo, condizione deplorevole e del tutto impraticabile per un aspirante macho virile e politicamente impegnato come lui. Nonostante ciò non cede al falso moralismo e continua ad ospitarlo clandestinamente in attesa della guarigione. Il segreto regge fino a quando una volta tornato in libertà la libreria di Claudio viene distrutta da un nuovo raid fascista. Per la seconda volta Gandi lo prende sotto custodia, ma viene scoperto da Maria e dai suoi increduli compagni di lavoro che determinati più che mai ad aiutarlo a sconfiggere l’innominabile morbo gli organizzano un finto viaggio premio nell’amata Unione Sovietica nella speranza di vederlo tornare definitivamente guarito. Ma una serie di interminabili e spassosi equivoci metterà seriamente a repentaglio la sua carriera politica e il suo futuro lavorativo.

Il contesto socio politico culturale è basilare in questo film e la cornice comica funge da perfetto contraltare per descrivere e mettere in scena con leggerezza, ma non superficialità problematiche decisamente poco divertenti. La scelta della location non è casuale, ma rimanda alla vicenda dell’IPCA, una fabbrica di vernici in provincia di Torino messa sotto processo nel 1977 in seguito alla morte di alcuni operai causate dalle drammatiche condizioni di lavoro e da inquinamento ambientale. La fabbrica chiuderà definitivamente nel 1982. Steno non fa sconti a nessuno e l’episodio seppur edulcorato e tratteggiato in chiave comica viene superbamente rimarcato nella sequenza in cui Gandi in seguito ad un malore di un collega dovuto alla mancanza dei depuratori, sale ai “piani alti” per una pittoresca e velenosa dimostrazione su cosa sedimenta all’interno dei loro polmoni. La denuncia è sottile, ma estremamente pungente nel mettere alla berlina un ente deputato alla tutela del lavoratore, ma nella realtà dei fatti più attento e preoccupato a salvaguardare l’immagine e a condannare l’orientamento sessuale dei suoi delegati. Gandi è l’unico a farsi realmente carico delle situazioni, a denunciare le ingiustizie, a far valere i propri diritti, sa farsi ascoltare e se necessario temere, ma il sospetto di una presunta e scandalosa diversità fa precipitare tutto nel baratro del più feroce perbenismo. La questione sessuale è un tema delicato in quegli anni soprattutto se legato a una forte componente politica. L’espulsione di Pier Paolo Pasolini è una ferita aperta e bruciante e il PCI dall’alto dei suoi slogan mostra le sue ataviche contraddizioni, la profonda crisi identitaria che lo attanaglia costringendolo a tollerare una classe operaia ormai fatalmente sedotta dai balocchi del consumismo.

Gandi è il solo a crederci ancora, ma la sua fede al limite dell’oltranzismo non può per quanto forte oscurare la ragione e soffocare i sentimenti. Claudio rappresenta il diverso, l’individuo che contro tutti e tutto decide di vivere liberamente la propria sessualità, senza indugiare, ma assecondando desideri e aspirazioni anche a costo di solitudine ed emarginazione. Gandi è incosciamente affascinato da questa libertà che nonostante i tanti proclami non riesce a trovare nella fede politica. E’ un uomo tenace, coraggioso, intraprendente non teme un commando fascista, ma se la da a gambe di fronte alle imboscate della digos, la temibile portiera del palazzo a cui non sfugge nulla. I ritratti di Marx e Lenin, i gloriosi manifesti del PCI, i film in lingua russa sono poco più che timide e ingenue reminiscenze sulle quali sorridere. Un pò come fa Claudio quando osserva l’ingenuo e puro idealismo del suo salvatore, preservandolo da quelle malelingue pronte a condannarlo in assenza di prove. L’innamoramento sarà inevitabile e darà vita ad un’ irresistibile e insolito triangolo amoroso dove tutti si metteranno in discussione. Ed è proprio nella paura e nella libertà di dubitare che risiede l’eccezionale intelligenza di una commedia che andrebbe annoverata tra le migliori del nostro cinema. Gandi nel momento di massima fragilità e spaesamento non smette di interrogarsi ed indagare su se stesso. Non scarta a priori una possibile omosessualità, ma la considera un’ipotesi plausibile. Ci penserà Maria a chiarirgli le idee durante un’incandescente 1° maggio che culminerà in uno storico e indimenticabile Tango diverso. Pozzetto non ha mai ricercato la grande occasione o la pellicola che in un dato momento della vita  consente la svolta e raccoglie i favori di una critica famelica e impietosa. Ha continuato indisturbato il suo percorso restando fedele a quello spirito fanciullino che in uno dei suoi film più famosi gli ha permesso di crescere e diventare grande a soli otto anni. Un’esperienza decisamente deludente e poco in linea con una vita che per essere bela basta avere l’ombrela.
Laura Pozzi
https://re-movies.com/2020/07/16/la-patata-bollente-di-steno-1979/

La patata bollente è un film del 1979 diretto da Steno. Il film di Steno seguì di pochi mesi l’uscita della pellicola italo-francese Il vizietto di Édouard Molinaro del 1978, adattamento cinematografico di una commedia di Jean Poiret messa in scena nel 1973, con Ugo Tognazzi e Michel Serrault, che in Italia aveva ottenuto un grande successo di pubblico. Nella colonna sonora del film compare la canzone Tango diverso, scritta dal leader degli Squallor Totò Savio, destinata a diventare una canzone simbolo per gli omosessuali italiani, fino ad essere scelta come inno ufficiale del Gay pride svoltosi a Bologna nel 2008. Dopo aver appreso dai compagni la notizia della sua probabile nomina a delegato di fabbrica, Pozzetto\Gandi si esibisce in una divertente gag in cui fa il “verso” al noto sindacalista Luciano Lama. Con Renato Pozzetto, Edwige Fenech, Massimo Ranieri.

Trama
Operaio e sindacalista nella fabbrica Enicem, Bernardo Mambelli è il portavoce dei colleghi presso i superiori, dai quali è particolarmente stimato. Un giorno salva da un pestaggio di neofascisti un certo Claudio e lo porta a casa sua. Claudio, però, è un omosessuale e questo porta lo scompiglio nella vita di Bernardo: i vicini sospettano, i colleghi lo canzonano. La fidanzata lo sposa per far tacere le malelingue.

Che nostalgia viene a rivedere, dopo qualche anno, un film delizioso come La patata bollente di Steno: la stagione della commedia all’italiana, sebbene nella sua fase finale, riusciva ancora a produrre delle opere di indubbio valore, realizzando una felicissima sintesi tra il bisogno di affrontare questioni importanti, di natura sociale e antropologica, e l’esigenza di intrattenere piacevolmente il pubblico, il quale, tra una risata e l’altra, veniva convocato ad assumere una posizione netta rispetto a taluni temi che richiedevano una presa di coscienza.

Nel 1979 quale era la percezione dell’omosessualità nel mondo progressista della sinistra italiana? Gli sceneggiatori de La patata bollente (lo stesso Steno, Giorgio Arlorio e Enrico Vanzina) seppero costruire una storia ben strutturata, basata in parte sul collaudato gioco dell’equivoco, in cui a fare da sfondo c’era il mondo della fabbrica, con i problemi derivanti dal disinteresse dei padroni circa il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, ancora legati a una rappresentanza sindacale rivelatasi irrimediabilmente inadeguata a interpretare in modo corretto le nuove esigenze provenienti dal corpo sociale.

Maria (interpretata dalla sempre opportuna e abbagliante Edwige Fenech), dopo aver assistito all’ennesima proiezione di un film russo con sottotitoli in un cinema d’essai (il titolo che campeggia sul manifesto è un fantasioso “Uomo operaio”), inveisce contro il fidanzato, Bernardo Mambelli, detto “il Gandi” (un Renato Pozzetto efficace), affermando senza andare per il sottile: “La classe operaia il sabato si vuole divertire”. Questa semplice ma assai tagliente battuta rendeva conto, già allora, delle nevrosi di un mondo che stava per essere definitivamente sussunto da un capitalismo sempre più fluido, per cui le sacrosante lotte che in passato avevano seriamente e giustamente animato la vita politica del nostro paese perdevamo fatalmente consistenza, finendo per divenire, nel loro anacronismo, materiale proficuo per una commedia. Steno fu abilissimo a disegnare, con rapide ma incisive pennellate, una situazione bloccata, stantia, che chiedeva di essere profondamente riformata.

A sparigliare le carte in tavola ci pensa Claudio (un Massimo Ranieri abile e credibile), un ragazzo omosessuale che, dopo essere stato sottratto a un pestaggio a opera dei fasciti, irrompe nella vita di Gandi, obbligandolo a rivedere le proprie posizioni. Il sillogismo era pressappoco questo: Gandi odia i fascisti; i fascisti odiano gli omosessuali; Gandi sta dalla parte degli omosessuali (leggi: la sinistra non può mantenere un atteggiamento neutro nei confronti dell’omosessualità, deve esporsi). Insomma, ci si rende facilmente conto di quanto una commedia come questa, con alle spalle un lavoro di scrittura solido e ben indirizzato, potesse scuotere le menti degli spettatori e costituire un efficace strumento per far ripartire un dibattito che si era da tempo addormentato.

L’entusiasmo provocato dalla visione de La patata bollente resiste al passare degli anni, laddove il film nella sua immediatezza, freschezza e acutezza non corre il pericolo di essere archiviato in quanto obsoleto; semmai è il contrario: un senso di sconforto assale lo spettatore, il quale, reduce dall’esperienza della commedia italiana contemporanea, non può che rimpiangere quel glorioso passato, in cui non degli intellettuali, ma degli uomini intelligenti, seppero interpretare al meglio i sentimenti che serpeggiavano nell’animo di un popolo che, forse per la presenza della Chiesa (generatrice implacabile di nevrosi), non era mai riuscito ad assumere un atteggiamento opportuno rispetto ad una questione che non poteva essere più accantonata (con tutto l’imbarbarimento culturale che una tale chiusura poteva comportare).

La patata bollente è un film prezioso da mostrare alle nuove generazioni (che magari l’avranno visto distrattamente nei vari passaggi televisivi) e da riproporre a tutti quelli che non ne avessero compreso fino in fondo l’indiscutibile valore.
Luca Biscontini
https://www.taxidrivers.it/88612/film-da-vedere/la-patata-bollente-di-steno-con-renato-pozzetto.html

Il cinema italiano al confine tra trash e politica

Nel panorama del cinema italiano ci sono film spesso ingiustamente sottovalutati. Dietro una regia o un montaggio o una fotografia indiscutibilmente trash, a volte si possono trovare dei messaggi importanti, ben nascosti tra le pieghe della sceneggiatura, nei dialoghi o in alcune scene cult.

Italia del 1979: cosa avreste fatto se aveste voluto affrontare seriamente il tema dell’omofobia in un film facendolo arrivare però a tutto il pubblico cinematografico dell’epoca e non solo a quello considerato “alto e pasoliniano”? Probabilmente avreste preso l’attore comico di punta del momento, l’attrice più spogliata e desiderata delle pellicole erotico-trash dell’epoca e un personaggio famoso realmente omosessuale, possibilmente non ancora dichiaratosi e disposto a rischiare il tutto per tutto pur di portare anche nella commedia all’italiana la figura dell’omosessuale che non fosse soltanto il “culattone” del Nord, il “frocio” del Centro o il “ricchione” del Sud.

È quello che ha fatto Steno ne “La Patata Bollente”. Bersaglio delle sue critiche: la Sinistra, che sognava la grande Unione Sovietica ma incapace di accettare la “diversità” quotidiana, non distinguendosi dunque dalla Destra in quanto a razzismo e omofobia.
Steno dipinge Bernando Mambelli, detto Gandi (Renato Pozzetto) come un eroe della Sinistra: operaio, ex pugile, con i poster di Marx e Lenin sul letto e falce e martello sulla porta del bagno, Gandi difende i suoi compagni di reparto e porta avanti da solo rivendicazioni sindacali per la fabbrica. D’altro canto, però, è un amante del cinema russo d’essai e sogna di andare in URSS, per la noia della sua bellissima fidanzata Maria (Edwige Fenech) che nel film vedremo nuda “solo” tre volte. Tra i due si inserisce Claudio (Massimo Ranieri), omosessuale che Gandi salva da un pestaggio fascista portandolo a casa sua e scatenando la più classica commedia degli equivoci…

Fino a quel momento, il tema dell’omosessualità nel cinema italiano era stato già toccato negli anni ’70 da registi come Fellini e Caprioli. In nessun caso però, si tratta di film popolari, i b-movies, ossia quello che negli anni ’70 la stragrande maggioranza degli italiani andava a vedere al cinema. Nel 1978, però, ebbe un grande successo un film italo-francese con Ugo Tognazzi che raccontava la bizzarra storia di una famiglia la patata bollente ranieri fenechomosessuale: Il Vizietto. Sull’onda di quel successo, il regista Steno (Stefano Vanzina, padre di Carlo e Enrico) che non era proprio uno che faceva le cose “per la gloria”, decise di mettere giù una sceneggiatura sul tema e di proporla ad un pubblico più ampio, sperando di replicarne gli incassi. Per la colonna sonora, Steno decide di affidarsi a Totò Savio, il cantante degli Squallor, che firmò un incredibile “Tango Diverso” che diventò una delle canzoni simbolo degli omosessuali italiani.

Che il film sia riuscito a far tenere in mente agli spettatori qualcosa in più dei pur statuari seni della Fenech? Scopritelo voi stessi.

La frase CULT:
–  Il sindacato siamo noi, anzi: sono io il sindacato!
– Un momento, aspetta! Guarda Gandi che i rapporti con la proprietà sono di competenza delle confederazioni. Gandi, ci parlo io col direttore. A livello di esecutivo ogni strategia di lotta è meglio sia filtrata da una mediazione a carattere unitario!
–  Con le vostre mediazioni a carattere unitario ci avete spappolato le palle!
http://www.pennaverde.it/2013/11/03/non-chiamateli-b-movies-la-patata-bollente/


 


viernes, 30 de julio de 2021

Banditi a Milano - Carlo Lizzani (1968)

 

TÍTULO ORIGINAL
Banditi a Milano
AÑO
1968
IDIOMA
Italiano y Español (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN
98 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Lizzani
GUIÓN
Massimo De Rita, Carlo Lizzani, Arduino Maiuri
MÚSICA
Riz Ortolani
FOTOGRAFÍA
Giuseppe Ruzzolini, Otello Spila
REPARTO
Gian Maria Volonté, Don Backy, Raymond Lovelock, Ezio Sancrotti, Piero Mazzarella, Tomas Milian, Laura Solari, Pietro Martellanza, Margaret Lee, Carla Gravina, Luigi Rossetti
PRODUCTORA
Dino de Laurentiis Cinematographica
GÉNERO
Drama | Crimen. Robos & Atracos. Basado en hechos reales

Sinopsis
Cavallero es un empresario aparentemente respetable que va a misa todos los domingos y que exige que sus empleadas que no lleven minifalda. Sin embargo, él y tres amigos forman una banda de ladrones que atracan bancos en distintas ciudades italianas. (FILMAFFINITY)

Premios
1968: Festival de Berlín: Sección oficial de largometrajes
1967: Premios David di Donatello: Mejor director y mejor producción (ex aequo)

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2 
3 

Attenzione, non fidatevi delle apparenze e non lasciatevi ingannare dalla prima impressione, dal titolo del film o dalla grafica dei titoli di testa. Non si tratta di un b-movie su scazzottate ed inseguimenti tra banditi e polizia, anche se del genere e’ considerato un onorevole precursore. E’ molto di più Banditi a Milano, non a caso presente fra i 100 film italiani da salvare selezionati da un progetto della Mostra del Cinema di Venezia, innovativo nello stile e nel ritmo, basato su un soggetto tratto un drammatico tema d’attualità (già storia italiana), con un cast d’eccellenza ed una ricercata colonna sonora. Ed e’ in memoria del regista Carlo Lizzani, recentemente scomparso a Roma che ne parliamo questa settimana.

Partigiano, resistente, e padre del cinema italiano, cui ha contribuito come regista, sceneggiatore e critico, di lui si e’ molto parlato questa settimana. Se ne sono ricordati gli esordi tra le file dei neorealisti, l’attività di critico cinematografico e l’impegno sociale dei suoi film. Con molto poco buon gusto il sito dagospia ha dato notizia della sua morte con il titolo ‘ Attenzione, caduta registi’ , ricordando anche la recente morte di Mario Monicelli avvenuta in simili circostanze.

Di Banditi a Milano invece si parla generalmente come un film chiave della storia del cinema italiano, e non soltanto perche’ precursore di un genere, ma per le sue qualità.

Il soggetto e’ tratto da un caso di cronaca di fine anni ’60, le vicende dei 4 banditi torinesi dalla banda Cavallero. Anarchici più che leninisti, in nome della giustizia sociale compirono diverse rapine, l’ultima delle quali, magnificamente ricostruita nel film ebbe luogo al Banco di Napoli in una brulla e nebbiosa Milano. Durante la rapina ed il successivo inseguimento persero la vita 6 persone in totale ed i rapinatori furono arrestati di li’ a qualche giorno.

Come al solito, ed abbondantemente ribadito, valore aggiunto alla qualità della pellicola e’ dato dall’interpretazione di Gian Maria Volonte’, ben accompagnato da Tomas Millian, irriconoscibile, agli esordi (nel ruolo di commissario della polizia), oltre che dalle musiche vagamente prog e psichedeliche di Riz Ortolani.
Giulia Pirrone
https://resistenzainternazionale.wordpress.com/2013/10/11/banditi-a-milano-1968-carlo-lizzani/


Ed eccola, dall'oblò panoramico della rapidissima imbarcazione, spuntare la prima cupola di Nuova Avalon, e con essa, il Palazzo Conduttore, l'edificio più importante della città, sede del computer principale che mantiene l'omeostasi dell'isola Stato. Dopo pochi minuti la vediamo nella sua interezza, ancora distanti varie miglia marine a largo, è una cittadella chiusa da una lente in vetro. "La cupola resta chiusa quando i motori gravitazionali sono in funzione, e sono in funzione per favorire il nostro imbarco".

Afferma sicuro il Prof.Grampasso.
"E' stato bello teorizzarlo, ma vederlo messo in pratica è qualcosa di indescrivibile...".

Nuova valon ci attrae a se come con un magnete, l'aggancio è veloce ma senza alcuno scossone. Destreet e gli altri giovani ci avvisano che potremmo sbarcare fra due ore, poichè occorre attendere il raffreddamento dei motori gravitazionali dell'isola. Giusto il tempo di volare con la mente sulle strade di una Milano post-Boom economico. Sprofondiamo nei nostri divani con Banditi a Milano.

BANDITI A MILANO del 1968 può essere considerato a buon titolo il primo vero "polizziottesco".
L'antesignano del genere che in Italia spopolerà per tutti i Settanta e oltre, mutuando i divi e protagonisti del cinema Western
in divi e miti Metropolitani. Una pellicola alla cui estetica, fotografia e messaggio di fondo tanti registi, soprattutto italiani ma non solo, si sono dovuti in qualche modo riferire, quando hanno deciso di raccontare storie poliziesco/noir. Ma c'è sicuramente qualcosa di più, e cioè il marchio di fabbrica, documentaristico, verista, adeso alla realtà come in un'inchiesta giornalistica, del grande Carlo Lizzani, come a manifestare la timidezza di inventare di sana pianta una storia, poiché la realtà ha infiniti più spunti, ed è sconfortante ma urgente rifugiarsi in essa.
La pellicola, prendendo spunto e approfondendo un fatto di Cronaca che sconvolse l'Italia del tempo, ci fa fare un excursus sulla criminalità e la violenza del dopo boom economico in Italia, e nella fattispecie nella ricca Milano. Intrecciando sapienti flashback a delle vere proprie interviste col piglio dell'inchiesta sui temi della prostituzione, del taglieggio, della tragica criminalità in genere. Fino a sezionare i particolari a volte banali della vita dei personaggi, i loro frammenti di ultima vita prima dell'ultima, tragica, sanguinosa rapina al banco Di Napoli della Banda Cavallera.
Banda di rapinatori che imperversò a Milano per tutto il 1967,capeggiata dal carismatico, coltissimo ed ipertimico  Pietro Cavallera detto il Piero (un "nonsopiùaggettivizzarelasuagrandezza" GianMaria Volontè), il secondo mite ed efficente Sante Notarnicola (un buon Don Backy cantante e attore, e che attore!!  feticcio di molti registi del cinema di genere), il massiccio Adriano Rovoletto detto Bartolini ( Ezio Sancrotti), ed un praticamente adolescente Raymond (Ray) Loveloc (già visto in "Avere Vent'Anni" e "Milano odia, laPolizia...") nella parte di Donato Lopez detto Tuccio.
Come un cane attaccato all'osso sta alle loro calcagna, il Commissario Basevi (un Tomas Milian giovanissimo con capigliatura da "perfettino") e tutta la polizia di Milano

La banda è composta  da ex soldati e partigiani provenienti dagli ambienti Leninisti e Anarchici della Torino operaia, nasce con intenti rivoluzionari ed ebbe il suo picco realizzando una tripletta (3 banche rapinate in 40 minuti!!!). 16 rapine riuscite, fino alla drammatica 17esima, che si conclude con una scia di sangue lunga una diecina di chilometri, lunga un inseguimento tra banditi e poliziotti dentro e fuori il centro di Milano. Bollettino di Guerra 3 morti (che poi diverranno 4) e due dozzine di feriti. Ed è a questo punto che Lizzani ci pone la domanda più importante: "Perchè  nei Milanesi solo a questo punto scatta la reazione?". Il tentato linciaggio è l'arma della folla, che viene usata solo quando tutto è troppo irreversibile. Non si posero il problema prima, quando furono omertosi, ed ora esplodono in tutta la loro violenza. Cosa li ha portato fuori dalla dimensione del loro "Orticello", fuori dal farsi gli "affari propri"?

Carlo Lizzani è stato  prima un importante critico cinematografico e animatore, insieme a signori del calibro di Fellini, ennio Flaiano, della rivista Cinema fin dai tempi del ventennio fascista. Pur essendo un "covo di antifascisti" la rivista aveva tutta la fiducia di Vittorio Mussolini (figlio del Mascellone) ed anche una certa indipendenza di pensiero e critica, una sorta di oasi in un deserto di libertà negate.
Finita la guerra e la barbarie nazifascista, nel periodo della ricostruzione, comincia a sedere dietro la macchina da scrivere sceneggiando in prevalenza  il cinema neorealista di Rossellini, Lattuada etc etc.
Il suo esordio dietro la macchina da presa lo fa con un Documentario, genere da lui molto amato e intelligentemente integrato in tutto il suo cinema, e al quale ha donato innovazione, freschezza e piglio contestatario e rivoluzionario (in controtendenza allo stile propugnato dal vetusto Istituto Luce).
In questo film snocciola una capacità tecnica ed una fotografia che hanno fatto scuola, chi ha visto Romanzo Criminale la serie potrà cogliere tante affinità (scelta delle inquadrature, campi lunghi sulle camminate dei criminali), ma anche gli amanti dell' Exploitaction e del cinema poliziesco in genere potranno trovare i mille riferimenti che questo gioiello della cinematografia Italica ha lasciato, come gemme, nel suo cammino.

GianMaria Volontè nel suo anno di grazia 1968, ormai nel mito dopo aver interpretato i western di Leone, ma sempre più politicamente impegnato, nello stesso anno del magnifico western "Quien sabe?" (in "Banditi a Milano" conserva la folle poesia de El Chuncho), contribuisce alla nascita del poliziesco all'italiana tracciandone poi la meravigliosa sintesi  in "Indagine su un cittadino..." , disilluso e fatalista come in "La Classe operaia va in paradiso". Un GianMaria per tanti versi embrionale ma nel contempo già formato, nei suoi guizzi espressivi, nella forza che riescono a darti quegli occhi da demonio, nella completa aderenza al criminale. Il personaggio del Piero è umanissimo e ambiguo, capace di tutto.
Grandissimo anche Tomas Milian giovane e già in grado di gestire una parte così importante in un film ancora più importante, dimostra grande professionalità non riuscendo a manifestare il suo enorme carisma in una parte difficile. Anche per lui 1968 ricchissimo di grandi personaggi come ad esempio il bellismo peones di  "Vamos a Matar Comapaneros...". Andando proprio a cercare il capello, tre cose  straniscono di lui: 1) il fatto che  stia completamente dalla parte dei buoni, sembra gli levino l'anima quando deve fare il buono!!!, 2) il doppiaggio, che non è quello di Amendola padre, e perde tantissimo.3) il suo personaggio fuma le zizze con il bocchino....orrendologico...
Curioso il cameo della grande Carla Gravina nella ninfomane mitomane che chiama la polizia, da ricovero, eccelsa.

E veniamo alle gaudenti note..La colonna sonora è qualcosa di eccelso. L'anno è sempre quello (68).
il maestro Riz Ortolani vi prepara una doccia Rock Lisergica e Ritm'Blues venata di tanto Jazz e dell'insostituibile voce di Nino Ferrer, che nel film canta una versione di "Vorrei la pelle nera!!!" da far diventare tutto il mondo nero (risolvendo cosi almeno uno degli annosi problemi del nostro mondo malato!!!).
Una folle sperimentazione da origine ad un qualcosa di completamente nuovo e avvincente. un film che presegna i tempi, enfatizza la posizione di potenza che ha un artista nell'indovinare il nostro futuro. Gli occhi di Volontè qualunque cosa egli ti stia proponendo. La risata del Piero ,sopra le urla di tutta la Milano che, ora, lo vuole linciare.
http://cinematografiapatologica.blogspot.com/2011/09/banditi-milano-1968-di-carlo-lizzani.html


LOS OLVIDADOS: DESDE ITALIA: CARLO LIZZANI

Carlo Lizzani es uno de los nombres del cine italiano que, tal vez por los motivos que señalaremos más adelante -a pesar de haber desarrollado una carrera de seis décadas y de haber sido, además de realizador, guionista, actor, historiador y crítico-, la atención hacia su obra ha quedado circunscripta a un reducido número de críticos y cinéfilos.

Nacido en Roma en 1922, desde muy joven se mostró interesado por el cine y después del final de la guerra llamó la atención por los guiones que escribió para Rossellini (Alemania año cero) y Giuseppe De Santis (Arroz amargo) ganando por esta última un premio al mejor guion del año. Afiliado desde joven al Partido Comunista, gran parte de su obra muestra un gran compromiso político.


Luego de rodar desde fines de los 40 algunos cortos y documentales, debutó en el largometraje de ficción en 1951 con Atención, bandidos!, un film en el que bastante tiene que ver su historia personal como partisano resistente al nazismo y fascismo. Este fue el primero de una serie de títulos que forman el núcleo central de su obra, recreando diversos episodios de la historia de su país.

En 1969 ganó el David de Donatello (Oscar italiano) por Bandidos en Milán, galardón que repitió en 1996 con Celuloide.

Director del Festival de Cine de Venecia entre 1979 y 1992, desde la década del 80 realizó varios trabajos para la televisión siendo su último film de 2011.

Carlo Lizzani, se suicidó nonagenario en el año 2013 arrojándose desde el balcón de su casa (del mismo modo que lo hizo su gran amigo Mario Monicelli) quedando trunco un proyecto de filmar una novela de Giulio Andreotti, líder de la Democracia Cristiana.

Se mencionaba más arriba posibles razones por las que Carlos Lizzani ha quedado bastante relegado en el ranking de los directores italianos de posguerra y dos de ellas pueden ser su postura ideológica de izquierda que se refleja en la mayoría de sus películas y el hecho de adscribir, aunque no de manera lineal, a la estética del neorrealismo. Es sabido que a los realizadores que responden a aquella ideología, gran parte de la crítica tiende a calificarlos de dogmáticos y panfletarios y en cuanto al gran movimiento surgido en el cine italiano de posguerra, también una buena porción de la crítica tiende –sin demasiadas razones atendibles- a considerarlo envejecido y superado, omitiendo que gran parte de las mejores películas italianas de esa etapa forman parte de esa escuela. Lo cierto es que el cine de Lizzani muestra un gran compromiso y sus películas pueden verse como un recorrido por diversos aspectos de la historia política y social de Italia, debiendo señalarse que siempre trató de filmar esas obras en los lugares donde transcurrieron los hechos, algo que le otorga a esos títulos un carácter semi documental.

Pero sería un error reducir a Lizzani al papel un director meramente “contenidista”, ya que hay en él una preocupación formal que se puede apreciar, vg, en su manejo de la tensión dentro de cada plano, su utilización fluida y nerviosa de la cámara, expresada en vigorosos travellings, el montaje preciso (en la mayoría de sus películas trabajó con el mismo editor, Franco Fraticelli), en el uso dramático de los primeros planos y en la excelente utilización de los exteriores.

Además hay otro rasgo que lo identifica y es la postura políticamente “incorrecta” que aparece en sus films, como es el caso de mostrar la aceptación mayoritaria de los judíos de su destino (El oro de Roma) o el de rodar películas desde el punto de vista de personajes fascistas, en una suerte de intento de mostrar la conducta de ellos desde “adentro” (ejemplo de esto son obras como San Babilo, hora 11 y Mussolini: último acto).

Hay que decir también que Lizzani participaba activamente en los guiones de sus films y, si bien sus títulos abiertamente políticos constituyen el corazón de su obra, también rodó policiales, comedias (un género en el que los resultados no siempre fueron felices) y hasta un par de spaghetti westerns, en uno de los cuales (Requiencast) tiene un papel importante como actor Pier Paolo Pasolini.

La extensa carrera de Carlo Lizzani cuenta con una buena cantidad de films valiosos por lo que, como es habitual, recomendaremos algunos de ellos.

Atención, bandidos! (Achtung, banditi!, 1951) es el primer largometraje de ficción de Lizzani y está ambientad en Génova, donde un grupo de partisanos resisten a los alemanes y los fascistas. Filmada con gran nervio, al que el director le agregó su experiencia como resistente, la película, basada en hechos reales, está rodada en los lugares donde ocurrieron, con un muy buen aprovechamiento de la aridez de las locaciones.

Crónica de pobres amantes (Croniche de poveri amanti, 1954) es una adaptación de la famosa novela de Vasco Pratolini, ambientada en Florencia en los años 20, durante los comienzos del fascismo. Gran parte del film transcurre en una calle, una suerte de microcosmos de la Italia de esos años, con sus grandezas y miserias, y cuenta con una muy buena delineación de caracteres, entre los que se destaca el de la usurera que vive en su cama mientras su criada le cuenta, mirando por la ventana, lo que pasa afuera.

El oro de Roma (L´oro di Roma, 1961) está inspirada en otro suceso real, la exigencia de los ocupantes alemanes de que los judíos les entreguen en 48 horas cincuenta kilos de oro a cambio de respetar su libertad. Obviamente la promesa no es cumplida y los judíos serán deportados y Lizzani pone el acento en la conducta sumisa que adopta mayoritariamente la población de ese origen, expuesta con crudeza en el rol de la protagonista femenina.

El proceso de Verona (Il proceso di Verona, 1963) recrea con intensidad un hecho histórico en los días de la caída de Mussolini, cuando un grupo de fascistas de su gabinete, encabezados por el Conde Ciano, esposo de la hija del dictador (una excelente Silvana Mangano) son acusados de haberlo traicionado y serán juzgados y condenados  por sus propios compañeros, con el diario del Conde como McGuffin del relato.

Frente al amor y la muerte (Svegliati e uccidi, 1966) toma como personaje central a Luciano Lutring, un ladrón que se dedica a romper vidrieras para efectuar sus robos y luego se embarca en un golpe de mayor magnitud. Con una conflictiva relación con su pareja, una cantante de cabaret, el film oscila entre el policial y el drama, con un muy buen trabajo de Lisa Gastoni y uno menos convincente de Robert Hofman en el protagónico.

Bandidos en Milán (Banditi a Milano, 1968) registra con gran vigor y un gran trabajo de cámara y de montaje las andanzas de un grupo de delincuentes liderados por un respetable empresario que va a misa todos los domingos y no permite el uso de minifaldas en su trabajo y en el que Milán está presentada como un auténtico nido de mafiosos y corruptos donde cualquiera, como el protagonista, puede convertirse en un líder del hampa.

La amante de Gramigna (La amanti di Gramigna, 1969) está ambientada en Sicilia en 1865, época de enfrentamientos entre monárquicos y partidario de Garibaldi, donde Gramigna, un ex garibaldino, luego de ser estafados él y su padre por un noble, mandamás del lugar, decide convertirse en una suerte de justiciero solitario, fugándose con la muchacha a quien le habían alquilado su casa. El film más violento y visceral del director.

Mussolini: último acto (Mussolini: ultimo atto, 1974) describe los últimos días de Mussolini (un excelente Rod Steiger) luego de su fuga e intento de irse a Suiza con su amante tras la rendición de las tropas fascistas y el abandono a que lo someten. Un tenso thriller político en el que el director patea al tablero presentando los hechos desde el punto de vista del dictador, con la curiosa relación con Clarissa Pettacci en el medio.

San Babilo, hora 11, un delito inútil ( San Babilo, un delitto inutile, 1976) sigue las andanzas de una pandilla de jóvenes fascistas en Milán que se dedican al robo, las violaciones y los atentados, hasta llegar al crimen gratuito. Otra vez Lizzani se mete en la intimidad del grupo en un relato con varias secuencias notables, lastrado por momentos por el trazo grueso con el que están delineados los personajes secundarios.

Celuloide (Celluloide, 1995) es una vívida recreación de los avatares de la filmación de Roma, ciudad abierta, las dificultades con los productores y los enfrentamientos de Rossellini con su guionista Sergio Amidei. La película más entrañable, y una de las mejores, del director que es también un homenaje a los comienzos del neorrealismo. Un reparto excelente con una Lina Sastri inolvidable interpretando a Anna Magnani.

Hotel Meina (2007) reconstruye un trágico hecho ocurrido hacia el final de la guerra cercano a la frontera de Italia con Suiza, en el que un grupo de judíos es primero encerrado en las habitaciones de un hotel, siendo luego la mayoría de ellos asesinados por los alemanes. Un film duro y de gran tensión dramática, en el que los esfuerzos de una alemana infiltrada y un grupo de partisanos no alcanzan para evitar el desolador final.
Jorge García
http://www.conlosojosabiertos.com/los-olvidados-desde-italia-carlo-lizzani/


A Carlo Lizzani, que murió a finales del año pasado, se le suele asociar con el neorrealismo italiano, sobre todo porque participó en el guión de Bitter Rice de Giuseppe de Santis. Esto no está mal, pero es limitado. Lizzani tiene dos peculiaridades bien definidas: por un lado sacó gran parte de su inspiración de la guerra que fue la Resistencia en la que participó, y por otro lado se interesó muy temprano, desde principios de los años sesenta, por las nuevas formas de delincuencia en Italia. Por tanto, es uno de los primeros directores de cine negro en la Italia de la posguerra. Por supuesto siempre con una preocupación por la realidad que da un lado casi documental a sus películas.

La historia es relativamente trivial. A medida que la delincuencia sigue aumentando en Milán, una banda de ladrones de bancos está sembrando el terror mediante el uso de la violencia. La pandilla de Piero es un trío bastante unido, al que se sumará un aprendiz muy joven que sueña con millones y aventuras. Pero su último atraco se convertirá en un fiasco. Le disparan a un empleado del banco. Se avista el auto en el que huyen, sigue una larga cacería sangrienta que terminará con la captura de los cuatro mafiosos.

La originalidad no está ahí, sino en la forma de cortar la historia y en la de filmar. Comienza con una introducción muy larga que nos muestra a la policía enfrentando el aumento de la violencia y el crimen en una ciudad que experimenta una rápida modernización. De allí nos topamos con unos bandidos que huyen, pero uno de ellos es detenido y finalmente hablará. Es uno de los pandilleros de Piero. Por lo tanto, tendremos derecho a la historia de la génesis de la pandilla, una historia de sus actividades. Esta es la oportunidad de pintar un retrato de este curioso equipo. Piero es el chef indiscutible. Dirige a sus tropas de una manera brutal e irresponsable. Sante obedece, sin hacer preguntas, simplemente porque Piro es el jefe y, recién casado, necesita dinero. Adriano es quien conduce los autos, quien también los roba y quien es capturado por la policía primero. Y luego está Tuccio que apenas ha salido de la adolescencia y que lamentablemente descubre el alijo de armas de Piero y por lo tanto se verá enredado en estas ensaladas.

Una vez que se establece el escenario, que hemos hecho un balance del viaje de la pandilla, la película se centra en el final de la pandilla. Primero el atraco que falla, luego la larga búsqueda de la pandilla por parte del comisionado Basevi. La pandilla se separa, luego parte intenta huir de Milán y se encuentran varados en un pueblo, mientras que Tuccio simplemente es recogido de sus padres donde ha regresado para refugiarse. Entre la inconsciencia, el miedo y la jactancia, la pandilla será destruida. Solo Piero encontrará la fuerza para hacer reír a la galería durante su arresto. Pero la pandilla habrá dejado varios cadáveres mientras tanto.

Lizzani no da una lección moral. Y creo que es esta forma muy distante de dar cuenta de un problema social lo que aseguró el éxito internacional de la película en su estreno. También es muy tarde, después de media hora que vemos aparecer en la pantalla al personaje central de la historia, Piero. Esta forma de hacer las cosas elimina cualquier posibilidad de dar un toque de romanticismo a estos bandidos. Pero incluso si no nos detenemos en la psicología de esta pandilla, hay suficientes elementos que nos permiten captarlos en lo que tienen de humano. Son capaces de reír, de disfrutar de las cosas de la vida. Incluso Piero que se enamora de la secretaria que contrató en la falsa empresa que ha montado como tapadera de sus ilícitas actividades.

Técnicamente, es un estilo frío y un poco impersonal, casi documental, que le da a la ciudad una personalidad particular. Porque el Milán industrial y moderno es, en última instancia, el tema real. Milán y sus fábricas que se ven humeando a lo lejos, sus almacenes donde Piero intenta esconderse. También es una ciudad moderna impulsada demasiado rápido con sus rascacielos como la marca del milagro italiano de la posguerra.

La película se rodó en 1968 y la forma en que opera esta banda recuerda a la de Mesrine. Además, cuando ataca los bancos, ¡adquieren el acento francés detrás de sus máscaras! Las escenas de acción son particularmente exitosas, ya sean robos o persecuciones de autos, el uso de escenarios reales es juicioso. Hay una escena de acecho en el campo milanés, un despliegue de fusileros, que parece haber inspirado a Jean-Pierre Melville para El círculo rojo. Es muy probable que Melville viera esta película y ahí es donde descubrió el potencial de Gian Mario Volonte 'que ostenta en la película de Melville un papel algo parecido. Por supuesto que está exagerando, pero también es el tipo de personaje que quiere eso. Haciendo muecas a voluntad, incluso burlándose, es bastante asombroso, al borde de la locura. Thomas Milian interpreta casualmente al comisionado Basevi. Y el resto del elenco también está bien. En el sentido de que los actores se funden por completo en el anonimato de este paisaje urbano milanés.

En definitiva, un éxito que abrirá el camino a toda una sección del cine negro a la italiana, del que Umberto Lenzi será uno de los representantes más prolíficos.
http://alexandreclement.eklablog.com/bandits-a-milan-banditi-a-milano-carlo-lizzani-1968-a114844652

jueves, 29 de julio de 2021

Ulisse - Mario Camerini (1954)

TÍTULO ORIGINAL
Ulisse
AÑO
1954
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Camerini
GUIÓN
Franco Bursati, Mario Camerini, Ennio De Concini, Hugh Gray, ver 4 más
MÚSICA
Alessandro Cicognini
FOTOGRAFÍA
Harold Rosson
REPARTO
Kirk Douglas, Silvana Mangano, Anthony Quinn, Rossana Podestà, Daniel Ivernel, Jacques Dumesnil, Franco Interlenghi, Elena Zareschi, Ludmilla Dudarova, Tania Weber, Umberto Silvestri, Evi Maltagliatim, Sylvie, ver 6 más
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Francia-Estados Unidos; Dino de Laurentiis, Paramount Pictures, Lux Film, Zénith Films
GÉNERO
Aventuras. Fantástico | Mitología. Antigua Grecia

Sinopsis
Adaptación de "La Odisea" de Homero. Terminada la guerra de Troya con la victoria de los griegos, Ulises (Kirk Douglas) navegará durante diez largos años, teniendo que superar terribles dificultades, antes de llegar a su palacio de Ítaca. (FILMAFFINITY)
 
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LA ODISEA DE HOMERO EN HORA Y MEDIA

Hoy me complace dedicar la primera película de esta Sesión Doble a una de esas grandes estrellas del Hollywood clásico de las que, lamentablemente, ya van quedando pocas: Kirk Douglas. Que es un actor dramático enorme lo prueban sus trabajos en El loco del pelo rojo (1956) o Senderos de gloria (1957), pero nosotros nos vamos a centrar en su faceta de héroe del entretenimiento. Al igual que otros carismáticos nombres de la época, como Burt Lancaster y Charlton Heston, Douglas potenció sus excelentes cualidades físicas para el cine de aventuras en un puñado de inolvidables títulos como 20.000 leguas de viaje submarino (1954), Los Vikingos (1958) o Espartaco (1960), seguramente su papel más emblemático. A este grupo de obras que nos hicieron disfrutar de niños, demostrando que en la década de los 50 se hicieron las mejores superproducciones de este tipo, pertenece nuestro clásico a recuperar de hoy: Ulises (Ulisse, 1954).

Dirigida a medias por Mario Camerini y Mario Bava, este filme italiano en nada tiene que envidiar técnicamente a las producciones hollywoodienses. Con Dino De Laurentiis en la producción, el protagonismo de Douglas ayuda a darle el empaque de película americana, todo un antecedente del péplum que tanto fervor causó en Italia durante los 60. La exitosa Hércules (1958), a mayor gloria del forzudo Steve Reeves, fue el inicio oficial de este subgénero que nació como respuesta más modesta en medios y planteamientos al colosal cine de romanos norteamericano de Quo Vadis! (1951), Cleopatra (1963) o La caída del Imperio Romano (1964). Pese a que en Ulises ya asomaban algunas características de este tipo de cine, su espíritu está mucho más cercano a aventuras mitológicas como Jason y los Argonautas (1963) o Furia de Titanes (1980).

Nos encontramos ante una de las adaptaciones más fieles de La Odisea de Homero, un poema épico prácticamente imposible de llevar a la pantalla en toda su magnitud. Narra las aventuras que vivió Ulises en su regreso a Ítaca tras la guerra de Troya, mientras su esposa Penélope, que lleva 10 años esperándole en palacio, es pretendida por un grupo de ambiciosos hombres que aspiran el poder. Sorprende la capacidad de sus directores de condensar varios pasajes como el enfrentamiento de los marineros con el gigante cíclope Polifemo en la cueva, la lucha contra el poder hipnótico de los cantos de sirena o el hechizo de la bruja Circe, en una escasa hora y media de metraje. Todo un ejemplo de síntesis narrativa, obra de siete guionistas, del que podría tomar nota Wolfgang Petersen, que necesitó 163 minutos para su espectacular versión de Troya (2004). Esto ayuda a que Ulises resulte una obra tremendamente entretenida y ágil, combinando a la perfección los momentos más intimistas (Ulises seducido por Circe) con otros más espectaculares. Sin duda, la escena más recordada es el episodio con el cíclope, donde los efectos especiales eran mucho más artesanales (pero igualmente efectivos) que los de Ray Harryhausen para las películas de Simbad, por poner un ejemplo. La dirección artística no puede competir en pomposidad con los decorados de sus homólogas norteamericanas, pero el resultado final rezuma encanto a raudales. La fotografía de Harold Rosson juega con habilidad con luces y sombras, disimulando en buena medida las limitaciones presupuestarias de la cinta.
En el apartado interpretativo, Kirk Douglas está perfecto en su interpretación del heroico Ulises. Cuesta imaginar a otro actor en el papel después de ver su poderosa presencia en pantalla. Para el papel de su amada Penélope (y el de la hechicera Circe), la elegida fue una auténtica sex symbol italiana de la época, la guapísima Silvana Mangano. Esta actriz, que había escandalizado con sus curvas en el clásico Arroz amargo (1949), supo reconducir su carrera hacia papeles más maduros bajo la dirección de maestros como Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini o Luchino Visconti. Compitiendo por el amor de Penélope, tenemos como antagonista al siempre enérgico Anthony Quinn en uno de esos personajes de villano que tan bien se le daban. Un trío protagonista inolvidable, sin lugar a dudas.

Ulises fue un gran éxito comercial en su momento, con más de 2 millones de dólares recaudados en Estados Unidos. Sentó las bases de lo que sería el género mitológico en el cine, que a día de hoy parece vivir una segunda juventud gracias a las buenas recaudaciones del remake de 300 (2007), Percy Jackson y el ladrón del rayo (2010), Furia de Titanes (2010) y su secuela Ira de Titanes (2012) o Immortals (2011). Resulta cuanto menos curioso comprobar que estos blockbusters, con sus presupuestos estratosféricos y toda su grandilocuencia visual, no consiguen perdurar en la memoria del espectador de la misma manera que sí lo hizo esta pequeña joya de los 50. Y es que por mucho que pasen los años, los más espectaculares ejércitos creados por la magia digital jamás serán capaces de rivalizar con el carisma de un enorme actor como Kirk Douglas.
José Antonio Martín
https://www.elantepenultimomohicano.com/2012/10/critica-ulises-1954.html

El Ulises de Camerini: un héroe más cerca de lo humano que de lo divino

Ulises (1954) de Mario Camerini tiene el honor de ser una de las películas que aparecen en Cinema Paradiso, como un guiño al espectador del viaje que iniciará Totó después de la proyección. No en vano, Ulises fue la película más taquillera en Italia en la temporada 1954/55.


Llama la atención en la historia del cine que, desde esta versión de la Odisea del director italiano y otras miniseries, no se haya hecho otra película que cuente en la gran pantalla las gestas de uno de los héroes más conocidos de la Antigüedad. Se rumorea que una productora muy conocida se va a poner manos a la obra en 2016 y que, probablemente, el proyecto, imitando el formato de El Hobbit o Los juegos del hambre, tome forma en varias entregas. En efecto, para realizar una adaptación lo más fiel posible de la epopeya homérica se necesita mucho tiempo de metraje y dinero para contar todas las aventuras del héroe, con los efectos especiales que demandan dioses, héroes, monstruos y lugares fantásticos.

Es una de las razones por las que Ulises puede dejar insatisfecho a quien vaya buscando el relato incesante y vertiginoso de aventuras que a lo largo de varios cantos muestra el poema homérico. Camerini y su grupo de guionistas eran conscientes de sus limitaciones e introdujeron cambios significativos con respecto al texto original para crear un héroe, encarnado por Kirk Douglas, más humano, más alejado de lo fantástico y divino y más fiel a su esposa. De esta manera, entre otros aspectos, se reducía notablemente la necesidad de recurrir a los efectos especiales.

Cabe destacar, en primer lugar, la ausencia de los dioses: Atenea, benefactora del héroe, y Posidón, su enconado enemigo, que se hacían notar y tomaban incluso forma humana en la epopeya homérica, no aparecen en ningún momento, ni siquiera oímos sus voces. Están en el trasfondo y se les nombra, pero no intervienen en la trama. Así, el destino de Ulises no parece depender tanto del capricho de las divinidades.

En segundo lugar, llama la atención la considerable reducción de aventuras respecto a la epopeya que vemos en la película: el cíclope Polifemo, el canto de las Sirenas y la estancia con la maga Circe. En estos tres episodios, Camerini deja su impronta.

Como es generalmente conocido, Ulises se presenta ante Polifemo con el nombre de “Nadie”, treta que le sirve para que, cuando el cíclope, cegado, pida ayuda a sus hermanos clamando contra “Nadie”, ninguno de ellos le haga caso. En el filme, Ulises, aunque tampoco le revela su nombre hasta que se ve a salvo, se presenta en conjunto como parte de un grupo de griegos civilizados. En el caso de las Sirenas de la película, imitan las voces de Penélope y Telémaco en lugar de alabar con su canto las gestas del héroe atado al mástil. Es como si Ulises estuviera siempre en contacto con sus seres queridos y su patria.

Buena muestra de ello es su estancia en el palacio de Circe, una de las andanzas que más alterada se ve con respecto al poema homérico. En este, Circe trata de convertir a Ulises, como al resto de compañeros, en cerdo tras acostarse con él, pero Hermes proporciona al héroe una hierba con la que evitará el encantamiento de la maga. Luego esta volverá a dar forma humana a los compañeros de Ulises y le explicará cómo sortear los peligros que se le presentarán. Sin embargo, la Circe de Camerini tiene un gran protagonismo en la película: Silvia Mangano es la actriz encargada de dar vida tanto a Circe como a Penélope. Al encontrarse con Circe, Ulises le asegura que le recuerda muchísimo a su esposa y, por ello, cae rendido en sus brazos. De esta manera, Camerini justifica de algún modo la infidelidad del héroe intachable, quien sigue físicamente lejos de su patria y de su familia, pero percibe cercana.

En la epopeya, hay otra diosa a cuya isla llega Ulises ya solo. Se trata de Calipso, literalmente “la que esconde u oculta”. Calipso se enamora del héroe y lo retiene otros diez años. Aunque no se sabe cuánto tiempo exactamente, la Circe del director italiano hace las veces de Calipso y también retiene al héroe largo tiempo hasta que se da cuenta de que es imposible luchar contra el destino: Ulises debe regresar a Ítaca. Y es precisamente el episodio de la llegada a su patria como mendigo y la venganza de los pretendientes lo que apenas modifica Camerini. ¡Qué hay más propio de un hombre que impartir justicia a todos aquellos que han intentado, en su ausencia, aprovecharse de su familia, su casa y sus bienes!

Ulises se fue a la guerra y logró, al fin, regresar a Ítaca para estar con Telémaco, el hijo que nunca había visto, y la fiel Penélope, a la que en ningún momento había dejado de recordar y amar. Del mismo modo, el director italiano también terminó su travesía con éxito. Sesenta años después, la película sigue siendo un referente en las adaptaciones de las leyendas mitológicas de la Antigüedad Clásica.
https://www.fueradecampofilms.com/blog/el-ulises-de-camerini-un-heroe-mas-cerca-de-lo-humano-que-de-lo-divino/

 

El italiano Mario Camerini ayudado por su compatriota Mario Bava ("Las tres caras del miedo (1963)") realizarían a mediados de los años cincuenta este entretenido título de aventuras basado en el poema épico griego de Homero "La Odisea", en él nos describiría las vivencias que sufre Ulises durante el regreso a su hogar (el palacio de Itaca) después de haber combatido en la batalla de Troya. Pero el film, aparte de relatarnos las peligrosas aventuras del heroico Ulises durante su trayecto a casa, también se centraría en contarnos lo que sucede en el Reino de Itaca, mostrándonos a una desconsolada Penélope (esposa de Ulises) lamentando la presunta pérdida de su marido y como un grupo de pretendientes, como si de buitres se trataran, aspiran casarse con ella con el claro y único propósito de gobernar sus tierras. Con un reparto practicamente compuesto de nombres italiano (entre ellos la guapa actriz Rossana Podestá ("Sodoma y Gomorra (1962)") y la no menos bella Silvana Morgana con su doble papel de Penélope y la bruja Circe), Camerini iba a contar en sus filas con el legendario Kirk Douglas ("Los vikingos (1958)") en el papel de Ulises y al mexicano Anthony Quinn ("Zorba, el griego (1964)") representando a uno de los pretendientes de Penélope (Antinoos), sin duda dos grandes astros del celuloide que servirían de reclamo comercial para asegurar a su productora (Dino de Laurentis) una buena taquilla en la fecha de su estreno. Entre sus escenas habría que destacar el astuto enfrentamiento de Ulises con el gigante Polimefo, su desafío con las sirenas y su devastador canto o el hechizo que sufre por parte de la bruja Circe que le hará dudar entre regresar a casa junto a su esposa e hijo o convertirse en un inmortal Dios del Olimpo. Como curiosidad, Kirk Douglas y Anthony Quinn volverían a verse las caras dos años después gracias a Vincente Minnelli y su obra biográfica sobre Van Gogh en "El loco del pelo rojo (1956)".

Frase para recordar: "Solo quien tiene miedo conoce la grandeza del valor".
https://www.lasmejorespeliculasdelahistoriadelcine.com/2012/06/ulises-1954.html

El poeta ciego Homero, de quién poco se sabe, escribió en griego arcaico la Odisea y la Ilíada, sus dos obras fundamentales (porque son fundamentos de toda la narrativa occidental) que todavía hoy seducen a guionistas y productores cinematográficos. A través de las imágenes reconstruyen, en general con poco éxito, una época oscura, la de los orígenes de la llamada civilización occidental, nuestra civilización, nuestra cultura, sobre todo la cultura mediterránea.

La primera novela de aventuras
Es archisabido que la Odisea es la primera novela de aventuras y que su protagonista, Odiseo (Ulises para los latinos), es el primer aventurero, de astucia admirable y energía inagotable. Ulises recorre el mar Mediterráneo superando los peligros con los que se topa, o en los que cae sin remedio, cuando intenta regresar, tras la guerra de Troya, a su isla, a sus tierras, de las que es el rey, y a su familia dejada tiempo atrás.

En Ulises, en la Odisea, se inspiraron, o más bien copiaron a destajo, los guionistas de la coproducción cinematográfica italo franco americana, Ulises, de 1954, bajo la dirección de Mario Camerini, un realizador más que experimentado que, ni antes ni después dirigiría otra obra tan destacada. Y es que su película causó sensación entre el público de todo el mundo.

En Italia fue la película más taquillera de la temporada. No solamente porque Kirk Douglas, ya un actor conocido, interpretara al personaje de Ulises; o porque Penélope, su fiel y paciente esposa, era la famosa Silvana Mangano, que se desdoblaba en el personaje de la cautivadora Circe; ni porque la actriz emergente, Rossana Podestà, en el papel de Nausicaa, embelesaba con su  belleza, ni porque el papel de su padre, Antinoo, fuera de Anthony Quinn, siempre sólido en apariencia y en interpretación…, sino porque el genio del viejo Homero, las aventuras del viejo Odiseo, salían al fin del libro minoritario y a través de la magia del cine llegaban al gran público.

Ya fuera por las exigencias de la síntesis narrativa o para eludir el incremento de presupuesto de la producción, el hecho es que los guionistas cambiaron el orden del relato original, suprimieron algunos episodios, modificaron otros, siempre conservando, esos sí, la esencia de la lucha épica y genuina del personaje Ulises por superar los peligros sucesivos que una y otra vez le enviaban los dioses, empeñados en que nunca llegara a Ítaca, su isla.

Los estudios de Cinecittà

O sea, que la película no empieza con la reunión celebrada por la caterva de dioses del Olimpo al final de la guerra troyana, tal como narra el Canto primero de Homero, sino con la secuencia en la que la esposa de Ulises y su hijo Telémaco lamentan la larga ausencia del esposo y padre del que nada saben desde que partiera a aquella guerra con las huestes de Menelao. Es una escena de interiores, por utilizar terminología cinematográfica, rodada en los estudios de Cinecittà, en Roma, lugar en el que se rodarían el resto de escenas que no exigían estar al aire libre.

Se inauguraba así el uso de los grandes estudios cinematográficos de Roma para filmar las películas que se conocerían bajo el nombre genérico de “peplum”, refiriéndose a aquellas ambientadas en la época clásica, griega o romana, destinadas al gran público.

En una segunda secuencia, esta en exteriores, la princesa Nausícaa, que vive lejos de Ítaca, en la isla hoy conocida como de Corfú, encontrará a Ulises inconsciente, tirado en la arena de la playa. Es un náufrago y ha perdido a los compañeros con los que navegaba, ha perdido la memoria, no sabe ni cómo se llama, pero poco después, ya en brazos de la princesa y con la mirada puesta en el mar Mediterráneo, empezará a recordar las aventuras vividas…

La primera que contará y que veremos será la del enfrentamiento con Polifemo, el gigante de un solo ojo… a quien engañará para salvarse y salvar a sus compañeros después de emborracharse con el vino que acaban de destilar, y de cegarlo con la punta de un palo endurecida por el fuego.

Así que la película va de flash-back en flash-back, desarrollando los episodios más entretenidos de la obra homérica, y deteniéndose deliberadamente en algunos de ellos, como es el caso de la pasión amorosa que viven Ulises y la maga Circe en la isla Eea, que se sitúa más o menos en el Mediterráneo occidental, en la ribera de la región del Lazio italiano, o eso dicen los que saben de mitología.

Nuestro mar aparece una y otra vez a lo largo de la película, en la calma del luminoso azul y en los grises amenazantes de las olas furiosas, convirtiéndose en un protagonista más.

A Ulises y los suyos los veremos también navegando en plena tempestad, él atado al mástil para poder escuchar los cantos malignos y a la vez encantadores de las sirenas mientras sus compañeros, atados a los remos, se tapan los oídos con cera para no dirigir el barco hacia los escollos puntiagudos de la costa.

Y es que nuestro mar aparece una y otra vez a lo largo de la película, en la calma del luminoso azul y en los grises amenazantes de las olas furiosas, convirtiéndose en un protagonista más, porque abastece y también ampara, atrayendo la mitología de hombres y mujeres, de semidioses y de grandes dioses y  diosas, viviendo todos los primeros balbuceos de la narrativa transformada en Cine.
https://www.alamareditions.com/ulises-cine-mediterraneo/

miércoles, 28 de julio de 2021

Danza macabra - Antonio Margheriti, Sergio Corbucci (1964)

 

TÍTULO ORIGINAL
Danza macabra
AÑO
1964
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español, Inglés, Francés y Portugués (Opcionales)
DURACIÓN
87 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Antonio Margheriti, Sergio Corbucci
GUIÓN
Sergio Corbucci, Giovanni Grimaldi
MÚSICA
Riz Ortolani
FOTOGRAFÍA
Riccardo Pallottini (B&W)
REPARTO
Barbara Steele, Jorge Rivier, Margarete Robsahm, Arturo Dominici, Silvano Tranquilli, Sylvia Sorrente, Salvo Randone
PRODUCTORA
Co-production Italia-Francia; Giovanni Addessi Produzione Cinematografica, Ulysse Productions, Vulsinia Films
GÉNERO
Terror | Casas encantadas. Sobrenatural. Fantasmas

Sinopsis
Un periodista británico que intenta entrevistar a Edgar Allan Poe durante la visita que el escritor americano hace a Londres termina liado en una curiosa apuesta. Un noble llamado Lord Blackwood le desafía a pasar esa noche (la de difuntos) en una de sus propiedades: una mansión supuestamente embrujada. De la que, por cierto, no ha salido vivo ninguno de los que, con anterioridad, han intentado hacer lo mismo. Como es natural, el periodista acepta el reto. (FILMAFFINITY)
 
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En la estimable 'Malditos bastardos' ('Inglorious Basterds', 2009) el muy inteligente Quentin Tarantino rinde su particular homenaje a un director al que está harto de copiar, el italiano Antonio Margheriti, también conocido como firmaba muchas de sus películas de cara al mercado internacional, Anthony M. Dawson. La escena es aquella en la que Eli Roth tomaba prestado el nombre italiano para disimular delante de un muy perspicaz Landa (Christoph Waltz), un instante realmente divertido que servía como guiño a un director realmente interesante y que tuvo la desgracia de firmar engendros realmente espantosos sobre todo al final de su carrera y que en cierto modo, ocultaron las verdaderas joyas de una filmografía extensa, casi todas concentrada en los primeros diez años de su carrera, por ejemplo 'Danza macabra' (id, 1964), film que empezó a dirigir Sergio Corbucci quien a nada de empezar —de hecho no dirigió ni una sola secuencia— tuvo que dejar el rodaje y sugirió el nombre de Margheriti para que le sustituyera.

Tomando como claras referencias algunas cintas de Mario Bava y Riccardo Freda, los dos directores italianos por excelencia que comenzaron una línea de películas sobre el horror en una cinematografía un tanto desconocida por estos lares y que en nada tienen que envidiar a las películas que paralelamente hacían Roger Corman por un lado en los Estados Unidos, basadas en los relatos de Edgar Allan Poe, o la mítica productora británica Hammer. Precisamente, Barbara Steele, la protagonista de esta 'Danza macabra', había trabajado con Bava en la inolvidable 'La máscara del demonio' ('La maschera del demonio, 1960) y con Corman en 'El péndulo de la muerte' ('The Pit and the Pendulum', 1961) que la convirtieron con toda justicia en una de las musas del terror. Su presencia en las tres películas es de las que no se olvidan.

'Danza macabra' es un ejercicio sobre el terror partiendo de una excelente premisa que puede tomarse a su vez como un ejercicio de metalingüismo. Un joven periodista —un Georges Rivière que resulta lo más flojo de la función— llega a Londres para entrevistar a nada menos que Edgar Alla Poe (Silvano Tranquilli), que se encuentra en una taberna amenizando la velada a los asistentes con una de sus fantasmagóricas y estremecedoras historias. Ante el escepticismo del joven recién llegado pronto surge un reto: un aristócrata, amigo de Poe, hace una apuesta de cien libras que termina en diez —muy inteligente detalle de guión que hace referencia a la pobreza de la profesión— a que no será capaz de aguantar durante toda una noche en una mansión de su propiedad sobre la que se vierte la maldición de que todo aquel que entra allí no sale con vida. El periodista acepta y emprenderá uno de los viajes al horror más fascinantes que ha dado el cine.

Con una gran pobreza de medios, 'Danza macabra' luce como si tuviera un enorme presupuesto gracias a la sabia utilización sobre todo de la fotografía, obra de Riccardo Pallottini, que contrasta blanco y negro sacando provecho a cada situación que se plantea dentro de una mansión en la que vida y muerte, pasado y presente, se funden en una sinfonía del horror. Llaman la atención los primeros veinte minutos, aproximadamente, en los que el periodista está solo en la mansión y las sombras sugieren terrores del más allá. Un sencillo juego de iluminación para proponer más que mostrar consiguiendo resultados mayores a lo esperado, en una época en la que varios títulos similares al menos en atmósfera —léase 'Suspense' ('The Innocents', Jack Clayton, 1960) o 'The Haunting' (id, Robert Wise, 1963)— utilizaban las mismas armas narrativas ofreciendo un relato de terror puro y duro, y atención, en el caso del film de Margheriti muy atrevido para la época.

En 'Danza macabra' hay lugar para todo, fantasmas, muertos que resucitan e incluso vampirismo, y la mezcla no chirría por ningún lado, al contrario, supone toda una revolución. Nuestro querido periodista será testigo durante la noche de cómo todos aquellos que encontraron la muerte en la mansión reviven una y otra vez la fatídica noche en la que perdieron sus vidas de forma violenta añadiendo nuevas víctimas a su tétrica función. En dichas historias habrá lugar para los celos, la envidia, e incluso el amor lésbico. No puedo dejar de imaginar las reacciones que debieron tener los espectadores de la época cuando en pantalla de lo montaban Barbara Steele y la morbosa y poco conocida actriz Margrete Robsahm, sólo vista en el montaje italiano, en una historia de amor lésbico que rememora el pasado, subraya el irreal presente y termina de complementarse con otra historia de amor, la que viven en esa larga noche el periodista con Elisabeth (Steele), incluso consumada con lo que ello supone.

Si la película daba inicio con la espeluznante historia que narraba Edgar Allan Poe, concluye con otra frase del escritor después del maravilloso detalle del aristócrata cobrando las diez libras apostadas, cogidas de la billetera del cuerpo ya sin vida del periodista en la entrada de la mansión —detalle este de una inteligencia fuera de lo común, al ser eliminado por un elemento físico de la propia casa justo cuando se cree a salvo—.

Conviene aclarar que la película dice estar basada en un relato, que no existe, del famoso escritor de Boston, en lo que parece un juego con el propio espectador al proponer una ficción dentro de una ficción que concluye con una cruel realidad, la segura muerte. Toda una maravilla bañada en elegancia por un lado, decadencia por otro, y una atmósfera fantasmagórica que corta el aliento. El propio Margheriti se atrevió con un remake en color en 1971 titulado 'La horrible noche del baile de los muertos' ('Nella stretta morsa del ragno') no tan conseguida formalmente como 'Danza macabra' pero igual de fascinante en lo que narra.

Recomendación: Acercarse a la versión italiana rodada en inglés, jamás al doblaje en italiano o español. Los diálogos en ambos doblajes no tienen absolutamente nada que ver con el original.
Alberto Abuín
https://www.espinof.com/criticas/anorando-estrenos-danza-macabra-de-antonio-margheriti

No cabe ningún género de dudas al afirmar que Mario Bava y Riccardo Freda fueron los originadores de lo que se ha venido a denominar “la escuela de cine gótico italiana”. A la sombra de sus seminales trabajos eclosionaría todo un movimiento que pronto adquiriría el rango de subgénero, merced a un estilo propio que tendría sus principales señas características en la belleza plástica de sus imágenes y una concepción dramática puramente latina, en la que lo bello y lo hórrido, el amor y la muerte, caminarían de la mano junto a las más bizarras inclinaciones sexuales. Dentro del grupo de realizadores que seguirían los pasos de estos pioneros destaca por derecho propio el nombre de Antonio Margheriti. Nada extraño teniendo en cuenta que sus diferentes incursiones en la temática se saldarían con algunos de los exponentes más valiosos legados por el orrore all’italiana.

No obstante, ni tan extraordinario balance ni la reivindicación de la que viene siendo objeto su obra de un tiempo a esta parte por amplios sectores de la crítica especializada ha evitado que su figura permanezca en un segundo plano frente a la importancia de Bava y Freda. En su contra parece pesar más la etiquetación de artesano que le otorgó una prolija filmografía cercana a los sesenta títulos y alargada en el tiempo hasta los últimos compases del pasado siglo, con la que recorrería buena parte de los estilos frecuentados durante sus diferentes etapas por el cine popular trasalpino. A la vista de tales características, es fácil ceder a la tentación de establecer ciertas analogías entre su carrera y el desarrollo experimentado por dicha industria durante su edad dorada: desde las originales reformulaciones de los géneros clásicos instaurados por Hollywood de sus inicios, hasta las miméticas fotocopias de los taquillazos de turno que certificarían su defunción un par de décadas más tarde; una diferenciación que entraña en sí mismo el porqué de la debacle de la otrora esplendorosa política de géneros adoptada por la cinematografía italiana.

Un caso bien significativo a este respecto lo constituye Danza macabra. Y es que no deja de ser curioso que la que muchos consideran su obra maestra se viera aquejada de una serie de condicionantes industriales no muy diferentes a los que su director se toparía hacia el final de su andadura profesional, cuando tuviera que dar forma a sus particulares remedos de Rambo, Alien y demás éxitos del cine norteamericano del momento. De este modo, el germen de la película nace del interés de Sergio Corbucci por aprovechar los decorados en los que había localizado Il monaco di Monza, comedia a mayor gloria del popular Totó. Sin embargo, otros compromisos profesionales previos obligarían al futuro director de Django a renunciar a su realización[1], motivo este por el que para ocupar su puesto recomendaría al productor Giovanni Addessi la contratación de Margheriti, quien tendría que hacer frente a un apretado plan de rodaje. Según declaraciones del propio cineasta, la filmación se desarrollaría durante dos semanas con tres cámaras simultaneas, destinándose un día más para el trabajo con efectos.

A tan atropellada producción hay que añadirle las más que evidentes influencias que su material de partida mantiene a nivel conceptual. Por un lado, el de la fundacional La máscara del demonio, de la que asimila el carácter romántico-macabro y fatalista de su trama, y su look visual, caracterizado por una fotografía en contrastado blanco y negro. El otro referente que maneja se encuentra en las coetáneas traslaciones de la literatura de Edgar Allan Poe que orquestara Roger Corman, a las que alude de muy diferente forma. Al igual que algunas de ellas, se trata de una falsa adaptación, en este caso de un indeterminado texto del escritor norteamericano, el cual, inesperadamente, participa también en la historia como un personaje más. Además, con el fin de hacerse pasar por un producto anglosajón, todo el equipo adoptaría nombres de raíces inglesas, con la lógica excepción de los actores provenientes de aquellas latitudes. Ambas influencias son hermanadas por el protagonismo de Barbara Steele, musa por excelencia del cine gótico italiano y, al mismo tiempo, coprotagonista de El péndulo de la muerte, segunda entrega del ciclo Corman en la que participaría, en gran medida, gracias a la repercusión obtenida por su colaboración con Bava, en un curioso fenómeno de vasos comunicantes.

Aún con todos estos componentes, Danza macabra dista mucho de ser un producto derivativo. Antes al contrario, posee una marcada personalidad a la que contribuye de un modo determinante el sugestivo libreto pergeñado por los hermanos Corbucci y Giovanni Grimaldi, responsables aquel mismo año del guion de otra cinta de ecos poenianos, la poco conocida coproducción hispano-italiana Horror de Alberto de Martino. Gran parte de su mérito anida en el audaz planteamiento metafísico sobre el que se sustenta la trama, expresado sobre una base sumamente esquemática basada en la confrontación entra la óptica racionalista y la sobrenatural: durante la noche de difuntos, un escéptico periodista, enviado para entrevistar a Edgar Allan Poe aprovechando su visita a Londres, acepta la apuesta de un noble local para pasar la velada en su abandonado castillo, sobre el que pesa la leyenda de que todo aquel que ha pasado esa noche en el lugar no ha vivido para contarlo.

Llegado a la mansión, el hombre descubrirá para su sorpresa que esta se encuentra habitada, enamorándose perdidamente de una de sus ocupantes con la que llegará incluso a yacer, en un momento totalmente insólito dadas las significaciones que implica una vez se revele la auténtica naturaleza de la joven. Poco a poco, y según avance la noche, la seguridad del protagonista en sus convicciones se irá desmoronando como un castillo de naipes a medida que sea testigo de diversos fenómenos inexplicables, hasta descubrir la verdad de lo que en la mansión ocurre: lo que él cree seres vivos son, en realidad, los espectros de sus antiguos moradores, condenados a repetir en un bucle sin fin los mismos actos acaecidos durante la noche en que fallecieron, para lo que deben beber la sangre de sus huéspedes a fin de asegurarse por un año más su especial estadio, como si de un sacrificio tribal se tratara.

Lo metafísico deja así entrada a la metaficción. El hecho de que los muertos deban contar con incautos visitantes que pasen la noche en el castillo como paso intermedio para perpetuar su (no) existencia y, con ello, volver a vivir ad nauseam sus últimos momentos, puede verse como una metáfora de la necesidad de cualquier representación artística de tener un público que la presencie. Una idea que se hace especialmente palpable en aquella escena en la que el periodista, en compañía de su particular cicerone en lo sobrenatural, el Dr. Carmus, asiste a la repetición de los trágicos sucesos que originaron la maldición. Al igual que los espectadores, el protagonista es testigo de unos hechos en los que no puede intervenir pese a sus denodados esfuerzos, y que volverán a repetirse sin modificación alguna, ya sea la próxima noche de difuntos o cada vez que se reproduzca la película, con la única condición de que exista un testigo que los presencie.

Redundando en esta teoría, tampoco puede ser pasada por alto la ya comentada presencia de Edgar Allan Poe dentro de la historia, y mucho menos que sea el primer y el último personaje en escena en tener la palabra, y lo haga, además, con dos intervenciones de lo más sintomáticas. Así, el inicio de la cinta nos presenta a nuestro intrépido entrevistador adentrándose en una taberna en cuyo interior el escritor bostoniano relata uno de sus cuentos macabros ante una entregada parroquia que le escucha embelesada. Más tarde, y escasos instantes antes del letrero “Fine”, Poe reflexionará en voz alta al observar la suerte corrida por el plumilla: “Cuando escriba esta historia nadie la creerá. Como siempre.” Dando la vuelta a la frase, ¿hasta qué punto cabe la posibilidad, a tenor de lo expuesto, de que todo lo narrado sea otra ficción creado por el autor de El cuervo? Al fin y al cabo hay que recordar que la película se dice basada en uno de sus textos, en realidad inexistente…

Por si aún quedaran dudas, la puesta en escena de Margheriti ayuda a potenciar aún más semejante subtexto, debido a su tendencia a la identificación del espectador con el protagonista. Si bien en un principio parece que narrativamente vayamos un paso por delante suyo – frente a la sorprendente naturalidad con que acepta que, en contra de lo que esperado, el castillo tenga inquilinos, a ningún espectador se le escapa que se tratan de fantasmas, tal y como se encarga de ratificar el doble sentido de muchos de sus diálogos-, después de que el periodista traspase la verja que da acceso a la casa encantada la planificación nos sitúa a su mismo nivel, haciéndonos recorrer y descubrir junto a él los pasillos, habitaciones y recovecos del castillo. Véase a este respecto las numerosas ocasiones en que al entrar en una nueva estancia la cámara escudriña sus paredes, tomando el punto de vista subjetivo del personaje por medio de panorámicas semicirculares en un movimiento descriptivo que remite directamente a uno de los momentos más emblemáticos de La máscara del demonio, como es el descubrimiento de la tumba de Asa.

Pero la labor del director de I lunghi capelli della morte no se queda aquí, y en su debe hay también que destacar la forma en que sabe sacar partido de un material que, con todos sus aciertos, en otras manos podría haber deparado un desarrollo de lo más plomizo dadas sus particulares características. Si esto no ocurre es gracias a la dinámica y sobria realización del italiano, rica en atmósferas fantasmagóricas y decadentes, y plena en inventiva visual[2], sin que todo ello vaya en menoscabo del excelente rendimiento del resto de apartados implicados; desde la banda sonora de Riz Ortolani hasta la encomiable labor interpretativa de su reparto, en el que solo flojea, paradójicamente, el encargado de llevar todo el peso del film sobre sus hombros, el francés Georges Rivière. Las numerosas peregrinaciones del protagonista por los pasillos de la mansión están rodados con tal elegancia y de tal forma que acrecientan la sensación de inquietud y suspense, a lo que ayuda la iluminación empleada por Riccardo Pallotini, basada en el contraste entre la sobrecargada iluminación de los elementos en primer término y la penumbra de unos fondos de los que parece pueda surgir el mayor de los terrores en cualquier instante. Otro acierto a su favor se encuentra en su estudiada dosificación narrativa in crescendo, otorgando a la película de una pausada cadencia que durante sus minutos finales se transforma en un último tramo vibrante y soberbio. Buena muestra del estado de gracia alcanzado por Margheriti en esta película es que cuando pocos años después realizara una nueva versión con más medios y fotografía en color bajo el título de La horrible noche del baile de los muertos, el producto resultante, sin ser para nada desdeñable, quedaría lejos de la excelencia exhibida por tan insigne precedente.

[1] Al parecer, Corbucci sí que llegó a ponerse al frente de la producción, aunque tan solo medio día en el que “no dirigió nada”, tal y como recordaba años después Margheriti en la entrevista aparecida en el libro Spaghetti Nightmares de Luca M. Palmerini y Gaetano Mistretta, según la traducción al castellano aparecida en “El extraño vicio del Dr. Hichcock” (http://stranovizio.blogspot.com.es/2007/06/entrevista-antonio-margheriti.html)

[2] Por ejemplo, la escena en la que el periodista es acosado en la cripta por los espectros que pretenden su líquido vital, acompañados por unos movimientos, dicho sea de paso, que parecen prefigurar el de los muertos vivientes de George Romero.
José Luis Salvador Estébenez
https://cerebrin.wordpress.com/2013/06/03/danza-macabra/


ENTREVISTA A ANTONIO MARGHERITI

Siempre he considerado a Margheriti un realizador honesto a la par que válido. Introdujo el cine de ciencia-ficción en Italia y su carrera se dilata durante más de cuarenta años, en los que ha participado en todos los subgéneros demostrando gran corrección y en algunas ocasiónes cierta brillantez. Esta entrevista forma parte también del ya mencionado libro "Spaghetti nightmares", que al paso que vamos, acabaré traduciendo completamente. (Vale la pena, es sumamente interesante). Todos los errores que encontreis en la traducción, mea culpa.

¿Cómo recuerda su debut como director en “Space men”?

Fue una experiencia muy serena. Como previamente ya tenía bastante experiencia, no tuve ningún problema en concreto. “Space men” fue la primera película de ciencia-ficción producida en Italia y fue rodada en solo cuatro semanas con un presupuesto ligeramente menor de 24 millones de liras, menos que una película actual del artículo 28¹.

¿Fue un éxito?

Grande. Incluso se vendió en América, y pese al hecho de que se estrenó justamente cuando comenzaban los Juegos Olímpicos de Roma, funcionó bastante bién en Italia también.

¿Cómo adquiriste tu seudónimo?

Yo había elegido el nombre de Anthony Daisies (una traducción de mi nombre italiano) para “Space men”, pero los americanos prefirieron cambiarlo por Anthony Dawson porque Daisies, siendo un nombre de flor, podía haber causado alguna duda acerca de mi identidad sexual (se rie). Más tarde añadí una M para que no me confundieran con el actor británico Anthony Dawson.

“Il pianeta degli uomini spenti” fue más o menos una continuación de “Space men”, ¿no?

Sí, era otra película de ciencia-ficción, pero con un ligero tono irónico. Costó tres veces lo que la primera, pero también resultó ser un éxito. De hecho, todavía la pasan por la televisión americana. Casualmente, Giuliano Gemma aparece en ella, en el que fue su primer papelito.

¿Cuál fue exactamente tu contribución en el documental “Il pelo nel mondo”, de Marco Vicario?

Busqué imágenes de archivo de viejas grabaciones y rodé algunos episodios, pero Marco terminó el filme.

¿Cuáles son tus recuerdos de los “peplum” o películas mitológicas que rodaste en los primeros sesenta?

¡Prefiero olvidarlos! Fueron hechos únicamente para tener algo de comida en la mesa, como aquella historia de aventuras de “Soraya, reina del desierto”.

¿Tengo razón al decir que “Danza macabra” fue codirigida con Sergio Corbucci?

No. Se suponía que la tenía que filmar Sergio, pero como estaba ocupado en otra película, estuvo hablando con el productor Giovanni Addessi, que entonces me propuso hacerla. Sergio me reemplazó durante medio día pero no dirigió nada. Sin embargo, sí que escribió el guión junto con su hermano Bruno.

¿Requirió mucho esfuerzo hacer esta película?

Nos llevó dos semanas y un día (dedicado a los efectos). Desafortunadamente, ciertos efectos ópticos se perdieron junto con la copia original, que era en blanco y negro y muy romántica, al estilo de Edgar Allan Poe.

¿Prefieres “Danza macabra” o la nueva versión que hiciste en color “La horrible noche del baile de los muertos”?

Definitivamente “Danza macabra”. La segunda fue hecha por expreso requerimiento del productor, el mismo que produjo “Danza macabra”. Antes de eso rodamos otra película con Kinski, un thriller-western llamado “Y Dios dijo a Caín”, que sucedía enteramente por la noche y fue rodado en Roma en un período de siete semanas. Fue una experiencia extraña, como el otro western que filmé, que tenía una matriz fantástica, “Joko invoca Dio e…muori”.

En tu opinión, ¿cuáles son los principales defectos de “La horrible noche del baile de los muertos”?

Lo primero, el hecho de que fuera en color, que hace que la sangre se vea roja. También el uso del Cinemascope y, lo peor de todo, el hecho de que los actores eclipsaran la historia.

¿Encontraste alguna dificultad trabajando con Klaus Kinski?

Muchas dificultades. Siempre tenía que ser el centro de atención. Sin embargo hice cuatro películas con él. Creo que Herzog es el único director con el que más ha rodado.

Vayamos a “La vergine di Norimberga”.

Era una película más gótica que terrorífica. Completé el rodaje en tres semanas. Uno de los actores era el gran Christopher Lee, el cual, por primera vez, no tenía asignado su habitual papel de Drácula.

¿Es verdad que “Ursus, il terrore dei Kirghisi” fue comenzada por Ruggero Deodato? ¿Cómo acabó siendo firmada por ti?

Ruggero había sido mi ayudante durante muchos años y estaba dirigiendo su primera película. Yo estaba rodando “Los gigantes de Roma” al mismo tiempo y por eso solía pasarme por las noches y le echaba una mano. Entonces, como empezaron a surgir los problemas con los productores, me vi cada vez más implicado hasta que, al final la película me fue acreditada exclusivamente a mí para que se vendiese mejor en el exterior. De todos modos, Ruggero era ya un director muy seguro, incluso desde sus inicios.

¿Cuál es tu opinión de “I lunghi capelli della morte”?

La dirección fue un trabajo puramente técnico. Es una película bastante válida dentro de su genero. Los actores fueron bien elegidos, tenía unos buenos decorados del siglo XVII y un bello vestuario, pero los mecanismos del horror olían demasiado a película de serie B.

¿Y de la actriz principal, Barbara Steele?

Una actriz con talento, aunque carecía de naturalidad. Necesitaba mucha ayuda por parte del director.

En 1965 rodaste cuatro películas de ciencia-ficción al mismo tiempo. ¿Cómo pudiste hacerlo?

Fueron hechas para la televisión americana. Dos de ellas fueron producidas por la Metro: “I criminali della galassia” e “I diafanoidi vengono da Marte”, que contaba con Franco Nero en uno de sus primeros papeles. Escribía los guiones y rodaba simultáneamente durante las doce semanas que duró y todo ello con un presupuesto muy pequeño y usando a los mismos actores y decorados… ¡Fue una experiencia de locos! Pero por encima de cualquier aspecto negativo, fue una experiencia que ayudó a que mi nombre se estableciera en América, donde ya había hecho “La flecha de oro”, también para la M.G.M. A los americanos les gustó las películas y finalmente me aceptaron dentro de su mercado.

¿Por qué no fuiste capaz de dirigir “The adventures of Baron Munchausen”, el proyecto que fue anunciado a principios de los años setenta?

Porque no pude encontrar un productor que la financiara. Ya había dirigido otra comedia fantástica, “El hombre invisible” para Walt Disney, protagonizada por Dean Jones, y había preparado un guión muy divertido con Kinski en el papel del barón y Dean Jones como el último heredero de su estirpe. La historia era diferente a la del libro, mucho más personal. La intenté rodar en Praga.

¿Consideras los thrillers “Crimen en la residencia” y “Siete muertes en el ojo del gato” como películas menores?

¡No! “Crimen en la residencia” era una película extraña que hoy sería colocada en el mismo lugar que las de Dario Argento, mientras que “Siete muertes en el ojo del gato” era una buena película de misterio ambientada en el siglo XIX y que contaba con excelentes actores. Un filme muy elegante con una cierta lógica interna. Desafortunadamente, cuando la vi por televisión, cuatro secuencias habían desaparecido y nada tenía sentido.

“Contronatura” debe de ser una de tus mejores películas.

Quizá. Era una película muy atrevida para la época e incómoda para el público. Técnicamente hablando era demasiado complicada, con demasiados zooms muy cerrados, pero tendría que apuntar que yo mismo fui co-productor.

¿Cuáles son tus preferencias en el campo del fantástico?

Me gustas las historias fantásticas, increíbles, solo que son difíciles de transferir a la pantalla grande. Spielberg es muy bueno en esto, haciendo que situaciones totalmente ilógicas e improbables parezcan lógicas. Yo también tuve éxito haciendo esto en alguna de mis películas. La técnica es la misma que para las tiras de cómic.

¿Cómo fue tu relación laboral con Lee Van Cleef?

Buena. Lee era un amigo. Hicimos juntos unas seis o siete películas y una de las mejores fue “El regreso de Chris Gretchko”, que se estrenó en Italia en agosto como “Controrapina” y que recientemente ha sido adaptada para la televisión con el nuevo título de “L’ultimo colpo”.

¿Cuál de tus películas es tu favorita y cuál la que menos te gusta?

Entre mis favoritas, aún cuando no me gusta hacer distinciones en lo que se refiere a mis películas, está “El regreso de Chris Gretchko”, de la que acabamos de hablar, y el primer “Indio”. Dejemos eso de elegir la peor: ¿puede una madre confesar que tiene un hijo al que quiere menos?

¿Cuál fue tu labor en la producción de las dos películas que hiciste para Andy Warhol: “Carne para Frankenstein” y “Sangre para Drácula”?

Supervisé ambas y en cuanto a “Sangre para Drácula”, rodé varias escenas suplementarias a fin de que el metraje tuviera una duración estándar. La compañía de Warhol era buena cuando tenía que filmar películas cosmopólitas como “Trash”, pero en películas de época, teatrales y de 3-D como estas se encontraban como pez fuera del agua. Ellos continuaron con la filmación sin ni siquiera tener una copia completa del guión. Después de que completamos el primer filme con todos sus altibajos, desechamos el 3-D (aunque funcionaba bien en la primera) y fuimos capaces de hacer la segunda sin demasiados problemas. Ambas cintas tienen un buen tempo y una fotografía excelente.

“Voracidad” tenía un buen reparto, pero…

Correcto. Lee Majors estaba disfrutando del enorme éxito que tenía con la serie “The six million dollar man”, y los demás actores eran todos válidos. Por desgracia, esta película fue rodada para reemplazar otra que teníamos que haber hecho en Sudáfrica y el nuevo guión se cambiaba constantemente. Viendola ahora, la encuentro bien adaptada para la televisión (de hecho fue financiada por la CBS en América) y, pese a lo que se ha dicho, quiero dejar claro que no es una imitación de “Piraña”, que encima es posterior. De todos modos, no es una película de las que me gusta recordar, sobre todo porque el guión era pobre y desde un punto de vista técnico, la dirección era inferior a mis películas anteriores.

¿Qué opinas de la violencia en la pantalla?

Estoy en contra de ella. Siempre he intentado capturar un efecto de suavidad y amabilidad, algo para contentar a cualquiera. Hoy, las televisiones pasan cualquier tipo de películas. Consecuentemente, no tenemos derecho a trastornar la mente de aquellos que no quieren ver ciertas cosas.

Entonces, ¿por qué “Virus” contiene tanto gore?

Mi intención inicial era dirigir un filme que llevara un mensaje sociológico contrario a la guerra. No quería hacer un splatter, pero los productores, que querían copiar esa tendencia popular que fue lanzada por Romero en “Zombi”, tenían la última palabra.

¿Cómo hiciste la escena en la que le abren el estómago a Giovanni Lombardo Radice?

Le hice acostarse en una mesa de madera que estaba exactamente en la línea central del foco de la cámara y justo debajo de su pecho pusimos un maniquí al que sumergimos en el agua e hicimos explotar. Este efecto no funciónó realmente como había planeado porque no tuvimos el suficiente tiempo para perfeccionarlo.

¿Cómo te llevaste con Dardano Sacchetti en “Virus” y “El último cazador”?

Trabajamos agradablemente. Creo que “El último cazador” fue nuestro mejor trabajo, una película decididamente más agresiva y mejor que la primera. Fue la primera cinta que filmé en Filipinas.

¿Cómo recuerdas aquella serie de películas?

Dirigí once de ese tipo y disfruté de cada una de ellas. Allí en Filipinas reconstruí la Amazonia y la Centroamérica que he utilizado en mis más recientes trabajos.

“Yor, el cazador que vino del futuro” marca tu paso dentro de la fantasía heroica.

Tienes razón. Fue otra película en la que me inspiré en el cómic y fue originalmente diseñada como serie de televisión. Es una historia prehistórica, pero situada en un futuro que representa un nuevo amanecer para la humanidad, con hombres que empiezan de nuevo con porras sobre sus hombros.

Casi siempre has utilizado a los mismos actores: David Warbeck, John Steiner, Alan Collins (alias de Luciano Pigozzi).

Sí, ellos se muestran muy felices de trabajar conmigo porque sé cómo establecer una sólida relación entre nosotros. Todos ellos son actores inteligentes y versátiles.

“Caza en Vietnam” fue algo así como un precursor de “Platoon”.

Puede ser. Todos dicen que es una copia de “Acorralado”, pero es absolutamente falso. La película contiene un exhaustivo estudio psicológico, y al final, el heroe es asesinado, traicionado, pero no sabemos por quién. Puse mucha dedicación y esfuerzo en ese rodaje, que duró cinco semanas.

Hablanos sobre “L’isola del tesoro”.

Era una película de Renato Castellani. Me puse a rodarla después de su muerte. Al principio, se suponía que me encargaba de los efectos especiales, pero entonces, con el paso de los años, decidí supervisarlos simplemente, dejando su realización a mi hijo Edoardo.

¿Cuántos años pasaron?

El guión fue escrito 24 años antes de que empezara el rodaje. La RAI no quería ni la más mínima alteración en el guión, mientras que yo estaba seguro de que incluso el propio Castellani la habría reescrito. El resultado es que el filme carece de momentos espectaculares, y vista en su totalidad de siete horas y media de duración, se puede hacer terriblemente aburrida.

¿Cuánto duró la filmación y cuál fue su coste final?

Siendo un proyecto interno de la RAI, no hay manera de saber exactamente cuánto ha costado, pero en todo caso, fue cara. El programa de trabajo nos anticipaba una labor de 50 semanas de rodaje, mientras que pude terminarlo en 30, incluyendo un pequeño número de efectos especiales descritos en el guión. En mi opinión, porque fue hecha como lo fue, “L’isola del tesoro” no se puede comparar favorablemente con “Space men”, ya ni mencionar a Lucas y Spielberg. Hoy, los efectos especiales son muy importantes si quieres llegar al mercado americano. Los tiempos han cambiado.

A este respecto, “El humanoide”, de Aldo Lado, fue mucho peor.

Intenté conseguir los efectos correctos en cinco semanas, pero la pobre caracterización del humanoide representaba un problema insuperable. Además, el filme estaba estructurado como un pobre remedo de “La guerra de las galaxias”, y a pesar de que Castellari intentó desarrollar algunas buenas escenas de duelo, la película estaba básicamente condenada desde el principio.

“Alien degli abissi” parece una imitación mal hecha de productos como “Leviathan” y “Abyss”.

No del todo. Fue hecha antes que esos filmes, a pesar de que admitiré que se trataba de otro trabajo alimenticio de bajo presupuesto para la televisión. De alguna manera, fue una oportunidad perdida, aunque lograra hacer algún dinerillo en el extranjero.

¿Para qué tipo de películas crees que estás más capacitado como director?

Sin duda para las películas de aventuras con un ligero toque de cómic. Me gusta que mi imaginación fluya, como hacen las de los artistas y dibujantes de cómic. Ellos saben que no tienen límites y pueden inventar lo que les dé la gana. En nuestros días, gracias a Spielberg, la importancia del cómic por fin se ha visto reconocida por todos.

¿Cómo emprendes las escenas de desastres en tus cintas?

Bueno, reproduzco modelos bastante grandes, generalmente en escala de 1:6, y entonces pongo mucha atención a las técnicas de filmación, y uso, por ejemplo, unas lentes muy potentes de ángulo abierto. Los efectos especiales son la parte de la película que más me gusta hacer.

¿Cómo evaluarías tu carrera como director?

Un poco fuera de su tiempo. Si tuviera que comenzar ahora, las cosas irían mucho mejor, pero realmente no tengo que hacerme ningún reproche. El cine es mi vida, y gracias a la industria del cine, siempre he sido capaz de viajar y conseguir mucho de la vida.

¿Cuál es tu predicción sobre el futuro del cine italiano?

Si corre al mismo tiempo que el progreso tecnológico, la gente se cansará de la televisión y volvera a las salas de cine a mediados de los años noventa, quizá para ver películas holográficas.
http://stranovizio.blogspot.com/2007/06/entrevista-antonio-margheriti.html