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miércoles, 30 de junio de 2021

L'allegro fantasma - Amleto Palermi (1941)

 

TÍTULO ORIGINAL
L'allegro fantasma
AÑO
1941
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español e Inglés (Opcionales)
DURACIÓN
85 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Amleto Palermi
GUIÓN
Carlo Ludovico Bragaglia, Pier Luigi Faraldo, Ettore M. Margadonna, Amleto Palermi. Historia: Carlo Ludovico Bragaglia, Ettore M. Margadonna, Pietro Solari
MÚSICA
Dan Caslar
FOTOGRAFÍA
Vincenzo Seratrice (B&W)
REPARTO
Totò, Luigi Pavese, Franco Coop, Isa Bellini, Wilma Mangini, Thea Prandi, Paolo Stoppa, Amelia Chellini, Dina Perbellini
PRODUCTORA
Fono Film, Produzione Capitani Film
GÉNERO
Comedia

Sinopsis
Un rico noble dejó su patrimonio a dos gemelos ilegítimos, tras meses de búsqueda el notario cree haber encontrado a uno. Instalado en la casa familiar, tendrá que vérselas con gente que está en su contra: el administrador y su primo cazador de leones, pero también hay quien está a su favor; las hermanas del difunto, que afirman que el fantasma de éste vaga por la casa, y las tres hijas del administrador, que confunden al presunto con un cantante de moda. (FILMAFFINITY)
 
2 

Soggetto
Pantaleo in gioventù ha avuto da una cavallerizza del circo due figli gemelli,Nicolino e Gelsomino,stabilisce quindi che il testamento venga aperto alla loro presenza.Nicolino viene scambiato per un autore di canzoni e viene accolto dalle sue tre cugine nonostante l'avversità del padre di queste che mira all'eredità.Viene quindi aiutato dalle cugine a ritrovare Gelsomino che e' il vero autore delle canzoni.Intanto dal circo scappa un leone: si tratta del terzo gemello che per vivere lavora nel circo travestito da leone.I tre gemelli si dividono l'eredità.

Critica e curiosità
Anche in questo film Totò si sdoppia ,si triplica,il film viene girato in fretta da Palermi sia perche' nel frattempo sta preparando un altro suo film ( Elisir d'amore ) ma anche perche' di lì ad un paio di mesi Totò sara' in teatro con Anna Magnani in "Quanto meno te l'aspetti" e quindi non potra' dedicare molto tempo alle riprese.
In realtà sembra anche che gran parte delle riprese fatte a Cinecittà tra novembre e dicembre del 1940 furono girate da Pier Luigi Faraldo, aiuto regista di Palermi.
Totò / Gelsomino canta " Margherita " , canzoncina d'avanspettacolo.
Nel dopoguerra il film prenderà il titolo di "Totò allegro fantasma".

Scriveva Osvaldo Scaccia, Film, IV, 42, Roma, 18 ottobre 1941:
«[...] Né registi né scrittori sono ancora riusciti a dar vita, quando si tratta di Macario e di Totò, a qualcosa che non sia la solita scena comica alla Ridolini o la solita trasposizione sullo schermo della comicità d'avanspettacolo. Ne L'allegro fantasma si ride solo per Totò, per un Totò più da rivista che da cinema, per un Totò un po' meno dialettale del solito, ma alla fine, nella sua comicità, sempre piuttosto regionale. [.. .]Nessuno, malgrado i passati esperimenti, si è provato seriamente ad adattare allo schermo questa comicità, cercando di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non fosse un'ennesima ripetizione di quella comicità che ha fatto la fortuna teatrale del titolato macchiettista napoletano. Totò continua anche sullo schermo ad essere Totò e i canovacci dei suoi film ad essere le copie carbone di quelle scene comiche che da bambini abbiamo apprezzato attraverso l'interpretazione veloce e saltellante di Ridolini, Fatty, Buster Keaton. L'allegro fantasma non fa, in questo senso, eccezione alla regola: è una vecchia scena comica, basata essenzialmente sulle smorfie di Totò e su qualche trovatina non davvero nuova di zecca. [.. .]».

E ancora def. [Sandra de Feo], Il Messaggero, Roma, 9 ottobre 1941:
«[...] È una farsa di ordinaria fattura. Ma Totò ha l'istinto e il gusto dell'obiettivo cinematografico; e il suo mirabolante repertorio di dislocazioni facciali e vertebrali, le sue velocissime sequenze comiche, la sua incisiva nevrastenia farsesca sono assorbiti dallo schermo in modo sorprendente. Il povero Palermi, che diresse il film, sfruttò con maggiore pertinenza che nel San Giovanni decollato la tecnica dell'attore».

Pat. [Ercole Patti], Il Popolo di Roma, Roma, 9 ottobre 1941:
«Film gaio e concitato nel quale si aspettano al varco le irresistibili corsette di Totò, i suoi frenetici giri d'occhio, i suoi muti e fervidi discorsetti fatti muovendo soltanto le labbra, gli scatti della sua silenziosa e aerea follia. [...] Certe sequenze, come quella della colluttazione tra Totò e il falso cacciatore di leoni anche lui pretendente all'eredità, sono veramente felici e divertenti. Le risorse cinematografiche di Totò sono molte. Nei pochi film che egli ha fatto finora si è visto come certe sue espressioni colgano nel segno e siano di effetto immediato sul pubblico. Ma ancora il vero film di Totò, quello che sfrutti in pieno tutte le possibilità di questo attore, non è venuto fuori».
http://www.antoniodecurtis.com/fantasm.htm

...
Preso atto del buon esito commerciale della pellicola Palermi e Totò ci riprovano con L’allegro fantasma (marzo 1941; 85 min.), un musical comico su soggetto e sceneggiatura di Carlo Ludovico Bragaglia e Ettore Margadonna cui contribuisce lo stesso regista siciliano. I numeri musicali sono affidati al trio Primavera composto dalle giovanissime Isa Bellini, Wilma Mangini e Thea Prandi (età compresa tra i quattordici e i diciotto anni), già attivo presso l’EIAR. La storia verte intorno all’eredità del defunto Pantaleo e di tre gemelli (il vagabondo Nicolino, il compositore Gelsomino e il mimo Antonino) figli illegittimi di quest’ultimo i quali si ritrovano per la prima volta nella elegante dimora paterna e si spartiscono il piccolo tesoro con grande rabbia di buona parte degli altri parenti. Lo stile farsesco e inconsistente è il medesimo che animava San Giovanni decollato con la differenza che ai frastornanti numeri musicali, messi in atto dal portiere-ciabattino nel cortile di casa generando grande indignazione negli inquilini, si sostituiscono gradevoli canzoni a tre voci, ad una delle quali partecipa pure il comico, dando vita a uno spiritoso quartetto vocale.
Il punto di forza della pellicola consiste ovviamente nel virtuosismo interpretativo di Totò, ora alle prese con il classico espediente del triplice ruolo: così le maschere del comico si moltiplicano, proponendo nella stessa immagine la mimica furba ed estroversa del vagabondo, quella timida ed impacciata del musicista e quella sorniona del mimo (quest’ultimo peraltro “giunto in scena” solo nel finale della pellicola). Di contro la trama risulta il consueto risibile canovaccio e i personaggi di contorno sono poco più che “tappezzeria”.
Il cinema comico di Totò soffre, come si è detto, delle intermittenze tipiche di quei generi cinematografici le cui pellicole appaiono pensate per essere il mero veicolo per un mattatore o per eventi forti ed estremi (si pensi a tanto cinema orrorifico nonchè all’intera produzione hardcore). Più avanti il cinema nazionale troverà invece, nella magnifica stagione della cosiddetta commedia all’italiana degli anni sessanta e settanta, il perfetto equilibrio tra sceneggiatura e cast, racconto e performance dell’attore, realismo narrativo e fantasia degli interpreti.
Amleto Palermi muore a Roma nell’aprile 1941, a soli cinquantuno anni. L’elisir d’amore (maggio 1941), versione cinematografica della popolare opera di Donizetti (1832), esce postuma.
...
http://www.giusepperausa.it/san_giovanni_decollato_e_l_all.html


Totò: una maschera

Totò interpretò dal 1898, anno della sua nascita, fino al 1967, anno della sua morte, ben 97 film, ma fino al 1945 interpretò solo sei di questi film.
Pertanto divideremo i 97 film di Totò in periodi cronologici: una parte darà il resoconto dei film fino al 1945, ovvero degli anni ‘30 e della prima metà degli anni ‘40, fino al 1945, anno in cui la Seconda guerra mondiale finì; un’altra parte darà il resoconto dei film dal 1945 fino alla fine degli anni ‘50, ovvero dei film del dopoguerra; ed una terza parte darà il resoconto degli ultimi film di Totò, ovvero dei film degli anni ‘60, fino al 1967, anno in cui Totò morì, esattamente il 15 aprile del 1967.
Diciamo subito che i film interpretati da Totò fino alla fine del 1945 risentono dell’attività teatrale del protagonista. Perciò sono film teatrali, ovvero teatro cinematografato.

Il primo dei film interpretati da Antonio De Curtis, realizzato nell’anteguerra, è Fermo con le mani, del 1937, un film che trae il titolo da una frase pronunciata la prima volta da Totò a Franco Coop, la sua “spalla” di allora, che interpretava la parte di Vincenzino, vecchio amico di Totò, la seconda e la terza volta sempre da Totò nel corso dell’incontro con il ricco signore (che è l’attore Oreste Bilancia) per accordarsi sulla parte che Totò avrebbe dovuto sostenere nel night club, e la quarta volta da Eva Flastorny (che è l’attrice Erszi Paal) al direttore d’orchestra, suo maestro di canto e innamorato di lei (che è l’attore Erminio D’Oliva).
Fermo con le mani è un film fatto di sketch autonomi, che non ha avuto grande successo di pubblico proprio per questo, perché non è dotato di una storia. E’ tratto da una commedia di Guglielmo Giannini, che fu, oltre che fondatore dell’Uomo qualunque, autore di opere letterarie, di canzoni e di opere teatrali, a carattere antiamericano e a soggetto giallo fatte per Dino Alfieri, cioè per quell’Alfieri che fu ministro della Cultura popolare. Il film fu realizzato da Gero Zambuto. Nel cast figura, nella parte della donna di servizio di Eva, una giovane Tina Pica.
Totò fa le sue gags: come quella dello snodato, o quella del direttore della banda che lo ha reso famoso. Ma non raggiunse il successo di pubblico che si aspettava.
Il secondo film di Totò è Animali pazzi, del 1939, di Carlo Ludovico Bragaglia, fratello di Anton Giulio Bragaglia, autore teatrale e proprietario del Teatro degli Indifferenti, e autore dell’unico film futurista che conserviamo, dal titolo Thaïs, ma che fu escluso dal novero dei futuristi. Anche per questo film fu scomodato un grande uomo della cultura italiana, Achille Campanile, autore di romanzi, di barzellette e di opere teatrali. Ma neanche questo film conseguì un rilevante successo di pubblico. Totò continua a fare le sue gags, come quella dello snodato, pronuncia l’espressione “quisquiglie e pinzillacchere”, che ha già pronunciato durante il primo film, fa cioè tutto ciò che l’ha reso famoso come interprete teatrale.
L’insuccesso di pubblico si spiega col fatto che tra la prima parte del film, in cui viene presentata la clinica degli animali pazzi, e il resto non c’è quasi alcun rapporto. L’unico rapporto è dato dal cavallo pazzo che Totò si trova a cavalcare tenuto stretto alla sella da una pennellata di colla e con il quale salva la bella Ninetta, caduta in un burrone, della quale s’è innamorato. Ninetta è la cugina e la promessa sposa del barone Tolomeo de’ Tolomei, celebre cavallerizzo, che però ama Maria Luisa (l’attrice Luisa Ferida, compagna dell’attore Osvaldo Valenti). Il barone è d’accordo con Totò, al quale somiglia incredibilmente, perché quest’ultimo prenda il suo posto e sposi Ninetta ed entrare così in possesso della clinica degli animali pazzi.
Va tenuto presente che sono film fatti nella seconda metà degli anni ‘30 e dopo Scipione l’Africano di Carmine Gallone e Condottieri di Luis Trenker, che furono realizzati nella seconda metà del 1937 (per la verità, Fermo con le mani fu realizzato prima di Scipione l’Africano), quando Luigi Freddi era direttore generale per la Cinematografia del Ministero per la Cultura popolare, e soprattutto che furono realizzati per presentare la cinematografia italiana sul piano internazionale con questo “fiore all’occhiello” (come diremmo oggi).

Il terzo film interpretato da Totò entro il 1945 fu San Giovanni decollato, di Amleto Palermi, del 1940. Il film fu tratto da una commedia di Nino Martoglio, che l’aveva scritta per Angelo Musco. Specie nella seconda parte, che si svolge in Sicilia, il film, sceneggiato da Cesare Zavattini, che aveva tentato nello stesso 1940 di portare a compimento Totò il buono, che poi realizzerà con De Sica nel dopoguerra sceneggiando Miracolo a Milano, che però non fu interpretato da Antonio De Curtis, risente delle sue origini teatrali. Forse per questo, anche se ottenne un successo maggiore dei precedenti film di Antonio De Curtis, divenuto noto come Totò, non segnò la svolta che ci si sarebbe aspettata. Forse Totò si sofferma troppo sulle singole parti del film che recuperano il suo teatro, come la ripetuta espressione “quisquiglie e pinzillacchere”, che in questo film compare di nuovo, oppure l’amore di Totò (che in questo film interpreta la parte di Mastr’Agostino Miciacio) per la musica, che gli fece comporre delle canzoni e che gli ha fatto fare la gag del direttore di banda. Questo film si conclude infatti con Totò che dirige la banda locale facendo esplodere dei fuochi d’artificio.
In questo film ricompare, come spalla di Totò, Franco Coop, che ha la parte di Don Raffaele il barbiere, mentre la parte di donna Concetta, moglie del portinaio-ciabattino Mastr’Agostino Miciacio, è sostenuta nientemeno che dalla sorella di Eduardo De Filippo, Titina, che era un’attrice in primo luogo teatrale.
Il quarto film interpretato da Totò fino al 1945 è L’allegro fantasma, ancora di Amleto Palermi, su un soggetto di Carlo Ludovico Bragaglia, che vedremo regista di molti film interpretati da Totò, di Ettore M. Margadonna e di Pietro Solari. Il film è del 1941. Osvaldo Scaccia scrisse su Film che «né registi né scrittori sono riusciti a dar vita, quando si tratta di Macario e di Totò, a qualcosa che non sia la solita scena comica alla Ridolini o la solita trasposizione sullo schermo della comicità d’avanspettacolo. Ne L’allegro fantasma si ride solo per Totò, per un Totò più da rivista che da cinema, per un Totò un po’ meno dialettale del solito, ma alla fine, nella sua comicità, sempre piuttosto regionale [...]. Totò continua anche sullo schermo ad essere Totò e i canovacci dei suoi film ad essere la copia carbone di quelle scene comiche che da bambini abbiamo apprezzato attraverso l’interpretazione veloce e saltellante di Ridolini, Fatty, Buster Keaton».
Questa critica conferma che Totò trasferisce nel cinema la sua arte teatrale. Infatti sebbene mantenesse, aiutato dal soggetto, la storia narrata nel film, era riuscito ad introdurre le sue gags, come quella della “gallina/snodato”, che trova posto nel film insieme all’amore di Totò per la musica, tanto che una delle parti sostenute da Totò è quella del maestro di musica Gelsomino, maestro delle tre figlie di Temistocle, parti che sono affidate al Trio Primavera, e quella, che darà luogo al miglior Totò, delle parole storpiate (Pantaleo, l’allegro fantasma, diventa Pantanelli o Pantanello).
Il film peraltro conta tra i suoi interpreti i più noti attori e caratteristi del tempo: c’è, oltre a Totò che sostiene ben tre parti, Paolo Stoppa, che sarà uno degli attori preferiti da Luigi Zampa, con il quale farà molti film negli anni ‘50, e che allora era uno degli attori teatrali più rinomati; ci sono Franco Coop, la consueta spalla di Totò, Elli Parvo e Augusto Di Giovanni, che sostiene la parte di Asdrubale, che è cugino di Temistocle e si vanta d’essere un cacciatore di leoni, il quale ha già lavorato con Totò e per il regista Amleto Palermi in San Giovanni decollato, nella parte di don Peppino; ci sono Emilio Petacci, che ha già lavorato con Totò e per Amleto Palermi in San Giovanni decollato e Luigi Pavese, uno dei caratteristi maggiormente ricercati da Totò, con il quale interpreta due dei suoi esilaranti duetti fondati sull’equivoco tra io e tu. Duetti che però renderanno famoso Mario Castellani, che prenderà, come “spalla” di Totò, il posto di Coop.
E’ vero che siamo al compimento della scommessa fatta con Hollywood (le cinque majors nel 1938, anno in cui fu varata l’istituzione del controllo dello Stato sull’importazione di pellicole dall’estero, decisero di tenere i loro film lontani dal mercato italiano, e ciò non solo darà luogo al fenomeno dei “telefoni bianchi”, ma il cinema italiano, grazie ai film dei telefoni bianchi, sta per raggiungere, nel 1942, la quota 120). Amleto Palermi, ad esempio, odiava Hollywood tanto che chiamò la cavallerizza madre dei tre gemelli Mary Astor, cioè come la diva americana. Alberto Anile, che ricorda questo particolare, avanza l’ipotesi che la Astor sia l’attrice preferita di Palermi, ma anche che «dare il suo nome ad un’artista circense serva anche a ridicolizzare Hollywood, che da qualche tempo tiene i suoi film a debita distanza dal mercato italiano». Quanto ad Antonio De Curtis, anche in questo film introduce il suo amore per la musica, per cui il Trio Primavera, allora molto popolare, che sostiene la parte di Rosa, Lilli e Titti, figlie di Temistocle, alle quali Gelsomino è molto legato, esegue diverse canzoni e lo stesso Totò esegue, nei panni di Gelsomino, la canzone “Margherita”, una canzone tipica dell’avanspettacolo.
Il quinto dei film interpretati da Totò prima della fine della guerra è Due cuori fra le belve, che è del 1943 ed è di Giorgio C. Simonelli. Il film fu interpretato, oltre che da Antonio De Curtis, anche da Vera Carmi, apprezzata attrice di quegli anni, nonché, nella parte di Agatino, da Claudio Ermelli, che aveva già avuto parti nei film precedenti interpretati da Totò. Il film ha tra i suoi interpreti anche Primo Carnera, nella parte del re dei cannibali.
E’ un passo indietro rispetto al precedente, perché non c’è rapporto tra la prima parte (quella che si svolge sulla nave) e la seconda.
Il film è tratto dalla novella di Goffredo D’Andrea Ventimila leghe sopra i mari, ma più che della sua origine letteraria, che dà ampio spazio alla storia, risente del suo interprete principale, che è Totò ed è un attore che si è formato a teatro. Risente del teatro di Totò a tal punto che ripropone alcune delle battute che hanno reso famoso il suo interprete, tra le quali c’è anche “quisquiglie” e, aggiungiamo noi, “pinzillacchere”.
Il sesto film interpretato da Totò è uscito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, vale a dire all’inizio di dicembre del 1945: è Il ratto delle Sabine (noto anche come Il professor Tromboni) di Mario Bonnard, che in quegli anni girava Avanti c’è posto (1942), con l’esordiente per il cinema Aldo Fabrizi, e Campo de’ fiori, sempre con Aldo Fabrizi, anch’egli divenuto, come Totò, attore comico, destinato a interpretare con Totò altri film, tra i quali Guardie e ladri (1951) e I tartassati (1959).
Il film Campo de’ fiori vede la partecipazione di Anna Magnani, la quale fu attrice teatrale con Totò, e con Totò interpreterà Risate di gioia (1961). Il ratto delle Sabine è interpretato, oltre che da Totò, da Carlo Campanini, che sostiene la parte di Ernesto Molmenti, autore del dramma in versi “Il ratto delle Sabine”, che la compagnia diretta da Aristide Tromboni (Totò) si appresta a mettere in scena. Carlo Campanini girò con Totò anche I due orfanelli, del 1947, e I pompieri di Viggiù, del 1949.
Anche Il ratto delle Sabine è un film che presenta un’impostazione teatrale, nonostante i numerosi attori prettamente cinematografici o affermatisi col cinema, come Aldo Silvani (Tancredi), Olga Solbelli (Matilde), Clelia Matania (Rosina) e lo stesso Carlo Campanini. E’ teatrale a tal punto che i protagonisti recitano in versi fingendo di leggere o ripetere il dramma in versi di Ernesto Molmenti, “Il ratto delle Sabine”. E’ vero che alla fine del 1945 si è ormai ripresa l’attività cinematografica, e che i produttori americani si sono pronunciati a favore del pubblico italiano, ma è anche vero che l’attività di Totò era preminentemente teatrale e non ebbe successo di pubblico. D’altra parte, molti registi, e Mario Bonnard era tra questi, non erano consapevoli della superiorità del cinema rispetto al teatro e del radioso futuro del cinema.
Giuseppe Gubitosi
https://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/2001/III/art/R01III029.html 


 

martes, 29 de junio de 2021

Contronatura - Antonio Margheriti (1969)

 

TÍTULO ORIGINAL
Contronatura (Schreie in der Nacht)
AÑO
1969
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN
83 min.
PAÍS
Alemania del Oeste (RFA)
DIRECCIÓN
Antonio Margheriti (Anthony M. Dawson)
GUIÓN
Antonio Margheriti
MÚSICA
Carlo Savina
FOTOGRAFÍA
Riccardo Pallottini
REPARTO
Joachim Fuchsberger, Marianne Koch, Helga Anders, Claudio Camaso, Dominique Boschero, Luciano Pigozzi, Marianne Leibl, Giuliano Raffaelli, Marco Morelli, Gudrun Schmidt
PRODUCTORA
Coproducción Alemania del Oeste (RFA)-Italia; CCC Filmproduktion, Edo, Super International Pictures
GÉNERO
Thriller. Fantástico | Crimen

Sinopsis
En una dramática noche de tormenta, dos hombres y tres mujeres que se encuentran en el campo encuentran refugio en una villa abandonada donde viven Uriat y su madre, una médium. La llegada de estos intrusos interrumpe una sesión de espiritismo. Pero la madre de Uriat sigue en trance, y a través de su boca el más allá desenmascara el lado "innatural" de los cinco nuevos huéspedes, los sume en una tela de sentimientos, relaciones y pasiones que los unen y que, en un reciente pasado, dieron como consecuencia un asesinato. (FILMAFFINITY)
 
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SINOSSI:
Nell'Inghilterra della prima metà del Novecento cinque viaggiatori trovano rifugio durante un temporale in un cupo maniero isolato. Qui sono accolti da Uriah, il quale insieme alla madre Herta, una medium, si dedica a pratiche spiritistiche. Proprio l’arrivo degli ospiti ha interrotto una seduta spiritica in corso. I cinque nuovi presenti prendendo parte anche loro alla seduta, pian piano rivivono le varie nefandezze da loro compiute negli anni ed i fantasmi di coloro che avevano ucciso o fatto morire per i loro turpi desideri...
Margheriti, col solito pseudonimo di Anthony M. Dawson, realizza indiscutibilmente il suo capolavoro. Un film cupo e crudele allo stesso tempo che non lascia molti spazi al perdono, dove in una villa in mezzo alla campagna e immersa nella nebbiosa brughiera, innocenti e colpevoli sono puniti assieme dalla vendetta delle forze del male. La decadenza morale dei protagonisti si avverte in ogni singola inquadratura. Nessuno è più innocente...
Nella varie sequenze all'interno della villa è quasi possibile sentire, grazie all'abile mano di Margheriti, che privilegia movimenti di macchina avvolgenti e sinuosi, le tensioni e le paure dei protagonisti. Il ricorso al colore (il rosso e il bruno) assieme ad una scenografia dagli addobbi ridondanti e pesanti contribuiscono a sottolineare il carattere sospeso del tempo dell’azione, creando un'atmosfera di angoscia e di suspence, per giungere infine all'inaspettata e poetica conclusione della storia quando una terrificante ondata di fango sommerge i protagonisti.
L'ultima ed inquietante sequenza rivelatrice, nella quale il peccatore espia in maniera atroce la sua colpa, metaforicamente sembra annunciare il canto del cigno del fantastico italiano. Infatti, alla fine del decennio d’oro del gotico italiano, Contronatura segna la fine definitiva di quel modello e funge da spartiacque sia tra il gotico-sexy degli anni Sessanta e l’horror erotico degli anni Settanta, sia tra l’horror di discendenza anglosassone e il nascente giallo argentiano.
Contronatura riassume in sé, nella sua perfezione, tutte le caratteristiche e le inquietudini erotiche della cinematografia di genere italiana.
Margheriti, infatti, prefigura in un certo modo le audacie della cinematografia di genere a venire, rimanendo però all’interno di quella goticità italiana tipica degli anni Sessanta che tanta fortuna ha portato ai migliori autori italiani. Per concludere, Contronatura è senza ombra di dubbio uno dei gotici italiani meglio girati del decennio, nei suoi momenti migliori secondo solo alle opere del grande e compianto Bava.
Alessio
https://www.mescalina.it/cinema/recensioni/anthony-m-dawson-antonio-margheriti/contronatura


Uno “sTRASHissimo” curioso, un horror all’italiana che segna una linea di demarcazione fra il gotico-sexy degli anni Sessanta e l’horror pseudo-erotico anni Settanta. Vedere oggi le protagoniste impegnate nei loro giochi erotici sempre perfettamente imparruccate, mai un capello fuori posto, il trucco pesante senza alcuna sbavatura, è un’esperienza davvero esilarante.

Margheriti (che si nascose dietro lo pseudonimo Anthony M. Dawson, variato da un iniziale Daises, quando scoprì che il termine, in America, significava “omosessuale”), sin dall’inizio della sua carriera amò inserire nei suoi lavori richiami espliciti al lesbismo, in seguito divenuti di rito nella maggior parte degli horror e gotici nostrani. Questo film non fa eccezione.

Le scene lesbiche fra le protagoniste (entrambe coniugate) sono eccezionalmente spinte per quei tempi. Margaret (Bosquero) è profondamente attratta da Vivian Taylor (Koch): cerca di sedurla ma lei non vuol proprio saperne, la rifiuta con forza. Margaret allora la costringe ad assecondarla con il ricatto - per un po’ Vivian ci sta ed anzi, sembra gradire, poi ci ripensa, si ribella e finisce male. Accattivante il loro primo randez vous che avviene durante una battuta di caccia alla volpe alla quale partecipano i rispettivi mariti - una lunga scena nella quale si alternano brevi sequenze del rapporto lesbico ed altre assai più lunghe della battuta: chiaro l’intento di sottolineare simbolicamente l’impari rapporto di forza su cui spesso si fondano le relazioni e che, con la morte della volpe braccata, di fatto anticipa l’epilogo del film.
C. Ricci
http://www.cinziaricci.it/filmes/film-contronatura.htm


ENTREVISTA A ANTONIO MARGHERITI

Siempre he considerado a Margheriti un realizador honesto a la par que válido. Introdujo el cine de ciencia-ficción en Italia y su carrera se dilata durante más de cuarenta años, en los que ha participado en todos los subgéneros demostrando gran corrección y en algunas ocasiónes cierta brillantez. Esta entrevista forma parte también del ya mencionado libro "Spaghetti nightmares", que al paso que vamos, acabaré traduciendo completamente. (Vale la pena, es sumamente interesante). Todos los errores que encontreis en la traducción, mea culpa.

¿Cómo recuerda su debut como director en “Space men”?

Fue una experiencia muy serena. Como previamente ya tenía bastante experiencia, no tuve ningún problema en concreto. “Space men” fue la primera película de ciencia-ficción producida en Italia y fue rodada en solo cuatro semanas con un presupuesto ligeramente menor de 24 millones de liras, menos que una película actual del artículo 28¹.

¿Fue un éxito?

Grande. Incluso se vendió en América, y pese al hecho de que se estrenó justamente cuando comenzaban los Juegos Olímpicos de Roma, funcionó bastante bién en Italia también.

¿Cómo adquiriste tu seudónimo?

Yo había elegido el nombre de Anthony Daisies (una traducción de mi nombre italiano) para “Space men”, pero los americanos prefirieron cambiarlo por Anthony Dawson porque Daisies, siendo un nombre de flor, podía haber causado alguna duda acerca de mi identidad sexual (se rie). Más tarde añadí una M para que no me confundieran con el actor británico Anthony Dawson.

“Il pianeta degli uomini spenti” fue más o menos una continuación de “Space men”, ¿no?

Sí, era otra película de ciencia-ficción, pero con un ligero tono irónico. Costó tres veces lo que la primera, pero también resultó ser un éxito. De hecho, todavía la pasan por la televisión americana. Casualmente, Giuliano Gemma aparece en ella, en el que fue su primer papelito.

¿Cuál fue exactamente tu contribución en el documental “Il pelo nel mondo”, de Marco Vicario?

Busqué imágenes de archivo de viejas grabaciones y rodé algunos episodios, pero Marco terminó el filme.

¿Cuáles son tus recuerdos de los “peplum” o películas mitológicas que rodaste en los primeros sesenta?

¡Prefiero olvidarlos! Fueron hechos únicamente para tener algo de comida en la mesa, como aquella historia de aventuras de “Soraya, reina del desierto”.

¿Tengo razón al decir que “Danza macabra” fue codirigida con Sergio Corbucci?

No. Se suponía que la tenía que filmar Sergio, pero como estaba ocupado en otra película, estuvo hablando con el productor Giovanni Addessi, que entonces me propuso hacerla. Sergio me reemplazó durante medio día pero no dirigió nada. Sin embargo, sí que escribió el guión junto con su hermano Bruno.

¿Requirió mucho esfuerzo hacer esta película?

Nos llevó dos semanas y un día (dedicado a los efectos). Desafortunadamente, ciertos efectos ópticos se perdieron junto con la copia original, que era en blanco y negro y muy romántica, al estilo de Edgar Allan Poe.

¿Prefieres “Danza macabra” o la nueva versión que hiciste en color “La horrible noche del baile de los muertos”?

Definitivamente “Danza macabra”. La segunda fue hecha por expreso requerimiento del productor, el mismo que produjo “Danza macabra”. Antes de eso rodamos otra película con Kinski, un thriller-western llamado “Y Dios dijo a Caín”, que sucedía enteramente por la noche y fue rodado en Roma en un período de siete semanas. Fue una experiencia extraña, como el otro western que filmé, que tenía una matriz fantástica, “Joko invoca Dio e…muori”.

En tu opinión, ¿cuáles son los principales defectos de “La horrible noche del baile de los muertos”?

Lo primero, el hecho de que fuera en color, que hace que la sangre se vea roja. También el uso del Cinemascope y, lo peor de todo, el hecho de que los actores eclipsaran la historia.

¿Encontraste alguna dificultad trabajando con Klaus Kinski?

Muchas dificultades. Siempre tenía que ser el centro de atención. Sin embargo hice cuatro películas con él. Creo que Herzog es el único director con el que más ha rodado.

Vayamos a “La vergine di Norimberga”.

Era una película más gótica que terrorífica. Completé el rodaje en tres semanas. Uno de los actores era el gran Christopher Lee, el cual, por primera vez, no tenía asignado su habitual papel de Drácula.

¿Es verdad que “Ursus, il terrore dei Kirghisi” fue comenzada por Ruggero Deodato? ¿Cómo acabó siendo firmada por ti?

Ruggero había sido mi ayudante durante muchos años y estaba dirigiendo su primera película. Yo estaba rodando “Los gigantes de Roma” al mismo tiempo y por eso solía pasarme por las noches y le echaba una mano. Entonces, como empezaron a surgir los problemas con los productores, me vi cada vez más implicado hasta que, al final la película me fue acreditada exclusivamente a mí para que se vendiese mejor en el exterior. De todos modos, Ruggero era ya un director muy seguro, incluso desde sus inicios.

¿Cuál es tu opinión de “I lunghi capelli della morte”?

La dirección fue un trabajo puramente técnico. Es una película bastante válida dentro de su genero. Los actores fueron bien elegidos, tenía unos buenos decorados del siglo XVII y un bello vestuario, pero los mecanismos del horror olían demasiado a película de serie B.

¿Y de la actriz principal, Barbara Steele?

Una actriz con talento, aunque carecía de naturalidad. Necesitaba mucha ayuda por parte del director.

En 1965 rodaste cuatro películas de ciencia-ficción al mismo tiempo. ¿Cómo pudiste hacerlo?

Fueron hechas para la televisión americana. Dos de ellas fueron producidas por la Metro: “I criminali della galassia” e “I diafanoidi vengono da Marte”, que contaba con Franco Nero en uno de sus primeros papeles. Escribía los guiones y rodaba simultáneamente durante las doce semanas que duró y todo ello con un presupuesto muy pequeño y usando a los mismos actores y decorados… ¡Fue una experiencia de locos! Pero por encima de cualquier aspecto negativo, fue una experiencia que ayudó a que mi nombre se estableciera en América, donde ya había hecho “La flecha de oro”, también para la M.G.M. A los americanos les gustó las películas y finalmente me aceptaron dentro de su mercado.

¿Por qué no fuiste capaz de dirigir “The adventures of Baron Munchausen”, el proyecto que fue anunciado a principios de los años setenta?

Porque no pude encontrar un productor que la financiara. Ya había dirigido otra comedia fantástica, “El hombre invisible” para Walt Disney, protagonizada por Dean Jones, y había preparado un guión muy divertido con Kinski en el papel del barón y Dean Jones como el último heredero de su estirpe. La historia era diferente a la del libro, mucho más personal. La intenté rodar en Praga.

¿Consideras los thrillers “Crimen en la residencia” y “Siete muertes en el ojo del gato” como películas menores?

¡No! “Crimen en la residencia” era una película extraña que hoy sería colocada en el mismo lugar que las de Dario Argento, mientras que “Siete muertes en el ojo del gato” era una buena película de misterio ambientada en el siglo XIX y que contaba con excelentes actores. Un filme muy elegante con una cierta lógica interna. Desafortunadamente, cuando la vi por televisión, cuatro secuencias habían desaparecido y nada tenía sentido.

“Contronatura” debe de ser una de tus mejores películas.

Quizá. Era una película muy atrevida para la época e incómoda para el público. Técnicamente hablando era demasiado complicada, con demasiados zooms muy cerrados, pero tendría que apuntar que yo mismo fui co-productor.

¿Cuáles son tus preferencias en el campo del fantástico?

Me gustas las historias fantásticas, increíbles, solo que son difíciles de transferir a la pantalla grande. Spielberg es muy bueno en esto, haciendo que situaciones totalmente ilógicas e improbables parezcan lógicas. Yo también tuve éxito haciendo esto en alguna de mis películas. La técnica es la misma que para las tiras de cómic.

¿Cómo fue tu relación laboral con Lee Van Cleef?

Buena. Lee era un amigo. Hicimos juntos unas seis o siete películas y una de las mejores fue “El regreso de Chris Gretchko”, que se estrenó en Italia en agosto como “Controrapina” y que recientemente ha sido adaptada para la televisión con el nuevo título de “L’ultimo colpo”.

¿Cuál de tus películas es tu favorita y cuál la que menos te gusta?

Entre mis favoritas, aún cuando no me gusta hacer distinciones en lo que se refiere a mis películas, está “El regreso de Chris Gretchko”, de la que acabamos de hablar, y el primer “Indio”. Dejemos eso de elegir la peor: ¿puede una madre confesar que tiene un hijo al que quiere menos?

¿Cuál fue tu labor en la producción de las dos películas que hiciste para Andy Warhol: “Carne para Frankenstein” y “Sangre para Drácula”?

Supervisé ambas y en cuanto a “Sangre para Drácula”, rodé varias escenas suplementarias a fin de que el metraje tuviera una duración estándar. La compañía de Warhol era buena cuando tenía que filmar películas cosmopólitas como “Trash”, pero en películas de época, teatrales y de 3-D como estas se encontraban como pez fuera del agua. Ellos continuaron con la filmación sin ni siquiera tener una copia completa del guión. Después de que completamos el primer filme con todos sus altibajos, desechamos el 3-D (aunque funcionaba bien en la primera) y fuimos capaces de hacer la segunda sin demasiados problemas. Ambas cintas tienen un buen tempo y una fotografía excelente.

“Voracidad” tenía un buen reparto, pero…

Correcto. Lee Majors estaba disfrutando del enorme éxito que tenía con la serie “The six million dollar man”, y los demás actores eran todos válidos. Por desgracia, esta película fue rodada para reemplazar otra que teníamos que haber hecho en Sudáfrica y el nuevo guión se cambiaba constantemente. Viendola ahora, la encuentro bien adaptada para la televisión (de hecho fue financiada por la CBS en América) y, pese a lo que se ha dicho, quiero dejar claro que no es una imitación de “Piraña”, que encima es posterior. De todos modos, no es una película de las que me gusta recordar, sobre todo porque el guión era pobre y desde un punto de vista técnico, la dirección era inferior a mis películas anteriores.

¿Qué opinas de la violencia en la pantalla?

Estoy en contra de ella. Siempre he intentado capturar un efecto de suavidad y amabilidad, algo para contentar a cualquiera. Hoy, las televisiones pasan cualquier tipo de películas. Consecuentemente, no tenemos derecho a trastornar la mente de aquellos que no quieren ver ciertas cosas.

Entonces, ¿por qué “Virus” contiene tanto gore?

Mi intención inicial era dirigir un filme que llevara un mensaje sociológico contrario a la guerra. No quería hacer un splatter, pero los productores, que querían copiar esa tendencia popular que fue lanzada por Romero en “Zombi”, tenían la última palabra.

¿Cómo hiciste la escena en la que le abren el estómago a Giovanni Lombardo Radice?

Le hice acostarse en una mesa de madera que estaba exactamente en la línea central del foco de la cámara y justo debajo de su pecho pusimos un maniquí al que sumergimos en el agua e hicimos explotar. Este efecto no funciónó realmente como había planeado porque no tuvimos el suficiente tiempo para perfeccionarlo.

¿Cómo te llevaste con Dardano Sacchetti en “Virus” y “El último cazador”?

Trabajamos agradablemente. Creo que “El último cazador” fue nuestro mejor trabajo, una película decididamente más agresiva y mejor que la primera. Fue la primera cinta que filmé en Filipinas.

¿Cómo recuerdas aquella serie de películas?

Dirigí once de ese tipo y disfruté de cada una de ellas. Allí en Filipinas reconstruí la Amazonia y la Centroamérica que he utilizado en mis más recientes trabajos.

“Yor, el cazador que vino del futuro” marca tu paso dentro de la fantasía heroica.

Tienes razón. Fue otra película en la que me inspiré en el cómic y fue originalmente diseñada como serie de televisión. Es una historia prehistórica, pero situada en un futuro que representa un nuevo amanecer para la humanidad, con hombres que empiezan de nuevo con porras sobre sus hombros.

Casi siempre has utilizado a los mismos actores: David Warbeck, John Steiner, Alan Collins (alias de Luciano Pigozzi).

Sí, ellos se muestran muy felices de trabajar conmigo porque sé cómo establecer una sólida relación entre nosotros. Todos ellos son actores inteligentes y versátiles.

“Caza en Vietnam” fue algo así como un precursor de “Platoon”.

Puede ser. Todos dicen que es una copia de “Acorralado”, pero es absolutamente falso. La película contiene un exhaustivo estudio psicológico, y al final, el heroe es asesinado, traicionado, pero no sabemos por quién. Puse mucha dedicación y esfuerzo en ese rodaje, que duró cinco semanas.

Hablanos sobre “L’isola del tesoro”.

Era una película de Renato Castellani. Me puse a rodarla después de su muerte. Al principio, se suponía que me encargaba de los efectos especiales, pero entonces, con el paso de los años, decidí supervisarlos simplemente, dejando su realización a mi hijo Edoardo.

¿Cuántos años pasaron?

El guión fue escrito 24 años antes de que empezara el rodaje. La RAI no quería ni la más mínima alteración en el guión, mientras que yo estaba seguro de que incluso el propio Castellani la habría reescrito. El resultado es que el filme carece de momentos espectaculares, y vista en su totalidad de siete horas y media de duración, se puede hacer terriblemente aburrida.

¿Cuánto duró la filmación y cuál fue su coste final?

Siendo un proyecto interno de la RAI, no hay manera de saber exactamente cuánto ha costado, pero en todo caso, fue cara. El programa de trabajo nos anticipaba una labor de 50 semanas de rodaje, mientras que pude terminarlo en 30, incluyendo un pequeño número de efectos especiales descritos en el guión. En mi opinión, porque fue hecha como lo fue, “L’isola del tesoro” no se puede comparar favorablemente con “Space men”, ya ni mencionar a Lucas y Spielberg. Hoy, los efectos especiales son muy importantes si quieres llegar al mercado americano. Los tiempos han cambiado.

A este respecto, “El humanoide”, de Aldo Lado, fue mucho peor.

Intenté conseguir los efectos correctos en cinco semanas, pero la pobre caracterización del humanoide representaba un problema insuperable. Además, el filme estaba estructurado como un pobre remedo de “La guerra de las galaxias”, y a pesar de que Castellari intentó desarrollar algunas buenas escenas de duelo, la película estaba básicamente condenada desde el principio.

“Alien degli abissi” parece una imitación mal hecha de productos como “Leviathan” y “Abyss”.

No del todo. Fue hecha antes que esos filmes, a pesar de que admitiré que se trataba de otro trabajo alimenticio de bajo presupuesto para la televisión. De alguna manera, fue una oportunidad perdida, aunque lograra hacer algún dinerillo en el extranjero.

¿Para qué tipo de películas crees que estás más capacitado como director?

Sin duda para las películas de aventuras con un ligero toque de cómic. Me gusta que mi imaginación fluya, como hacen las de los artistas y dibujantes de cómic. Ellos saben que no tienen límites y pueden inventar lo que les dé la gana. En nuestros días, gracias a Spielberg, la importancia del cómic por fin se ha visto reconocida por todos.

¿Cómo emprendes las escenas de desastres en tus cintas?

Bueno, reproduzco modelos bastante grandes, generalmente en escala de 1:6, y entonces pongo mucha atención a las técnicas de filmación, y uso, por ejemplo, unas lentes muy potentes de ángulo abierto. Los efectos especiales son la parte de la película que más me gusta hacer.

¿Cómo evaluarías tu carrera como director?

Un poco fuera de su tiempo. Si tuviera que comenzar ahora, las cosas irían mucho mejor, pero realmente no tengo que hacerme ningún reproche. El cine es mi vida, y gracias a la industria del cine, siempre he sido capaz de viajar y conseguir mucho de la vida.

¿Cuál es tu predicción sobre el futuro del cine italiano?

Si corre al mismo tiempo que el progreso tecnológico, la gente se cansará de la televisión y volvera a las salas de cine a mediados de los años noventa, quizá para ver películas holográficas.
http://stranovizio.blogspot.com/2007/06/entrevista-antonio-margheriti.html


 
 

lunes, 28 de junio de 2021

Due lettere anonime - Mario Camerini (1945)


TÍTULO ORIGINAL
Due lettere anonime
AÑO
1945
IDIOMA
Italiano
SUBTITULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
90 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Camerini
GUIÓN
Mario Camerini, Ivo Perilli, Carlo Musso, Vittorio Nino Novarese, Turi Vasile
MÚSICA
Alessandro Cicognini
FOTOGRAFÍA
Massimo Terzano (B&W)
REPARTO
Clara Calamai, Andrea Checchi, Otello Toso, Carlo Ninchi, Dina Sassoli, Giovanna Scotto, Arnaldo Martelli, Stefano Fossari
PRODUCTORA
Lux Film, Ninfa Film
GÉNERO
Drama | II Guerra Mundial. Nazismo. Melodrama

Sinopsis
Bruno vuelve del frente ruso con la intención de casarse con Gina, pero ésta ha iniciado una relación con Tullio, según una carta anónima que ha recibido. Bruno y Gina empiezan a colaborar en la Resistencia contra la ocupación nazi, pero Tullio los delata. La segunda carta va dirigida al jefe de la resistencia, tras la captura de Bruno, para pedir rescate por éste... (FILMAFFINITY)
 
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Il “neorealismo industriale”, quello che prenderà il sopravvento intorno agli anni ’50 col proliferare di riletture popolari, neorealismo rosa compreso, è esistito in una certa misura anche negli anni stessi dell’esplosione del cinema di Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis… In pratica, accanto alla ricerca su forme d’espressione nuove e scardinanti, avviene una sorta di ricollocazione in tempo reale di autori precedentemente legati ad altri canoni. Un’exploitation massiva, messa in atto da un’industria che segue i rivolgimenti del mercato, i suoi mutamenti di gusto e anche le sue novità estetico-ideologiche, e chi prima era “lontano”, con atteggiamento professionale, si riallinea. Tra gli autori del cinema di epoca fascista, Mario Camerini è stato riconosciuto, per alcune sue opere, come uno dei predecessori del neorealismo, e in qualche misura può essere interpretato come il mestierante buono per tutte le stagioni. Ha costeggiato, con esiti sempre dignitosi, praticamente tutto il cinema italiano fino agli anni ’60, tenendo sempre un occhio vigile sui gusti del momento. Melodramma, commedia mondana, telefoni bianchi, cappa-e-spada, commedia all’italiana, peplum, commedia in costume… E’ curioso, in tal senso, riscoprire un film come il suo Due lettere anonime, in cui sono le nuove tendenze del “cinema di guerra” a essere interpretate come materia industriale a cui aderire per restare sul mercato.

Riproposto in dvd per CristaldiFilm dal 20 novembre, il film di Camerini riserva il ruolo di protagonista, quasi con gesto simbolico, a Clara Calamai, diva dei telefoni bianchi e poi prima icona femminile del rinnovato cinema italiano con la sua partecipazione a Ossessione (1943) di Luchino Visconti. Il carattere spurio dell’opera è ben evidente dalla contaminazione dello spirito prettamente commerciale di Camerini con nuovi ambienti e nuove storie. Ovvero, il melodramma, il triangolo amoroso e il noir sono incastonati nelle peripezie di una tipografia romana in cui confluiscono il controllo dei nazisti e partigiani sotto mentite spoglie. I tempi di guerra e Resistenza, oltretutto, si prestano bene a una rilettura serrata e intrigante, da film di genere, tutta basata sull’intreccio e l’ambiguità dei rapporti umani. Certo, sparisce totalmente l’afflato ideologico, o meglio la giustezza della guerra di Resistenza è assunta come premessa narrativa, un’occasione come un’altra per dare una reale motivazione ai “buoni” del film. Camerini, insomma, crede meno in ciò che racconta, e crede di più nell’intrattenere il suo pubblico cercando sempre e comunque una facile identificazione. Si nota in particolare nello scioglimento del film. Se per tre quarti il racconto si conserva a suo modo credibile, nel finale il triangolo amoroso si risolve con toni e accenti da noir americano anni ’40, per poi svoltare bruscamente in una lacrimosa sequenza finale da eroina angelicata in stile-Matarazzo. Un patchwork di stili, come già era accaduto a Camerini in Rotaie (1931) secondo linee estetiche completamente diverse. Forse è questa una delle chiavi per capire il suo cinema: un’estrema poliedricità, elastica e pronta alle scosse del mercato. In qualche modo, è anche un’incarnazione veritiera di tanta nostra produzione industriale, che spesso ha amato fare cinema “alla maniera di…”.
https://www.radiocinema.it/articoli/due-lettere-anonime


«Uno dei film più coraggiosi di tutta la storia del cinema italiano, film senza padrini o partiti alle spalle, testimone della Resistenza senza esserne celebrazione. Evocato anche di recente in un romanzo di Lenzi, resta una di quelle zone veramente segrete del cinema italiano, uno di quei fili del rapporto tra Vaticano e mondo ebraico, oltre le dispute storiche su Pio XII o su figure controverse come Eugenio Zolli, e che tocca episodi cinematografici come La porta del cielo di De Sica e l'opera di Romolo Marcellini, ma in primis una figura come Franco Piperno che ottenne protezione dal cineasta vaticano ufficiale Giorgio W. Chili e contemporaneamente impiantò la produzione di questo film di Camerini. Il quale ha sempre eluso le ipotesi sulle proprie origini ebraiche, aggirando ogni legge razziale ben prima della sua promulgazione: semplicemente per un carattere da apolide anche verso il mondo che i nazionalisti etichettarono apolide. Col citato film di De Sica e con Lo sconosciuto di San Marino di Cottafavi e Waszynski, è il film della vera controstoria italiana. È anche il punto d'arrivo delle frequentazioni giornalistiche del cinema cameriniano, ponendo al centro della vicenda la tipografia che stampa clandestinamente. Solo un cineasta segnato dall'esperienza delle guerre poteva compiere un tale atto sovrano verso il suo tempo, che non teme di essere pessimista nel momento dei domani che cantano. L'aver rifiutato questo film e aver impedito a Camerini ("regista ormai fuori dalla storia" secondo la formula di rara ottusità di Aristarco) di realizzare progetti sul dopoguerra come Il maestro, è il massimo segno di quella cecità critica che porterà a stravolgere Fiamma che non si spegne di Cottafavi».
http://www.imilleocchi.com/?q=node/1219

...
Nell’immediato dopoguerra Mario Camerini gira Due lettere anonime (dicembre 1945; 90 min.) su soggetto e sceneggiatura di Ivo Perilli (collaboratore abituale di Camerini), cronaca suggestiva di piccoli eventi romani, racchiusi tra l'estate del 1943 e l'arrivo degli alleati nel giugno 1944. Gina lascia Bruno per Tullio, un giovane il quale, nello scenario tormentato dell'occupazione nazista e delle imprese partigiane, si rivela presto un cinico arrivista che non solo traffica con i tedeschi, ma non esita a denunciare i suoi ex amici partigiani, causando la morte di uno di loro nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Dopo l'ennesima infame iniziativa (con una lettera anonima ricatta la madre di Bruno, arrestato dai nazisti grazie a una sua segnalazione), Gina, esasperata, lo uccide a sangue freddo.
Due lettere anonime e' un'opera misurata, concisa, efficace nell'ambientazione e spietata nella pittura dei caratteri. Il paragone con il coevo, celebrato Roma citta' aperta va tutto a favore del film cameriniano, anche se la critica mostro' di preferire la retorica monocromatica di Rossellini. Eppure il quadro restituito dal piu' anziano regista offre una ricchezza di spunti e un panorama umano ben altrimenti realistico e sfaccettato; forse non piacque proprio questo aspetto: il riuscire a ricreare una diversificata, convincente dialettica tra brutalita' delle SS, tedeschi fanfaroni e traffichini, romani gretti e collaborazionisti, popolazione inerme e attendista, minoranza eroica partigiana. Non una realta' manichea e semplificata, divisa tra ultrabuoni e ultracattivi, bensi' tutte le gradazioni dell'animo umano trovano cittadinanza in questa importante opera dimenticata.
Inoltre al centro della vicenda Camerini e Perilli scelgono di porre non un eroe della Resistenza bensì Gina, ovvero una donna comune, priva di precise convinzioni politiche, innamorata di un collaborazionista, la quale solo lentamente prende coscienza della situazione, preferendo tuttavia nel finale la vendetta individuale alla lotta partigiana. Gina, perfettamente interpretata da Clara Calamai, ben rappresenta quindi la defeliciana "zona grigia", prudente e maggioritaria, ovvero un scelta di vita aspramente criticata dal cinema neorealista piu' radicale.

Gino, reduce dalla campagna di Russia, torna a Roma nell'estate 1943 e scopre che Gina lo ha abbandonato, preferendogli Tullio. L'atmosfera è incerta; si spera nella fine della guerra ma si comprende che la massiccia presenza tedesca in Italia costituisce un grosso ostacolo per un'eventuale normalizzazione. L'otto settembre sorprende i protagonisti distratti dal loro conflitto amoroso: essi infatti quasi non reagiscono alla notizia dell'armistizio, salutata invece con sfrenato entusiasmo dall'illuso popolo romano. La sequenza della gente semplice che inneggia dai balconi di una casa popolare e' un piccolo, commovente capolavoro. Gli scontri armati subito successivi, vinti dai tedeschi contro forze militari e civili italiane prive di una razionale organizzazione, riportano rapidamente tutti con i piedi per terra. La disfatta italiana e' ritratta da Camerini con cruda obiettivita'.
Inizia la seconda parte nella Roma occupata. La tipografia, dove lavorano Gina e Tullio, ora e' controllata dai tedeschi e il giovane diviene il loro uomo fidato mentre il proprietario vive in clandestinita', nelle file partigiane. Il film assume ora la cadenza del giallo: la Resistenza infiltra due operai (tra cui Bruno) nella tipografia per rubare preziose macchine e materiali da stampa; Tullio finge di assecondare tali progetti, al fine anche di assicurarsi una buona fama allorche' i tedeschi se ne saranno andati, ma al tempo stesso denuncia i suoi amici alla polizia nazista. Egli rappresenta il volto piu' bieco dell'opportunismo italico: il nuovo padrone della tipografia non e' un semplice attendista o un personaggio che si barcamena tra due minoranze violente; al contrario egli e' un cinico sfruttatore, attento a non perdere la minima possibilita' che gli si offre per arricchirsi e che a tal fine non esita a ricorrere al tradimento e alla criminale delazione. Cosi' alcuni partigiani verranno arrestati e, in particolare, il figlio del proprietario della tipografia finira' a Regina Coeli nei giorni della rappresaglia delle Ardeatine (marzo 1944). Lo strazio dell'anziano padre, dapprima in pena, poi descritto pudicamente dai compagni, e' una pagina sobria e bellissima del film.
Il lacerato fondale viene descritto con pochi, abili tratti: Camerini sa descrivere la brutalita' delle SS con poche, efficaci immagini (il loro autoritario irrompere nella tipografia; la deferenza impaurita del semplice sergente Karr) mentre all'opposto la pericolosa esistenza clandestina e' perfettamente resa attraverso i frettolosi appuntamenti sugli autobus o nei mercati, nonche' attraverso le inquiete riunioni in oscuri scantinati durante le quali il semplice risuonare di un campanello fa sobbalzare come un segnale di morte.
La terza e ultima parte inizia con l'arresto di Bruno, prosegue con il ricatto di Tullio (la seconda lettera anonima) e culmina nei liberatori colpi di rivoltella esplosi da Gina, vero culmine emotivo dell'opera. L'epilogo festoso mostra gli alleati entrare in Roma mentre per la donna, in galera, si prospetta una detenzione breve.
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http://www.giusepperausa.it/roma_citta_aperta.html


 

domingo, 27 de junio de 2021

Il carabiniere a cavallo - Carlo Lizzani (1961)

TÍTULO ORIGINAL
Il carabiniere a cavallo
AÑO
1961
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Lizzani
GUIÓN
Ruggero Maccari, Ettore Scola. Historia: Ruggero Maccari, Ettore Scola, Antonio Pietrangeli
MÚSICA
Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA
Gianni Di Venanzo (B&W)
REPARTO
Nino Manfredi, Annette Vadim, Peppino De Filippo, Maurizio Arena, Eugenio Maggi, Aldo Giuffrè, Clelia Matania, Luciano Salce, Anthea Nocera, Franco Pesce, Silvio Anselmo, Fanfulla, Guido Celano, Leopoldo Valentini, Luciano Bonanni
PRODUCTORA
Maxima Film Compagnia Cinematografica
GÉNERO
Comedia | Robos & Atracos

Sinopsis
El carabiniere Francesco está obligado a casarse a escondidas con su novia Letizia porque el reglamento le prohibe casarse antes de 15 años de servicio. Pero el día antes de la boda le roban el caballo... (FILMAFFINITY)
 
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Il carabiniere a cavallo..censurato

L’anno scorso tenni un seminario di sei incontri sul cinema comico e il rapporto – mai raccontato così approfonditamente – con la censura, dai tempi del Codice Hays in America ai fratelli Marx, dal salace Totò alle imitazioni coraggiose di Chaplin dei grandi dittatori, fino agli apparentemente innocui Don Camillo e Peppone. Ottenendo l’interesse del pubblico accorso, è stato anche per me un continuo riscoprire e in molti casi conoscere lo zoccolo duro dei censori nei confronti della satira e delle battute che oggi potremmo definire innocue, ma all’epoca capaci di farli arrabbiare. E siccome avevano il potere del timbro del Ministero dello Spettacolo, erano dolori: nel mirino non c'era solo il nudo, le parolacce o l’eccessiva violenza. Bastavano un Totò che interpretava un funzionario pubblico ignorante obbligato ad ottenere la licenza elementare, o un giudice troppo buono con le prostitute, come Peppino De Filippo in un “Giorno in pretura”, che questi alfieri saltavano sulle loro sedie. Esagero? Quando si diffuse la notizia che Mario Monicelli avrebbe iniziato un film sulla Grande Guerra con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, si scatenarono le polemiche più assurde, per un accostamento di “commedianti” ad un tema storico così importante per il nostro paese. Sono tante le commedie censurate che avrei voluto approfondire a più riprese, e oggi ho analizzato la disavventura censoria di un film diretto da Carlo Lizzani, Il carabiniere a cavallo, prodotto da De Laurentiis e interpretato da Nino Manfredi.

E’ un film del 1961, molto godibile grazie soprattutto alla inedita coppia Manfredi – Peppino De Filippo, e spalleggiati dall’attrice svedese Annette Strøyberg e da Maurizio Arena, che nonostante la pubblicità lo riportasse come spalla di Nino, sullo schermo appariva ben poco. La esile storia raccontava le disavventure di un giovane carabiniere, in servizio a cavallo, che si sposa di nascosto per evitare il trasferimento di sede in caso di matrimonio, come previsto dal regolamento dell’Arma. Il giorno prima delle nozze, però, le cose si complicano perché alcuni zingari gli rubano il cavallo durante il servizio e assieme al suo amico ex brigadiere Tarquinio (De Filippo) girerà tutta Roma per ritrovarlo.

Scritto da Antonio Pietrangeli con la coppia di sceneggiatori Ettore Scola (inizialmente previsto come regista) e Ruggero Maccari, il film, intitolato semplicemente “Il carabiniere”, viene girato fra gennaio e febbraio del 1961 a Roma, con esterni a Mentana, e pronto per uscire per Pasqua. Viene richiesto il visto censura dichiarando 2600 metri di pellicola, ma il 18 marzo viene respinto per la proiezione in pubblico. Firma il decreto il Ministero dello Spettacolo Renzo Helfer, che alla fine del 1961 si scaglierà pesantemente contro Pasolini con il suo Accattone. Il 3 aprile il Corriere della Sera titola: Sequestrato a Viareggio il film "Il carabiniere", e si limita a scrivere, “Secondo voci che  circolano, il sequestro sarebbe  avvenuto su richiesta del comando dell'Arma”. Storicamente, era il primo film dove un carabiniere era protagonista, e l’argomento era troppo delicato per passar inosservato: le divise e le fiamme sul berretto non dovevano essere derise, e la storia raccontava di un giovane carabiniere che fa una figuraccia che si porta appresso un ex brigadiere, radiato dall’Arma perché colpevole di essersi rubato delle coperte previste per gli alloggi in caserma.. La produzione cerca una soluzione e chiede una nuova revisione.

Il 15 giugno 1961, sono presenti ad una proiezione Helfer, la commissione al completo, e, come rappresentante del Ministero dell'Interno, il Dottor Vincenzo Agnesina, Vice Capo della Polizia. La commissione si prude le mani con alcune scene, come quella della confessione e quella del villico che sequestra la sua fidanzata nel fienile. La sequenza rispecchiava fedelmente le faide familiari tra la gente semplice di campagna, ma la censura impose la modifica di alcune battute:

Rita: "No, Lazzaro, no, così non voglio, io, no, no, lasciami, Lazzaro lasciami"
Lazzaro: "Tu m'hai detto che nun so bono a gnente eh! e mo te lo faccio vedè io"
Rita: "Lazzaro! Ti prego! ah così roviniamo tutto, non l capisci?"
Lazzaro: "Ci ho pensato!E' l'unica maniera Ritarè!".

Nel film, la minaccia di compromettere la ragazza è decisamente più velata anche se rimane chiara. E inoltre: la scena che si svolge nell'interno del casale assediato, tra Rita e Lazzaro, deve iniziare con l'ingresso di Manfredi nella stalla o con la battuta di Lazzaro: “M’hanno voluto fa incattivì peggio pe loro” e deve terminare con l'uscita di Lazzaro arrestato dal brigadiere (Peppino De Filippo). Detta scena deve essere di complessivi mt. 72.
Al doppiaggio viene richiesto di modificare altre battute:

Letizia: “Non ha combinato niente lui e non vuole far combinare niente agli altri”.

“Buongiorno Signora!”
Letizia: “Prego, Signorina, e lei lo dovrebbe sapere!”

Maniscalco: “Io ai cavalli gli guardo il culo e non la faccia!” (e il “culo” viene coperto da un nitrito del cavallo).


Tuttavia, il Vice Capo della Polizia non è d’accordo. Non è questione di qualche parolaccia o di due villici sporcaccioni, ma di altro. Si legge: “…nel suo complesso, permane lesivo del prestigio di una Istituzione dello Stato e fa presente quanto segue: 1) - la lieve modifica del titolo originario "Il carabiniere" accentua e non sminuisce la ridicolarizzazione del personaggio principale, militare dell'Arma Benemerita, in quanto i carabinieri dei reparti a cavallo fanno parte di una "specialità", i cui componenti sono sottoposti a selezione ed addestramento ancor più rigorosi; 2) – l’eliminazione della scena della confessione e le modifiche di altre due scene, che si propongono in questa sede, non valgono ad impedire che le figure e le azioni dei protagonisti – l’uno, carabiniere scelto, in servizio attivo, e l'altro, sottoufficiale dell’Arma, collocato in pensione a seguito di furto di oggetti di casermaggio - si riflettano, nel loro complesso negativamente, sul prestigio e sulla dignità dell’Arma dei Carabinieri”. E imperterrito chiedeva la conferma del primo giudizio della Commissione, vietando la proiezione in pubblico.

La proiezione si scalda, e si decide di togliere tutte le sequenze dove viene (apparentemente) offesa la divisa, e il film viene accorciato di 200 metri di pellicola, circa 8 minuti di film buttati sul pavimento della moviola, per un totale di ben 19 tagli. Saltano così alcuni bambini che deridono Franco, carabiniere a cavallo, o lui che viene ripreso dalla cinepresa con la testa che ritmicamente va su e giù, con effetto comico, tutta una sequenza dove Franco viene convocato a rapporto per una spiata che un commilitone ha fatto i superiori, dove il capitano interroga Franco e un suo commilitone a proposito della fidanzata di quest’ultimo che in realtà afferma Franco è “fidanzata dell’intero squadrone”, o sempre lui che si lamenta perché gli è sparita la roba in camerata, esclamando, “Meno male che siamo in caserma di carabinieri, figuriamoci se stavamo a Regina Coeli!”. Viene pesantemente accorciata la scena della confessione con Don Roberto (interpretato da Luciano Salce), specie quando il parroco prende in giro Franco che in dieci anni di fidanzamento non ha mai tradito la sua ragazza e gli consiglia di non sposarsi, che tanto ci sono molte ragazze in giro. Oppure il collega Renato (interpretato da Arena) che si congratula scherzosamente con Franco dicendogli, “Da domani c’è un cornuto in più”; l’ex brigadiere Tarquinio che da del cretino a Franco per essersi fatto rubare il cavallo; qualche “culo” di troppo, le già citate battute delle scene nel casale, fino a Letizia in “baby doll” nella scena finale, circa 14 metri che saltano così, rinchiusi in una scatoletta finita chissà dove.

Lizzani, per cercare un ulteriore compromesso, cambia il titolo specificando che il Carabiniere è “A cavallo”, cambiando goffamente manifesti e trailer (ma la brochure è rimasta col titolo originale), e viene così approvato per il nulla osta il 15 giugno.
Il 29 luglio, partecipa al Festival Internazionale del Film Comico e Umoristico di Bordighera , e ottiene come premio speciale la “Targa d’oro”. Il 31 agosto finalmente esce nelle sale.
La critica lo tratta con sufficienza. Il Corriere della sera, si è divertito: “Una indovinata  sceneggiatura di Scola e Maccari, fertile di trovate e di invenzioni e abbondantemente innaffiata di battute imbroccate. Qualche volta la pellicola va fuori tema, come nell’episodio dell’energumeno nella fattoria, ma  anche questi capitoli si salvano grazie alla rapidità e scioltezza dell’esecuzione. Nino Manfredi ha in quest’occasione  incontrato il personaggio che gli si addice e Peppino De Filippo gli dà la replica con la sua nota bravura”. Invece buio per La notte: “Il film certamente diverte in più di un punto: ma non oseremmo proprio darne il merito alla regia e meno ancora agli sceneggiatori. È un film su misura per permettere a Nino Manfredi di sfruttare ancora una volta la nota macchietta del ciociaro: e Manfredi lo fa con ineccepibile mestiere, coadiuvato del resto da un ottimo Peppino de Filippo. Ma basta la bravura di due attori e qualche battuta divertente per mettere insieme un film comico?”. Lo stesso Manfredi, imprigionato in un contratto con De Laurentiis che stava cominciando ad andargli stretto, non ricordava l’operazione con affetto: “Era un film di cui non mi importava niente, un film minore, fatto con un Lizzani che con un film comico come questo aveva ben poco a che fare. Eppure aveva dei collaboratori incredibili: Di Venanzo, Scola, Maccari, Gherardi, tutti per fare un filmetto; mi sembrava una presa in giro; tutti infatti lo fecero non con la mano sinistra ma con il piede sinistro”.
Tutto sommato, anche se non graffia come gli sceneggiatori avrebbero voluto, e l’arma dei carabinieri ha sopportato film ben peggiori di questo, le ambizioni satiriche in parte stravolte dalla censura sono comunque godibili ancora oggi, e se vi dovesse capitare di vederlo, mi ringrazierete.
Andrea Ciaffaroni
http://andreaciaffa.blogspot.com/2018/01/il-carabiniere-cavallocensurato.html


CARLO LIZZANI

Carlo Lizzani è nato a Roma il 3 aprile del 1922. Regista di decine di film da Viaggio al sud -il suo documentario d’esordio del 1949- fino a Scossa, pellicola ad episodi girata insieme a Citto Maselli, Ugo Gregoretti e Nino Russo e presentata fuori concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

Ancora prima di diventare regista, Carlo Lizzani è stato critico e grande studioso di cinema, sceneggiatore (ottiene anche una nomination all’Oscar per la sceneggiatura di Riso Amaro, 1949,  diretto da Giuseppe De Santis) e aiuto-regista.

E’ stato direttore della Mostra di Venezia tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80; ha lavorato nella redazione della rivista “Cinema”; ha pubblicato un libro dal titolo “Storia del cinema italiano”; ha iniziato -soprattutto negli ultimi anni- un enorme lavoro di recupero della memoria del cinema italiano, in modo particolare con monografie su De Santis, Roberto Rossellini (con cui ha lavorato alla sceneggiatura di Germania anno zero) e Luchino Visconti. Ex presidente dell’Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici) ha ceduto il suo posto ad Ugo Gregoretti.

Carlo Lizzani ha raccontato storie di cronaca e avvenimenti storici attraverso il cinema, in un insieme di lavori che vanno dal dramma, al documentario, passando per l’inchiesta giornalistica e la commedia. Narratore della sinistra di un tempo, ha raccontato la storia dei grandi leader della sinistra italiana, da Togliatti a Berlinguer, è stato documentarista per il PCI fino al 1957. Ogni tanto si è allontanato dal suo status di autore impegnato per osservare i mutamenti di costume dell’Italietta operaia, inoltrandosi nello spaghetti western (Un fiume di dollari, 1966) o nella commedia comica con film come Il carabiniere a cavallo (1961) che racconta la storia di un carabiniere -sposato segretamente poiché il regolamento vieta il matrimonio prima del quindicesimo anno di servizio- che passa la luna di miele alla ricerca del cavallo che gli è stato rubato. È una delle rare incursioni di Lizzani nel genere comico, con la sceneggiatura di Antonio Pietrangeli, Ettore Scola e Ruggero Maccari, una commedia disuguale quanto la carriera registica di Carlo Lizzani.

Tra gli altri suoi lavori da ricordare c’è sicuramente il suo primo film di finzione, il bellico Achtung! Banditi! (1951) con Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto Maggiorani e Giuliano Montaldo coinvolti in una storia di guerra partigiana fra Genova e l’Appennino ligure. Nel 1953 invece, vince il Premio Internazionale di Cannes per la pellicola Cronache di poveri amanti con Marcello Mastroianni, che aveva realizzato simultaneamente al drammatico Ai margini della metropoli (1953) con Giulietta Masina. Coinvolto nel progetto di Cesare Zavattini Amore in città (1953), Lizzani avrà l’occasione di collaborare con Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Dino Risi e Alberto Lattuada in una mininchiesta sull’amore in Italia. Dirige poi: Il gobbo (1960) con Pier Paolo Pasolini -che ritroverà anche in Requiescant (1966)-, il già citato Il carabiniere a cavallo (1961) con Nino Manfredi, Il processo di Verona (1963) con la Mangano e Claudio Gora e La vita agra (1964) con Ugo Tognazzi.

Nel 1965, lavora con Ettore Scola nella commedia Thrilling con Alberto Sordi e, nel 1968, dirige Stefania Sandrelli nel troppo sottovalutato L’amante di Gramigna. Vincitore del David di Donatello per la miglior regia e di un Nastro d’Argento per la migliore sceneggiatura per Banditi a Milano (1968), collabora con Jean-Luc Godard, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci e l’amico Pasolini nella pellicola corale Amore e rabbia (1969), riemergendo dal mucchio nel 1971 con Roma bene e con Mussolini: ultimo atto (1974) che racconta gli ultimi giorni prima della morte di Benito Mussolini basandosi sulla versione ufficiale della sua fucilazione e ha come protagonisti Rod Steiger ed Henry Fonda. Nel 1977 invece Lizzani gira il film Fontamara, tratto dall’opera più famosa di Ignazio Silone, sui contadini di Fontamara (paese dell’Abruzzo) che subiscono la repressione fascista.

Ha lavorato poi nel piccolo schermo con alcune fiction, alternandosi comunque con documentari e lungometraggi al cinema come Mamma Ebe (1985), Caro Gorbaciov (1988), Celluloide (1995); l’opera corale Un altro mondo è possibile (2001) con Francesca Archibugi, Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Franco Giraldi, Monicelli, Pontecorvo, Gabriele Salvatores, Scola e i fratelli Taviani; Hotel Meina (2007) fino all’ultimo Scossa.

Muore a 91 anni,  il 5 ottobre 2013, gettandosi dal balcone dell’appartamento in cui viveva, nel quartiere Prati a Roma.
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