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martes, 31 de julio de 2012

Romanzo Criminale - Michele Placido (2005)

TÍTULO ORIGINAL Romanzo criminale
AÑO 2005
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español, Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN 147 min.
DIRECTOR Michele Placido
GUIÓN Giancarlo De Cataldo, Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Michele Placido (Novela: Giancarlo De Cataldo)
MÚSICA Paolo Buonvino
FOTOGRAFÍA Luca Bigazzi
REPARTO Stefano Accorsi, Kim Rossi-Stuart, Pierfrancesco Favino, Jasmine Trinca, Claudio Santamaria, Riccardo Scamarcio, Anna Mouglalis, Elio Germano, Toni Bertorelli, Stefano Fresi, Massimo Popolizio, Francesco Venditti, Benedito Sicca, Daniele Miglio
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-GB
WEB OFICIAL http://www.romanzocriminale.it/
PREMIOS
2006: Festival de Berlín: Sección oficial de largometrajes
2005: Premios David di Donatello: 8 premios. 14 nominaciones
GÉNERO Drama | Crimen. Mafia

SINOPSIS Roma, años 80. Tres jóvenes delincuentes, Libanés, Hielo y Dandy, con la ayuda de una improvisada banda de malhechores, entre ellos El Negro, un extremista que se cree el último samurai, secuestran y asesinan brutalmente a un rico propietario. El dinero del rescate deciden invertirlo en el negocio de la heroína. Así nace una organización criminal despiadada que elimina a todos sus rivales, controla completamente el tráfico de drogas y se alía con la Mafia. Al mismo tiempo se beneficia de la protección de los hombres sin rostro a los que el gobierno asigna el trabajo sucio. Mientras tanto, las autoridades están enfrascadas en la lucha contra el terrorismo de las Brigadas Rojas y subestiman la avalancha de violencia y dinero sucio que inunda y domina Roma. El único que presiente el poder devastador de estos nuevos gángsteres es el capitán Scialoja. Para destruirlos, Scialoja mantiene una peligrosa relación con Patrizia, una intrigante prostituta que además resulta ser la chica de Dandy. (FILMAFFINITY)


"Romanzo criminale è un film politico pieno di inguaribile romanticismo" - intervista a Michele Placido

È stato presentato mercoledì 28 settembre a Bari, in anteprima nazionale, ad una platea di cinefili e studenti universitari Romanzo criminale, l'ultimo film che Michele Placido ha tratto dall'omonimo romanzo del magistrato tarantino Giancarlo De Cataldo. Una pellicola che attraversa come una lama tagliente la storia italiana a cavallo fra gli anni settanta ed ottanta scrutandola attraverso le lenti deformanti dei fatti della "banda della Magliana". Al termine della proiezione, accolta da applausi e consensi, abbiamo incontrato il regista ed attore di film come Un eroe borghese, Un viaggio chiamato amore e Ovunque sei.

Come nasce il progetto cinematografico di Romanzo criminale?
"Il progetto nasce grazie ad una società di produzione come Cattleya - racconta Placido a Sentieri selvaggi - che ha acquistato i diritti del libro convinta di poterlo adattare con successo per il grande schermo. Dopo che erano stati proposti vari nomi di registi italiani, come quelli di Marco Tullio Giordana e Roberto Faenza, mi è arrivata una sceneggiatura scritta da Rulli e Petraglia e solo dopo averla letta mi sono avvicinato al testo di De Cataldo".

E poi cosa l'ha incuriosita del romanzo?
"Ho avuto subito l'impressione che si potesse fare un buon film da questo libro. Un film importante perché in queste pagine si parla di fatti che hanno segnato la storia italiana degli ultimi anni, ma non solo: si racconta anche una tragedia umana, una vicenda che tocca direttamente gli amori, gli odi e le passioni degli uomini".

Una storia difficile e rischiosa da adattare su grande schermo non crede?
"Beh sicuramente bisognava trovare lo stile giusto per raccontare queste pagine. Uno stile troppo realistico avrebbe posto l'accento sull'aspetto documentaristico e, probabilmente, non avrebbe incontrato il gusto di un pubblico abituato a stili narrativi più moderni ed efficaci."

E allora?
"Allora, dato che il romanzo lo permette, ho scelto un taglio in bilico fra il realismo ed una dimensione tragica che avvicina molto lo sguardo dello spettatore ai protagonisti. Ho aggiunto un prologo che non c'è nel libro e che regala al film un'atmosfera più intima e romantica, segnando un destino tragico e comune ai personaggi principali della narrazione. Poi, soprattutto nella seconda parte, ho avvicinato i volti degli attori con primi piani costanti e ravvicinati, quasi a voler entrare con la macchina da presa nell'intimità di queste vite tragiche ed impossibili. Vedrete che Romanzo criminale è un film molto fisico, molto passionale, tutto focalizzato sui corpi degli attori..."
Oltre ai rischi stilistici, però, questa storia nascondeva anche qualche insidia per i risvolti politici legati ai fatti della banda della Magliana...
"Su questo non vi sono dubbi. Ascoltando le prime reazioni alle proiezioni, però, ho ricevuto assensi e complimenti su come ho trattato le questione politiche legate al film. Credo che questo sia il mio lavoro più completo, quello che dimostra maggiore equilibrio fra politica e cronaca, realtà e finzione. Poi è bene ricordare, come ho già detto, che nel film vi sono anche delle storie d'amore intense e passionali. C'è molto romanticismo che spero avvicini anche il pubblico dei più giovani che, magari, sanno poco o nulla su ciò che è accaduto in quegli anni."

Come è riuscito a rendere più umani e "romantici" personaggi così negativi ?
"Innanzitutto voglio precisare che nel film non ci sono personaggi positivi, anche se i personaggi del libro di De Cataldo hanno uno spessore epico ed umano di grande potenza. Poi, in alcuni casi, ho teatralizzato i tratti caratteriali di alcuni di loro. Per esempio la figura del commissario Scialoja, che è interpretato da Stefano Accorsi, è molto più ambigua che nel libro, e questo nonostante le perplessità sollevate dallo stesso Accorsi. Ed è bene anche ricordare che si parla sempre di personaggi che hanno profondi limiti umani ed intellettivi, persone tragiche che vivono solitudini estreme e situazioni al limite: e tutto questo traspare chiaramente grazie al grande lavoro degli attori che hanno saputo tratteggiare questi chiaroscuri esistenziali."

Anche perché il film ha un cast d'eccezione...
"Si, ho avuto la fortuna di poter contare su attori come Claudio Santamaria, Kim Rossi Stuart, Stefano Accorsi, Jasmine Trinca, solo per ricordarne alcuni. Tutti professionisti seri che vengono da esperienze teatrali ed hanno trasmesso ai loro personaggi una certa pietas, un alone di fragilità che accarezza queste figure rendendole ancora più tragiche. Arricchendo il film di quella vena emotiva e passionale che credo attraversi un po' tutti i miei lavori, come un respiro da grande tragedia shakespeareana. Ma credo che anche gli attori che interpretano "ruoli di fianco" come Antonello Fassari, Gianmarco Tognazzi e Massimo Popolizio siano davvero bravi."

Dai corpi degli attori ai luoghi ed agli spazi urbani narrati in Romanzo criminale. Quanto è stato difficile ricostruire questa Roma anni settanta?
"È stato molto impegnativo, ma spero che i risultati siano soddisfacenti. Mi piace ricordare, però, che nel film non c'è solo la ricostruzione storica di Roma, ma anche quella di altre città come Milano e Bologna, con le tragiche immagini in digitale della strage alla stazione. Poi naturalmente il teatro dell'azione è questa città di Roma sospesa fra periferie, borgate ed i grandi centri nascosti di un Potere impalpabile. Il discorso sulla ricostruzione dei luoghi, che spero sia riuscita nonostante le difficoltà, investe anche i filmati di repertorio che ho inserito nel film: dove ho creduto che la ricostruzione puramente cinematografica non fosse sufficiente ho preferito affidare la memoria storica alle immagini televisive di quegli anni".

In conclusione come definirebbe il suo ultimo film?
"Lo definirei un film politico pieno di inguaribile romanticismo."
http://www.sentieriselvaggi.it/6/12023/Romanzo_criminale_%C3%A8_un_film_politico_pieno_di_inguaribile_romanticismo_-_intervista_a__Michele_Placido.htm

Romanzo Criminale (2005) di Michele Placido. Sui teleschermi satellitari imperversa da Novembre l’omonima serie televisiva realizzata da Sky: nulla da eccepire dal lato formale e tecnico ma… una serie che brilla per mancanza di tensione e di suspense, troppo diluita in eccessivi episodi ripetitivi, monotoni e monocordi.
Meglio allora rivedersi il film originale di Michele Placido, incoronato nel 2006 da 8 David di Donatello, 5 Nastri d’Argento, 2 Ioma. Ecco quanto scrissi all’uscita del film.
Un ritorno alla grande per Michele Placido, dopo gli esiti deludenti delle sue ultime fatiche (scivolate, come ha sottolineato più di un critico, nei terreni paludosi dell’autorialità esistenziale) Un viaggio chiamato amore (2001) e Ovunque sei (2004): Romanzo Criminale è tra i film italiani più costosi della stagione ( 8 milioni di euro) e ha raggiunto un incasso di quasi 1 milione di euro durante il primo fine settimana di uscita.
Non dev’essere stato agevole condensare le 632 pagine del libro di Giancarlo De Cataldo e sintetizzare quindici anni di gesta criminose. Ma l’impresa si può dire complessivamente riuscita.
La meticolosa descrizione dei componenti della banda della Magliana (nascita formazione apoteosi e morte), l’analisi corale delle loro imprese, della loro ascesa e caduta, richiama immediatamente il migliore cinema d’oltreoceano (Hawks, Coppola, Scorsese, De Palma…) e la capacità (come ha scritto il “Corriere della Sera”) “di far sentire allo spettatore che quei delinquenti non sono degli alieni, ma dei nostri simili le cui scelte aberranti nascono sul terreno di un’umanità comune”. Ma la visione di Placido è più cinica e pessimista (l‘happy end naturalmente manca).
Sfuggendo alla cosiddetta “sindrome delle due camere e cucina” (l’incapacità del nostro cinema di andare oltre la piccola e ripetitiva storiellina, che è possibile raccontare senza scomodare tematiche di grande rilevanza e soprattutto esosi mezzi produttivi) Michele Placido ha realizzato un film storico, un’opera di denuncia sociale e politica, un poliziesco amaro e furioso: sparatorie, erotismo, bische, cocaina, amicizia virile, imboscate, servizi deviati e tante canzoni d’epoca a scandire il passare del tempo. Un film duro, angoscioso, quasi claustrofobico (l’obiettivo della macchina da presa è spesso incollato ai volti dei protagonisti, mentre Roma è raffigurata come una città buia e cupa) anomalo nella corrente cinematografia italiana e che rimanda non solo al modello americano ma alla nostra grande tradizione, da Rosi a Petri.
Difetto dell’opera è l’eccessiva lunghezza: la prima parte presenta lungaggini e ripetizioni che si potevano evitare, comportamenti e mentalità non sufficientemente definiti e carenza di pathos. L’ultima ora è quasi perfetta: l’affresco dei caratteri è più adeguato, screziato ed antimanicheo; i personaggi acquistano uno spessore umano e una profonda drammaticità esistenziale senza ricorrere a psicologismi posticci e scorciatoie macchiettistiche, il coinvolgimento emotivo dello spettatore è completo.
Onore al merito all’intero cast che vede riunito quasi tutto “il meglio” del nostro cinema. Una lode particolare a Pierfrancesco Favino, Anna Mouglalis, Gianmarco Tognazzi e soprattutto a Kim Rossi Stuart (eccezionale come e più del solito).
http://cineocchio.altervista.org/wordpress/2009/01/06/romanzo-criminale-2005-di-michele-placido/
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ITALIAN TABLOID
Dopo i fischi veneziani, Placido decide di ripercorre le sue origini cinematografico-televisive più o meno lontane (Romanzo popolare, La piovra) per portare sul grande schermo il più grande affresco criminale su carta che l’Italia letteraria abbia mai avuto tra le dita. Tratto dall’omonima opera di De Cataldo, Romanzo Criminale è un armonico esempio di darwinismo malavitoso, che narra le gesta di una ghenga di bestie feroci in grado, a cavallo degli anni settanta e ottanta, di conquistare Roma e di spaventare l’Italia intera.
Iene metropolitane, figure pasoliniane intrappolate tra la miseria delle case popolari di Tor di Nona e della Magliana, che, esasperati da un destino avverso da generazioni, decidono di arrampicarsi fino all’ultimo piano del grattacielo della criminalità, prendendo di petto tutto e tutti: dalla polizia ai vecchi padroni imborghesiti; finendo per cadere uno ad uno, come romantici antieroi: chi in un vespasiano, chi davanti un negozio di antiquariato, chi sulla scalinata di una chiesa. La pellicola di Placido muove i suoi primi passi ideologici proprio dal film di Monicelli, cambiando lo sfondo urbano con Roma che si sostituisce a Milano, mantenendo però lo scorcio storico: quello dell’Italia degli anni settanta, in equilibrio precario tra la povertà dei quartieri popolari e il boom economico che si è appena lasciato alle spalle. La Roma di Romanzo Criminale è una capitale intrappolata tra tradizione e industrializzazione, asfissiata dalla paura sociale alimentata dalle agitate minoranze rumorose, humus ideale per far germogliare una delle associazioni criminali più barbare che la nostra storia recente ricordi.
Il film parte bene, stupendo in positivo almeno nei primi minuti. Appena trascorso l’incipit fanciullesco infatti, il regista ricicla sullo schermo l’escamotage utilizzato dal magistrato-scrittore con il segnalibro interno del suo romanzo. L’occhio viene quindi rapito dal ritmo dei titoli di testa, sincronizzati alla perfezione con le istantanee di presentazione dei protagonisti; un espediente tipicamente di genere, che rompe il ghiaccio con successo e catapulta lo spettatore nella tragica epopea della banda. I dialoghi, colorati di cadenze dialettali, risultano a dir poco coinvolgenti e calzano a pennello con le psicologie e le maschere dei personaggi, curate con minuzia e solerzia. Gli sceneggiatori Rulli e Petraglia ci mettono del loro, indugiando spesso sui fatti di cronaca vera, che si incastrano con una trama, solo a tratti romanzata, come il tassello mancante di un puzzle. Placido opta per una regia “naturalistica”, lascia esprimere il capitale recitativo messogli a disposizione intervenendo poco o niente, limitandosi ad accentuare il tono drammaturgico di alcune scene chiave, come l’omicidio in pieno giorno del Terribile sulla scalinata di Piazza di Spagna, o le pugnalate alle spalle di Libano da parte di Gemito. La vera forza di Romanzo Criminale infatti, sta nelle interpretazioni dello sfavillante cast, che per gli standard italiani è una vera e propria sciccheria. Eccezion fatta per Accorsi, che non riesce quasi mai a far vibrare le corde giuste del suo personaggio, il resto dei protagonisti (Favino e Scamarcio su tutti) perviene nell’impresa di far rivivere su pellicola gli amori, le ossessioni e le inquietudini del triangolo di amici che reggono le fila della gang.
Più che dalla personalità dietro la macchina da presa di Placido infatti, le scene più coinvolgenti (l’addio tra Libano e il Freddo e il faccia a faccia tra Accorsi e Kim Rossi Stuart) sembrano trascinate dalla naturale alchimia degli interpreti, a conferma che in Italia di talenti ce ne sono eccome, e che basta solo utilizzarli bene per farli rendere al meglio. Di contro però, la pigrizia e la sciatteria di Placido, dimostrate durante le due ore e mezza di durata, dovrebbero far riflettere e non poco. Con il materiale al tritolo che aveva a disposizione, era francamente impossibile bucare il film, ma è altrettanto vero che un crime movie non si gira in questo modo. Per tutta la durata della pellicola infatti, non si vede un inseguimento neanche per sbaglio, le sparatorie e gli agguati latitano, e di conseguenza i gangli ritmici della narrazione finiscono ben presto per ingolfarsi in una serie di gineprai psicologico-intellettuali caratteristici di un certo tipo di cinema italiano, che vorrebbe essere d’essai anche quando non se ne sente il bisogno.
Con il passare dei minuti, Placido si dimostra troppo poco cattivo per approcciarsi al meglio verso questa tipologia di racconto. Gira come se pensasse ancora con la testa del commissario Cattani, mentre in questo caso sarebbe stato più indicato un piglio alla Cariddi. A provare quanto detto, c’è il pessimo finale, che si riallaccia con un tono buonista e inutilmente melassoso all’infanzia dei tre.
628 pagine inoltre, avrebbero avuto bisogno di un minutaggio molto più ampio, per respirare a pieni polmoni sul grande schermo. Stupisce quindi che agli sceneggiatori non sia barlumata l’idea di riproporre in Romanzo Criminale la divisione in atti che aveva caratterizzato, ad esempio, la scansione narrativa de La meglio Gioventù; certo, la percentuale di rischio da affrontare era elevata, ma solo in questo modo si sarebbero potute cogliere al meglio le sfaccettature più profonde del masterpiece decataldiano. La sceneggiatura infatti, si concentra quasi esclusivamente sui rapporti che intercorrono tra Libano, Dandi e Freddo, lasciando così sullo sfondo personaggi come Bufalo, che nel romanzo raggiungeva tutt’altro spessore, o addirittura omettendone altri, come il Ranocchia o Raffaele Tutolo. Alla completezza viene quindi contrapposta la sintesi, che non provoca sbalzi incomprensibili nell’ economia dell’intreccio, ma alla resa dei conti risulta poca cosa rispetto al romanzo.
Romanzo Criminale è sicuramente un film piacevole che, pur con mille difetti, riaccende la speranza di un cinema di genere popolare, in grado di liberarsi dai carabinierismi televisivi. Mentre scorrono i titoli di coda però, una domanda mi rimbalza come impazzita nella testa: cosa sarebbe successo se un soggetto così dannatamente esplosivo fosse stato messo nelle mani di qualche nostro “vecchio” regista d’azione come Castellari o Lenzi?
Ai posteri l’ardua sentenza.
http://www.positifcinema.it/romanzo-criminale-di-michele-placido

lunes, 30 de julio de 2012

Accadde al Commissariato - Giorgio Simonelli (1954)

TÍTULO ORIGINAL Accadde al commissariato
AÑO 1954
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 104 min. 
DIRECTOR Giorgio Simonelli
GUIÓN Giovanni Grimaldi, Ruggero Maccari, Vincenzo Talarico, Ettore Scola, Felice Zappulla
MÚSICA Carlo Innocenzi 
FOTOGRAFÍA Renato Del Frate (B&W)
REPARTO Nino Taranto, Alberto Sordi, Walter Chiari, Lucia Bosé, Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Dapporto, Lauretta Masiero, Mara Berni, Turi Pandolfini, Natale Cirino, Ignazio Balsamo
PRODUCTORA Fortunia Film
GÉNERO Comedia

SINOPSIS En un día de trabajo suceden a menudo muchas historias, y en especial en esta comisaría, en la que ingresa todo tipo de gente. (FILMAFFINITY)


CRITICA
"Lo scopo di Simonelli si esaurisce sul piano del divertimento puro e semplice, del meccanico accostamento di fatti e di macchiette, attuato in vista di un altrettanto meccanico ed epidermico effetto comico, o platealmente patetico. Si salva l'episodio interpretato da Alberto Sordi, o meglio non tanto l'episodio quanto il suo protagonista [...]".
(Lorenzo Quaglietti, "L'Eco del Cinema", n. 84 del 15 settembre 1954).

Giorgio Simonelli (1901 - 1966) è un regista specializzato in pellicole comiche e parodie, attivo sin dagli anni Trenta, spesso impegnato a dirigere Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Macario e negli anni Sessanta la coppia comica Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Simonelli è uno dei registi più prolifici e meno considerati del cinema italiano. Tra i suoi film più divertenti citiamo: Due cuori tra le belve (1943), Non mi muovo! (1943), La paura fa 90 (1951), Io, Amleto (1952), Un dollaro di fifa (1960), I magnifici tre (1961), I due mafiosi (1963), Due mafiosi contro Goldginger (1963).
Accadde al commissariato (1954) è forse il miglior lavoro di Giorgio Simonelli, perché non si limita a girare una serie di episodi comici dotati di buon ritmo, ma cerca di realizzare uno spaccato della società italiana dei primi anni Cinquanta. Molto bravi gli attori. Nino Taranto è un commissario napoletano, preoccupato per il possibile furto della sua 1100 nuova e infastidito dai casi che deve risolvere. Alberto Sordi è un esilarante venditore di bolle di sapone che per attirare i clienti gira per le strade di Roma indossando la gonna. Il personaggio non è una novità, ma viene ripreso dalla rivista E lui dice!. Sordi è il solito italiano medio, truffatore e bugiardo, che si spaccia per nobile decaduto mentre è solo un modesto venditore ambulante. Riccardo Billi e Mario Riva sono due simpatici crumiri che approfittano di uno sciopero per fare un po’ di soldi con un trasporto illegale.  Walter Chiari, Carlo Dapporto, Lucia Bosé e Lauretta Masiero danno vita agli altri episodi che vedono il litigio di una coppia di sposi, una compagnia di rivista abbandonata dall’amministratore e un bambino abbandonato.
Lo schema è simile a Un giorno in pretura (1954) di Steno, solo che invece del giudice Peppino De Filippo abbiamo il commissario Nino Taranto chiamato a giudicare su casi di varia umanità. Il livello è inferiore, ma interpretazioni esilaranti come quella di Sordi, fanno perdonare alcune ingenuità di scrittura.
http://cinetecadicaino.blogspot.com.ar/2011/08/accadde-al-commissariato-1954.html

domingo, 29 de julio de 2012

Casanova farebbe così - Carlo Ludovico Bragaglia (1942)

TITULO ORIGINAL Casanova farebbe così!
AÑO 1942
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 62 min.
DIRECCION Carlo Ludovico Bragaglia
ARGUMENTO Comedia teatral de Peppino De Filippo e Armando Curcio
GUION Carlo Ludovico Bragaglia, Peppino De Filippo
FOTOGRAFIA Rodolfo Lombardi
MONTAJE Gabriele Varriale
MUSICA Giulio Bonnard
ESCENOGRAFIA Alfredo Montori
PRODUCCION Cinès, Juventus Film
REPARTO Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Clelia Matania, Giorgio De Rege, Gildo Bocci, Nietta Zocchi, Giovanni Conforti, Nicola Maldacea, Aristide Garbini, Ciro Berardi, Eduardo Passarelli, Alberto Sordi, Roberto Bianchi, Mario Pucci
GENERO Comedia

SINOPSIS Don Agostino scommette con gli amici che riuscirà a trascorrere una notte con la virtuosa moglie di Don Ferdinando, Maria Grazia. Approfittando dell'assenza di quest'ultimo, riesce a introdursi in casa di Maria Grazia, pregandola di nasconderlo dai carabinieri, ma torna Don Ferdinando e chiede conto della sua intrusione.


Trama
Don Agostino si vanta per il paese di essere un irresistibile don Giovanni e fa una scommessa con gli amici del bar: riuscirà a trascorre una notte intera in casa di Maria Grazia, la bella e onestissima moglie di Don Ferdinando. Con un pretesto allontana dal paese Don Ferdinando e a notte fonda bussa alla porta di casa sua e, per farsi aprire, dice di aver ucciso un uomo e di essere inseguito. Il suo scopo è raggiunto poiché gli amici che erano nascosti lì intorno, lo hanno visto entrare in casa di Don Ferdinando. Però, dopo poco tempo, ritorna improvvisamente Don Ferdinando e Don Agostino, per giustificare la propria presenza in casa sua, conferma di aver chiesto rifugio perché inseguito dai carabinieri e, per comperarsi il silenzio del suo salvatore, gli restituisce le cambiali che da anni Don Ferdinando non poteva pagargli. Alla fine, quando tutto si chiarisce, il malcapitato Casanova, messo alla berlina da tutti, è costretto a lasciare il paese.

Critica
"Un'altra prova cinematografica dei De Filippo andata a vuoto. Ma si direbbe ch'essi lo sappiano già prima d'incominciare. Non mostrano di compiere alcuno sforzo per intendere il diverso linguaggio del cinema e posano buttando giù le loro battute, l'una dietro l'altra, senza neppure quella sapienza che in teatro li fa distinguere dagli altri comici italiani. L'immobilità alla quale si affidano sembra privarli persino dell'estro inventivo: si perde il sottile gioco psicologico dei loro gesti, delle loro pause. E' tutto un ritmo che sfuma e che riuscirà a realizzarsi solo quando i valori espressivi teatrali si saranno fusi pienamente con quelli della macchina da presa, come accadde soltanto quella volta, nel famoso 'Cappello a tre punte' di Camerini."
(Giuseppe De Santis, 'Cinema', 10 gennaio 1943)

Peppino a Marino: Casanova farebbe così! (1942)
"Piazza Matteotti, Corso Vittoria Colonna, Corso Trieste, Piazza San Barnaba, Villa Desideri fanno da cornice ad una divertente commedia degli equivoci interpretata dai fratelli De Filippo"
Tratto dall'omonima pièce teatrale di Peppino De Filippo e Armando Curcio, il film, diretto dal prolifico Carlo Ludovico Bragaglia, è una commedia degli equivoci senza grandi pretese, destinata a divertire il pubblico in tempo di guerra. Tanto è tradizionale ed approssimativa nella messa in scena, quanto è però spiritosa nei dialoghi e soprattutto in alcune caratterizzazioni dei personaggi dove, alla sapiente e collaudata presenza di Peppino ed Eduardo De Filippo, si affianca quella di uno stuolo di bravi caratteristi, tra i quali si segnala un giovanissimo Alberto Sordi nei panni di uno degli amici di Peppino.
La trama: Don Agostino (Peppino De Filippo), spocchioso e vanesio possidente terriero, noto in paese, oltre che per le sue attività di strozzino, per la fama di "irresistibile" casanova, scommette 10.000 lire con gli amici del biliardo di riuscire a passare una notte in casa di Maria Grazia (Clelia Matania), bella e virtuosa moglie dello stalliere Don Ferdinando (Eduardo De Filippo). Ma le conseguenze dello stratagemma che Agostino escogita per allontanare il burbero marito della donna, suo debitore nonché marito gelosissimo, e vincere la scommessa, gli si ritorceranno maldestramente contro: il sedicente dongiavanni sarà costretto non solo ad abbonare i debiti a Don Ferdinando e agli altri compaesani, ma anche a lasciare in tutta fretta la cittadina accompagnato, ironia della sorte, proprio da Rosalia, la più brutta donna del paese.
Nel film la vicenda è ambientata nel napoletano (alla fiera di Napoli, infatti, Don Agostino spedisce don Ferdinando con il pretesto di comprare un cavallo), ma in realtà gli esterni sono stati girati a Marino e nelle campagne dei Castelli Romani. Nelle scene iniziali, in cui Don Agostino si pavoneggia davanti ai suoi compaesani, riconosciamo infatti piazza Matteotti, filmata da diversi punti di vista (si notano, tra l'altro, la vecchia linea tramviaria dei Castelli Romani e una delle torri della Rocca dei Frangipane), Corso Vittoria Colonna, Corso Trieste e Piazza San Barnaba con l'omonima basilica, il campanile e la fontana di Nettuno. Mentre nel finale il malcapitato casanova, allontanandosi mestamente dal paese a bordo del suo calesse, passa davanti a Villa Desideri (attualmente sede anche della biblioteca comunale), inoltrandosi verso la via Capo d'acqua: si scorge l'ingresso del cimitero e sullo sfondo la sagoma di Monte Cavo; da notare invece la vecchia chiesa di San Rocco, distrutta dai bombardamenti del 1944.
L'autore ringrazia Marta Di Flumeri e Paola Ussi
Saverio Salamino
http://www.vivavoceonline.it/articoli.php?id_articolo=1117 

sábado, 28 de julio de 2012

Camilla - Luciano Emmer (1956)

TÍTULO ORIGINAL Camilla
AÑO 1956
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Italiano (Separados) 
DURACIÓN 90 min. 
DIRECTOR Luciano Emmer
GUIÓN Luciano Emmer, Ennio Flaiano, Rodolfo Sonego
MÚSICA Carlo Innocenzi, Roman Vlad
FOTOGRAFÍA Gábor Pogány (B&W)
REPARTO Luciana Angiolillo, Gabriele Ferzetti, Irène Tunc, Gina Busin, Franco Fabrizi, Giovanna Cigoli
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Vides Cinematografica / Cormoran Films
GÉNERO Comedia. Drama 

SINOPSIS Sórdida comedia sobre una criada de mediana edad que sirve a una familia burguesa en crisis. (FILMAFFINITY)




Camilla di Luciano Emmer. Un'anziana domestica veneta a Roma. La famigliuola che ella serve: Mario (un giovane medico), sua moglie Giovanna, i figliuoletti Andrea e Graziella. A Emmer piacciono i semitoni, ma qui egli non li sfiora con le dita di Benedetti-Michelangeli, vi batte martellate alla cieca. Si prendano Graziella e Andrea: che razza di pargoli. Rispondono a tu per tu ai genitori, frignano, schiamazzano; allagano la casa, dimezzano di pagine i libri mediante lo studio dei quali il padre tenta di conseguire non so che titolo professionale: vi faranno insomma desiderare (Dio vi perdoni) una strage degli innocenti, lo sterminio totale dell'infanzia. [...]
Giuseppe Marotta (1956)
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Biografia de Luciano Emmer (Milán, 1918 - Roma, 2009)

Después de abandonar los estudios de derecho, funda con el socio Enrico Grasa Dolomiti Film, pequeña casa de producción con que realiza, entre 1938 y 1957, varios documentales, sobre todo de arte, empezando con “Racconto di un affresco (Cuento de un fresco)” (1938, sobre los frescos de Giotto en la capilla de los Scrovegni), para continuar luego investigando las obras de Bosch ("Il paradiso terrestre – El Paraíso Terrenal”, 1948/1957), Carpaccio ("La leggenda di Sant’Orsola – La leyenda de Santa Úrsula”, 1948), “Piero della Francesca" (1949), “Goya” (1950), y muchos más. Data de 1950 su debut con los largometrajes: escrito por Sergio Amidei, junto con coautores de la capacidad de Cesare Zavattini y de Franco Brusati, “Domingo de agosto” (1950) es un hermoso cuento coral, una comedia costumbrista cariñosa, no libre de anotaciones punzantes, que es considerada con esnobismo por una parte de la crítica como "neorrealismo rosa".  Nada intimidado, Emmer continúa por su camino, trazando las coordinadas de un género que tendrá muchos seguidores: después del afable “París, siempre París” (1951), otra vez fuerte del magisterio de Amidei, lanza el agraciado “Las muchachas de Plaza de España” (1952), nuevamente una historia con varias voces, donde tres costureras están buscando una felicidad de adultas, difícil de agarrar.  Con “Terza liceo – Tercero de secundario” (1954), detrás de la cual se encuentra el genio de Vasco Pratolini, vuelve a ser protagonista el coro, en un cálido retrato de la década de los '50 italianos, donde el cineasta milanés confirma su capacidad en la dirección de actores profesionales y - como se decía en esos tiempos - "encontrados en la calle".  En “Camilla” (1954), nuestro director intenta, pero con menor fortuna, la opción de un cuento unitario; las cosas van mejor con "El bígamo" (1955), también gracias a la prueba convencedora de Mastroianni y a un guión aceitado ideado, entre otros, porAge e Scarpelli; en cambio parece no muy logrado “El momento más hermoso” (1957), otra vez interpretado por Mastroianni, esta vez acompañado por Giovanna Ralli. Deseoso de cambiar de género, Emmer sucesivamente enfrenta con tonos amargos la existencia de los inmigrantes en “La muchacha del escaparate” (1960), donde – ayudado desde el punto de vista lingüístico por el co-guionista Pier Paolo Pasolini – esboza un cortante cuadro del ambiente de la prostitución en Holanda. Es, este último, su resultado más alto, sobre el cual se ha encarnizado durante largo tiempo la censura, atrasando su salida de un año y mutilando la película de escenas enteras (ahora, afortunadamente, está disponible la versión integral). Tal vez descorazonado, Emmer regresa al cinema de documentales, firmando otra película solamente en el año 1991: “Basta! Ci faccio un film - ¡Basta! Hago una película”, presentada en la Muestra de Venecia, lamentablemente no encuentra salida en las salas. No tiene una suerte mejor “L’acqua... il fuoco – El agua… el fuego” (2003), que vuelve a tener su “estreno” en laguna: se trata de tres historias con protagonista femenina (es Sabrina Ferilli), ambientadas en Turín, en París y en Luxemburgo.
http://www.italica.rai.it/scheda.php?monografia=cinema&scheda=emmer_luciano&hl=esp


LUCIANO EMMER Y LA VIEJA OLA

Mi amor por el Cine Italiano viene de años atrás, cuando me di cuenta de la libertad que destilaban esas imágenes, imágenes de la realidad que no encontraba en otras cinematografías...
Eran las vicisitudes de la gente corriente que el cineasta Luciano Emmery otros, plasmaron en sus películas de los años 50 y 60.
Aburrido, Emmer dejó el cine tras rodar "La Ragazza in Vetrina"(1960), porque cuando llegó el bienestar a Italia después de guerras y posguerras cruentas, la gente se volvió mediocre y no valía la pena rodar... Según Emmer, no quería plasmar la vida de esa nueva sociedad que había surgido de las cenizas de la posguerra.
Luciano Emmer empezó como documentalista y esto se nota en sus pocas películas... Debutó como director con "Domenica d'agosto"(1950) y a través de la década dirigió también "Camilla"y la más conocida "Le Ragazze di Piazza di Spagna", con una bellísima Lucía Boséy esa famosa escalera siendo testigo de historias de todo tipo.
Otra causa para el pesimismo de Emmer y razón importante para que dejara el cine fue la censura. El productor de "La Ragazza in Vetrina", asustado por su contenido y su posible no exhibición, recortó varias escenas que se perdieron... La película hablaba de la miserable vida de los inmigrantes italianos y de la prostitución en los Paises Bajos.
Emmer fue un gran observador. Minucioso y tomándole afecto a los personajes. Desde las clases más bajas a la alta sociedad, retrató la vida popular pequeño burguesa de los años 50.
Cuando el cineasta italiano dejó el cine, volvió a lo que más le gustaba: El Documental... y así entró en el mundo de la televisión y de la publicidad. Fueron 40 años de conocer a personas y acumular sus historias en su cabeza... Siempre con la idea de contarlas... y así, Emmer volvió porque quería ponerlas en imágenes.
Hace unos pocos años, el maestro italiano volvió a rodar otra pelicula: "Una lunga lunga lunga notte d'amore"(Años 90), seis historias de amor, encuentros, pasiones y abandonos... Energías renovadas del autor italiano menos conocido de la Edad de Oro del Cine Italiano. Emmer tiene ganas de contarnos historias, una racha creadora basada esencialmente en historias de mujeres... y por nuevos proyectos no será para el veterano cineasta.
Hace unos meses pude ver la versión íntegra de "La Ragazza in Vetrina" y fue emocionante comprobar la maestría en contar historias diarias y convertirlas en algo especial... Los Héroes de cada día... Emmer se apunta a eso de... El bienestar trae mediocridad... La realidad se ha vuelto plana y mediocre, pero los sueños de la gente normal no han desaparecido...
Muchas veces pensamos que el Séptimo Arte son explosiones y fuegos artificiales!!! El Gran Espectáculo!!! Vale... también lo acepto, pero Luciano Emmer me enseñó y me ayudó a comprender que Cinematografía es retratar las alegrías y las tristezas de la gente... esa gente con la que nos cruzamos todos los días por cualquier calle.
Paseando por las calles de Barcelona me siento un personaje de sus películas, tan marcados por el destino... Me llevé una alegría al ver los carteles de la Filmoteca... me traen recuerdos... Y la gente sale de ver una película de Luciano Emmer con el silencio y una sonrisa como compañeros... Me fijo en una foto de una chica; es Marie Trintignanty vuelvo a la realidad... Estoy seguro que detalles así le hubieran encantado al Maestro de la Vieja Ola...
Bajo la calle hasta la pensión y voy pensando en mañana...
Gracias Luciano... La Vieja Ola te quiere.
http://users1.jabry.com/ecosdesociedad/cine/emmer.asp

viernes, 27 de julio de 2012

La strada di Levi - Davide Ferrario (2005)


TITULO ORIGINAL La strada di Levi
AÑO 2006
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 92 min.
DIRECCION Davide Ferrario
GUION Davide Ferrario e Marco Belpoliti
REPARTO Umberto Orsini
FOTOGRAFIA Gherardo Gossi, Massimiliano Trevis
MONTAJE Claudio Cormio
MUSICA Daniele Sepe
PRODUCCION Rossofuoco, Rai Cinema
GENERO Documental

SINOPSIS Nel 1945 Primo Levi, autore di "Se questo è un uomo", veniva liberato dal campo di concentramento di Auschwitz. Dopo dieci mesi, dozzine di deviazioni, molti ritardi e centinaia di chilometri, è tornato a Torino. Durante il viaggio ha attraversato la Polonia, l'Ucraina, la Moldavia, la Romania, l'Ungheria, la Slovacchia, l'Austria, la Germania per arrivare finalmente in Italia. Ha raccontato poi questo viaggio nel libro "La tregua", portato sullo schermo da Francesco Rosi. Sessanta anni dopo, Davide Ferrario e lo scrittore Marco Belpoliti ripercorrono lo stesso itinerario nell'Europa post comunista. Il film ricostruisce l'avventura di Levi mostrando la condizione dell'Europa moderna: i resti dell'impero sovietico, Chernobyl, i raduni neo-nazisti, i villaggi dei poveri migranti. La strada di Levi è un road-movie senza attori ma costruito su un'esigenza di ricerca.

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Dopo la liberazione dal campo di sterminio di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, Primo Levi intraprese un lungo viaggio attraverso l’Europa per tornare a casa, in Italia. Davide Ferrario e Marco Belpoliti ripercorrono quei seimila chilometri che separavano Levi da Torino, confrontando l’Europa descritta nelle sue pagine con quella contemporanea. Una strada lunga dieci mesi, formalizzata ne "La Tregua", uno dei suoi romanzi più celebri sulla Shoah, sulla sopravvivenza e sul ritorno, seguito di "Se questo è un uomo".
Levi percorse l’Europa nell’intervallo compreso tra la fine del Secondo conflitto mondiale e la Guerra Fredda, Ferrario e Belpoliti compiono la stessa strada in un tempo questa volta sospeso tra la caduta del Muro di Berlino e l’undici settembre 2001. Il progetto di Ferrario, pure nobile e commovente, mostra limiti evidenti nella realizzazione confusa che non spiega la relazione e il passaggio di senso tra Ground Zero e l’Europa prostrata dell’Est. Qual è il nesso tra il fondamentalismo islamico e l’acciaieria di Nowa Huta in Polonia, costruita dal regime comunista e visitata in compagnia di Andrzej Wajda? E ancora, tra le guerre preventive di “liberazione” e l’ignobile assassinio del cantante ucraino Igor Bilozir, del gulag di Novograd-Voljinsky in Bielorussia, della centrale esplosa di Chernobyl appena al di là del confine con l’Ucraina, del cammello di Mogylev-Podilskji, degli emigranti diretti in Italia dalla Moldavia, delle aziende italiane in Romania, dei neo-nazisti negazionisti della Germania e di Mario Rigoni Stern sull’altopiano di Asiago? Perché cercare nei luoghi di Levi risposte a questioni moderne e sconosciute alla vecchia Europa? Nell’infinito peregrinare di questo road-movie senza attori e in compagnia della sola voce off, Davide Ferrario si confronta ovviamente con la rappresentazione della Shoah, riaprendo il discorso sul linguaggio cinematografico impiegato per rendere immaginabile l’inimmaginabile, rivelando ancora una volta tutta la difficoltà del cinema a riferire di questo evento e di rappresentarlo nella sua unica oggettività storica e morale.
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=43680
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La Giornata della Memoria, data che intende ricordare le persecuzioni etniche e politiche compiute dai nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale, è stata fissata il 27 gennaio perché quella è la data (27 gennaio 1945) dell'entrata ad Auschwitz dell'Armata Rossa e della liberazione dei prigionieri sopravvissuti.
Anche per Primo Levi, registrato in quel campo di concentramento con il numero 174 517, quello fu il primo giorno di libertà da quando, il 22 febbraio 1944, con altri 650 ebrei, era giunto ad Auschwitz.
Di quei 650, dopo meno di un anno, solo 20 erano i sopravvissuti.
Come tutti sanno il periodo della prigionia e la tragica realtà di Auschwitz sono al centro di Se questo è un uomo, un libro che è oggi uno dei fondamenti della letteratura concentrazionaria europea.
Dalla fine di gennaio all'ottobre successivo Levi percorre il  viaggio di ritorno a Torino, attraversando la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia, la Romania, l’Ungheria, la Slovacchia, l’Austria, la Germania per giungere, finalmente, in Italia. Lungo, travagliato percorso che è al centro de La tregua (che vince il Premio Campiello nel 1963) e che, sessant'anni dopo, Ferrario e Belpoliti ripercorrono, attraversando l'Europa del post-comunismo .
Il film, contenuto nel cofanetto, ricostruisce il percorso di Primo Levi e, attraverso le sue parole, ma con lo sguardo della contemporaneità, osserva le contraddizioni di quell'Europa ancora fresca di un nuovo trauma, il crollo di regimi che per tanti decenni li avevano tenuti in pugno: quelli che vediamo sono le macerie di un impero, quello sovietico.
Ed ecco le parole dei due autori: “Noi, come Primo Levi allora, viviamo oggi al termine di una tregua... Per Levi si trattava della tregua tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda; per noi è quella tra la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre 2001. Nel nostro film non abbiamo trovato la risposta a cosa ci aspetta. Ci siamo solo messi in viaggio, per incontrare persone,  senza preconcetti, per comprendere i paradossi in cui noi europei stiamo vivendo ” 
Da Auschwitz, inevitabile punto di partenza, lo spettatore viene portato, in compagnia di Andrzej Wajda, a visitare l’immensa acciaieria di Nowa Huta vicino a Cracovia, in Polonia: il senso di abbandono è angosciante tra rovine spettrali e chiese di nuova costruzione.
In Ucraina, a L’viv, il film racconta la morte misteriosa di Igor Bilozir, un  artista ucraino assassinato nel 2000 da giovani russofoni a causa delle sue canzoni popolari. Si segue poi il percorso di Levi a est. A Zmerenka, lo scrittore rimase a lungo cercando qualche possibilità di riprendere il viaggio verso casa. Il cammino ha poi un percorso imprevedibile: punta a nord, verso la Bielorussia e, prima di entrare in questo mondo a parte, viene filmato ciò che resta del gulag di Novograd-Voljinsky.
Qui non sembra che il "muro" sia caduto, ecco infatti una fattoria  collettiva, ma il KGB del posto ferma regista e sceneggiatore. Dopo un intervento del Ministero italiano, il clima cambia radicalmente: lo stesso incaricato del KGB accompagna i due in una “visita guidata” del kolkhoz, e la descrizione dell'intero episodio è veramente grottesca.
Levi non era passato da Chernobyl, ma se ne era solo avvicinato. Il carattere fortemente emblematico di quel luogo però induce Ferrario a introdurlo in questa particolare road movie. Qui, nella città fantasma di Prypiat', c'è l'incontro con un sopravvissuto. Il percorso vira poi a sud: ecco Kazatin e il ricordo della storia d'amore di Levi con una ragazza russa. La Moldavia, il Paese più povero d'Europa, tappa successiva del viaggio, significa anche emigrazione: un autobus pieno di migranti diretti in Italia e la loro storia di miseria e di disperazione. Quindi la Romania e le sue odierne contraddizioni tra povertà e imprenditori italiani che hanno delocalizzato la produzione.
Ungheria, Slovacchia, Austria, Germania vengono rapidamente attraversate con rapidi cambiamenti di paesaggi e di stati d'animo (rileggendo La tregua, sarà proprio questa l'emozione che sa suscitare nel lettore). La descrizione di un meeting neo-nazista rapportata alle parole di Levi appare davvero sconvolgente. Infine l'Italia, il punto d'arrivo, il luogo a cui lo scrittore aspirava per trovare pace, ma che non ha mai saputo cancellare una tragedia insopportabile, tanto che nel 1987 è stato un suicidio a porre fine al tormento della memoria.  Ad attendere i due autori del film, un vecchio amico di Primo Levi, lo scrittore Mario Rigoni Stern che sarebbe scomparso nel 2008 e che, nonostante tutto, sapeva aprirsi ancora alla speranza.
http://www.wuz.it/recensione-libro/4106/strada-levi-cofanetto-libro-dvd-giornata-della-memoria.html
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Era da tanto che volevo vedere questo film, per un motivo o per l'altro mi era sempre sfuggito, complice senz'altro la pigrizia mammuthiana. Ebbene, ha confermato e ribaltato le attese. Mi aspettavo un film più sfilacciato e creativo, e quindi per me enormemente più piacevole. Mi aspettavo un piccolo film, che sfruttasse la sua marginalità innata. Ché perso per perso, vale sempre la pena osare. Invece, a queste cose non ci penso mai in principio, è un film compatto, con un'idea fortissima perseguita costantemente, fino alla fine. Senza quasi mai digressioni; o meglio, le digressioni sono inserite nel racconto, un racconto incredibile, assolutamente inverosimile, doloroso perché insensato. Dice che è successo davvero. Questa cosa, in un film così, emerge, si innalza sopra ogni cosa. Forse è la prima volta in cui l'eccesso didascalico non mi sembra di troppo. O almeno, in cui l'eccesso didascalico trova realmente una giustificazione, perfino nella sciattezza della grafica, nelle ripetizioni. L'idea di fare un viaggio del genere, senza alcuna possibilità reale di controllarne la rotta, mi ha realmente commosso. In questo è un film riuscito.

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In questo fotogramma del film si vede parte del percorso, poi si completa, il film lo illustra bene, tornando finalmente a Torino. Levi ci ha messo poco meno di un anno per percorrere tutta questa strada, ma il tempo per fare tutta questa strada è infinito nella coscienza e nella memoria di un uomo. E questa immagine è dolorosissima, straziante. La guerra è finita, finite le persecuzioni, ma non si torna a casa. Si può impazzire.
Questa è la potenza del film, che si conserva, intatta, nonostante il racconto poi parli quasi sempre d'altro. Perché, ed è l'altro tema portante del film, lo specchio del viaggio di Levi è adesso il paesaggio dei paesi ex comunisti. Il film, tutto il film, è talmente chiaro, lineare, piano, da far rinunciare subito a qualsiasi interpretazione macchinosa. La strada di Levi è come si presenta: la riproposizione del viaggio di Levi attraverso parte dell'Europa per tornare a casa. In questa volontà d'ingenuità, in questa scoperta vocazione alla chiarezza c'è del coraggio.
Il limite, i limiti del film non vanno quindi individuati nella linearità del racconto, o nel didascalismo di fondo costante, ma piuttosto nell'interpretazione di alcuni degli avvenimenti raccontati. I paesi dell'ex blocco sovietico forse non meritavano questo trattamento così superficiale. La condanna del passato comunista è comprensibile, ma un minimo di approfondimento in più, nelle immagini, o anche nell'approccio didascalico seguito in tutto il film, avrebbe giovato. Soprattutto alla luce dello scopo del film, che è inequivocabilmente quello di "istruire". E allora perché non insistere su questa linea? Perché rinunciare a spiegare meglio cos'è stato vivere in Ucraina, per esempio, negli anni della costruzione del paesaggio che ci viene mostrato? Senza questo approfondimento, resta una denuncia inattaccabile e stonata, che non riesce ad aggrapparsi alle immagini devastate che vediamo. E, dispiace dirlo, perché il film è bello, ma l'intermezzo comico con la censura bielorussa ci poteva essere risparmiato ampiamente.
La scelta di usare poco materiale di repertorio e in particolare la straniante camminata di Levi in visita ad Auschwitz denota grande sensibilità; quella di far recitare a Orsini alcuni passi de La tregua mostra invece poco orecchio. Quella voce, nel contesto de La strada di Levi, non c'entra nulla, è posticcia come Shakespeare, recitato da Orsini, in un film di Nino D'angelo. E soprattutto si sente male.
In un paio di punti la lacrima scappa anche a me che con i film non piango mai, ma il film non è mai ricattatorio. Per fortuna è lontanissima l'idea de La vita è bella. Qui tutto è limpido e duro, e quello che non si capisce, a parte la voce di Orsini, è solo l'orrore di una storia incredibile, che sembra aliena.
Non so se il film è stato girato già con l'intenzione di mostrarlo nelle scuole, probabilmente questo pensiero non è stato del tutto estraneo. E le scuole sono in effetti il migliore pubblico possibile per La strada di Levi. In una scuola, un film così, regala davvero uno sguardo diverso, la possibilità di abbracciare più decenni di storia in poco tempo, senza il ricatto del film su Auschwitz, ma con una chiarezza esemplare. Dà l'opportunità di scoprire un modo diverso di fare cinema, con umiltà, qualche errore, ma con umiltà; di scoprire meglio due scrittori, ché nel film c'è anche Rigoni Stern, triste e camminatore, che cerca di regalare la montagna a Levi. Mai a scuola ho visto un film così, e le mie letture, i miei pensieri sarebbero stati migliori se l'avessi fatto.
http://mammuthgiallo.blogspot.com.ar/2012/02/la-strada-di-levi-davide-ferrario.html
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Il mondo ci sembra avanzare verso una qualche rovina e ci limitiamo a sperare che l’avanzata sia lenta (da "La tregua", di Primo Levi)
Lo sguardo rivolto al passato si fa sentire più necessario e indispensabile quando il presente non offre le risposte alle sue profonde contraddizioni. Si cerca nel passato la possibile soluzione all’enigma che il tempo contemporaneo ci pone. Nella piena crisi che ha stravolto le categorie dei valori, cancellato anni di contrapposizioni politiche per sostituirle con altre, capovolto l’ordine delle priorità, compresso i concetti elementari dei rapporti solidali tra gli uomini, in questi tempi così confusi perfino da un quasi sconosciuto nuovo assetto geografico che ha ridisegnato i confini fisici dei paesi europei, c’è una forte esigenza di radici convincenti, di concetti primordiali da riaffermare.
Davide Ferrario e Marco Belpoliti l’hanno cercato nel libro La tregua di Primo Levi e da quelle pagine sono partiti per il lungo viaggio che li ha portati da Ground zero di New York fino alla porta di casa dello scrittore torinese, passando per l’est europeo lungo lo stesso itinerario che dopo il 25 gennaio 1945, giorno della sua liberazione da Auschwitz, lo scrittore percorse per tornare a casa.
Il documentario La strada di Levi, parte da questi assunti per snodare o riannodare i temi di una comunicazione interrotta, per ricominciare una narrazione dei fatti durante una nuova tregua, quella del tempo presente, tra la caduta del Muro e la tragedia dell’11 settembre, tra le guerre di difesa preventive e i disastri ecologici che mettono a rischio le nostre esistenze. Ma sempre dentro una tregua che diventa condizione esistenziale di una profonda precarietà che le parole di Levi ci hanno così nitidamente raccontato.
Ferrario e Belpoliti, come precisano, con le parole dello scrittore e i loro occhi, si sono rimessi in viaggio sulla strada che Levi percorse durante gli otto mesi del lungo ritorno. Il ripercorrere gli stessi itinerari significa ritrovare i luoghi, ma anche saggiarne la consistenza attuale. Il panorama è complesso, drammaticamente complicato, laddove la saturazione delle ideologie nella quotidiana vicenda umana, ha lasciato, il posto, dopo il loro annientamento, ad un vuoto che ciascuno ha necessariamente dovuto riempire così come poteva. Da qui la dissoluzione di qualsiasi ipotesi di progresso, da qui la disgregazione senza progetto per un futuro che Ferrario e Belpoliti raccontano attraversando l’Ucraina ricordando la morte incredibile del cantante Bilozir o la contaminazione desertificante di Chernobyl, o la Bielorussia come congelato modello sovietico, la Moldavia, la città polacca di Nowa Huta dove si intrattengono con Andrzej Waida nella dismessa fabbrica che vide protagonista il suo L’uomo di marmo e dove oggi lavorano ottomila operai contro i quarantamila degli anni d’oro.
Poi il ritorno al passato negli occhi di Mario Rigoni Stern che fu amico e confidente di Levi e che dal suo Altopiano di Asiago insegnava ancora al mondo un modo possibile di abitarlo in sintonia con il trascorrere del tempo. A Rigoni Stern è affidata forse la pagina più autenticamente commovente del film nel racconto della vicenda umana dello scrittore torinese, pochi sguardi, ma intensi, poche parole e tra queste quelle del ricordo struggente di una visita natalizia promessa e non mantenuta dall’amico Primo.
Il cinema di Ferrario conferma, ancora una volta, la sua forte volontà di comprendere il presente, di studiarlo nella sua corrente esplicazione. La strada di Levi  quindi riafferma la poetica del regista cremonese e nella sua incalzante narrazione non fa rimpiangere una nuova pellicola che non sia fiction, nella certezza che il racconto del nostro tempo passa anche e soprattutto attraverso un occhio che vada a ricercare l’origine delle mutazione dei tempi.
Primo Levi fu trovato morto l’11 aprile del 1987 nella tromba delle scale della propria abitazione. 
La collana torinese Chiarelettere ha pubblicato il documentario in dvd con in allegato un libro curato dallo stesso Belpoliti in collaborazione con Andrea Cortellessa. Un testo ricco, affascinante, estremamente stratificato e perfettamente speculare al film. Da una tregua all'altra, Aschwitz-Torino sessant'anni dopo è il titolo di un lavoro che da subito manifesta la sua intenzione di viaggio nella memoria critica e storica. Un testo diviso in tre parti principali (Primo Levi, Mario Rigoni Stern e La strada di Levi), ognuna della quali è a sua volta caratterizzata da capitoli, testimonianze e saggi firmati non soltanto dai due autori ma anche da Lucia Sgreglia, Mario Rigoni Stern, Massimo Raffaeli e lo stesso regista Davide Ferrario. Un libro che - come è scritto nella premessa - "è un nodo di nodi" che intende attraversare geografie territoriali e storiche insieme, lungo confessioni, analisi, articoli e... grande letteratura.
http://www.sentieriselvaggi.it/260/36705/(doc)_La_strada_di_Levi,_di_Davide_Ferrario_e_Marco_Belpoliti_(DVD_+_Libro).htm


Intervista a Davide Ferrario sul film La Strada di Levi

Il regista Davide Ferrario parla del suo documentario road-movie "La Strada di Levi", girato nei nostri tempi sul cammino percorso da Primo Levi alla fine della seconda guerra mondiale per tornare in Italia.

Come ha avuto l’idea di "La Strada di Levi?
Davide Ferrario: A dire il vero, è stato Marco Belpoliti a propormela. Ci conoscevamo da qualche tempo e Marco aveva apprezzato i miei documentari “on the road”. I miei documentari si aprono al non previsto, agli incontri, agli avvenimenti inattesi. Belpoliti pensava che potessi essere il regista adatto per qualcosa che aveva in mente fin da quando aveva iniziato il lavoro di curatore delle opere di Primo Levi per Einaudi: un viaggio lungo il percorso compiuto da Levi com’è raccontato ne "La Tregua".

E qual è stata la sua reazione alla proposta?
Davide Ferrario: Ne fui emozionato, e al contempo intimidito. È difficile prendere uno scrittore come Levi alla leggera. Sebbene, in un certo senso, Levi riesca a essere leggero anche nelle scene più spaventose. In ogni caso, si trattava di una grande sfida. Ciò che mi ha convinto è stata la considerazione che anche noi, oggi, ci troviamo in un periodo di tregua, come Levi quando scrisse il romanzo. Come lui allora, noi possiamo guardare a quanto è accaduto in Europa dalla caduta del comunismo e osservare come persone e culture stiano entrando in un nuovo secolo di incertezza. Ho compreso che il film avrebbe potuto essere su Levi e allo stesso tempo su di noi - ed è stato questo fatto a convincermi davvero. Nei titoli di testa è molto chiaro che lei ha prodotto e diretto il film, che però è presentato come “un film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti”...
Sì, da un punto di vista strettamente professionale l’intervento di Marco non è quello di un coregista o di un co-realizzatore “tecnico”... Ma, a parte suggerire l’idea ed essere l’esperto di Levi, Marco è stato un complice intellettuale, un compagno di viaggio, un’ispirazione culturale. Si può dire che, cinemato-graficamente parlando, il film è mio. Ma intellettualmente è di tutti e due. Questo spiega l’apparente contraddizione.

È molto interessante vedere come le parole di Primo Levi si integrino quasi alla perfezione con le immagini. C’era una sceneggiatura alla base delle riprese ed è poi andato alla ricerca di immagini adatte? O, semplicemente, dopo le riprese, si sono rintracciate le parti del romanzo più adatte ?
Davide Ferrario: Questo è un argomento particolarmente interessante. Io stesso non saprei dire cos’è venuto prima. Dopo aver trovato le locations, Marco ed io abbiamo concepito un’idea generale della struttura del film: avere un “tema” specifico per ogni paese attraversato, ad esempio. Ma in realtà, quando abbiamo girato, le cose sono accadute al di là di una rigida pianificazione. Avevo sempre con me il libro di Levi e le due esperienze, vedere e leggere, sono state quasi sempre simultanee e dialettiche. E io credo al destino. Un esempio: c’erano due temi che volevo affrontare in Bielorussia: la bellezza della natura, che fece riconciliare Levi con l’universo dopo l’esperienza di Auschwitz; e il controllo politico del regime sulla vita delle persone, oggi. Il modo più semplice e banale avrebbe potuto essere quello di filmare un paesaggio meraviglioso e poi intervistare un dissidente che ci raccontasse come le cose, sotto Lukacenko, vadano male. Ma quando siamo stati portati via dal KGB del posto, mentre ci trovavamo in un villaggio visitato da Levi, mi resi subito conto che quello sarebbe stato il modo di raccontare la storia, girando cioè quello che stava accadendo alla troupe, in vero stile cinéma-verité. Niente avrebbe potuto illustrare meglio la situazione. Allo stesso tempo, dopo aver passato qualche giorno con gli abitanti del villaggio, inclusi i rappresentanti del KGB, tutti noi concordavamo assolutamente con quanto aveva scritto Levi su di loro. Anche noi eravamo commossi dalla loro bontà d’animo, il che rendeva surreale la loro condizione. E questo è qualcosa che non avrei mai potuto pianificare. La maggior parte delle cose, nel film, sono accadute in questo modo, semplicemente stando sempre pronti ad afferrare la chance di una storia o di un incontro. E poi, per armonizzare tutto, è stata come sempre essenziale la collaborazione con Claudio Cormio, un montatore senza il quale mi è ormai difficile immaginare di lavorare.

Dopo questo film, qual è la sua idea di Europa?
Davide Ferrario: Molto contraddittoria. Dove il capitalismo (e a volte la democrazia) sta mettendo radici, tutto ciò che ha a che fare col passato viene spazzato via. La globalizzazione rende tutto identico, ovunque. Le persone possono essere più libere, ma perdono la loro identità. Possono essere libere di spostarsi, ma dove vanno se non appartengono più a nessun posto? In Europa, dove ogni paese, persona, città ha una storia individuale molto precisa, questo fatto è drammatico. È stato particolarmente interessante osservare le reazioni dei nostri interpreti e delle nostre guide. Ci volevano mostrare cosa c’era di nuovo; e rimanevano sconcertati quando si rendevano conto che noi eravamo interessati all’esatto contrario. Andavamo in cerca di quelle radici che si stanno velocemente dimenticando. È questa dialettica che darà forma alla nuova Europa.

Il suo film si avvale di un impegno produttivo maggiore di quanto accada, di solito, per un documentario, specialmente in Italia.
Davide Ferrario: Mi sono detto, in quanto regista/produttore, che avevamo in mano un grande progetto e che di conseguenza era necessario pensare in grande. Non solo per la presenza di Levi, ma anche perché le locations erano veramente meravigliose. Allo stesso tempo non avevamo abbastanza denaro per girare tutto in pellicola. Così abbiamo combinato alle riprese in pellicola quelle in digitale, cercando di tradurre ciò in forma artistica. C’è un livello di immagini più “meditate”, generalmente quelle in pellicola; e poi molte cose catturate nel momento in cui accadevano, generalmente su nastro. Alla fine, il formato anamorfico dà a tutto uniformità. Il rapporto con i due direttori di fotografia, Gherardo Gossi (che si è anche occupato delle elaborazioni digitali) e Massimiliano Trevis è stato fondamentale. Spero davvero che questo film possa segnare la rinascita della produzione documentaristica italiana. Abbiamo una grande tradizione che negli ultimi anni è stata tristemente e colpevolmente trascurata da chi ha retto le sorti del cinema italiano. Eppure in Italia ci sono dei documentaristi molto bravi. Bisognerebbe dar loro la possibilità di esprimersi e, soprattutto, di essere visti dal pubblico.

Anche la musica svolge un ruolo importante...
Davide Ferrario: Sì, come sempre nei miei film. Ho utilizzato due tipi di musica: una colonna sonora originale di Daniele Sepe, che era stato il co-autore anche di quella di Dopo mezzanotte, e musica locale. Daniele ha lavorato principalmente su due temi, uno per pianoforte e un altro che deriva da una vecchia canzone anarchica. Per quanto riguarda la musica locale avevo abbastanza orrore dell’idea di usare musica folk o “etnica” per illustrare un certo territorio. Così ho cercato qualcosa che fosse un po’ un cortocircuito musicale. Per esempio, a Leopoli ho scoperto i fratelli Karamazov, un gruppo che fa del blues-rock eccellente cantato in russo. Oppure ancora Felix Lajko, un violinista ungherese che fa della fusion virtuosistica. Ma non l’ho usato per l’Ungheria, bensì per l’entrata in Ucraina. Insomma, la musica ha un senso preciso rispetto al viaggio, ma cerca di non essere mai didascalica.

Si considera più un regista di film di finzione o di documentari?
Davide Ferrario: Di entrambi. Ma devo confessare di preferire i documentari. A mio parere, riflettono la vera natura del cinema: ai tempi dei Lumière, tutto è cominciato con alcune riprese di operai e di un treno in arrivo. Era documentario, ma anche fiction, era percepito dal pubblico in quel modo, ad esempio, come una storia. Questa è esattamente la dimensione che mi piace: creare una sorta di finzione partendo da un materiale documentario, e usare una tecnica documentaristica quando giro un film di finzione. Film e documentario non sono così separati. Il documentario è più onesto, tutto qui.
http://www.cinemaitaliano.info/news/00039/intervista-a-davide-ferrario-sul-film-la.html

jueves, 26 de julio de 2012

Escoriandoli - Antonio Rezza, Flavia Mastrella (1996)

TITULO ORIGINAL Escoriandoli
AÑO 1996
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 95 min.
DIRECCION Antonio Rezza, Flavia Mastrella
GUION Flavia Mastrella, Antonio Rezza
FOTOGRAFIA Roberto Meddi
MONTAJE Jacopo Quadri
MUSICA Francesco Magnelli, Gianni Maroccolo
PRODUCCION Galliano Juso para Digital Film
REPARTO Valentina Cervi, Isabella Ferrari, Claudia Gerini, Valeria Golino, Antonio Rezza, Bianca Pucciarelli, Fiore Leveque, Carla Cassola, Federico Carra, Domenico Vitucci
GENERO Comedia / Fantasía

SINOPSIS 5 episodi sull’alienazione metropolitana e sulle psicosi dell’uomo moderno ligio alle regole della conformità.


Trama 
Al capezzale del fratello morto, Giuliano si invaghisce della vedova e si unisce a lei. Rolando, uno dei becchini, si innamora di Ida, sposata con il pigro Fiore. Sabrina viene rinchiusa nella comunità "Contro", dove la dottoressa Coatta usa le torture come cura. Ma la giovane muore. Il suo corpo, chiuso in un sacco, viene depositato sulla linea di partenza della corsa dei sacchi, per farle vincere qualcosa.

Crítica 
"Scritto e diretto a quattro mani da Antonio Rezza con Flavia Mastrella, sua collaboratrice abituale, 'Escoriandoli' è un esordio poco convincente. Sulla scena dall'88, pare che a teatro Rezza sia molto divertente con una vena ipergrottesca e straniata che sullo schermo è facile intuire; ed è chiaro che, mentre come attore si moltiplica nei cinque surreali protagonisti dei relativi episodi che compongono il film, come regista intende disegnare un ironico mosaico di alienazione contemporanea. Ma la padronanza del mezzo cinematografico è troppo immatura perché la comicità risulti efficace".
(Alessandra Levatesi, 'La Stampa', 23 giugno 1997).
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Allucinazioni diverse
Antonio Rezza e Flavia Mastrella, dopo le performance a teatro e le sperimentazioni in forma di cortometraggio, giungono con Escoriandoli al loro primo lungometraggio. Cinque episodi sull’alienazione metropolitana, sulle psicosi dell’uomo moderno ligio alle regole della conformità, sull’insensatezza, l’apatia e l’arroganza del mondo che ci circonda.
Da un funerale grottesco in onore di un cadavere afrodisiaco, si passa alla storia di un becchino punk che, dopo aver trovato una compagna, inizia ad invecchiare. Si prosegue con una dispotica “Comunità Contro” la cui missione è rielaborare psicologie giovanili e con la disavventura di un poeta preso dai sensi di colpa per aver calpestato un piede sull’autobus. In chiusura, un militante politico assuefatto alla massa e dipendente dalle manifestazioni di piazza, dovrà fare i conti con il suo corpo anarchico.
Se si cerca il rispetto delle tradizioni e delle regole o anche una sperimentazione calibrata e pulitina, è meglio guardare altrove. La presenza ‘‘ingombrate’ di Rezza, fin dalle prime battute, con la sua recitazione anti-filmica, interferisce fortemente con il comune senso del cinema e porta in territori ‘‘altri’ dominati dallo scompiglio. Escoriandoli è, infatti, un’opera allucinata che spesso non si cura della grammatica spingendo il pubblico - impegnato a raccordare le varie scene e a integrare lo strabordante Rezza - ad una partecipazione attiva ma, non per questo, meno divertente. Tutto ciò è perfettamente in linea con la critica al conformismo e all’indolenza espressa nel film. Può irritare profondamente gli amanti del classico, ma risveglia i sensi. (Daniele 'Danno' Silipo)
http://www.bizzarrocinema.it/component/option,com_jmovies/task,detail/id,29/

Incompresi. Comici allo sbaraglio: ESCORIANDOLI
Nel caso in esame, “comico” è un nominativo che va chiarito, visto che ci occupiamo di un personaggio multiforme, non semplicemente un goliarda di provenienza televisiva ma autore-attore di palcoscenico, scrittore, personaggio tv ed anche regista. Antonio Rezza nel 1996 debutta nel lungometraggio con questo lavoro dal titolo già singolare, prodotto da un nome come Galliano Juso: nel suo curriculum, alcuni film con Tomas Milian-commissario Monnezza, W la foca! ma anche, in tempi più vicini, Lo zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco.
Il film si compone di cinque episodi, collegati da personaggi-ponte. Curiosamente, Rezza ha scelto di farsi affiancare, in quattro delle cinque tranche, da una diversa attrice nostrana -sempre di aspetto gradevole-, salvo che nell’ultimo dove è “da solo”. Proviamo a riassumere il surreale contenuto degli episodi: nel primo, assistiamo alla veglia funebre di un tizio (“Ha ragionato sei ore consecutive” pare essere la causa), “capitanata” dal fratello e dalla vedova (Isabella Ferrari). Quando dalle labbra del morto prendono a fuoriuscire parole e concetti (“operaio”, “estasi del pecoreccio”), tra i due si scatena la passione. Rezza interpreta anche brevemente un becchino, vestito in modo “giovane”, che diventa protagonista del secondo episodio, in cui egli, aggirandosi per negozi appena aperti -che gli esercenti, dopo aver adulato i clienti con la parola d’ordine “cortesia”, fanno esplodere-, si imbatte in una donna (Valeria Golino) che vive con un marito pigrissimo. “Sei bello da far paura”: tra i due scoppia la passione, ma è in agguato un ribaltamento dei ruoli giovane attivo-vecchio inattivo. Nel terzo episodio, dal significato più esplicito, una ragazza mogia che non pare avere stimoli (Valentina Cervi) viene portata dai preoccupati familiari in una sorta di clinica in cui, con metodi bruschi, si cerca di far tornare alla normalità, alla “funzionalità” persone come lei. Ma ci sarà poco da fare: “Questa stronza è proprio una persona!”, esclama il capo -Rezza con una veste nera "femminile"-. Nel quarto episodio, forse il più accessibile, Rezza, affiancato da Claudia Gerini, impersona un tizio che rimane scioccato dall’aver pestato un piede sul bus ad un ciccione. “L’ho fatta proprio grossa”: lo ossessionerà nel tentativo di ricevere il suo perdono, facendo così incazzare sempre di più il malcapitato. L’ultimo episodio ha per protagonista un giornalista presenzialista che, all’improvviso, non riesce fisicamente più ad andare nei luoghi dove c’è la massa, a causa di un divario di intenzioni tra cervello e piedi.
Fermo restando che la risata è qualcosa di soggettivo -a chi non capita di rimanere di marmo di fronte a cose che gli altri trovano divertenti?-, se si supera l’impatto iniziale e ci si sintonizza nell’atmosfera del film, c’è di che divertirsi, in un modo originale.
A patto che si accettino le regole: la via di Rezza è quella dello straniamento, di un antinaturalismo netto. La recitazione sua e quella altrui non vanno nella direzione dell’immedesimazione coi personaggi, né questa è richiesta a chi guarda. Rezza piega il suo viso in una smorfia ed utilizza la voce, “stringendola”, nel suo peculiare modo, con piccole differenze tra un personaggio e l’altro. Sono previsti sguardi in camera e gli scambi di battute sono nonsense, volutamente declamatori e letterari. Non siamo all’interno di una narrazione classica, anche se la linearità è rispettata. Le ambientazioni sono spoglie negli interni e pure gli esterni si presentano isolati, con architetture industriali e presenze umane in scena ridotte a quelle che servono. Il che accentua una sensazione di desolazione ma anche la creazione di un universo filmico a sé. Degno di nota per esempio, nel quarto episodio, il bus che si finge essere in movimento, ma è fermo. Volendo cercare temi e motivi sparsi, a parte la seduzione, messa in scena come un burattinesco contorcimento (in 1°, 3° e 5° episodio), c’è il rapporto tra l’individuo ed una società dell’immagine, che richiede certe cose. Nell’episodio con la Cervi, lei deve essere forzatamente portata a provare interesse per quanto la circonda, a costo di diventare una persona che non contesta più, come il ragazzo “guarito”; al contrario l’anchorman vuole stare dove c’è la gente, ma soffre perché non riesce più. I finali dei singoli episodi non sono mai concilianti, i personaggi fanno spesso una brutta fine, che può essere la morte.
Una comicità che non è quella consueta cabarettistica di Zelig o simili, una strada poco praticata se non inedita per un cinema italiano umoristico. Non ci sono dialetti né ruffianerie, c’è invece una certa sgradevolezza; infatti, il pubblico non ha calcolato il film, che non ha avuto certo una distribuzione ottimale dopo la presentazione a Venezia, ma anche l’avesse avuta… Compatto stilisticamente e con battute folgoranti, Escoriandoli è un film geniale, da cui si esce con la rinfrancante sensazione di aver visto qualcosa di positivamente “alieno”-, ma purtroppo Rezza tenterà solo un’altra volta la via del lungometraggio, con Delitto sul Po, pellicola sperimentale ed anche più “sfigata” quanto ad accoglienza. Franca Scagnetti, nota per Suspiria, compare tra gli afflitti del primo episodio. Buone le musiche.                                       
Alessio Vacchi
http://ultimospettacolocine.blogspot.com.ar/2008/05/incompresi-comici-allo-sbaraglio.html
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Escoriandoli, cioè i coriandoli dell'Es, ovvero le escoriazioni della mente; Escoriandoli, come escoriazioni sulla superficie dell'uomo per portare alla luce, ironicamente, le angosce dell'individuo di fronte alla morte, all'amore, alla società.
Primo lungometraggio dei due anarchici dell'espressività per eccellenza: Antonio Rezza e Flavia Mastrella.
Partorito nel 1996, presentato e fischiato alla 53ª Mostra del Cinema di Venezia, Escoriandoli vede la luce solo l'anno successivo, diventando comunque presto un piccolo gioiello di culto.
Il film, prodotto da Galliano Juso (Lo zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco), ha uno stile che esce totalmente fuori dagli schemi della cinematografia comica italiana, anche perché non è proprio di comicità che si dovrebbe parlare riguardo questo film; la definizione esatta data dai due autori è "comico-aggressivo-riflessivo". È una pellicola fondamentalmente pessimista, che tenta di lasciare addosso una forte inquietudine e che, più che far ridere, vuol far riflettere puntando sull'ironia nera imperniata su una fantasia senza freni.
Escoriandoli tenta di rivoluzionare le coordinate "psico-temporali": il film è costituito da cinque episodi senza cornice, che si trascinano l'un l'altro attraverso elementi interni. Cinque brevi storie quasi surreali, che raccontano manie quotidiane, piccole nevrosi, e grandi ossessioni ambientali di individui collocati "in un paesaggio urbano a misura di poveraccio", come asserisce Giacane, uno dei personaggi della strana galleria proposta dai due registi.
Appaiono così a ruota sullo schermo: Isabella Ferrari, Valeria Golino, Valentina Cervi, Claudia Gerini e Antonio Rezza, unico e mutevole protagonista maschile, che oltre a riservarsi un posto d'onore nell'epilogo del film - in cui è il solo dominatore della scena - gioca con le quattro figure femminili, uscendone ora vincitore, ora divorato e usato, come trait d'union tra i vari episodi.
Seguire lo sviluppo narrativo del film non è facile, i personaggi che si susseguono sullo schermo si muovono in spazi vuoti, in luoghi desolati e sembrano essere il microcosmo di un'azione che si svolge in un'altra dimensione, totalmente aliena e alienata. Come lo stesso viso e il corpo di Antonio Rezza, che sembrano quelli di un marziano capitato in una realtà che non gli appartiene, in una sorta di non-luogo privo di senso. Proprio questo senso, che manca e che non viene assolutamente cercato, è la cifra stilistica dominante nel film. I personaggi dei vari episodi agiscono senza alcuna motivazione interiore, in un susseguirsi di azioni e dialoghi totalmente assurdi.
Le ambientazioni in periferie urbane, i luoghi asettici dominati da enormi "palazzoni" privi di vita sono la proiezione di un sentimento di enorme desolazione. Sono luoghi morti. Lo spazio schiaccia i protagonisti e riesce ad annullare le loro personalità. Gli oggetti assumono un'importanza fondamentale, scavalcano il primato dell'attore sulla scena, fino a sottometterlo, a sopraffarlo.
Particolarissimo il gusto della composizione figurativa: inquadrature dal basso, attenzione per linee di fuga, angoli visivi insoliti, montaggio serrato e spesso incurante di una grammatica filmica corretta, fotografia fredda e cristallina, scenografie deliranti.
Sovvertire è la parola d'ordine di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: scavalcare qualunque canone espressivo, per esprimere emozioni e immagini della nostra realtà, filtrata però dalla visione distorta e allucinata dei due autori. Tutte le regole, allora, vengono abbattute: abolito il campo e controcampo, le inquadrature canoniche, ridotto al minimo l'uso del primo piano, i piani sequenza diventano rarissimi. Avviene nel loro cinema una vera e propria rivoluzione delle leggi che regolano il linguaggio visivo.
Un film frenetico, dove i ritmi delle immagini, grazie al montaggio di Jacopo Quadri, si trasformano in convulsi bombardamenti proprio come quelli che si ritrovano nella vita di tutti i giorni. I dialoghi e i silenzi sono pieni di "rumoristica" vera. Così la musica (curata da Maroccolo e Magnelli, C.S.I.) appare e scompare velocemente proprio per permettere alla storia di mantenere il suo ritmo e per accentuare maggiormente l'atmosfera surreale che vi si respira. Alla fine, più che una colonna sonora, a sorreggere Escoriandoli c'è una sorta di opera musicale di sapore minimale, a tratti psichedelica, ispirata ai vari personaggi del film e alla capacità di Antonio Rezza di renderli vivi.
Barbara Faonio
http://www.effettonotteonline.com/news/index.php?option=com_content&task=view&id=975&Itemid=25

miércoles, 25 de julio de 2012

Colpi di timone - Gennaro Righelli (1942)


TITULO ORIGINAL Colpi di timone
AÑO 1942
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 95 min.
DIRECCION Gennaro Righelli
ARGUMENTO Comedia omonima de Enzo La Rosa
GUION Gennaro Righelli, Ettore Maria Margadonna, Enzo La Rosa, Alessandro De Stefani
REPARTO Gilberto Govi, Elio Steiner, Dina Sassoli, Amelia Chellini, Marisa Vernati, Alberto Capozzi, Cesare Bettarini, Elena Altieri, Amelia Fancelli, Giuseppe Porelli, Nino Marchesini, Augusto Marcacci, Armando Migliari, Giuliana Pitti, Nino Eller, Aristide Baghetti, Vasco Creti, Stefano Sibaldi, Aristide Garbini, Mario Brizzolari
FOTOGRAFIA Mario Albertelli
MONTAJE Duilio A. Lucarelli
MUSICA Felice Montagnini
PRODUCCION LUX FILM
GENERO Comedia

SINOPSIS Un male incurabile induce un vecchio, taciturno marinaio a prendersi il lusso di dire a tutti quel che pensa di ciascuno. Ma la diagnosi era sbagliata: scambio di lastre. Da una commedia (1935) di Enzo La Rosa il 1° dei 3 film di G. Govi (1885-1966), popolare comico genovese, la cui mimica vivace e stridula si addice alla cinepresa. Teatro messo in scatola con garbo e perizia, conservando la simpatia, l'ottimismo, la gaiezza del copione e del suo interprete.(Il Morandini)


L'esordio cinematografico di Gilberto Govi non poteva non avvenire sotto l'egida di quel teatrino vernacolo che all'attore dette una fama sempre più vasta, procacciandogli sempre più vivaci simpatie. Si è infatti presa una commediola di quel repertorio, Colpi di timone del La Rosa, la si è rimpolpata e sfasata fino ad averne una sceneggiatura che equamente si bilancia fra meriti di piacevolezza e demeriti di scarso rilievo. Ma il vero interesse del film è nell'attore. Si sa con quanto scrupolo e con quante cautele il Govi si sia deciso a questo primo suo passo cinematografico: che poteva ispirare diffidenze e timori sopra tutto per l'accesa teatralità della sua recitazione e delle sue truccature. »
Mario Gromo (La Stampa)

Trama 
Un vecchio lupo di mare al quale un medico ha dichiarato che una malattia crudele ed inguaribile sta per portarlo all'altro mondo, si aggrappa con fervore ad ogni ora della sua giornata e ne approfitta per fare i conti con tutti, dire la verità in faccia a chicchessia e smascherare ogni cosa losca di cui è a conoscenza. Arriva perfino ad accettare una sfida a un duello, ma proprio quando si appresta a morire, il medico lo informa di essere incorso in un equivoco e di avere scambiate le lastre radiografiche. Un suo amico riesce a mandare a monte il duello e il buon lupo di mare torna alla vita felice e libero da pregiudizi e reticenze.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=26543&film=Colpi-di-timone

martes, 24 de julio de 2012

La cena delle beffe - Alessandro Blasetti (1941)

TITULO ORIGINAL La cena delle beffe
AÑO 1941
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 86 min.
DIRECCION Alessandro Blasetti
GUION Alessandro Blasetti, Sem Benelli, Renato Castellani (Drama: Sem Benelli)
REPARTO Antonio Acqua, Margherita Bagni, Silvio Bagolini, Ernesto Bianchi, Memo Benassi, Gildo
Bocci, Lilla Brignone, Alberto Capozzi, Clara Calamai, Anna Carena, Piero Carnabuci, Elisa Cegani,
Valentina Cortese, Luisa Ferida, Lauro Gazzolo, Adele Garavaglia, Carlo Minello, Amedeo Nazzari,
Milla Papa, Umberto Sacripante
FOTOGRAFIA Mario Craveri
MONTAJE Mario Serandrei
MUSICA Giuseppe Becce
AYUDANTE DE DIRECCION Lionelli De Felice, C. Benelli
VESTUARIO Gino C. Sensani
PRODUCCION Giuseppe Amato, Cines - Enic
GENERO Drama

SINOPSIS Nella Firenze medicea Neri Chiaromontesi si prende gioco ripetutamente e con ferocia di
Giannetto Malespini il quale decide di vendicarsi. Versione scattante, veloce, rispettosa del famoso
dramma (1909) di Sem Benelli. Oh, il niveo seno nudo e il corpo velato di C. Calamai che fecero
fremere mezza Italia e indussero il Centro Cattolico a bollarlo come intreccio di libidine,
brutalità e libertinaggio! C'è da ammirare anche l'insinuante, volpino Giannetto di O. Valenti. (Il
Morandini)


«Tratto dalla celebre tragedia di Benelli e passato alla storia per aver offerto i primi fotogrammi
di nudo nel cinema sonoro italiano, il film narra l'inimicizia e la rivalità tra due giovani
fiorentini, Neri Chiaromontesi e Giannetto Malespini, ai tempi di Lorenzo il Magnifico. Al centro
della discordia sono i favori di Ginevra, la bella cortigiana che entrambi si contendono
offendendosi con efferate ribalderie. Dopo un ennesimo scherzo di Neri, atroce e deridente,
Giannetto gli tende una trappola e lo coinvolge in una rissa di taverna dove riesce ad ingannarlo,
facendolo arrestare con l'accusa di essere invasato dalla demenza. Con il rivale lontano dalle scene
Giannetto si reca a casa di Ginevra per corteggiarla, certo di non poter essere disturbato da
nessuno. Nel frattempo Neri, incatenato in un cupo sotterraneo, oltraggiato dai carcerieri e dalla
folla, gonfia disperatamente la sua rabbia fino a quando una giovane di nome Lisabetta, scossa dalla
pietà e sopraffatta dal suo amore per lui, sceglie di liberarlo. Neri medita la sua vendetta e, dopo
la fuga, decide di attendere la notte per sorprendere il nemico nelle stanze della donna amata, dove
immagina sia. Giannetto invece, venuto a sapere dell'evasione...».
Conosciuto anche con il titolo: La farce tragique.
http://www.cinemedioevo.net/Film/cine_cena_beffe.htm

Il primo seno del cinema italiano fu quello di Clara Calamai, attrice popolarissima tra la fine
degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’50, che fece enorme scalpore quando comparve in topless nella
trasposizione cinematografica del dramma di Sam Benelli la Cena delle beffe, diretta da Alessandro
Blasetti nel 1941.
Altri ruoli che la legano indissolubilmente alla storia del cinema sono senza dubbio quelli da lei
sostenuti in Ossessione (1942) di Luchino Visconti, dove sostituì all’ultimo minuto Anna Magnani, in
l’Adultera di Duilio Coletti (1946), quando vinse un Nastro d’argento ed infine in Profondo rosso
(1975) diretto da Dario Argento.
Insuperabile nei panni di donna fatale, complice un erotismo ed una sensualità che bucavano
letteralmente lo schermo, seppe interpretare con disinvoltura amanti, adultere e nobildonne di
facili costumi, ma bastarono pochi fotogrammi a farla entrare prepotentemente nella storia e nella
leggenda del cinema italiano: il primo seno nudo che sciocca gli spettatori ed alimenta dicerie,
maldicenze e proteste, che cessarono solo per un diretto intervento del duce, indiscusso esperto di
fascino femminile.
Clara Calamai divenne l’oggetto del desiderio e fece sognare a lungo gli italiani divenendo un
prepotente simbolo dell’erotismo. Per girare la scena incriminata il regista Blasetti sistemò in
alto le cineprese e fece sgomberare tutti i membri della troupe. Amedeo Nazzari entrò all’improvviso
sulla scena e strappò la camicetta all’attrice distesa sul letto, permettendo al suo seno, alquanto
modesto per la verità, di diventare un’icona del sesso ed il simbolo stesso della trasgressione. Tra
le polemiche suscitate dall’episodio la più accesa fu quella sollevata da Doris Duranti, la celebre
diva dei telefoni bianchi, ben più soda e dotata della Calamai, la quale apparve l’anno successivo
anche lei a torace scoperto su una pellicola, ma tenne a sottolineare “che il suo fu il primo seno
ripreso dal davanti ed appariva eretto, come di natura, orgoglioso e senza trucchi, mentre la rivale
si era fatta riprendere sdraiata, che non è una differenza da poco”.
Ad incrementare la querelle abbiamo reperito la notizia, senza poterla controllare, perchè la
pellicola è andata perduta, di un altro seno scoperto prima di quello esibito dalla Calamai,
sarebbero le poppe di proprietà di Vittoria Carpi, che pare le abbia esibite nella Corona di ferro,
---
LA DISFIDA DELLE TETTE
Siamo nel 1941. Il regime fascista sarebbe caduto da lì a poco quando nelle sale cinematografiche
esce il film La Cena delle Beffe, diretto da Alessandro Blasetti.
Vi recita l’attrice Clara Calamai, che in una scena appare a seno nudo. In un’altra celebre sequenza
Clara Calamai recita indossando maliziose trasparenze, che oggi fanno sorridere, ma 70 anni fa…
A titolo di curiosità, posso ricordare che Clara Calamai, dopo una lunghissima assenza dalle scene,
è tornata a recitare (e con un ruolo importante!) nel film Profondo Rosso di Dario Argento.
Eh sì, il tempo passa per tutti…
Tornando al seno nudo in La Cena delle Beffe, possiamo immaginare lo scandalo, le discussioni, le
polemiche, la condanna del Vaticano e via discorrendo (la storia si ripete nel tempo: Ultimo Tango a
Parigi… eccetera). Le tette della Calamai si vedono entrambe, in piena luce, mentre l’attrice è
sdraiata sulla schiena. Forse proprio in virtù della sua evidenza, questa è considerata da molti la
prima scena a seno nudo del cinema italiano. Ma non è vero.
Circa un anno prima, diretto sempre da Alessandro Blasetti, era uscito nelle sale un altro film, La
corona di ferro. In questo film l’attrice Vittoria Carpi, in modo molto più discreto, quasi un
vedo-non-vedo, fa spuntare un capezzolo da sotto un vestito, mentre è legata. Detto tra noi, questa
scena ha un contenuto molto più erotico dell’altra: richiama infatti le tematiche bondage (od anche
sadomaso). Di Vittoria Carpi non sono riuscito a reperire ulteriori notizie.
Come mai la censura dell’epoca non si attivò? In un paese come l’Italia dove la censura
cinematografica preventiva è stata sempre protagonista di gravi episodi a danno di autentici
capolavori, ed è stata definitivamente eliminata solo poco tempo fa? Forse il regime fascista aveva
bisogno di non apparire troppo succube del Vaticano, oppure lo scandalo era limitato anche per
l’epoca. Oppure, altra ipotesi, il regime (che sarebbe crollato da lì a poco) aveva ben altro a cui
pensare!
Nelle cronache pettegole dell’epoca Clara Calamai era spesso confrontata con Doris Duranti. Non è
certo che tra le due vi fosse un vero e proprio antagonismo; questa chiacchiera probabilmente era
sfruttata dalla stampa che come sempre ha bisogno di dualismi per vendere ed interessare il
pubblico.
Doris Duranti è stata una vera e propria diva di regime. Sul set del film Carmela conobbe il
ministro per la cultura popolare (il famigerato minculpop) Alessandro Pavolini, e ne divenne
l’amante. Quando le cose precipitarono, fuggì con lui a Salò. Poi se ne è andata a Santo Domingo, ad
aprire un ristorante, ove è morta nel 1995. Ha recitato per l’ultima volta nel film Divina creatura
di Giuseppe Patroni Griffi, con Laura Antonelli come protagonista. Ebbene, proprio per non essere da
meno, proprio nel film Carmela la Duranti volle recitare una scena a seno nudo, di cui purtroppo non
ho trovato su internet nessuna immagine. (Se qualcuno la trova, mi può mandare il link nei commenti,
grazie in anticipo…). Affermò orgogliosa che per la prima volta un seno nudo (il suo) era stato
ripreso al naturale, mentre lei era in piedi, sfidando la legge di gravità.
Queste sono state le prime scene a seno nudo del cinema italiano, e queste attrici sono state le
protagoniste. Ora farò una ricerca su quale sia stato il primo nudo integrale.
Perché ne ho parlato? perché sono appassionato di cinema, perché odio la censura in ogni forma,
perché l’evoluzione del costume mi ha sempre interessato, e perché mi è sembrata comunque una storia
interessante. Queste “audaci” esibizioni di tette hanno un sapore antico, poi sappiamo tutti come