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miércoles, 31 de marzo de 2021

Seduto alla sua destra - Valerio Zurlini (1968)

TÍTULO ORIGINAL
Seduto alla sua destra
AÑO
1968
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Incorporados)
DURACIÓN
93 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Valerio Zurlini
GUIÓN
Valerio Zurlini, Franco Bursati
MÚSICA
Ivan Vandor
FOTOGRAFÍA
Aiace Parolin
REPARTO
Woody Strode, Franco Citti, Jean Servais, Pier Paolo Capponi, Stephen Forsyth, Luciano Catenacci, Salvatore Basile, Mirella Pamphili
PRODUCTORA
Castoro, Italnoleggio
GÉNERO
Drama | Biográfico

Sinopsis
Un líder rebelde del Congo que lucha para impedir la explotación de su pueblo por parte de los colonos europeos es encarcelado. (FILMAFFINITY)
 
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 “Io nel vedere quest’uomo che muore
madre, io provo dolore
nella pietà che non cede al rancore
madre, ho imparato l’amore”

Fabrizio De André, Il testamento di Tito

In una filmografia come quella di Valerio Zurlini, omaggiato dall’undicesima Festa del Cinema di Roma con la retrospettiva completa in pellicola alla Sala Trevi, Seduto alla sua destra segna un unicum. Non solo per l’inedita ispirazione biblica che si affianca a quella storica – e del resto il film, nelle intenzioni originarie, sarebbe dovuto essere un episodio di Amore e Rabbia, con le mani del regista bolognese ad affiancarsi a quelle di Pasolini, Godard, Bellocchio, Bertolucci e Lizzani, ma prese poi una strada diversa che lo rese più lungo e indipendente –, ma anche per la ben precisa contestualizzazione storica e geografica così lontana dalle abitudini del regista, che abbandona le sue donne e la sua Italia per lo più adriatica – il precedente Le soldatesse era sì ambientato in Grecia, ma avanti e indietro per i campi militari italiani durante l’assurda guerra voluta da Mussolini – per mettere in scena la sua metafora cristologica nel Congo belga, anche se in realtà gli oppressori sono semplicemente Europei: italiani, olandesi, francesi e tedeschi, invasori spietati e disumani, ma al contempo condannati alla lontananza dagli affetti, intrappolati in una vita che non è la loro. È uno strale contro l’Europa, Seduto alla sua destra, contro quelle politiche coloniali che, oltre a impoverire ulteriormente l’Africa portando via uomini e risorse, in nome della ‘civilizzazione’ hanno calpestato per troppi anni anche la dignità di chi cercava semplicemente di essere se stesso, con il suo colore della pelle, con le sue tradizioni e con la sua voglia di lottare. Ma è anche e soprattutto un profondissimo atto di umanità, che troverà il suo apice nella conversione di Oreste/Franco Citti, proiezione del biblico ladrone Tito, contrapposto alla sadica freddezza del Dimaco compagno di cella che non solo non aiuterà l’innocente, ma si scaglierà contro chi lo sta aiutando.

Prendendo spunto dalla biografia di Patrice Lumumba, leader indipendentista congolese antimperialista e filocomunista fatto assassinare nel 1961 dal colonnello Mobutu, golpista corrotto e sostenuto da USA e Belgio che sarà poi, grazie a una serie di colpi di Stato, presidente/dittatore del Congo (cui cambierà persino il nome in Zaire) dal ’65 fino al ’97, Zurlini ricontestualizza l’oppressione e la pietà mettendo in scena la passione di Maurice Lalubi (Woody Strode), torturato e fatto uccidere dall’esercito occupante nel tentativo, vano, di estorcergli l’abiura delle proprie teorie di uguaglianza sociale. Lalubi, dipinto a metà strada fra Cristo e Gandhi come un uomo giusto, non violento – anche se rifiuterà di firmare l’ordine di deporre le armi e sottomettersi – e “pericoloso” proprio perché dotato di una leadership naturale, come una sorta di luce da seguire in fondo agli occhi che lo rende un grande comunicatore, subirà percosse fino alla cecità, gli verranno inchiodate le mani alla scrivania, gli verrà ferito il costato, gli verrà fatto versare tutto il sangue, fino alla decisione imposta dal dittatore di colore ormai venduto al Belgio di farlo uccidere, nella certezza che il conseguente polverone si sarebbe presto diradato, e che una volta perso il loro leader i “negri” sarebbero tornati mansueti. Seduto alla sua destra è una rilettura laica e contemporanea della Passione che, fra stimmate, dichiarazioni di uguaglianza fra gli uomini, ladroni da ascoltare e perdonare, non violenza e una morte con i piedi incrociati eleva a figura cristologica colui che, solo per il colore della sua pelle, nel film è considerato alla stregua di una bestia, di un subumano, di un parassita. Ma non è un semplice ‘gioco’, né tanto meno una provocazione gratuita: con questo film Zurlini spinge il paragone ben oltre la metafora, fonde le due storie, le rende allegoria della guerra e del colonialismo, in un grido disperato che tutt’ora giace sottostimato in pochi archivi e in ancor meno memorie.

Oreste, il biblico Tito interpretato da un Franco Citti forse più ancor pasoliniano che con Pasolini, è un italiano che ha fatto cento lavori e cento ne ha persi, girando il mondo e tutte le principali patrie galere. È stato spinto dalla vita e dalla fame a rubare e a scappare, a vendere materiale pornografico e a truffare, ma ora di fronte al Cristo/Lalubi chiuso in cella in attesa di essere massacrato confessa le sue colpe e si pente, per poi ritrovarsi a soffrire reali pene sentendo i versi di dolore dell’amico, e dopo ancora a barattare con un secondino le ultime foto che gli erano rimaste con un gavettino d’olio per tentare di curargli le ferite. È Oreste il vero protagonista del film, colui che vede e crede, colui che vuole – e merita – di stare Seduto alla sua destra. Il suo strazio ancestrale, così opposto alla faccia di bronzo quando era lui la vittima dei pugni per aver venduto un carico di carburante continuando a dichiarare di aver subito un furto, è l’apice emotivo del film, nelle sue grida disperate quando riportano Lalubi in cella, nel suo rinunciare alle possibili ricchezze per curare le ferite altrui, nella sua disperazione nel vederlo ormai cieco declinata in quell’umanissima bugia “Ci sono le luci spente” a cui non crede proprio nessuno, nel suo prendere calci in faccia dal Dimaco seduto in cella senza fare nulla dal quale avrebbe solo voluto una manica per farne una garza, e poi ancora nel tentativo inutile di raccogliere l’olio da terra per rimetterlo nel gavettino, fino alla morte subito dopo Lalubi, “per non lasciare testimoni”, mentre i due corpi formano una croce. Ma i testimoni ci sono lo stesso: un bambino ha visto tutto, e ora scappa a zig zag evitando le raffiche di mitra, salvandosi, e riaprendo così le speranze dell’Africa – il passaggio di testimone, il futuro e la memoria. Il corpo di Lalubi è morto, ma è nato il simbolo, l’esempio, il simulacro per il quale (continuare a) lottare per l’uguaglianza sociale. Seduto alla sua destra è un’accusa e una richiesta disperata di pietà, è un film storico capace di mettere in scena l’Africa coloniale in tutte le sue contraddizioni e tutte le sue colpe, senza dimenticare mai di tenere al centro l’umanità, il cuore, la dignità degli uomini. Non sarà, e non è, il miglior Zurlini, ma è un ulteriore esempio di quanto sia stato un regista sommo, e di quanto sarebbe necessario, negli echi razzisti e fascistoidi che serpeggiano di nuovo negli ultimi anni per l’Italia, guardarlo e farlo guardare, nella speranza che faccia di nuovo aprire gli occhi a chi preferisce tenerli chiusi e vomitare fiele millantando la propria supposta superiorità.
Marco Romagna
http://www.cinelapsus.com/seduto-alla-sua-destra-1968-di-valerio-zurlini/

 

Non parlerei di metafora evangelica sulla violenza. Non gli darei questa importanza. Io vedo il film sotto un altro aspetto: direi che è un piccolo apologo sulla grazia, e nient'altro. Di conseguenza il film si pone su un terreno di racconto simbolico. Ci sono dei perseguitati e dei persecutori. Che non si identificano né con Lumumba né con i mercenari. Improvvisamente un piccolo delinquente - che è poi il ladrone che alla sinistra di Cristo sulla croce dirà "Ricordati di me quando sarai nel tuo regno" incontra un uomo dotato di una grande luce spirituale. Toccato dalla grazia, gli chiede di ricordarsi di lui. Non ho preteso di fareVangelo ‘70, né di fare un rapporto storico e religioso sul nostro tempo. Ho semplicemente raccontato come la grazia possa arrivare in qualsiasi posto, in qualsiasi momento, attraverso qualsiasi sbaglio.

Críticas

Il soldato bianco gettato nella stessa cella del leader africano e dei ladruncolo italiano è Lucifero. In effetti ho voluto un uomo di grande bellezza, un uomo che fosse veramente il male sotto le spoglie del bene. È un simbolo che mi è venuto per caso, non so come. Quest'uomo, davanti al miracolo d'amore che si avvera in quel momento sotto i suoi occhi, non ha altra reazione che un atteggiamento di odio. È un uomo che non sopporta le immagini dell'amore; è veramente il demonio. Certo, un demonio come quello, lo si può incontrare in qualsiasi galera. Non c'è bisogno di scomodare la Bibbia e gli angeli decaduti: è il male, è la violenza, è la solitudine, è l'oscurità, è l'odio dell'affetto visto negli altri, è veramente il male che inasprisce continuamente se stesso.
(Valerio Zurlini)

[...] Con Seduto alla sua destra Zurlini non ha inteso svolgere un discorso specifico in chiave ideologico-politica [...]. Seduto alla sua destra cioè propone in una forma tipica di slanci ideali, i contrasti interni, le mortificazioni e le sofferenze che sono propri di tutti i popoli sottosviluppati e più in generale di tutte le categorie dei diseredati nel mondo di oggi. [...]. La violenza che raggiunge vertici di efferatezza in alcuni punti, e che comunque si proietta almeno indirettamente su ogni brano, imprime a tutto il racconto una tensione di singolare suggestione emotiva. Si potrebbe affermare che la violenza s'impone su ogni altro motivo, tanto da diventare veicolo principale di espressione tematica. In altre parole, Zurlini ha preso a prestito i vari motivi parziali del film, per esternare la propria reazione di uomo sensibile di oggi di fronte al caos materiale e spirituale d'un mondo avviato verso un avvenire inquietante. [...].
Seduto alla sua destra non è opera poeticamente risolta. A impedire la coesione e l'armonia necessarie concorrono vari e non trascurabili elementi, quali la molteplicità di motivi tematici, la fisionomia psicologica non omogenea dei personaggi principali, certe legnosità dello sviluppo narrativo. [...]. Tuttavia nel complesso ci troviamo di fronte non a manierismo di mestiere applicato a freddo, bensì a una scelta linguistica sentita. I tratti stilistici consueti di Zurlini acquistano inflessioni nuove. I muri spogli della cella hanno tinte pastello acceso, i lunghi primi piani dei visi sono esaltati da una plasticità drammatica. Le lunghe pause ritmiche e sonore (rotte da rumori naturali e da pochi interventi dei musicista Ivan Vandor) vengono lacerate da frenetici dettagli (armi, chiodi, mani, visi contratti) e urla selvagge. E anche quando l'azione ristagna, continua sempre (salvo forse nel troppo statico dialogo dei due protagonisti in cella) a protrarsi in un clima di tensione, come una nota continua di sottofondo. D'altronde questo linguaggio non assume mai inflessioni realistiche, perché le sue gradazioni ipertonali stemperano e trasfigurano i connotati materiali. A il linguaggio dell'anima ferita [...]. Siamo di fronte a una "poetica della violenza" (del resto preannunciata in opere precedenti) d'un autore che reagisce alla sofferenza con la sofferenza.
(Sergio Raffaelli)

[...] Il film comunque drammaticamente e linguisticamente ha un preciso valore. [...]. La serietà del suo stile non potrà non raccogliere meritati consensi. Quel coraggio ad esempio con cui l'azione è quasi costantemente tenuta fra le quattro pareti di una stanza o di una cella, quella solennità del ritmo, pur attraverso la concitazione e, anzi, l'urlata violenza del dramma, quelle immagini che, pur rievocandoci a tratti Rembrandt, Mantegna, Caravaggio, e persino Rouault, con i loro verdi grigi, i loro bianchi sporchi le loro sfumature quasi di pastello e di tempera, riescono seampre a rispettare il sapore della realtà, il gusto, il tono, la qualità del documentario dal vero. Anche se, riconosciamolo, si poteva essere più misurati nelle atrocità, si poteva essere più parchi (e più coperti) nei simboli, si poteva conferire ai dialoghi una più rigorosa asciuttezza evitando riferimenti o troppo facili o troppo consueti. [...].
(Gian Luigi Rondi)
https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/2CA67E6C68B404F2C125742E004A4803?opendocument


 

martes, 30 de marzo de 2021

L'uomo privato - Emidio Greco (2007)

TÍTULO ORIGINAL
L'uomo privato
AÑO
2007
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Opcionales)
DURACIÓN
100 min
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Emidio Greco
GUIÓN
Emidio Greco, Lorenzo Greco, Paolo Breccia
MONTAJE
Bruno Sarandrea
INTERPRETES
Tommaso Ragno, Myriam Catania, Giulio Pampiglione, Mia Benedetta, Ennio Coltorti, Mariangela D'Abbraccio, Catherine Spaak, Vanessa Gravina, Vanni Materassi
MÚSICA
Luis Bacalov
FOTOGRAFÍA
Gherardo Gossi
ESCENOGRAFÍA
Marcello Di Carlo, con la supervisione di Andrea Crisanti
PRODUCCIÓN
Achab Film, Rai Cinema, Ripley's Film, con il contributo del MiBACT, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte
GÉNERO
Drama

Sinossi
Un professore universitario di Diritto, un quarantenne affascinante, intelligente e ironico, socialmente e professionalmente molto affermato, è corteggiato dalle donne verso le quali mostra un’accorta disponibilità. Appare però chiuso nelle sue condizioni di aristocratico privilegio, vissute come uno schermo frapposto tra sé e la realtà. Per preservare questo acceso individualismo, non esita a reprimere i propri sentimenti e a sacrificare quelli degli altri, fino a troncare senza una ragione plausibile, la relazione che ha con Silvia, una giovane donna innamorata di lui. Ma il destino s’incarica di incrinare il sistema di regole a salvaguardia della sua vita privata: a Torino, nelle tasche di un giovane sconosciuto suicida (che si scopre essere un suo studente all’Università di Pisa) la polizia trova solo un foglio con il numero di telefono e l’indirizzo del professore. La vicenda vira verso il giallo. Da questo momento niente sarà come prima. La realtà, tenuta a distanza, si è infiltrata nella sua vita privata, la invade e la travolge.
 
 Premios
Festa del Cinema di Roma 2007: In Concorso
 
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Il protagonista è un professore universitario di Diritto, un quarantenne affascinante, intelligente, ironico, socialmente e professionalmente molto affermato. Non sorprende che sia corteggiato dalle donne, verso le quali mostra un’accorta disponibilità. Ma da subito ci appare anche come un personaggio chiuso in sé, rinserrato nelle sue condizioni di “privilegio”, vissute e usate come uno schermo difensivo frapposto tra sé e la “volgarità e insensatezza della realtà”, verso la quale ha un atteggiamento di totale e aristocratico rifiuto.
Il protagonista vive al riparo nella torre d’avorio che si è costruita e sembra che nulla potrà mai violarne le difese. Per preservare questo acceso individualismo, non esita a reprimere i propri sentimenti e sacrificare quelli degli altri. Fino a troncare, senza una ragione plausibile, la relazione che ha con Silvia, una giovane donna disperatamente innamorata di lui.
Ma il destino s’incarica di incrinare il perfetto sistema di regole messo a salvaguardia della sua vita: nelle tasche di un giovane suicida - che si scopre essere un suo assiduo studente - la polizia trova un foglio di carta con il nome e il telefono del nostro protagonista. A partire da questo momento niente sarà più come prima.
La vicenda vira verso il giallo, ed è comprensibile che il racconto si fermi qui. Ciò che conta è che la realtà, tenuta accuratamente a distanza, infiltratasi accidentalmente nella vita del protagonista, ora la invade completamente e la stravolge.

Note di regia di Emidio Greco:

Un personaggio, una situazione e un racconto che nascono da un sentimento diffuso e condiviso: la tentazione di fuga o di isolamento, di chiusura al mondo di fronte alla iattanza di una quotidianità e di una realtà delle quali si sono persi le coordinate e i punti fermi (o ritenuti tali) che davano ad esse senso e ragione. Con l’inevitabile approdo: la frustrazione del proposito nel confronto con la forza delle cose.
Solitamente, nel cinema e in letteratura, questo sentimento e questo tema, variamente trattati, sono stati (e sono) incarnati dal cosiddetto uomo comune, o da personaggi perdenti, da emarginati, da personaggi limite, visti come sintomatici del confronto-scontro tra l’individuo e la normalità-anormalità del reale. È una contrapposizione “classica”, che innesca meccanismi narrativi collaudati (ma anche, ormai, convenzionali) per processare la realtà e denunciarne le condizioni e le contraddizioni che sottendono al malessere, alle patologie e alle crisi esistenziali dei personaggi.
L’uomo privato è un film che, nell’affrontare un tema di avvertita (verrebbe da dire perenne) attualità, percorre strade meno frequentate nella costruzione drammaturgica e narrativa.
Nel mostrare un uomo a disagio col proprio tempo, si è scelto un personaggio lucido e consapevole, socialmente e professionalmente molto affermato, un uomo di “successo”, che vive e usa le sue condizioni di privilegio come uno schermo difensivo frapposto tra sé e la realtà.
Queste premesse hanno indotto a scartare rispetto alle procedure narrative più praticate: mentre, di solito, la realtà denunciata è mostrata in tutta la sua evidenza, qui è data per acquisita, è metabolizzata (si potrebbe dire) negli stessi modi di vita del protagonista, a suggerire che il mondo rifiutato è quello che ogni spettatore (ognuno di noi) si porta, eventualmente, già dentro, o vorrà immaginarsi.
Ma al nostro protagonista succede qualcosa di imprevedibile che stravolge la sua vita accuratamente programmata. A partire da questa svolta narrativa, la storia assume un andamento nuovo: inaspettatamente, gli elementi del racconto s’intrecciano in un nodo stretto dai risvolti caratteristici del giallo. E quando l’intreccio si scioglierà, avverrà non solo sul piano della suspense, ma implicherà quello degli interrogativi morali, intrinsecamente connessi.
Queste sono le intenzioni sottese ma percepibili del film. Ma quello che più conta è che il film vuole essere soltanto cinema, cinema d’impatto diretto e concreto, coinvolgente nel tema di fondo e scevro da intellettualismi.
Per quanto riguarda la scena del convegno, è doverosa una precisazione. L’episodio ha un’intenzionale valenza strutturale: una sorta di rigonfiamento narrativo - a conclusione di un racconto altrimenti secco ed essenziale - che assume il valore di una rappresentazione insieme simbolica e tangibile della naturale (inevitabile) conclusione della storia e della condizione esistenziale del protagonista, infine travolto da quella realtà che, tenuta accuratamente a distanza, e infiltratasi accidentalmente nella sua vita, ora lo invade completamente.
https://www.tommasoragno.it/cinema/uomoprivato/ 

 

“Professore in fuga dai riti della borghesia radical chic”

Primo: il film è recitato benissimo da Tommaso Ragno, attore di teatro che si impossessa dell'affermato seducente prof. di diritto che entra in crisi dopo il suicidio di un suo allievo che lo pedinava, e lo restituisce con una sfumata, dolorosa intensità, con stupore. Secondo: Greco ci ripaga con la bella sceneggiatura e una dizione italiana delle notti prima e dopo gli esami, una boccata di sapiente intelligenza drammaturgica da un regista che non fa sconti sulle polemiche della società dei salotti dell’ex-basso impero inscenando un presepio di vip e vippini, soubrettine tv ed onorevoli, contesto della crisi esistenziale di un uomo sazio dei riti della borghesia radical chic, delle pericolose connivenze con l'alta finanza e di inutili convegni sul mondo virtuale. Decide di guardarsi dentro: avrà paura. Ogni riferimento a Pirandello e quindi ad Antonioni non è puramente casuale; spira aria da buon cinema anni ’60, ma con ramificazioni molto attuali.
Maurizio Porro, “Corriere della Sera” - 9 novembre 2007

“Bel ritratto di un intellettuale che rinuncia a mischiarsi col mondo pur di non mettere in gioco i sentimenti”

Un professore universitario, esperto di diritto, affascinante e ironico, intelligente e professionalmente molto affermato. È corteggiato dalle donne, che usa per i suoi trasporti carnali ma da cui è distante, come è distante dal resto. Emidio Greco disegna il ritratto di un intellettuale individualista e sentimentalmente arido, la cui massima aspirazione - come confessa al padre - è quella di raggiungere lo zero («Zero è un bel numero», sottolinea), risultato di un dare e di un avere che non può essere altro. La metafora dell'autore è chiara: scagliarsi contro una cultura che non è più in grado di sognare, di avvolgere il mondo in problematiche propositive. Malgrado le lezioni del docente, che parla in un modo e si comporta in maniera diametralmente opposta. Decidere di vivere al riparo di sguardi indiscreti, in una torre d'avorio costruita sul benessere materiale, contempla pochi rischi, anche se il destino è in agguato. Sarà il suicidio di un giovane a rimescolare (forse) le carte di un'esistenza troppo perfetta per risultare vera. Tommaso Ragno, in una recitazione tutta in sottrazione, dà volto e corpo all'emaciata figura del protagonista, sicuro per tre quarti e terrorizzato (alla fine) di non riconoscersi più, nemmeno dentro alle rassicuranti mura domestiche.
Aldo Fittante, “FilmTV” n. 45/2007

“Un film concettuale e rigoroso, che dice tutto con le immagini”

Tra Torino e Pisa si svolge la vita di un professore universitario di Diritto, socialmente e professionalmente affermato. Dotato di grande intelligenza e di un fascino sfuggente, l'uomo e il professore conducono un'esistenza "ritirata" che sconfina qualche volta nei letti di amanti occasionali. Deciso a controllare la realtà e a tenerla accuratamente a distanza, viene suo malgrado coinvolto nella morte per suicidio di uno studente. Il ragazzo, ossessionato dalla vita del professore, ha registrato scrupolosamente le sue lezioni, i suoi comportamenti, le sue abitudini... La forza del cinema di Emidio Greco, e in questo senso “L’uomo privato” non fa eccezione, sta tutta nell'essenzialità stilistica, nel razionale svolgimento narrativo e nella coraggiosa anti-spettacolarità. Il suo cinema eminentemente letterario (“L’invenzione di Morel”, “Una storia semplice”, “Il Consiglio d’Egitto”), si avvale questa volta di un soggetto originale scritto dallo stesso autore. Al centro della sua storia c'è un professore senza nome, elegante ed introverso, che tiene gli occhi aperti ma finisce per avere lo sguardo di chi attraversa la realtà in stato di trance. Tutto quello che si dispiega davanti a lui, gli studenti in aula, le amanti, gli amici, i colleghi, hanno le caratteristiche di un (brutto) sogno, che la sua logica semplificatrice non sa "vedere" e comprendere. Nel film c'è solo un uomo che "esiste", gli altri non "sono". Protagonista e spettatore unico del proprio sogno, l'uomo privato (e perfetto) di Tommaso Ragno, procede per forza di inerzia in un tragitto che contempla evoluzioni impreviste: la morte di uno studente. Pedinato e spiato sfacciatamente, il professore resta cieco davanti all'evidenza, incapace a raccogliere i segnali, a decifrare i codici, a leggere i simboli. Quella morte precoce lo priva per sempre del controllo sul reale. La presunzione della razionalità e della positività si stemperano fino a diventare in lui un'insospettata propensione alla vertigine. Il film di Greco, concettuale e rigoroso, non dice nulla con le parole e tutto con le immagini. Accentuando la parte "detta" il regista privilegia la dimensione pubblica della vicenda, immergendo "l'uomo privato" nel cicaleccio ridondante e senza senso dei "salotti" e nell'abisso delle coscienze.
Marzia Gandolfi, “Movieplayer” - novembre 2007

 

“L’uomo privato” (Tommaso Ragno) è un consulente finanziario e fiscale di altissimo bordo, illustre docente di Diritto Pubblico presso l’università di Pisa. Vive la sua arida vita nel più completo isolamento umano, fra Torino, dove abita, e Pisa, fra una seduta di consulenza e un rapporto sessuale con le innumerevoli signore più o meno “bene”  che gli ronzano attorno, sicuro del suo onnipotente controllo sul mondo reale. Ma a ricordargli l’esistenza della brutale realtà interviene il suicidio di un suo studente che da tempo lo pedinava. E’ indagato dalla polizia. Il commissario, rappresentante dell’ “uomo normale” vuole vederci chiaro. “L’uomo privato” con la sua proterva sicurezza, consapevole di appartenere ad una casta irragiungibile dalla giustizia, rimarrà alla fine più solo di prima, definitivamente alienato da ogni contatto umano, anche sessuale.
Una curiosità. Le sedute di consulenza sono addirittura criptiche per lo spettatore, che però non può fare a meno di sospettare che il nostro docente di diritto pubblico consigli potenti industriali su come frodare lo Stato o eludere colossali imposte: del resto lo sospetta anche il commissario!
L’autore, Emidio Greco, ha negato ogni parentela con “L’uomo senza qualità” di Musil. Del resto in Italia abbondano gli “uomini senza qualità” e “privati” che pretendono di guidare i nostri destini.
Carlo Jacob
https://cjlettereditransito.wordpress.com/2017/05/03/luomo-privato2007/

lunes, 29 de marzo de 2021

La schiava del peccato - Raffaello Matarazzo (1954)

TÍTULO ORIGINAL
La schiava del peccato
AÑO
1954
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
100 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Raffaello Matarazzo
GUIÓN
Aldo De Benedetti (Historia: Oreste Biancoli)
MÚSICA
Renzo Rossellini
FOTOGRAFÍA
Marco Scarpelli (B&W)
REPARTO
Silvana Pampanini, Marcello Mastroianni, Camillo Pilotto, Franco Fabrizi, Paul Muller, Irene Genna, Liliana Gerace, Olinto Cristina, Dina Perbellini, Laura Gore, Renato Vicario, Miranda Campa, Adriana Danieli, Checco Durante, Turi Pandolfini
PRODUCTORA
Documento Film
GÉNERO
Drama

Sinopsis
Mara, una mujer de vida fácil, salva a una chica polaca de un accidente de tren donde sus padres mueren. A ella le gustaría adoptarla, y tendría éxito, si un antiguo proxeneta no volviera a su vida... (FILMAFFINITY)
 
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Como todo buen melodrama que se precie –y LA SCHIAVA DEL PECCATO (Esclava del pecado, 1954) lo es-, su degustación puede efectuarse a través de lecturas diversas y complementarias. Sin poseer aún la necesaria perspectiva en torno a la figura de su realizador, ese Raffaello Matarazzo antaño desdeñado precisamente por su adscripción a un género que desataba pasiones populares pero era obviado por la crítica, hasta que hace no demasiado tiempo fuera reconsiderado en su obra, lo cierto es que el título que nos ocupa ofrece ante todo esas dos condiciones esenciales que precisan las grandes muestras del género. Estas serían la intensidad en su puesta en escena, la fuerza de sus personajes y, por supuesto, la inserción en su intenso drama argumental de unas líneas de crítica en torno al contexto social en que se enclava la acción, transgrediendo esa aparente sumisión a la moral bienpensante que podía aparecer en un primer grado. Como podrían ofrecer los grandes referentes de cineastas expertos en el mélo como John M. Stahl –a cuya adscripción me recordó mucho esta película-, Matarazzo ofrece en esta propuesta, originaria de una historia de Oreste Biancoli, y transformada en guión de la mano de Aldo De Benedetti, la evocación de un pasado. Una auténtica historia de imposible redención social –según esta podía ser entendida en pleno periodo fascista-, de Mara Gualteri (Silvana Pampanini). El inicio de la acción se desarrolla en un jugoso hotel, donde una joven pareja ha advertido la ausencia de un collar con una imagen de la esposa cuando era niña. El marido se sorprende de que en esta pieza de escaso valor –tan solo para la muchacha adquiere un valor sentimental-, haya sido la pieza escogida, máxime cuando entre ella se encontraban joyas valiosas que se han respetado. El director del hotel (Olinto Cristina), iniciará unas indagaciones que presume serán infructuosas, hasta que uno de los empleados encuentre la misma bajo la cama de otra veterana empleada –la mencionada Mara, ya de avanzada edad-. Esta en el primer momento negará –sin convicción, se aprecia que es una persona honesta y sumisa- haber cometido el pequeño hurto, hasta que la presión de jefe la haga reconocer la acción, narrándole las razones que motivaron una acción tan inofensiva como preocupante para la reputación del establecimiento –que rogará no relate a nadie-. La acción iniciará un flash-back extendido a la casi totalidad del metraje, que servirá para contar como de la noche a la mañana y por una circunstancia tan terrible como inesperada, la joven y frívola corista que hasta entonces era Mara –una mujer de belleza casi agresiva-, decidió romper con la facilidad que le proporcionaba su vida fácil y, por el contrario, la casi inalterable dificultad que vivirá su deseo de seguir el sendero de una existencia honesta, que esa propia sociedad que le rodea casi le impide asumir.

Todo se iniciará en un viaje en ferrocarril, donde la protagonista se sentará en un vagón junto a una pareja de polacos que tienen destino hasta Florencia. Junto a ellos se encuentra la hija de ambos, una pequeña que simpatizará de inmediato con Mara, quien se la llevará hasta la cafetería para invitarla. El destino querrá que el ferrocarril se adentre en un túnel –la visualización de esas secuencias serán las más débiles del relato, ya que las maquetas serán ostentosas-, chocando frontalmente contra otro de vuelta, y provocando un enorme accidente que de inmediato matará a los padres de la niña –se encontraban en los primeros vagones, en donde no aparecerán supervivientes-. Traumatizada, Mara recogerá a la niña, trasladándola en un coche de socorro hasta donde se encontraba hospedada junto a sus compañeras. Mientras los titulares relatan la magnitud de la tragedia, la pequeña pronto provocará la simpatía de las compañeras… sin pensar que ejercerá como eje central de una transformación absoluta en esa joven que a partir de ese momento y, sobre todo, al comprobar el drama del ingreso de la pequeña en un hospicio –ante su ausencia de padres y la imposibilidad de ser adoptada-, provocarán en la protagonista un revulsivo interior, que suscitará su inesperada renuncia al modo de vida que hasta entonces había sobrellevado. Todo ello se manifestará con la imagen de la pequeña caminando llorando por el pasillo del hospicio –un plano que se reiterará minutos después como un referente en su conciencia, e incluso se escenificará con ella misma como partícipe, ya anciana, en el momento final del relato, y a modo de metáfora de ese sendero que quiso seguir y, en el fondo, de nada le sirvió-. A partir de esta premisa, Matarazzo compone un drama caracterizado por su sobriedad –sin que ello lleve aparejada la ausencia de esa necesaria intensidad de su trazado-, en el que la planificación destacará por la ausencia de grandes movimientos de cámara. Por el contrario, el italiano aplicará en su puesta en escena una clara apuesta por la noción de la duración e intensidad dramática del plano, ayudado por la importancia del montaje y la fuerza que le imprime el fondo sonoro de Renzo Rossellini. Con estas premisas fílmicas, el director compone la odisea que asumirá –casi como si se tratara de una búsqueda de ascesis personal-, el casi imposible sendero de Mara para dejar de lado ese ámbito que hasta entonces forjaba su existencia, intentando con ello seguir un camino de rectitud para poder lograr tras el paso de tres años, la adopción de esa niña que ha modificado su visión de la existencia.

Para un espectador poco avezado –o demasiado influenciado por las apariencias que podían emanar de su base argumental- LA SCHIAVA DEL PECCATO puede aparentar las costuras de un melodrama reaccionario y conformista. Pero una visión más atenta, además de calibrar la destreza con la que el realizador se desenvuelve a la hora de proporcionar una descripción de personajes, que van desde el amoral Carlo (Franco Fabrizi), la hipocresía que desprende el exteriormente bondadoso Giulio Franchi (Marcello Mastroianni), o ese comisario Agnelli (Camillo Pilotto), de afable personalidad pero que desde el primer momento duda de la posibilidad de regeneración de Mara. Sin embargo, contra viento y marea, pese a la hostilidad que le manifiesta una sociedad –y he ahí donde se describe con presteza la hipocresía de un contexto en el que los supuestos bienpensantes ejercen como una base opresiva-, nuestra protagonista verá rechazadas diversas solicitudes de empleo, vivirá en carne propia la dificultad de poder acceder a la adopción de una niña, que sin embargo esa misma sociedad no duda en dejarla en un hospicio que arruinará su infancia –eso si, la Iglesia será mostrada desde un prisma respetuoso; atención a la presencia de crucifijos en numerosas secuencias del film-, e incluso el peso de su pasado la atormentará de manera constante; el inesperado encuentro con Giulio, que le recordará la frustrada historia amorosa con él, que la dejó embarazada, y en cuyo cargo de conciencia –y los celos posesivos que apenas puede ocultar-, desea adoptar esa niña que cree su hija, aunque en realidad no lo sea –llegará a acudir hasta el hospicio donde se dirige Mara, en una acción iracunda-. Pero del mismo modo se comportará Carlo, quien pase el discurrir del tiempo, no cejará en su interés por poseer a Mara, quien se erigirá sin ella pretenderlo en una constante lucha por la intención de abandonar su pasado, y la inercia con que este revoca sus intenciones, hasta llegar a una catarsis en la que llegará a ponerse en peligro su propia vida, poco después de haber logrado los certificados de adopción. Será la señal que servirá para que renuncie contra una lucha imposible –y en ello tendrá bastante que ver el anhelo de la acomodada pero en realidad infeliz esposa de Giulio, quien recurrirá a esta en un último intento por salvaguardar un matrimonio que se presume ejemplar para la moral bienpensante, pero en absoluto provisto de vida- contra los prejuicios que le ha impuesto una sociedad por discurrir por unos senderos contrarios a lo establecido, y que se verá incapaz de superar.

La acción volverá al momento del relato de la ya anciana Mara, quien por mediación del director llegará a encontrarse con la que fuera su hija adoptiva, que ya no la recuerda, y viendo la emoción de esta –que no comprende a que es debido-, decide regalarle ese colgante, con el que de alguna manera renunciará a su pasado –atención a lo inconmensurable que se encuentra en esos instantes Olinto Cristina, conocedor tras el relato que le ha brindado la protagonista de la realidad de la situación-, en un episodio que revela la capacidad máxima con la que Matarazzo manifestó su adscripción a un género popular, del cual se erigió en uno de los representantes más populares pero escasamente reconocidos en su tiempo. Ese tiempo que, finalmente, ha comenzado a darle la razón.
https://thecinema.blogia.com/2012/072601-la-schiava-del-peccato-1954-raffaello-matarazzo-esclava-del-pecado.php

 

Mara Gualtieri, ragazza di facili costumi, esce salva da un terribile disastro ferroviario: insieme a lei si salva una bimba polacca in tenera età, che ha perduto nel disastro i genitori. La bimba s'affeziona subito alla sua salvatrice, e questa considera con tenerezza la piccina, che le ricorda una figlioletta morta. Poiché la sua condizione le vieta per il momento di adottare l'orfana, che viene affidata ad un istituto, Mara lascia la casa equivoca, dov'ella viveva, e superando ogni sorta di difficoltà, riesce a trovare lavoro in una fabbrica di mattoni. Qui Mara incontra per caso l'uomo, che, a suo tempo, l'ha resa madre. Costui ora è sposato; ma sua moglie non può dargli dei figli. Convinto che la bimba sia figlia di Mara e sua, chiede insistentemente d'adottarla. Mara resiste, ma nel frattempo si fa vivo il tristo figuro, che una vola la sfruttava; egli tenta di usarle violenza e finisce col ferirla. Questo triste episodio induce Mara a rinunciare alla piccola, che viene affidata ai due coniugi. Dopo molti anni, il medaglione portato da un ospite dell'albergo, dove Mara è guardarobiera, le permette di riconoscere nella sposa felice la sua piccola polacca. Mara s'impadronisce dell'oggetto ed è poi costretta a raccontare la sua storia al direttore, il quale fa in modo che il medaglione le venga offerto in dono.
https://www.comingsoon.it/film/la-schiava-del-peccato/19176/scheda/


 
 

domingo, 28 de marzo de 2021

Una questione d'onore - Luigi Zampa (1966)

TÍTULO ORIGINAL
Una questione d'onore
AÑO
1966
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
110 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Luigi Zampa
GUIÓN
Leonardo Benevenuti, Piero de Bernardi, Luigi Zampa (Historia: Lorenzo Gicca Palli)
MÚSICA
Luis Bacalov
FOTOGRAFÍA
Carlo Di Palma, Luciano Trasatti
REPARTO
Ugo Tognazzi, Nicoletta Machiavelli, Bernard Blier, Franco Fabrizi, Lucien Raimburg, Tecla Scarano, Leopoldo Trieste, Sandro Merli
PRODUCTORA
Co-production Italia-Francia; Mega Film, Orphée Productions
GÉNERO
Comedia. Drama | Años 50  

Sinopsis

Ambientada en la Cerdeña de mediados del siglo XX, se centra en los enfrentamientos de dos familias desde tiempos inmemoriables y refleja una sociedad arcaica en la que los crímenes suelen quedar impunes, al prevalecer la ley del silencio (l'omertà). (FILMAFFINITY)
 
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TRAMA UNA QUESTIONE D'ONORE
In un paese della Sardegna le famiglie Sanna e Porcu si stanno man mano reciprocamente sterminando a causa di vecchi screzi. Ma don Leandro Sanna, unico superstite della sua famiglia vivente in paese, per evitare di essere aggredito da Egidio Porcu, induce Efisio, un uomo onesto, ad uccidere questi in cambio d'un suo appoggio per lo scagionamento di un delitto non commesso. Efisio, penetrato in paese in occasione d'una festa, anziché uccidere la vittima designata, passa la notte con la propria moglie. L'uccisione di Egidio Porcu, compiuta da uno sconosciuto, mette Efisio in una posizione equivoca di fronte ai paesani i quali, ignorando la sua presenza in paese all'epoca dell'assassinio, attribuiscono la maternità di Domenicangela ad un intruso e pretendono una vendetta d'onore da parte del marito. Efisio, non potendo rivelare la verità senza contemporaneamente vedersi attribuito l'assassinio di Egidio, tenta invano di castigare la moglie della presunta infedeltà per mezzo di violenti alterchi e di feroci insulti: disprezzato da tutti e persino dalla vecchia madre, nonché dai fratelli della moglie, incapace di rimediare in un qualsiasi modo all'ingiusto disonore, pazzo di dolore, dopo aver gridato agli impassibili compaesani la loro barbarie, colpisce a morte la moglie innocente.
https://www.comingsoon.it/film/una-questione-d-onore/7413/scheda/


  Ugo Tognazzi e le polemiche su “Una questione d’onore”

Il film di Luigi Zampa del 1967 considerato gravemente offensivo nei confronti dei sardi -
Contende a “Padre Padrone” il titolo di pellicola che ha suscitato più discussioni all’interno dell’isola

“Una questione d’onore” contende a “Padre Padrone” il titolo di film che ha suscitato più polemiche e più discussioni all’interno dell’isola, ma, diversamente dal film dei fratelli Taviani, al quale si attribuiva un discorsopolitico-culturale se non altro coerente, al film di Zampa si negò qualsiasi alibi culturale, classificandolo “tout court” come un film gravemente offensivo nei confronti dei sardi.
Raccontava la vicenda pirandelliana – la definizione è di Tullio Kezich – di Efisio Mulas, alias Ugo Tognazzi, un povero diavolo, coinvolto suo malgrado in una faida e poi costretto, per difendersi dall’accusa di omicidio, ad ucciderela giovane moglie in attesa di un bambino. Deve scegliere tra la prigione (se il figlio è suo, l’alibi crolla) e l’onore.
Erano altri tempi, diversi anche da quelli in cui apparve “Padre Padrone”, anche se poi i due titoli sono distanziati da appena dieci anni: nel 1967 “Una questione d’onore”, nel 1977, “Padre padrone”. A nessuno oggi verrebbe in mentenon solo di intraprendere una crociata ideologica contro il film, ma di denunciarlo per oscenità, provocando, per qualche mese, il ritiro dalle sale e, ovviamente, contribuendo al suo successo, dopo che i giudici respinsero ogni addebito.
È anche interessante rintracciare un precedente in questa rappresentazione “farsesca” della tradizione criminale sarda. Nel 1952 furono infatti Walter Chiari e Riccardo Billi ad interpretare due emigrati che, da Milano, tornano inSardegna, sperando di entrare in possesso di una ricca eredità. Ma questa eredità è semplicemente il dovere di vendicare un parente ucciso dai rivali.
Il regista Mario Mattoli, direttore di alcune delle più belle farse di Totò, lo girò interamente a Cinecittà: prese in giro la campagna antimalarica appena conclusa e ipotizzò, forse dopo aver visto i primi documentari turistici, non ancoramarini, che il Gennargentu sarebbe stato visitato da allegre e belle turiste del nord Europa. Nei titoli di testa spiegò anche che non intendeva offendere i sardi, ma semplicemente fare una commedia.
Di “Una questione d’onore” si scrisse invece che era stato inizialmente pensato – dal soggettista Enzo Gicca Palli – per la Sicilia, ormai abituata alle “prese in giro” per i numerosi delitti d’onore. Problemi produttivi fecero dirottare laproduzione in Sardegna, al centro dell’attenzione nazionale per l’avvenuta conclusione legislativa della vertenza “Rinascita sarda”, per la recrudescenza dei fatti delittuosi e soprattutto per la notorietà della Costa Smeralda.
Ovviamente, tutti questi richiami promozionali sono utilizzati in senso caricaturale. Già l’esordio, nei titoli di testa, è una sorta di dichiarazione umoristica: numero di abitanti della Sardegna (poco più di novecentomila),numero di pecore (4 milioni), numero di pugili pesi mosca, numero di carabinieri in servizio (4 mila); infine la considerazione che la Sardegna è sempre stata autonoma anche prima di diventare una Regione a statuto speciale,una vera provincia da film western, ma con molte più sparatorie che al cinema. La didascalia viene raddoppiata da un prologo che è un vero metafilm. In una sala cinematografica si sta proiettando un western all’italiana.
All’uscita, in mezzo alla folla, compare un uomo con un fucile: a volto scoperto uccide uno dei presenti. I carabinieri chiedono se qualcuno ha visto qualcosa, ma nessuno si è accorto di niente. A questo punto, l’appuntato dichiara:andiamo dallo sceriffo, poi si corregge, “dal maresciallo”. Più avanti, vi sono altre dirette e riuscite trovate surreali: il personaggio della madre, pagata per fare “s’attitadora” e tentata continuamente dal ridere, anziché piangere,durante le veglie funebri, è un pezzo da antologia.
E soprattutto, la sequenza del prete (appartenente ad una delle famiglie in guerra) che tira fuori dalla tonaca il fucile e spara al nemico, è degna di un Buñuel degli anni messicani: stessa costruzione para realista,stesso sberleffo alla retorica benpensante. Sia la dichiarata vena caricaturale, sia la tesi dello spostamento in Sardegna di una storia siciliana, non impedirono comunque agli autori – i veterani Benvenuti e De Bernardi e il regista Luigi Zampa – di ricercare una credibilità alle ambientazioni ed una suggestione, non solo paesaggistica, ma anche folclorica, derivante magari dall’ampia documentazione filmicain sintonia con la crescente fama turistica dell’isola.
Luoghi riconoscibili sono le campagne (Il ponte sul Cedrino) e il paese di Orosei, non ancora toccato dal “boom” turistico; la grotta del Bue Marino (che serve da rifugio al latitante Mulas), gli stazzi di Aggius e i monti galluresi;Oliena e il Corrasi; ma anche qualche scorcio della Costa Smeralda – altro rifugio, non per il latitante ma per il possidente Bernard Blier, che vuole sottrarsi all’obbligo della vendetta rifugiandosi tra le braccia di una bionda – e,teatro delle grandi sfide a testate tra Tognazzi e i suoi rivali, le saline di Cagliari/Capoterra. Altri scenari importanti furono Dorgali – qui fu girata la scena dell’esorcismo, con le donne che spruzzano il loro latte su Tognazzi,per restituirgli la virilità – e Sedilo, in cui si svolge, durante l’Ardia, la scena chiave del film, divertentissima e crudele. Infine, da Mamoiada, furono “importati” i Mamuthones ed anche Tognazzi si vestì con quel costume,prima di consumare il matrimonio, clandestinamente, con la propria moglie. Infine, una nota che riguarda la lingua e le tradizioni, ennesimo e ovvio “patchwork”:canzoni logudoresi e campidanesi accennate da Tognazzi e una bella esibizione dei “tenores di Orgosolo” che fanno una serenata, ma la dominante linguistica è decisamente campidanese. Ancora non si usavamettere al centro (culturale) della Sardegna “sa limba”: bastavano le parolacce cagliaritane.
La “troupe” fu ospitata tra Cala Gonone e Siniscola, dove sorgevano i primi alberghi. Tognazzi chiese per sé una villa e fecero scalpore i festini che l’attore organizzava con gli amici.
Ancora più scalpore suscitò l’anteprima del film al Cinema Ariston di Cagliari, nel febbraio del 1966, presenti le maggiori autorità regionali e cittadine che, alle prime parolacce e battute “sconce” recitate da Tognazziin “italiano-sardo-porcellino”, abbandonarono la sala, senza neanche attendere l’immagine delle donne di Dorgali a seno nudo che innaffiano l’attore.
Curiosamente, lo scandalo ufficiale, fu anche il principale traino commerciale del film: gli espliciti accenni sessuali, le parolacce e il macchiettismo di Tognazzi, vennero accolte con sonore risate dal pubblicoche affollò, dopo il dissequestro, le sale isolane e nazionali. Tuttora, il film contende a “Padre Padrone” e a “Il figlio di Bakunin”, il titolo di film più remunerativo della storia del cinema “sardo”
Gianni Olla
IL MESSAGGERO SARDO (Ago/Set 2010)
 
 
Terra dei mille regionalismi, l’Italia ha spesso radicato in questo fenomeno tutto nostro una parte rilevante della sua produzione artistica. Dalla poesia e narrativa dialettale, al teatro vernacolare (in senso lato, potremmo comprendervi anche la pittura paesaggistica a destinazione strettamente locale), infine al cinema. Nel bene e più spesso nel male, il cinema ha assorbito questa tendenza, contaminandola nella maggior parte dei casi con gli schemi della commedia italiana, e in seguito “all’italiana”. Se da un lato l’interesse etnografico in chiave regionale ha dato meravigliosi frutti sotto il profilo del cinema documentario e para-documentario (basti pensare a Roberto Rossellini), dall’altro l’incontro tra localismo e commedia è stato tra i più felici sotto il profilo del successo di pubblico, ma spesso deludente dal punto di vista estetico. E, soprattutto, si tratta di tutto un cinema tremendamente invecchiato, non tanto perché nel frattempo l’Italia è cambiata (anzi, vista la lentezza evolutiva del nostro Paese, rasente all’immobilità, il problema forse non si pone nemmeno), quanto perché sono cambiati, sia pure nel solco di una solida continuità, i modelli espressivi, i toni della commedia, il piacere della fruizione.

A ben vedere, in epoca di strepitoso successo per Benvenuti al Sud & soci, tutto sembrerebbe rimasto uguale a ieri. Ma i toni sono assai più smussati, e il grottesco attuale passa attraverso un decisivo filtro di familiarità. Non è buona la commedia regionale “senza qualità” di oggi, e talvolta non era buona nemmeno la commedia survoltata di ieri.
Una questione d’onore di Luigi Zampa, riproposto in dvd per CG Home Video, si pone invece su un territorio problematico. Ben recuperato nei suoi colori sgargianti (benché il dvd sia privo di extra), il film appartiene a un autore che ha sempre fatto del didascalismo e della denuncia sociale populista un proprio baluardo. Uno spirito aggressivo facile facile che spesso ha drasticamente indebolito l’efficacia delle sue opere. Difetto assai più evidente nelle prove drammatiche di Zampa, tale faciloneria tende a stemperarsi nelle sue commedie, e non perché il qualunquismo di fondo venga miracolosamente a dissolversi, bensì perché nelle macro-categorie grottesche frequenti nella nostra commedia è già insita una buona dose di astrazione e approssimazione. A qualche personaggio, poi, viene affidato con maggiore o minore evidenza il compito di declamare di volta in volta brani di immediata denuncia sociale, assommando luoghi comuni in battute di dialogo francamente infelici (ruolo che in questo caso è ricoperto dalla figura del maresciallo), ma confinando comunque lo spirito qualunquistico più corrivo solo in questi sporadici cenni.

In tal senso e per varie ragioni, Una questione d’onore si presenta come uno dei film migliori (e più misconosciuti) di Luigi Zampa, innanzitutto per meriti di sceneggiatura. Prendendo di petto le problematiche morali, sociali e civili sollevate dalla Sardegna di allora, che si poneva a un crocevia tra Far West di faide familiari e delitti d’onore, Zampa e i suoi sceneggiatori costruiscono un racconto talvolta macchinoso e fin troppo denso di figure e plot paralleli, sprofondato fino al ginocchio nei luoghi comuni regionali (fin troppo facile l’associazione col grottesco esasperato della Sicilia di Pietro Germi in Divorzio all’italiana), ma anche ben radicato in una ragnatela asfissiante di paradossi. Il protagonista, il “meschineddu” Efisio Mulas, si ritrova infatti imprigionato in una rete di questioni d’onore incrociate che per lo più non lo riguardano neanche personalmente, finendo per vedere impedita qualsiasi possibilità di vita. In questa disperata lotta tra convenzioni sociali e realtà, risuonano echi pirandelliani che sollevano progressivamente il racconto dalla sua contingenza storico-sociale verso una riflessione universale sull’assurdo e le sue aberranti prigioni.
Nel ruolo principale, Ugo Tognazzi risulta tanto improbabile quanto efficace. Se da un lato i suoi tentativi di parlare con un credibile accento sardo sono terribilmente fallimentari, dall’altro stavolta l’attore trova un punto di fusione tra due delle tendenze che più lo contraddistinguono: l’uomo ridicolo e la maschera comica. Nel primo caso, si tratta di un profilo umano a cui Tognazzi ha regalato le sue migliori prove. Uomo debole, arrabbiato ma sostanzialmente impotente per carenza di volontà e vero coraggio, e perciò costante vittima degli altri e degli eventi, l’ “uomo meschino” qui si stempera però nella maschera, riconducendo l’arte di Tognazzi ai suoi esordi, quando sull’attore a tutto tondo prevaleva il comico tout court. Efisio Mulas esordisce nel racconto esibendosi in una gara di testate in pausa lavoro. È la cifra del suo personaggio e di tutta la prova attoriale successiva, fondata per lo più su fisicità, mimica e fisiognomica (i lineamenti di Tognazzi sono ovviamente esasperati dal trucco anche per renderlo più credibile in territorio sardo). Un ritorno alla propria arte sopraffina di performer, per chi non a caso aveva iniziato la carriera in coppia con Raimondo Vianello ed era stato uno dei “Mostri” di Dino Risi. A tutto questo si aggiungono brani “etnografici” ben inseriti nella catena narrativa. In tal senso Zampa sembra voler supplire anche alla scarsa conoscenza del mondo sardo in quegli anni; il cinema stesso se n’era occupato pochissimo, se non in Banditi a Orgosolo (1961) di Vittorio De Seta.

Tuttavia, l’intento principale resta quello della commedia di costume, aggressiva, eccessiva e in tal senso anche consapevolmente “falsificante”. Anzi, Zampa aderisce non solo al genere-commedia e farsa, ma anche a riflessi del coevo spaghetti-western. Come avvertito dai cartelli d’apertura, la Sardegna di allora sorpassava il West con una mano sola. Le prevalenti ambientazioni in esterno, in mezzo a paesaggi brulli e montuosi, i corpo-a-corpo, i fucili e le fucilate, soprattutto il taglio delle inquadrature e le non casuali musiche di Luis Bacalov contribuiscono decisamente a evocare scenari narrativi da western italiano, così come la scelta di un Technicolor smagliante e senza ombre. Altrettanto non casuale è la scelta di un volto dimenticato del nostro cinema per il ruolo della moglie di Efisio: Nicoletta Machiavelli, frequente “falsa indiana” nei western di casa nostra. Unico volto credibile, il suo, tra i protagonisti, dal momento che come in tutte le buone coproduzioni italo-francesi dell’epoca il cast è di primissima scelta, ma stavolta più che mai improbabile per la collocazione regionale del racconto (difficile credere che Bernard Blier, Franco Fabrizi, Leopoldo Trieste e Tecla Scarano possano essere sardi). Probabilmente è per merito della coproduzione che tra gli aiuto-registi troviamo la sorpresa più eclatante: al fianco di Luigi Zampa infatti collaborò incredibilmente un giovane Bertrand Tavernier. Un francese in Sardegna, a scuola nel nostro cinema. Altri tempi.
Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2014/02/09/una-questione-donore/


 
 

sábado, 27 de marzo de 2021

Il Mattatore - Dino Risi (1960)


TÍTULO ORIGINAL
Il mattatore
AÑO
1960
IDIOMAS
Italiano y Español (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
94 min.
PAÍS
Italia
DIRECIÓN
Dino Risi
GUIÓN
Sandro Continenza, Ruggero Maccari, Ettore Scola
MÚSICA
Pippo Barzizza
FOTOGRAFÍA
Massimo Dallamano (B&W)
REPARTO
Vittorio Gassman, Peppino De Filippo, Anna-Maria Ferrero, Dorian Gray, Mario Carotenuto, Alberto Bonucci, Fosco Giachetti, Luigi Pavese
PRODUCTORA
Co-production Italia-Francia; CEI Incom, Maxima Film Compagnia Cinematografica, Société Générale de Cinématographie (S.G.C.)
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
Gerardo es un actor al que nadie considera como tal. Pero éste no es su único problema: Su amigo Lallo le meterá en una serie de líos y Elena, su prometida, le presionará para que cambie de vida y se case con ella. (FILMAFFINITY)

Premios
1960: Festival de Berlín: Sección oficial de largometrajes

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L’11 febbraio 1960 usciva nelle sale milanesi Il mattatore, undicesimo film diretto da Dino Risi con protagonista il leggendario Vittorio Gassman. L’icona del cinema italiano è nei panni di Gerardo, un attore molto versatile che, proprio grazie alle sue istrioniche capacità di saper imitare qualsiasi accento e dialetto e di diventare qualunque personaggio. Il suo amico Lallo (Mario Carotenuto), decide, quindi, di coinvolgerlo in una truffa ai danni di un commerciante di stoffe, ma finisce rovinosamente in carcere. Proprio in prigione, conosce vari furfanti e, tra questi, c’è Gennarino De Rosa, detto “Chinotto” (Peppino De Filippo), che si distingue per essere stato dentro più volte. Quando i due escono, si mettono in “società” e iniziano a combinarne di tutti i colori, arrivando a truffare lo stesso Lallo. Avendo una marcia in più, Gerardo decide di continuare le sue attività truffaldine da solo e neanche le neo moglie Annalisa (Anna Maria Ferrero) riuscirà a farlo desistere.

Il mattatore tratto da uno spettacolo teatrale e dall’omonimo programma tv
Il mattatore è una di quelle commedie che davvero rivedremmo milioni di volte senza mai stancarci. Tutto è partito dalla sceneggiatura de I tromboni, commedia in quattro anni scritta nel 1956 da Federico Zardi e portata in teatro, con successo, dallo stesso Gassman e in tv nel programma Il Mattatore (1959). Quando la pellicola uscì nelle sale, l’inarrivabile divo aveva già girato 37 film ma grazie a Risi, e alla sceneggiatura scritta da Ettore Scola, Sandro Continenza e Ruggero Maccari, il suo eclettismo, l’ironia, il talento e anche il fascino magnetico  vennero fuori con una forza dirompente che colpirono la critica e il pubblico sin da subito.

Una satira sociale alle soglie del boom economico
Con Il mattatore, Dino Risi voleva portare sul grande schermo la sua satira sociale assolutamente ben congegnata, mai volgare, che ci fornisce una fotografia molto nitida dell’Italia alla fine degli anni ’50, quando il secondo conflitto mondiale era ormai passato da qualche anno e ci si apprestava a vivere il boom economico. In questo contesto, Risi inserisce le vicende di Gerardo – raccontate attraverso un lungo flashback – attore che mette in scena qualsiasi espediente pur di racimolare soldi facili, ma attorniandolo di altri personaggi collaterali che rappresentano i valori, in contrasto, della famiglia, del matrimonio, del lavoro onesto e della società proiettata verso il futuro.

Una sceneggiatura che farà da canovaccio a tanti registi
Gerardo e Lallo sono come il Gatto e la Volpe, cinici e infingardi, i giullari della situazione e, per completare un microcosmo umano fatto di mille sfaccettature, Risi volle nel cast anche i grandissimi Alberto Bonucci (il finto sacerdote), Luigi Pavese (l’imprenditore Adolfo Rebuschini), Mario Scaccia (Di Rosso), Fosco Giachetti (Il generale Nesci), Mario Frera (Cavalier Pizzolato) e un cameo di Fred Bongusto che fa il chitarrista al night. Naturalmente, non manca la componente femminile, rappresentata alla grande dalla bellissima Dorian Gray (Elena), nome d’arte di Maria Luisa Mangini, e da Anna Maria Ferrero (Annalisa), compagna di Vittorio Gassman dal 1953 al 1960. La sceneggiatura, piena di gag al fulmicotone, truffe furbissime e personaggi ben delineati, farà da canovaccio ai grandi registi della commedia sexy all’italiana ma anche ai grandi interpreti del cinema contemporaneo, ed è per questo che Il mattatore, a 60 anni di distanza, è ancora tremendamente attuale.
https://cinema.fanpage.it/il-mattatore-la-commedia-di-dino-risi-con-il-leggendario-vittorio-gassman-usciva-60-anni-fa/


Una auténtica delicia filmada por Dino Risi y que se encuentra totalmente olvidada, aunque probablemente sea una obra de mayores cualidades que otros títulos del realizador.
Las virtudes de Il Mattatore se centran en primer lugar en la presencia de un personaje central absolutamente arrollador –Gerardo-, del que un pletórico Vittorio Gassman ofrece una interpretación basada en las imitaciones, disfraces y escarceos cómicos. Gerardo es un antiguo timador que está casado y trabaja honradamente, por lo que añora la vida que llevaba hasta entonces. En esa tesitura, el matrimonio recibe la extraña visita de un joven que desea venderles a bajo precio un candelabro de plata. En realidad se trata también de un estafador, por el que nuestro protagonista, después de descubrirlo, muestra cierta condescendencia, relatándole su historia y trayectoria en la “profesión”, generalmente basada en la utilización de disfraces –lo que permite a Gassman dar rienda suelta a su magnífico potencial histriónico. A partir de ese planteamiento inicial, el film de Risi –especialmente apoyado por un guión y, sobre todo, unos diálogos magníficos-, describe con tanta ironía como precisión un entorno de timadores amparados en una Italia que se adentra en la industrialización y en barrios de nueva construcción, pero conservando esa personalidad tan genuina, que en el fondo es la que permite que personajes como nuestro protagonista resulten simpáticos y llenos de carisma.
Una vez más, el encanto de Il Mattatore proviene de la conjugación de un buen número de talentos, que fueron una inolvidable fuente de inspiración e hicieron de la comedia italiana un referente aún totalmente vigente. Pero tampoco se puede negar que Dino Risi supo orquestar esos elementos y servirlos con gran eficacia basándose, como antes señalaba, en unas situaciones magníficas –la acumulación de timos que se ejecuta es en algunos momentos delirante, no sabiendo finalmente quien engaña a quien- y unos diálogos francamente sensacionales, en los que se destaca una tipificación en el habla popular del entorno, al tiempo que sirven para reforzar la capacidad humorística y satírica del relato.
Y en toda comedia italiana que se precie, ha de resultar fundamental la labor de sus actores. En esta ocasión no sólo funciona la premisa en la figura de Gassman o el impagable Pepino de Filippo, sino que el film de Risi cuida de forma muy acusada la galería de personajes secundarios, formando un conjunto magnífico que permite la presencia de personajes espléndidamente descritos e interpretados, pese a una ocasional escasa presencia en pantalla. Y es que uno llega a sentir pena ante el semblante abatido del joyero ante Gerardo, que le acaba de robar delante de su rostro un anillo de diamantes, la hilarante presencia en lugar secundario de la abuela de Pepino de Filippo –ciega y sorda, y con un permanente tembleque en las manos-, o ese industrial hipócrita que busca con sobornos que le concreten una contrata en su “pasta al huevo”. Con esta galería, se alcanzan secuencias tan magníficas como la estafa que sufre dicho empresario en plenas oficinas militares, o la impagable simulación de Gassman travestido como una envejecida Greta Garbo que viaja a Italia en su retiro. Por todo esto, Il Mattatore merece figurar por derecho propio entre las mejores páginas del género en Italia.
http://wwwunmundoperfecto.blogspot.com/2010/09/il-matattore-de-dino-risi-grupo-cinecos.html 


 

viernes, 26 de marzo de 2021

La Bonne - Salvatore Samperi (1986)


TÍTULO ORIGINAL
La bonne
AÑO
1986
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
82 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Salvatore Samperi
GUIÓN
Salvatore Samperi, Salvatore Samperi, Alessandro Capone, Luca D'Alisera, Riccardo Ghione
MÚSICA
Riz Ortolani
FOTOGRAFÍA
Camillo Bazzoni
REPARTO
Florence Guérin, Trine Michelsen, Cyrus Elias, Benito Artesi, Ida Eccher, Rita Savagnone, Silvio Anselmo, Lorenzo Lena, Clara Bertuzzo, Antonia Cazzola, Roberta Orlandi, Antonella Ponziani, Barbara Simon
PRODUCTORA
Faso Films, Producteurs Associés
GÉNERO
Drama. Romance | Erótico. Drama romántico

Sinopsis
Anna (Guerin), la hermosa esposa de un abogado, se siente abandonada por este, por lo que decide irse unos días con su sirvienta (Michelsen) al pueblo natal de esta. A partir de este momento comenzará una extraña relación entre ellas. (FILMAFFINITY)
 
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Vicenza, metà degli anni '50. Anna, moglie dell'avvocato e politico Giacomo, trascorre la maggior parte delle proprie giornate rinchiusa tra le quattro mura domestiche in compagnia dell'anziana suocera disabile e della domestica Angela, una ragazza di povere origini assunta per fare da badante e cameriera. La giovane, che ha una relazione con un soldato della sua età, trascina la padrona di casa in un vortice di erotismo e passione che, giorno dopo giorno, finisce per rivoluzionare completamente la vita di Anna. Quest'ultima, trascurata dal marito, dà così libero sfogo alla sua repressa sessualità, ma il torrido e ambiguo legame che ora unisce le due donne rischia di avere drammatiche conseguenze per entrambe.

Tensione erotica
Nonostante il titolo francese, La Bonne - traducibile letteralmente come "la buona" e derivante dalla co-produzione con i cugini d'Oltralpe - è un film italianissimo nell'ambientazione, diretto nel 1986 dal compianto Roberto Samperi, regista scomodo e dileggiato spesso oltre misura. Autore anche della sceneggiatura, il regista in quest'occasione si è effettivamente fatto prendere la mano dal punto di vista erotico, con una manciata di sequenze gratuite, alcune delle quali parzialmente controverse e psicologicamente molto dure nel trauma vissuto dalle due protagoniste.
Perché quello che prende vita dopo la prima parte di visione si trasforma in una sorta di diabolico horror emotivo, tra tradimenti e ricatti che finiscono per condurre a risvolti inaspettati e dal taglio metaforico, in una fiera degli eccessi che però finisce per stonare con il più raffinato e suggerito vedo-non vedo mostrato in precedenza.
Si preme l'acceleratore sui sentieri del grottesco con poca coesione, fino a un epilogo che riflette sui luoghi comuni con più lucida amarezza.

Niente è quello che sembra
Nel corso dell'ora e venti di durata La Bonne palesa una certa eleganza stilistica, con diversi passaggi che esaltano un eros esplicito - ma mai pornografico - tramite i corpi snelli e armonici delle due attrici. La francese Florence Guérin e la danese Katrine Michelsen (scomparsa nel 2009 per un tumore) non spiccano per espressività ma dal punto di vista estetico si adattano perfettamente alle loro controparti filmiche. Il contorno, con la politica di sottofondo, viene utilizzato per forgiare un affilato attacco nei confronti dell'ipocrisia borghese e delle ideologie in generale. Un'ulteriore espansione del suddetto sarebbe stata di maggior impatto nelle dinamiche che d'altronde tratteggiano, nel complessivo sguardo d'insieme, la disgregazione di un tessuto familiare pronto a esplodere, assumendo un carattere più universale.
Il morbo che divora il nucleo dall'interno, dove i colpevoli e le vittime finiscono per scambiarsi i ruoli vicendevolmente, ha un qualcosa di inevitabilmente attuale che rende il film moderno a oltre trent'anni di distanza, anche a dispetto di alcune delle sbavature e dei vizi di forma citati in precedenza.
Maurizio Encari
https://cinema.everyeye.it/articoli/recensione-la-bonne-film-erotico-salvatore-samperi-48639.html


 Penultimo lungometraggio di Salvatore Samperi, autore di celebri film quali Grazie zia (1968), Malizia (1973) con Laura Antonelli e Sturmtruppen (1976), La Bonne (1986) si installa nel solco della tipica poetica del regista, laddove, ancora una volta, vengono stigmatizzate le dinamiche operanti all’interno di un nucleo famigliare borghese, e l’erotismo diviene il mezzo attraverso cui innescare la miccia per fare esplodere un mondo decrepito, degenerato, sebbene ostinatamente attaccato ai privilegi di cui gode e a cui, alla resa dei conti, non vuole in nessun modo rinunciare.

Il film è ambientato a Vicenza, nel 1956. Anna Mattei (Florence Guérin) è la bella moglie di Giacomo Menegatti (Cyrus Elias), distinto avvocato, impegnato anche in politica locale nel consiglio comunale. Vive tutto il giorno in casa, facendo praticamente da badante alla suocera. Nel corso del tempo conosce meglio Angela (Katrine Michelsen), domestica smaliziata, di origini contadine, la quale, per vincere la monotonia delle giornate di provincia, la “inizia” a confidenze che presto sfociano in giochi erotici sempre più spinti (il torbido ménage à trois col farmacista Mario). Sullo sfondo la Rivoluzione ungherese del 1956, che mise fortemente in crisi il sostegno alle idee del bolscevismo nelle nazioni occidentali.

Sulla scia del celebre I pugni in tasca di Marco Bellocchio, che Samperi ammirava molto e di cui, in un certo senso, non smise mai sviluppare alcune tematiche, La Bonne mette in scena impietosamente la grettezza, l’ipocrisia, la falsa coscienza e il buonismo della borghesia italiana della metà degli anni ’50, svelandone alcuni meccanismi atavici, da sempre operativi, ma impossibili da sradicare. L’ingenua Anna, succube della suocera e del marito, che ha nei suoi confronti un atteggiamento paternalista, si lascia trascinare dalla disinibita governante Anna, la quale, con naturalezza e innocenza, la coinvolge in giochi erotici che, inevitabilmente, minano il rigido ordine prestabilito. La morte accidentale dell’opprimente madre del coniuge, da Anna accidentalmente causata, provoca una detonazione che scuote fortemente la giovane donna, fino a farle mettere in discussione il mondo in cui da sempre vive. C’è nel film di Samperi una chiara volontà di dare corpo a un’improbabile dialettica borghesia-proletariato: improbabile perché – e Samperi, che a un certo punto della sua vita abbracciò il Maoismo, ne era assai conscio – l’unico modo di relazionarsi di due universi così ‘ontologicamente’ opposti poteva essere solo, ed è, lo scontro. Nel finale, che non sveliamo, vengono ripristinate le gerarchie, sebbene Samperi lasci intravedere allo spettatore quanto il germe della dissoluzione sia definitivamente penetrato all’interno di un organismo ormai al collasso.

Da segnalare le interessanti ed esteticamente apprezzabili scene erotiche, egregiamente fotografate da Camillo Bazzoni (Il caso Moro, Le vie del Signore sono finite, Speriamo che sia femmina) e, infine, le splendide musiche di Riz Ortolani che valorizzano non poco l’insieme.
Luca Biscontini
https://www.taxidrivers.it/author/luca-biscontini

La vita di Anna non è poi tanto allegra: il marito Giacomo, avvocato, passa lunghe ore in consiglio comunale (siamo a Vicenza, nel 1956 e lui fa parte del gruppo comunista); la suocera, vecchia, ammalata e lamentosa, le impone una assistenza incessante. Per fortuna in casa c'è Angela, una ragazza del contado, giovane anche lei, fresca ed esuberante. Senza figli com'è Anna trova in quella giovinezza strane rispondenze, esplorando piano piano con Angela intimità personali prima ignote o mai tentate. Una gita in campagna presso la famiglia della domestica basta a far scattare pericolosi ed ambigui meccanismi. Così Angela induce la padrona ad accompagnarla in una balera, dove essa si è recata con un soldatino voglioso e intraprendente di sua conoscenza, mentre non cessa di occuparsi di lei con svariate premure e blandizie. Durante uno stupido gioco a moscacieca tra le due, la madre di Giacomo, incuriosita dalle grida e dal fracasso di vasi infranti, si leva dal letto, cade e muore, urtata da una porta che Anna ha aperto bruscamente. Dopo di che - avvinte le due donne dalla omertà del silenzio la perversa ragazza porta in casa un maturo farmacista, che già per strada, fermando la propria macchina, ha prima avvicinato e poi posseduto Anna. Costui rivolgerà le sue calorose attenzioni ad ambedue le donne, le quali assisteranno alle rispettive prestazioni. Ci saranno due gravidanze, ma quella di Angela, la colf piena di iniziativa e poi vittima del suo stesso gioco e licenziata in tronco, dovrà concludersi altrove: la signora resta in casa propria (finalmente rimessa a nuovo dopo il decesso della suocera) e Giacomo penserà tutto contento di essere lui il padre del nascituro.

"Morbosa commedia del recidio Salvatore Samperi, da tempo votato all'erotismo casereccio, che ha comunque la mano felice nel descrivere l'ipocrisia della provincia bigotta. Le due seducenti protagoniste, chissà perché d'importazione, sono assolutamente inespressive".
(Massimo Bertarelli, 'Il giornale', 19 gennaio 2001)
https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/la-bonne/25350/ 


 

jueves, 25 de marzo de 2021

Sei donne per l'assassino - Mario Bava (1964)


 TÍTULO ORIGINAL
Sei donne per l'assassino
AÑO
1964
IDIOMA
Italiano e Inglés (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Inglés (Opcional) y Español (Separado)
DURACIÓN
88 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Bava
GUIÓN
Mario Bava, Marcello Fondato, Giuseppe Barilla (Historia: Marcello Fondato)
MÚSICA
Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA
Ubaldo Terzano
REPARTO
Cameron Mitchell, Eva Bartok, Thomas Reiner, Ariana Gorini, Dante DiPaolo, Mary Arden, Franco Ressel, Claude Dantes, Luciano Pigozzi, Francesca Ungaro
PRODUCTORA
Co-production Italia-Mónaco-Francia; Emmepi Cinematografica, Monachia Film
GÉNERO
Terror. Thriller. Intriga | Giallo. Asesinos en serie

Sinopsis
El salón de moda, organizado por Cristina y su amante Max, es un lugar de lujuria, tráfico de cocaína y chantaje, donde una serie de jóvenes modelos son asesinadas de forma salvaje. Parece cada vez más claro que todas las víctimas tienen un pasado muy turbio y, poco a poco, sus secretos se verán desvelados a través de un diario dejado por una de las modelos asesinadas... (FILMAFFINITY)
 
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Sulla carta questo film, che esce nelle sale italiane nell’aprile del 1964, non ha nessun riflesso soprannaturale: parla di una serie di omicidi in un atelier di moda, e lo spettatore ha netta la percezione di un serial killer in carne e ossa. Eppure fin dalla primissima inquadratura, con il vento che fa staccare l’insegna dell’atelier Christian, si respira un’aria tardo-gotica. Come può però un genere come il gotico far parte di un mondo moderno come la Roma della dolce vita, quella già cantata da Fellini e che – almeno restando a via Veneto – attira le personalità più illustri da mezzo mondo, capitale di un rinnovamento dei costumi che getta in soffitta proprio superstizioni, riti magici e via discorrendo? Ecco dunque che appare inevitabile la scelta di concentrare l’attenzione su un luogo, l’atelier, che per sua natura esula dalla concezione materiale della realtà: le modelle sono oggetto del desiderio, si ergono al di sopra della media della popolazione, eppure allo stesso tempo è come se fossero tutte uguali. Estremizzando il discorso Bava fa in modo che tutti i personaggi si somiglino, al punto che perfino gli abiti dell’assassino e quelli dell’ispettore di polizia sembrino identici. Un mondo replicato all’infinito che non ha più distinzioni, né tra esseri umani, né tra questi ultimi e i manichini utilizzati per provare i tessuti e gli orditi. Nell’apparenza di un gioco vacuo e sterile Mario Bava in realtà propone già una messa in mostra delle atrocità – e del nitore – dell’avant pop, anticipando perfino l’esplosione della Pop Art che arriverà di lì a pochi mesi alla Biennale di Venezia. Per quanto all’epoca venne accusato delle peggiori nefandezze per aver osato mettere in scena la morte con piglio creativo, con processi virtuali al sadismo della pellicola e al connubio considerato malsano tra eros e tanathos – Bava mette in scena gli omicidi puntando su una forte componente sessuale, trasformando il gesto dell’assassino in una funzione quasi orgasmica, per quanto poi smentita dall’intreccio: nulla di così nuovo, perché è uno dei tratti distintivi anche dell’immediatamente precedente La frusta e il corpo, dove però era stato più facile farlo accettare per via del carattere dichiaratamente fantastico della pellicola – Sei donne per l’assassino propone una riflessione teorica sulla visualizzazione cinematografica della violenza: le vittime sono già manichini, il sangue è una mistura evidente di vernice collocata sui corpi. Dichiara la sua falsità, Bava, e ne fa un eccezionale punto di forza per scardinare le regole ferree – e castranti – del genere, della morale pubblica, delle attese degli spettatori.

Non c’è nulla da capire, in Sei donne per l’assassino. L’intreccio è beota – della sceneggiatura si occupa anche Marcello Fondato, futuro regista tra gli altri di …altrimenti ci arrabbiamo! –, il colpo di scena così difficile da comprendere che lascia il tempo che trova, per quanto si dimostri a sua volta seminale per gli sviluppi futuri del genere, su cui si tornerà fra poco. Debolezze enormi, per chiunque ma non per Bava. Che ancora una volta dimostra di non sentire il peso di una pessima sceneggiatura, ma di saperne valorizzare le parole non scritte, i dialoghi non detti, i passaggi obliati. Bava ha tra le mani la macchina da presa, e sa di poter ancora dominare il mondo. Si trova nel mezzo di un thriller sanguinolento, e lavora su quello. Come un discepolo attento e curioso di Thomas De Quincey costruisce la sua trama visiva ricorrendo al principio secondo il quale l’assassinio non sia altro se non una delle belle arti. Così facendo mette lo spettatore con le spalle al muro: l’interesse di chi assiste al film, e perde nozione dei personaggi finendo per confondere una modella con l’altra, non risiede più nel desiderio di scoprire chi sia il colpevole, ma solo nella brama di poter assistere a un altro atto di violenza, di poter prendere parte da posizione privilegiata a un altro svilimento del corpo femminile, reso in maniera talmente evidente oggetto da scoperchiare l’ipocrisia di una società che ancora lo sfrutta fingendo di essersi emancipata, e di volerle donare il giusto rilievo. Bava utilizza la macchina da presa con una leggerezza sorprendente, fingendo che sia una volta la punta di un coltello e un’altra volta parte del décor della moda; lo stesso fa con le luci, che non hanno alcuna velleità di apparire credibili ma al contrario devono sviare una volta di più il pubblico, convincerlo di stare assistendo a uno spettacolo di marionette per far sì che la violenza possa irrompere con ancora maggior crudeltà sullo schermo, senza lasciare scampo a nessuno. La stessa funzione, a ben vedere, che nel cinema gotico svolge la nebbia artificiale. Un modo per sospendere il tempo, e ridefinire il concetto di “vero”.

Non esiste nulla, nel cinema italiano e mondiale, che abbia il furore ghignante e il coraggio leonino nel ribadire il potere dell’immagine-senso su quello del senso della narrazione trasmesso da Sei donne per l’assassino. In modo pressoché inconsapevole Bava sta creando un vero e proprio canone espressivo, che influenzerà completamente il cinema di genere. Già nel sublime La ragazza che sapeva troppo, uscito in sala poco più di un anno prima, Bava aveva gettato le basi per la costruzione di quello che a livello industriale e critico sarebbe divenuto poi noto – un decennio più tardi – come “giallo all’italiana”: vi era lì l’indagine di un comune cittadino (meglio se straniero: la lezione dimostrerà di averla imparata Dario Argento in Profondo rosso) su un misterioso fatto di cronaca, il ruolo della colonna sonora e dell’illuminazione. Ma è con Sei donne per l’assassino che la codifica del genere compie il passo in avanti decisivo: c’è la perversione portata all’eccesso delle sequenze di omicidio (con tanto di donna ustionata a morta su una stufa con inquadratura soggettiva dell’assassino che le tiene una mano sulla collottola), il numero plurimo di morti, l’assassino coperto da una maschera e con le mani guantate, la creatività degli omicidi, con la brutalità che flirta in maniera fertile con il concetto di estetica. Tutto è già qui, anni prima che il genere prenda davvero piede. Dopotutto Bava, con il suo approccio sornione e bonario, ha nei fatti anticipato buona parte dei sottogeneri divenuti poi celebri in mezzo mondo, dal gotico allo slasher (Reazione a catena), facendosi beffe allo stesso tempo sia dell’arte pura che dell’intrattenimento.
Raffaele Meale
https://quinlan.it/2019/12/27/sei-donne-per-lassassino/

Hablar del giallo es hablar de dos directores clave. Dario Argento es quizá quien lo llevó al sumun con su obra maestra ‘Rojo Oscuro‘ (Profondo Rosso, 1975). Pero las bases del giallo surgieron más de 10 años antes gracias a Mario Bava, y dos de las películas más importantes del género: ‘La muchacha que sabía demasiado‘ (La Ragazza che sapeva troppo, 1962) y ‘Seis mujeres para el asesino‘ (Sei donne per l’assassino, 1964).

‘Seis mujeres para el asesino’: Salón de moda, salón de muerte

«Una joven modelo es asesinada brutalmente en los jardines de un lujoso salón de moda por un asesino enmascarado. Durante la investigación, más modelos serán asesinadas, y con muertes cada vez más violentas. La única pista es ver que tienen en común, y remover en el oscuro pasado de cada una de las víctimas y sospechosos.»

‘Seis mujeres para el asesino‘ comienza ya con el asesinato violento de una modelo: estrangulada por un asesino con gabardina, guantes negros, sombrero y su rostro oculto tras una máscara sin ningún tipo de facciones. A partir de aquí, saldrán nuevos sospechosos y surgirán sus secretos más oscuros, mientras aparecen más cadáveres, y la policía bastante perdida dando tumbos tras pistas falsas.

Hay que reconocer que hay más peso en las muertes violentas, la estética y la narración, que en el propio guión, el cual no encontraremos excesivas sorpresas. Ni mucho menos es malo, pero algunos momentos están cogidos por los pelos, o con poca explicación.

La mayoría de la trama de ‘Seis mujeres para el asesino‘ transcurre en esa casa de modas (algo que también haría Argento con ‘Suspiria‘, pero en una escuela de baile), que ofrecerá una escenografía visual y artística genial, que contrasta perfectamente con las muertes. Mario Bava aprovechará su pasado como director de fotografía para jugar con enormes salas coloridas y llenas de sombras, para llenarlas con maniquíes tétricos y biombos semitransparentes, todo perfecto para que se esconda el asesino y crear inquietantes atmósferas.

Mario Bava y el nacimiento del giallo

Desde que comienza la película nos encontraremos suspense, misterio, investigación policial, trazas de terror, muertes violentas, y con un estilismo muy definido. Esta mezcla es precisamente lo que afianzaría por completo el giallo criminal.
En 1962, Mario Bava dirigió ‘La muchacha que sabía demasiado‘ (la que se considera el inicio del giallo), con la que mostró las bases de este subgénero por el uso de la iluminación, los claroscuros, lugares públicos solitarios amenazantes, zooms, la cámara subjetiva, y cierta influencia de Welles, Hitchcock, e incluso del expresionismo alemán.

Con ‘Seis mujeres para el asesino‘ terminaría de consolidarlo con colores llamativos y con más muertes (y más violentas), que se mezclarían para crear una estética visual y sonora muy cuidada y llamativa. Todos estos usos se multiplicarían, y añadirían algunos, en la opera prima de Dario Argento, ‘El pájaro de las plumas de cristal‘ (1970).

Además aparecería la figura del asesino con guantes negro, recurso que se utilizaría más de una vez en el género. Estos estilismos están detallados en las reseñas de ‘Rojo Oscuro‘ (Dario Argento, 1975), y ‘¿Qué habéis hecho con Solange?‘ (Massimo Dallamano, 1972).
También empezamos a ver unas muertes más violentas, teniendo cuenta que era 1964, a manos de un asesino sin rostro que estrangula, abrasa, golpea y maltrata, a toda mujer que se encuentra por delante. No se recrea en algo gore (aunque la sangre excesivamente roja ya se empezaría a usar como recurso estético), si no en la propia violencia del asesinato, convirtiendo el antes, el durante y el después, en parte de la narración.

Conclusión

La película tiene momentos muy interesantes, donde veremos el porqué de su repercusión y que influyera tanto en gran parte del cine policiaco, thriller, y de terror italiano. Toda la estética, puesta en escena, y los asesinatos, son pequeñas recreaciones artísticas. Quizá lo peor para mí son las actuaciones, que algunas son muy flojas y otras aprueban muy justo, y tampoco es que tenga un guion sorprendente. Aún así, encontraremos giros y todo estará atado.

En definitiva, ‘Seis mujeres para el asesino‘ es una película donde nos adentraremos en el giallo, y descubriremos sus orígenes y bases. También se disfruta si te gusta el género de misterio y del whodunnit, adornado con muertes imaginativas.
https://lascronicasdedeckard.com/seis-mujeres-para-el-asesino-de-mario-bava/