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sábado, 31 de diciembre de 2011

I Vesuviani - A. Capuano, P. Corsicato, A. de Lillo, S. Incerti, M. Martone (1997)


TÍTULO ORIGINAL I vesuviani
AÑO 1997
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No 
DURACIÓN 140 min. 
DIRECTOR Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Antonietta de Lillo, Stefano Incerti, Mario Martone
GUIÓN Pappi Corsicato, Ivan Cotroneo, Marcello Garofalo, Antonietta de Lillo, Laura Sabatino, Antonio Capuano, Stefano Incerti, Mario Martone, Fabrizia Ramondino
MÚSICA Flavio Brunetti, Pasquale Catalano, Pappi Corsicato, Antonello Paliotti
FOTOGRAFÍA Cesare Accetta, Antonio Baldoni, Luca Bigazzi, Pasquale Mari
REPARTO Anna Bonaiuto, Iaia Forte, Enzo Moscato, Nunzia Di Somma, Tonino Taiuti, Flavio Brunetti, Clelia Rondinella, Antonio Pennarella, Teresa Saponangelo, Renato Carpentieri, Toni Servillo, Cristina Donadio
PRODUCTORA Megaris / Mikado Films / Radiotelevisione Italiana / Telepiù
GÉNERO Comedia. Drama
 
SINOPSIS Non è soltanto la cornice – periferia ed entroterra di Napoli – che lega i 5 episodi ("Sofialorèn", "La stirpe di Iana", "Maruzzella", "Il diavolo nella bottiglia", "La salita"). C'è lo sguardo dei registi, amici e collaboratori tra loro; c'è la visione alterata della realtà, deformata con scatti fantastici e invenzioni barocche; c'è lo spazio dato a una sessualità trasversale, polimorfica, trasgressiva. Nessuna delle 5 novelle è completamente risolta, ma, in varia misura, tutte spiazzano, incuriosiscono, divertono o magari irritano. Sono 5 film di corpi, ossia di attori. Persino "La salita" di M. Martone, l'episodio più austero e civilmente impegnato (con T. Servillo con la fascia tricolore del sindaco che, salendo sul Vesuvio, si interroga sulla crisi della sinistra), è un apologo in cadenze di favola ironica dove si recupera il pasoliniano corvo parlante di Uccellacci e uccellini. (http://cinema-tv.corriere.it/film/i-vesuviani/02_74_51.shtml)


Lavoro collettivo più che vero e proprio film ad episodi, I Vesuviani, presentato in concorso al Festival di Venezia 1997, riunisce cinque registi diversissimi fra loro ed al tempo stesso legati dalle comuni origini. Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Antonietta de Lillo, qui anche produttrice con la sua Megaris, Stefano Incerti e Mario Martone hanno tutti contribuito in questi ultimi anni, chi più chi meno, alla rinascita di un cosiddetto cinema napoletano, spesso apprezzato tanto dalla critica quanto dal pubblico, ma, si sa, ben difficilmente un film ad episodi riesce a confermare il valore dei propri autori ed anche I Vesuviani non sfugge, se non in minima parte, a questa certezza, rivelandosi come una delle maggiori delusioni della Biennale.
Ad aprire il film nel peggiore dei modi è La Stirpe di Iana di Pappi Corsicato. Il regista di Libera e de I Buchi Neri, da sempre sopravvalutato ed ormai in caduta libera, ci mostra cinque motocicliste, moderne seguaci del culto della dea Diana, capeggiate da una Anna Bonaiuto costretta ad acrobazie degne di una sceneggiatura a metà fra il film di kung fu di serie z ed i cartoni animati giapponesi. Proprio così, perchè le nostre eroine, tristemente ribattezzate Atlas, Ajax, Dixan, Tide e Fallo, oltre a seminare il terrore lungo le strade della provincia napoletana ed a dimostrare costantemente la loro supremazia sugli uomini, si trasformano all'occorrenza, come per magia, in temibili guerriere volanti. L'ironia a buon mercato è tanta, il divertimento latente.
Si continua con Maruzzella di Antonietta De Lillo, regista insieme a Giorgio Magliulo di due lungometraggi datati 1985 e 1990: La Casa In Bilico e Matilda, e ci troviamo qui di fronte ad un'idea di fondo interessante presto però sacrificata per fare spazio ad una delle storie d'amore più irreali che abbiano mai potuto vedere la luce in una mente umana. E' l'ambientazione in un cinema a luci rosse e la descrizione dei suoi frequentatori abituali ad incuriosire: uomini abituati a passare gran parte del loro tempo in quella sala, mangiando, scambiandosi opinioni, incontrandosi, consumando rapporti mercenari, ma, quel che interessa, disinteressandosi completamente del film che si sta proiettando. E' questo il regno di Maruzzella (Enzo Moscato), un travestito che del cinema ha fatto la sua stessa casa: si aggira cantando fra le poltrone vestito come una diva d'altri tempi, soddisfa i suoi clienti e si ritira nei suoi alloggi. Ma l'improvvisa apparizione di una angelica spettatrice, catapultata dal mondo esterno in quello di Maruzzella, sovvertirà tutti gli equilibri ed il ricordo di quei giorni felici si trasformerà in leggenda.
Fra mito e fantasia anche il terzo episodio, Sofialorén. Dopo l'ottimo esordio con Vito e gli Altri ed il controverso Pianese Nunzio, 14 Anni a Maggio, Antonio Capuano abbandona la cruda realtà dei nostri giorni per rifugiarsi nella favola incolore di un pescatore del Rione Terra di Pozzuoli. Solo lui, Toritore, vive ancora in quelle case abbandonate da tutti, sua unica compagna un polipo femmina che di notte si trasforma in una bellissima donna. Sarà un curioso principe nero alla ricerca di sua sorella, vittima di un sortilegio, a svelare il mistero, mentre la storia procede, fra lazzi, tristezze ed inseguimenti da comica di inizio secolo, verso un finale assolutamente ovvio che, d'improvviso, senza alcun apparente motivo, assume tinte del tutto grottesche.
Si arriva così, piuttosto sconsolati, al secondo tempo ed all'episodio di Stefano Incerti, già regista de Il Verificatore. Il Diavolo Nella Bottiglia è l'ennesima variazione sul tema rapporti uomo-diavolo. Fausto, e già il nome la dice tutta, è un barbone che entra in possesso di una diabolica bottiglietta grazie alla quale potrà esaudire tre desideri, con una sola precauzione: per evitare tremende disgrazie ci si deve sbarazzare della bottiglia vendendola ad un prezzo inferiore a quello di acquisto. L'argomento non è di certo originale, ma una attenta regia e dei buoni interpreti renderebbero piacevole la visione di questo quarto episodio se non fosse, ancora una volta, per un finale totalmente gratuito che lascia veramente sconcertati.
Ma, per fortuna, c'è anche Mario Martone che, dopo tanta desolazione, riesce a rincuorare l'ormai disperato spettatore. L'autore di Morte di un Matematico Napoletano e de L'Amore Molesto ci conduce con La Salita verso la cima del Vesuvio e con uno stile sobrio ed essenziale affronta dubbi morali ed incertezze della sinistra italiana. E' il sindaco di Napoli, il suo nome è Antonio (Toni Servillo), a scalare il monte in preda ai tormenti della propria coscienza ed in cerca della verità; improvvisi incontri e subitanee scomparse caratterizzano il suo cammino, dai lavoratori minorenni che costruicono case abusive alla vecchia compagna di sezione (Anna Bonaiuto) morta suicida e mai accettata per il suo passato da chi sarebbe dovuto esserle amico. E' però un corvo parlante, che proviene direttamente dal pasoliniano Uccellacci e Uccellini, il vero compagno di viaggio di Antonio, è lui a metterlo di fronte alle tante contraddizioni della vita politica contemporanea, alle perplessità dell'attivista di partito, del comunista alle prese con i compromessi del capitalismo.
Un episodio, questo di Martone, da non perdere, ricco di ironia e poesia al tempo stesso. Un episodio che, purtroppo, non può comunque evitare di farci giudicare I Vesuviani un film, nel suo complesso, poco più che scadente.
© 1997 reVision, Carlo Cimmino
http://www.revisioncinema.com/ci_vesuv.htm



"La stirpe di Iana"
Il culto della dea Iana è perpetuato ancora oggi da una banda di motocicliste che scorazzano lungo le strade della provincia napoletana, seminando terrore e distruzione tra i malcapitati che osano sfidarne l'autorità. Lo imparerà a sue spese la scalcinata banda di malviventi locali, che ha rapito la sorella di una delle ianare...

"Sofialoren"
Toritore, un pescatore che vive al Rione Terra di Pozzuoli, cattura un polipo che di notte si trasforma in una sensuale figura femminile. Un bislacco principe nero che si proclama il fratello della sventurata, spiega al pescatore il triste destino cui la donna è condannata per effetto di un sortilegio. Ma il polipo, che è alloggiato in una tinozza e di notte si trasferisce nel letto di Toritore, troverà suo malgrado la destinazione finale in una padella.

"Maruzzella"
Maruzzella è un travestito che si aggira come un moderno Fantasma dell'Opera per i corridoi di un cinema a luci rosse, trasformato nella sua dimora personale, fino a che, un giorno, l'incontro con un'angelica spettatrice di film hard, Elvira Lento, cambierà radicalmente la sua vita.

"Il diavolo nella bottiglia"
Fausto, un barbone che passa le notti nelle giostre dei giardini pubblici, acquista da un misterioso individuo una bottiglia nella quale sarebbe intrappolato il diavolo in persona. Il possessore della misteriosa bottiglia potrà vedere esauditi tre desideri, ma sarà poi perseguitato dalla malasorte se non riuscirà a rivenderla ad un prezzo inferiore a quello per cui l'ha acquistata. Fausto trova così la ricchezza e l'amore, ma sbarazzarsi della bottiglia non sarà semplice...

"La salita"
Una landa desolata. E' l'impervio crinale del Vesuvio. Il sindaco di Napoli arranca sulla salita del monte. Durante la salita, accompagnato per un tratto da un corvo, loquace ed ironico interlocutore, incontra diversi personaggi, simboli e testimonianze di un mondo trasformato e deludente.

"Non è soltanto la cornice – periferia ed entroterra di Napoli – che lega i 5 episodi (“Sofialorèn”, “La stirpe di Iana”, “Maruzzella”, “Il diavolo nella bottiglia”, “La salita”). C'è lo sguardo dei registi, amici e collaboratori tra loro; c'è la visione alterata della realtà, deformata con scatti fantastici e invenzioni barocche; c'è lo spazio dato a una sessualità trasversale, polimorfica, trasgressiva. Nessuna delle 5 novelle è completamente risolta, ma, in varia misura, tutte spiazzano, incuriosiscono, divertono o magari irritano. Sono 5 film di corpi, ossia di attori. Persino “La salita” di M. Martone, l'episodio più austero e civilmente impegnato (con T. Servillo con la fascia tricolore del sindaco che, salendo sul Vesuvio, si interroga sulla crisi della sinistra), è un apologo in cadenze di favola ironica dove si recupera il pasoliniano corvo parlante di Uccellacci e uccellini." (M. Morandini)
".. cinque registi napoletani quasi tutti giovani si uniscono in un film a episodi per raccontare la loro città ma attraverso fiabe, sogni, immaginazioni fantasiose. Quasi un film-manifesto d'un gruppo culturale-creativo importante, se non di una vera scuola napoletana di cineasti: e in questo senso 'I vesuviani' è riuscito, la presentazione d'una aggregazione attuale a Napoli di mestiere e talento anche tecnico del cinema che non s'era mai vista, unica in Italia (il gruppo dei toscani è composto quasi esclusivamente di registi, i filmakers milanesi o torinesi non sono sempre arrivati alle sale cinematografiche, agli spettatori). Da altri punti di vista, invece, 'I vesuviani' è poco riuscito, ma almeno due dei cinque episodi che lo compongono sono interessanti..." (Lietta Tornabuoni, 'L'Espresso', 18 settembre 1997)
"Operazione audace e ovvia nello stesso tempo, quella di un film a episodi, come usava decenni fa, realizzati su Napoli e dintorni da registi napoletani, noti e meno noti, 'I vesuviani' ci sembra, purtroppo, una occasione perduta. 'La stirpe di Jana' di Pappi Corsicato; 'Maruzzella' di Antonietta De Lillo; 'Sofialorèn' di Antonio Capuano, 'Il diavolo nella bottiglia' di Antonio Incerti, 'La salita' di Mario Martone sono i cinque cortometraggi. E se 'La stirpe di Jana' è il più inutile e insignificante, 'Il diavolo nella bottiglia' è il più criptico e il meno 'napoletano': non è mal girato ma ne rimangono oscure le motivazioni. L'episodio di Martone mette in scena un sindaco (di Napoli, si direbbe), con tanto di fascia tricolore, che si chiama Antonio e che scala il Vesuvio: per dire che reggere l'amministrazione di Napoli è come essere continuamente su un vulcano ? per dire che il terreno brucia sotto i piedi? per dire che la fatica è ardua? I simboli possono essere tanti, il film si nota perché, trenta e più anni dopo Pasolini, rimette sullo schermo un corvo parlante. I cortometraggi della De Lillo e di Capuano sono - d'altronde - i migliori e, per la cronaca, sono entrambi, con misura, discrezione e una qualche finezza, testimonianza di omosessualità, non sappiamo quanto emblematica della Napoli d'oggi, innestata comunque su una buona originalità narrativa: questo, specialmente, per 'Sofialorèn', è il nome che T.T. che abita nel rione Terra di Pozzuoli, in una casupola giudicata più volte non agibile, dà al suo bel pesce conservato in una vaschetta di vetro." (Giacomo Gambetti, 'Rocca', 1 dicembre 1997)
http://www.cinemagay.it/schede.asp?IDFilm=3197

viernes, 30 de diciembre de 2011

EXTRA: TV > Cartesius - Roberto Rossellini (1974)


TÍTULO ORIGINAL Cartesius
AÑO 1974
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN 152 min.
DIRECTOR Roberto Rossellini
GUIÓN Roberto Rossellini, Marcella Mariani, Luciano Scaffa, Renzo Rossellini
MÚSICA Mario Nascimbene
FOTOGRAFÍA Mario Montuori
REPARTO Ugo Cardea, Anne Pouchie, Claude Berthy, Gabriele Banchero, Charles Borromel, Kenneth Belton, Renato Montalbano, Bruno Corazzari, Vernon Dobtcheff, John Stacy, Joshua Sinclair
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Office de Radiodiffusion Télévision Française / Orizzonte 2000 / Radiotelevisione Italiana
GÉNERO Drama | Biográfico. Siglo XVII

SINOPSIS La película dramatiza el interés de Descartes (Ugo Cardea) en las nuevas teorías científicas y sus discusiones con los astrónomos Constantin Huygens (Renato Montalbano) y Ciprus (Vernon Dobtcheff). Su vida sentimental se ve reflejada en las relacionnes que mantiene con su sirvienta Elezac (Anne Pouchie), a la que dejará embarazada, negándose a reconocer abiertamente al hijo. (FILMAFFINITY)


La vida de Descartes.
La película se enmarca en el siglo XVII e ilustra la biografía del gran filósofo René Descartes. Rossellini intenta reflejar el pensamiento del autor y los acontecimientos vitales que lo marcaron principalmente. Al estilo de como lo hace en otras obras del mismo cuño como "Sócrates", largometraje también muy recomendable.
El film se mantiene muy fiel al pensamiento y a la época y conforma una buena atmósfera que nos ayuda a entender por qué el siglo anterior a la Ilustración estableció firmemente las bases de la actual ciencia.
Por lo demás la dirección y las interpretaciones son correctas, la música quizás mejorable, aunque lo más destacable es la sensación de vivir el renacer del saber científico en la astronomía, la anatomía, la física y las matemáticas. Todo ello bien narrado y acompañado de detalles sobre Descartes que seguramente ignorábamos.
Moris
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/366505.html

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Del grande filosofo, fisico e matematico francese René Descartes, detto latinamente Cartesius (Cartesio), si ripercorrono alcuni brani di vita e di fervida ricerca a partire dall’adolescenza trascorsa in un  collegio di gesuiti, sino alla morte sopravvenuta dopo una cupa e lacerante depressione.
Poco noto al largo pubblico nella   veste di biografo scientifico, Rossellini dedica i primi anni 70 ad alcuni ritratti per la TV di personaggi che hanno segnato la storia della scienza e prodotti in un periodo interamente impegnato nella realizzazione di una serie di biografie, tra questi Cartesio. Il pensiero dell'uomo di scienza è il grande protagonista dei film di Rossellini di questo periodo. Nel Cartesius il problema cartesiano del metodo emerge davvero con prepotenza e fa trasparire appieno il fascino che esercitava sullo stesso Rossellini: se Cartesio era alla ricerca di un Roberto Rossellini metodo per acquisire la conoscenza, Rossellini cercava di acquisirne uno per divulgarne i frutti. 1611. Siamo a La Flèche nel collegio dei Gesuiti. Renéè Des Cartes  vi era giunto nel 1607 e vi rimarrà fino al 1615. Un gesuita, arrivato da Firenze, parla del cannocchiale con cui Galileo aveva fatto conoscere un’infinità di stelle, delle scoperte delle macchie solari, sulla cui natura lo scienziato pisano, che, seguendo Copernico, credeva nella mobilità della terra e nella stabilità del sole, era incerto. Pierre, il fratello di Descarte, ricorda che questa ipotesi è contraria alla Bibbia ove si afferma che Iddio fermò il sole. Renée chiede al rettore del collegio l'autorizzazione a leggere il De occulta philosophia   di Cornelius Agrippa (1486-1535) e la Magiae naturalis di Giovan Battista Della Porta e in questo colloquio confessa il suo grande interesse per le nuove scienze: ama la fisica e  la matematica. Purtroppo suo padre   Joachim, consigliere al parlamento di Bretagna, vuole che studi diritto alla Facoltà di Poitiers. Seguendo il   desiderio del padre, Renée vi ottiene nel 1616 il baccellerato e la licenza in diritto canonico e civile. Ma egli vuole liberarsi dei pregiudizi e delle opinioni false; vuole far funzionare liberamente la sua mente, estinguere  gli errori, verificare tutte le ragioni, accettare solo quello di cui avrà assoluta certezza. Decide quindi di lasciare la casa che lo ospita e di andare in Olanda e parte con un piccolo bagaglio, senza alcun libro. In una   taverna Descartes con un amico vengono avvicinati da persone che offrono loro un ingaggio per un viaggio su una nave della Compagnia delle Indie diretta alla Nuova   Olanda: si tratta di un imbarco come maestri d'arme.   Accettano e avranno duemila fiorini. L'episodio forse è inventato ma serve al regista per dare un'idea del potere commerciale dei Paesi Bassi. Il 10 novembre 1618 Cartesio, in una strada di Breda, legge in uno scritto affisso il seguente problema di matematica: Una pietra cade da A a B in un'ora. Questa è perpetuamente attratta dalla terra con la medesima forza senza nulla perdere della velocità che le è stata impressa dall'attrazione precedente. Orbene quel che si muove nel vuoto si muove eternamente. Si domanda quanto tempo impiegherà la pietra a varcare uno spazio dato. Nella casa di Beeckman, Descartes dà la soluzione del problema. Successivamente, durante una lezione di anatomia, ad alcune affermazioni ipotetiche del professore, Descartes commenta che senza il controllo della ragione le sensazioni sono fallaci e porta l'esempio di un bastone che quando è in parte immerso nell'acqua appare piegato. Qualcuno lo contesta dicendo che basta immergere la mano per percepire che il  bastone continua dritto e il filosofo risponde che è proprio questo l'intervento della ragione: un confronto tra  il risultato di due sensi e la scelta a favore di uno di questi. Ecco perché vi è necessità dell'evidenza della   ragione, evidenza che deve essere simile a quella data dalla matematica. A Louvain Descartes, invitato a tenere   una conferenza su quanto sta scrivendo, espone davanti ai professori il suo trattato Le Monde, l’opera in cui illustrerà tutto ciò che può spiegare i fenomeni naturali. Per essere più libero di esprimere le sue idee, ha
scelto di parlare di un mondo nuovo posto in uno spazio immaginario: questo mondo è pieno di materia, ma non la materia dei filosofi, e, in tal modo, ha quindi l'occasione per esporre le proprie idee. Arriva una lettera di Mersenne: Galileo, era stato condannato. Descartes, che aveva quasi finito il trattato sul mondo, decide di non   pubblicarlo perché non può correggerlo eliminando il moto della terra per cui Galileo era stato condannato. Nel   salotto di Anne-Marie Schurman, un'intellettuale di quel tempo Descartes esprime alcune delle idee presenti poi nel Discorso sul Metodo. "Dubito di tutto ma penso, dunque sono; esisto quindi ho la certezza di essere qualcosa. Questa verità era così salda e certa che giudicai di poterla accettare come il primo principio della filosofia che cercavo". Ad alcuni teologi della Sorbonne che contestano nella sua opera errori, omissioni e affermazioni    pericolose per la religione, Cartesio risponde ringraziandoli per la benevolenza mostratagli e per la loro religiosità: adesso il suo difficile compito futuro sarà quello di distinguere le proprietà e le qualità dello   spirito da quelle del corpo. Intanto le Meditationes vengono stampate a Parigi, il 28 agosto 1641, ed è lo stesso Mersenne a soprintendere il lavoro.
httpwww.apav.itmattempoliberocinemaematematicamatematiciscienziaticartesio.pdf



Roberto Rossellini: La comunicación como terapia (y III)
3. Rehabilitación (De la fe a la ciencia).

A partir de la comunicación se podrá acceder al conocimiento y, a partir de éste, a un escalón superior que lo regule: la Ciencia. Esa sencilla escalera será una gran solución, pero sus tres peldaños se verán como auténticas montañas, verdaderos “Strombolis”, para el hombre que buscará la manera de no despeñarse en el intento. Para Rossellini, ya lo avisamos, el método más seguro para la escalada era la Historia. De todos modos y si bien la estructura de la escala era firme e inamovible, los pasos a dar no debían estar guiados por idéntica rigidez.
Frente a las certezas de las religiones, de las mitologías, de las filosofías reveladoras, de las ideologías y del animismo en general, Rossellini abrazaría la idea de un conocimiento maleable y fuera del dogma partiendo de dos premisas: la científica (la puesta en cuestión de una verdad hasta que sea refutada o afirmada) y la evolucionista: “el conocimiento como continuo devenir” (1) que diría Marx.
Las primeras ofrecían convicciones y eliminaban las angustias producidas por el no-saber, por lo desconocido, pero eran parches débiles por su condición de falaces. El esfuerzo para despojarse de ellas y los sufrimientos posteriores que conlleva al enfrentarse a la realidad tal cual es, sin marcos preestablecidos, es el motivo rosselliniano por excelencia; de hecho será su propia manera de filmar unas películas que en absoluto son ajenas a ese choque de métodos en busca del saber.
En la mezcla y confusión de estos, tratan de chapotear los personajes buscando y sin saber bien donde agarrarse, si en la felicidad y la seguridad, al menos el consuelo, ofrecidas por la fe, o en la dolorosa exploración de la verdad. La pareja de Viaggio in Italia, en medio de la procesión napolitana, se pregunta cómo demonios puede creer aquella gente en esas cosas. “Parecen niños”, dicen, y los niños suelen ser felices. A unos les vale con la farsa del milagro, mientras los otros necesitan de la sincera comunicación como algo más duradero y palpable sobre lo que poder seguir viviendo. La inmersión de las dos vías en un mismo conjunto resulta fascinante, pero en ningún momento supone la convergencia de las mismas, sólo la constatación del interés por el hombre más allá de sus creencias.
Saber perpetuo y global: “la educación ha de convertirse en algo permanente en la vida de los hombres” (2). Teníamos, pues, un problema: la mala comunicación que puede conducir al conocimiento defectuoso o no razonado y una posible solución: la continuidad del proceso de aprendizaje unido a cierto criterio de falsabilidad científica. Alguien ya puso en imágenes esto antes que el italiano:
La deslumbrante trilogía del XVII: La prise…, Cartesius (1974) y Blaise Pascal -sobre todo las dos últimas- reflejará ese interés por mostrar el arranque definitivo de la compleja transición que intenta conducir al hombre de la fe a la ciencia. De la escolástica como método de conocimiento que no puede ser cuestionado, asentado como estaba en su oscuridad y en la repetición tautológica, a un librepensamiento al que le costará despegarse de esa pesada e inamovible tradición repleta de prejuicios. El XVII como encrucijada y como muestra de nuevos problemas: la dificultad para procesar y la especialización (un signo de modernidad según Gianni Vattimo) del conocimiento, hecho éste que aún hoy perdura y contra el que Rossellini luchó desde un enciclopedismo militante.
Aquí, la visión de Rossellini no se muestra ventajista como ha sucedido otras veces con el XVII y con el legado de Descartes, el cual ha sido objeto en la era digital de una apropiación histórica. Una reactualización de funciones que flaquea no por su inadecuación al momento actual, que también, sino porque parte de un error de base, de una lectura parcial del pasado cartesiano como modelo y como prefiguración, como una descorporeización digital avant la lettre.
Anna Munster dedica un gran estudio (3) a esa necesaria reelaboración del “pasado digital” cartesiano en el que intenta devolver a lo corporal su presencia y relevancia mediante un necesario ejercicio de contextualización: la cultura y la estética barroca, la relación del cuerpo y el pensamiento con sus contradicciones, las máquinas e ingenios tecno-científicos, las estructuras de poder y conocimiento cambiantes, etc. La dificultad que supone el cuestionamiento constante de los hechos y del método en el conocimiento científico aparece aquí con la imposibilidad de abstraerse al contexto, y lo hace de manera tan rotunda como la influencia de las condiciones ambientales en las que desarrolla cualquier experimento de laboratorio.
De ese mismo punto, en apariencia tan lejano, arrancarán también sus feroces críticas hacia la labor de los medios de comunicación de masas, aunque luego hará uso de ellos, siendo como era conocedor de su gran poder de influencia, para intentar revertir los efectos perniciosos que detecta: la especialización radical o una diversidad frívola, el tratamiento falaz de la realidad que conduce afecta a unos espectadores con dificultad para discernir, sujetos como están a identificaciones primarias del todo insuficientes y hasta dañinas. La preeminencia de la opinión sobre la información culminaría el daño de esos medios de comunicación, auténticos “ministros (…) del reino de la semicultura” (4).
Sin olvidar la colaboración decisiva de estos, y que Rossellini observa, en la muerte de los archivos, consecuencia de la frecuente no adecuación de la tecnología al hombre. Un mal de archivo menos abstracto que el de Jacques Derrida (Mal de archivo. Una impresión freudiana, Trotta, Madrid, 1996), cuyas implicaciones en el audiovisual serían conocidas por todos aquellos que desde la teoría (Jean-Louis Comolli, Allan Sekula o Antonio Weinrichter, por citar tres de los más representativos), el cine experimental y el vídeo, han considerado los bancos de imágenes e historias como depósitos vivos desde un punto de vista semántico, del todo aprovechables para multitud de prácticas (apropiación, found footage, documental, collage, etc.) y estudios. No puede extrañar, entonces, que ya para la elaboración de L’Età del Ferro, Rossellini acudiera al archivo para componer partes de la serie.
Como vemos, el problema de la comunicación (del saber y del conocimiento) no se restringía a esos repetidos problemas idiomáticos que siempre observábamos en algunos personajes de sus filmes5. Estos, ni siquiera eran un síntoma más, eran hechos llamativos sin duda, pero absolutamente circunstanciales y ni mucho menos la cusa subyacente de la enfermedad. Si aquellas trabas para entenderse se superaban mediante la actitud positiva de los sujetos y la empatía, los otros se encontrarán con dificultades mayores. Rossellini avisó y aportó su trabajo, nosotros, hoy, seguimos sin resolverlo y en el peor de los casos sin encararlos y sin prestarle atención.
“Ante todo está la necesidad de entenderse”. (Roberto Rossellini)
1.ROSSELLINI, 2001, p. 41.
2.ROSSELLINI, 2000, p. 167.
3.Munster, Anna: Materializing New Media: Embodiment in Information Aesthetics. University Press of New England, Lebanon, 2006.
4.ROSSELLINI, 2001, p. 103.
5.El primer y el segundo episodio de Paisá (1946), lo mencionado de Stromboli (1950), los diferentes soldados de Era notte a Roma (1960)

La seduzione - Fernando Di Leo (1973)


TITULO ORIGINAL La seduzione
AÑO 1973
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Incorporados) y Español (Separados)
DURACION 100 min.
DIRECCION Fernando Di Leo
ARGUMENTO Novela "Graziella" de Ercole Patti
GUION Luisa Montagnana, Ercole Patti, Marino Onorati, Fernando Di Leo
REPARTO Lisa Gastoni, Maurice Ronet, Jenny Tamburi, Graziella Galvani, Pino Caruso, Barbara Marzano, Ornella Muti, Rosario Bonaventura, Giorgio Dolfin, Luigi Antonio Guerra
FOTOGRAFIA Franco Villa
MONTAJE Amedeo Giomini
MUSICA Luis Bacalov
PRODUCCION CINEPRODUZIONI DAUNIA '70
GENERO Drama

SINOPSIS Il giornalista Giuseppe Laganà (M. Ronet) torna, dopo quindici anni, a Catania e ritrova la sua vecchia fiamma Graziella (L. Gastoni) che, però, ha una provocante figlia adolescente (J. Tamburi). Tragedia. Dal romanzo del siciliano Ercole Patti Graziella (1970) un film in chiave di fotoromanzo ora pruriginoso, ora lacrimoso. (Il Morandini)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ-Split)
http://www19.zippyshare.com/v/97676687/file.html


TRAMA:
Giornalista in Francia, Giuseppe Laganà torna dopo quindici anni nella natia Sicilia, richiamato dal ricordo di Caterina la ragazza amata, ora vedova e madre dell'adolescente Graziella. Riconquistata senza fatica la sua antica fiamma, Giuseppe ne frequenta assiduamente la casa. Quindicenne spregiudicata, Graziella, affascinata dal quarantenne amante della madre, comincia una maliziosa opera di seduzione che ha un prevedibile sbocco. Scoperta la loro tresca, Caterina ne è traumatizzata, ma poi finisce per adeguarsi alla situazione spartendo Giuseppe con la figlia. Quando costui, però le tradisce entrambe, con un'amica di Graziella, Caterina impugna una pistola e lo uccide.

CRITICA:
"E' un film ispirato al romanzo di Ercole Patti 'Graziella', del quale il regista ha colto soprattutto gli elementi che meglio si prestavano a una torbida trasposizione per immagini. Immersa da cima a fondo in un'atmosfera di greve sensualità, la vicenda manca di quei significati psicologici e di costume che soli avrebbero potuto almeno in parte giustificarla. Anche la ribellione finale della donna alla vicenda della figlia nasce più dall'istinto materno, dallo schifo, dalla gelosia, che da un vero riconoscimento della rispettiva vita immorale". ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 76, 1974)
fonte "RdC - Cinematografo.it"
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=9780&film=La-seduzione

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Fernando di Leo es uno de los mas valientes guionistas y directores del cinema italiano de los Sesenta y Setenta. Desde POR UN PUÑADO DE DOLARES(Per un pugno di dollari) hasta CALIBRE 9 (Milano calibro 9), su carrera estas llena de éxitos, pero las cosas mejores llegan cuando Fernando di Leo hace películas negras de las novelas violentas de Giorgio Scerbanenco.
“En las películas dirigidas por di Leo hay siempre ironía, también en las mas torvas. Mis deudas cinematográficas con esto director son muchas…” dijo Tarantino.
Las peliculas de di Leo no son demasiadas, pero todas enfrentan temáticas originales: Rose rosse per il Furher (1968), UNA MUJER ARDIENTE (Brucia ragazzo brucia,1969), Amarsi male (1970), LA BESTIA MATA A SANGRE FRIA (La bestia uccide a sangue freddo,1971), CALIBRE 9 (Milano calibro 9,1972), NUESTRO HOMBRE EN MILAN (La mala ordina, 1972), SECUESTRO DE UNA MUJER/ MISIÓN PARA MATAR (Il boss,1973), LA SEDUCCIÓN (La seduzione,1973), Il poliziotto è marcio (1974), La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975), LA ESPIA SE DESNUDA (Colpo in canna, 1975) LOS AMIGOS DE NICK HEZARD (Gli amici di Nick Hezard, 1976), MISTER SCARFACE (I padroni della città,1977), DIAMANTES MANCHADOS DE SANGRE (Diamanti sporchi di sangue,1978), LAS VEINTEAÑERAS (Avere vent’anni,1978), VACACIONES PARA MATAR (Vacanze per un massacro,1980), Razza violenta (1983), L’assassino ha le ore contate (1981) e Killer contro killers (1985).
Fernando di Leo muere en Roma en el año 2003, tenia 71 años. Tenia muchas ideas en la gaveta y muchas ganas de enfrentarse de nuevo el set de una película. Quentin Tarantino dijo que di Leo es un director de culto. Desgraciadamente se murió demasiado temprano para poder gozar de una legítima revancha contra los periodistas intelectuales que lo criticaron mucho y sin tener razón. Para ellos, di Leo es director de películas violentas, inútiles y sádicas. Sin embargo, para nosotros Fernando di Leo es un señor autor y por esto le vamos a dedicar un libro. El primero, creo mejor decir único,libro sobre sus películas…
Gordiano Lupi (FERNANDO DI LEO E IL SUO CINEMA NERO E PERVERSO)
http://cinemedianoche.blogspot.com/2009/02/fernando-di-leo-e-il-suocinema-nero-e.html



IL CINEMA DI FERNANDO DI LEO: UN FILM, UN AVVENTURA IDEOLOGICA

Io sono convinto che i generi esistano e sono pure convinto che vadano rispettati. Tuttavia qualche innovazione e provocazione si può sempre ficcare, senza che il genere diventi "altro".
Fernando Di Leo era sempre solito rispondere alla maggior parte delle domande che le interviste gli sottoponevano citando un concetto molto semplice, improntato alla biforcazione quasi sillogistica di due termini confinanti come “film” e “cinema”.
All’interno di un dato film, amava precisare, poteva esserci del buon cinema, intendendo col primo concetto la forza lineare e riconoscibile delle strutture di genere e con l’altro la capacità o la sensibilità dell’autore di affrontare il proprio ruolo in maniera organica e originale, sforzandosi di emozionare, sedurre, irritare, provocare, abbeverandosi insomma alla fonte primigenia da cui sgorga e discende ogni finalità dell’arte drammatica: rendere partecipe chi assiste del proprio tempo e costringerlo ad interrogare i propri sentimenti e le proprie idee al riguardo, senza per questo privarlo della soddisfazione psichica ed estetica derivante dalla catarsi. In questo senso Di Leo incarnava quasi “ereticamente” quel ruolo di “intellettuale organico” di Gramsciana memoria, attento e coerente nell’analisi dei fermenti politici e sociali della sua epoca, ma anche recettivo nel captare quanto di qualitativamente migliore, all’interno del cinema internazionale, raccoglieva ed abbracciava il gradimento del gusto popolare.
Non per questo le sue opere devono essere considerate come una sorta di “surplus”, rispetto al concetto di narrazione di genere, piuttosto come una delle esemplificazioni più forti, pulsanti e complesse che il cinema italiano abbia mai offerto in tal senso.
Qualora ci sia chi ancora storce il naso, riguardo all’affidabilità “autoriale” e politica di questo tipo di definizione, ricordiamo che anche i romanzi di Charles Dickens potevano considerarsi, per l’epoca, narrazioni di genere, letteratura episodica e popolare (tanto che uscivano a puntate, pagate un tanto a pagina sui nascenti settimanali e quotidiani) ma ricordiamo anche come quelle stesse opere furono definite da un certo Karl Marx (uno che non s’occupava di mondanità ne d’intrattenimento) come la più riuscita critica, denuncia e rappresentazione artistica dei meccanismi alienanti del proprio tempo, come manifesti anti-capitalistici che si scrivevano da se.
Il primo rapporto con la letteratura, erano gli anni Cinquanta, passava da Sartre a Hemingway, da Camus a Faulkner, allorché trovai in uno dei diari di Gide il nome di Hammet, un giallista che stimava molto e dato che io stimavo Gide ne feci subito ricerca. Negli stessi anni – il lungo dopoguerra e l’inizio del boom – arrivarono una caterva di film americani gialli, d’azione, noir, a cui andavano le mie simpatie di spettatore e, a livello inconscio, le scelte che avrei fatto quando sarei diventato regista.. Hataway, Wise, Houston diventarono i miei preferiti, perché socializzavano i temi che trattavano, come del resto Kazan, Lumet, Lang, Aldrich. I francesi, nel genere che accomuna il giallo, quello d’azione e il noir, non erano da meno: Rififi, Le grisbi, I diabolici.
Metabolizzando questi archetipi secondo un approccio pratico prima ancora che teorico, Di Leo costruisce intrecci di grande respiro, popolati da personaggi ambigui, amari e difficili come lo sono gli uomini nella lotta per la vita che ingaggiano tutti i giorni, dona agli eventi narrati una contestualizzazione che rifugge ogni astrazione rassicurante per rincorrere e trovare quasi sempre una precisione sociologica dal realismo impressionante.
Nei noir girati tra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta, in particolare in quella che definirei come la sua “trilogia della mala” (Milano calibro 9, La mala ordina e Il Boss girati fra il ’72 e il’73), Di Leo mette in scena con incredibile sintonia ed inegualiata efficacia spettacolare tutte le contraddizioni e i fenomeni emergenti più inquietanti di quel periodo, evitando sia di ricorrere allo sperimentalismo brechtiano e filo-maoista di un Godard che ai moduli spesso verbosi e usurati del cinema d’impegno sociale prodotto in Italia in quegli anni (Rosi e Petri esclusi almeno quando giravano al loro meglio). La contestazione studentesca e le trasformazioni che si evidenziavano sul piano dei comportamenti sociali, specialmente da parte dei giovani e delle donne (vedi i personaggi femminili ne La Mala Ordina e Il Boss), l’infiltrazione mafiosa e la sua evoluzione in senso capitalistico attraverso il riciclaggio (Milano calibro 9 e La Mala Ordina), le collusioni fra “cosa nostra” e il cosidetto “terzo livello”, ovvero il ceto politico e dirigente come lo definì Giovanni Falcone, il voto di scambio, il ricalcare le stragi e gli eventi che caratterizzarono la “prima guerra di Mafia” e che portarono al maxi-processo di Bari del 1968 (tutto questo ben fotografato ne Il Boss) sono messi in scena senza peli sulla lingua e con la dovuta crudezza d’immagini dal cinema di Fernando Di Leo, grazie a trame ben congegnate e strutturate sul modello “in medias res” della tragedia greca e a protagonisti usciti dalle pieghe della cronaca e della vita, interpretati da grandi attori diretti con sensibilità.
Naturalmente narravo di fatti avvenuti: corruzione, racket, uccisioni per “avvertimento”, regolamenti di conti… Così come avevo preconizzato con Milano calibro 9, La mala ordina e Il boss l’escalation della delinquenza, con intuizioni sociologiche, adesso facevo la stessa cosa con la polizia. Facile profezia, in quanto lo specchio di quello che accadrà in Europa lo abbiamo, anticipato di qualche anno, osservando quello che accade in America. Quindi collusioni con i boss, cifre iperboliche di guadagni tramite la corruzione, sviluppi tecnologici e manageriali della malavita, compiacenze del potere politico, sistemazioni internazionali agli investimenti, insomma: un gioco sempre più grosso che investiva l’Italia.
Naturalmente i meriti della scrittura e le intuizioni politiche e sociologiche in assoluto anticipo sui tempi non possono far passare in secondo piano ne prescindere da quello che è il cinema, inteso come messa in scena, organizzazione di materiale tecnico ed umano, da quelle qualità insomma che distinguono un grande regista e uomo di spettacolo da un mestierante che potrà al limite solo beneficiare di un ritorno in auge del kitsch o di un’estemporanea apologia del brutto stile Ed Wood.
E Di Leo era un regista vero, capace di orchestrare le storie che lui stesso scriveva in maniera vorticosa ed originale, di girare scene d’azione secche ed eleganti, senza il bisogno di dover stupire ad ogni costo, ma chiedendosi semplicemente e sinceramente dove e perchè fosse meglio posizionare la macchina da presa, che è quanto di più importante un director dovrebbe sempre ricordarsi di porre in essere. Non solo, Di Leo era anche un attento studioso, sempre attraverso la pratica, la filosofia della prassi per riecheggiare ancora Gramsci, di quella grande evoluzione che caratterizzò il cinema del suo tempo: vale a dire l’uso narrativo della musica e il suo rapporto, a livello semantico, con le immagini mostrate. Il nero, il “noir” per Di Leo era anche questo, un senso di prossimità alla fine, un destino amaro e balordo sempre in agguato, assiomi che, nei suoi film, la musica poteva rivelare e tradurre in maniera più efficace di qualsiasi dialogo, dichiarazione esplicita o considerazione critica di sorta: basti pensare alla colonna sonora realizzata da Luis Bacalov e dagli Osanna per Milano calibro 9 vera e propria “Cassandra” inascoltata presaga della sorte luttuosa in serbo per ciascuno dei personaggi, o al funky rabbioso ed esasperato che Armando Trovajoli scrisse per La mala ordina. E in ultimo ma non per ultimi vengono gli attori, con i quali Di Leo lavorava a stretto contatto, senza concessioni alla moda dell’improvvisazione creativa ne alcuna sudditanza ai rispettivi manierismi, ma semplicemente scegliendoli in consonanza fisica ed espressiva con il profilo “social-esistenziale” dei personaggi da lui creati e quindi aiutandoli con sensibilità e pazienza a sfruttare i propri limiti tecnici ed umani indirizzandoli nelle nevrosi e nelle frustrazioni dei caratteri interpretati. Attori come Mario Adorf, Pier Paolo Capponi, sono stati praticamente scoperti e rivelati al grande pubblico dal regista pugliese altri, come Luc Merenda, Gastone Moschin (in chiave drammatica), Henry Silva, Joe D’Alessandro, Marc Porel, non hanno mai recitato tanto bene come hanno fatto sotto la sua guida.
Dove io sono bravo è a tenere sempre la corda tesa. Se mi “siedo” un poco la gente capisce che sto seduto, ma sa che tra poco ricomincerò. E poi le psicologie, la verità dei personaggi. La grandezza di un film, la partenza per la grandezza di un film, è che i personaggi siano veri. Questo l’ha insegnato De Sica con Ladri di biciclette, senza bisogno di scomodare i classici, i francesi, che qualsiasi carattere mettono nei film sono personaggi che tu incontri e conosci.
In conclusione, il cinema di Fernando Di Leo, pur aspirando e talvolta accedendo ad una portata e ad un respiro internazionale, non fu mai apolide, astratto ne avulso dalla realtà storica in cui il suo autore viveva e con la quale ideologicamente si confrontava, anzi, proprio da questo stretto connubio traeva gran parte della sua forza espressiva e quella capacità di risultare ancora oggi, al di fuori di qualsiasi rivalutazione auto-imposta, un modello espressivo straordinariamente attuale e un esempio per qualunque autore creda fermamente nelle proprie idee e nel proprio cinema, ma sopratutto per chi il cinema lo ama e lo divora senza steccati estetici ne barriere sciovinistiche o culturali.
Dopo la sua “trilogia della mala”, Di Leo cercò di adattare il proprio modo di fare cinema, senza per questo snaturarlo, ai nuovi e soggiacenti fermenti della società italiana, in alcuni casi dovette piegarsi ad esigenze produttive che lo ponevano a confronto con certe propaggini degenerative di quel cinema popolare che lui stesso aveva contribuito a creare (leggasi “poliziottesco”), quasi sempre portò a termine ognuna delle tappe del suo percorso artistico con la consapevolezza e il distacco di chi ama e conosce perfettamente il proprio mestiere.
Film come La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori, Gli amici di Nick Hezard, I padroni della città, Diamanti sporchi di sangue proseguono nel delineare, seppure con efficacia discontinua e calante, la parabola della piccola e della grande criminalità che si annidava nelle città italiane, mettendo spesso e clamorosamente il dito nella piaga della connivenza e della corruzione da parte delle forze dell’ordine (è il caso de Il Poliziotto è marcio forse il miglior “noir” del suo secondo periodo).
L’età sopravvenente e la progressiva separazione dalle fortune commerciali che nel frattempo, siamo all’alba degli anni ’80, avevano abbandonato la produzione popolare dei generi per abbracciare il cinema stantio e minimale dei comici provenienti dalla tv e dal cabaret, gli concessero il tempo per due variazioni sui suoi temi abituali rappresentati da Avere vent’anni (1978) e Vacanze per un massacro (1979).
Il primo è un “road-movie” per così dire filosofico, nel quale, attraverso le vicende delle due protagoniste, appartenenti ad una generazione ormai distante da quella del ‘68, riflette sul fallimento o meglio sul declino e l’inattuabilità di certi ideali come il femminismo, la liberazione dei legami interpersonali, le comuni, la (contro)cultura della droga e del misticismo ad essa connesso. Il secondo è invece una sorta di “Kammerspiele”, di noir da camera o da appartamento, in cui Di Leo sembra tornare al suo vecchio e mai dismesso amore per il teatro e calibra una delle migliori direzioni degli attori della sua intera carriera.
Non è millanteria: sfido chiunque a portare titoli italiani, inglesi, francesi, tedeschi migliori dei miei nel genere, di quel periodo e magari fino ad oggi. Ho fatto dei buoni film e spesso del buon cinema. Le due cose, si sa, spesso corrono separate. Quanto ad aver precorso i tempi: tutto accadeva e nessuno trattava l’argomento, tutto qui. Quando io feci Milano calibro 9 la pubblicistica italiana manco si sognava che Milano potesse essere la capitale del crimine. Quindi, come ho concorso ad “inventare” il genere western-spaghetti, così ho concorso a creare il poliziesco d’azione. Lungi da assumermi tutti i meriti: io con altri, io più di altri.
Tutti i brani in corsivo riportano dichiarazioni di Fernando Di Leo rilasciate a Davide Pulici nella sua intervista per “Nocturno Cinema”.
Simone Coacci
http://cinema.tesionline.it/cinema/approfondimento.jsp?id=1619

jueves, 29 de diciembre de 2011

Gianni e le donne - Gianni Di Gregorio (2011)


TÍTULO ORIGINAL Gianni e le donne
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 90 min.
DIRECTOR Gianni Di Gregorio
GUIÓN Gianni Di Gregorio, Valerio Attanasio
MÚSICA Ratchev & Carratello
FOTOGRAFÍA Gogò Bianchi
REPARTO Gianni Di Gregorio, Valeria De Franciscis, Alfonso Santagata, Valeria Cavalli, Aylin Prandi, Elisabetta Piccolomini, Kristina Cepraga, Teresa Di Gregorio, Lilia Silvi, Gabriella Sborgi
PRODUCTORA BiBi Film / Isaria Productions / Rai Cinema
PREMIOS 2011: Premios David di Donatello: 2 nominaciones
GÉNERO Comedia | Vejez

SINOPSIS Gianni es un jubilado que tiene muchas ocupaciones: debe hacer los recados y toda clase de trabajitos para su mujer, para su hija y para una guapa vecina. Un día, su viejo amigo Alfonso, que disfruta de unas sorprendentes aventuras sexuales, decide que ya es hora de que Gianni tenga novia y redescubra algunos de los placeres de la vida. (FILMAFFINITY)


Gianni è un uomo italiano come tanti, 60 anni, una moglie con la quale convive per abitudine ma senza neanche troppi problemi, una figlia adolescente che adora e con la quale ha un rapporto sincero e giocoso, ma soprattutto una madre ultra novantenne, che nonostante la sua vitalità, richiede al figlio un’attenzione costante. Gianni è già in pensione e trascorre le sue giornate facendo favori e commissioni a chi lo circonda, come prendere le tende all’Ikea alla moglie piuttosto che portare a spasso Riccardo, il cagnone della bella e giovane vicina. Un giorno Gianni si accorge di essersi dimenticato di essere attratto dalle donne. A partire da questa presa di coscienza inizierà un viaggio alla riscoperta del gentil sesso, di sé stesso e dei sui limiti.

Dopo il successo di Pranzo di Ferragosto (2008), torna sul grande schermo Gianni Di Gregorio con Gianni e le donne, una divertente e autentica commedia, scritta e diretta dal medesimo.
Di Gregorio, dopo le collaborazioni con Farina, Colli e Garrone (con il quale scrisse nel 2007 la sceneggiatura di Gomorra) conferma di aver trovato la sua strada, con uno stile originale che riflette spensieratezza, ironia, spontaneità e sensibilità.
Gianni e le donne non è certo un capolavoro cinematografico, ma si presenta come una commedia davvero piacevole, per un pubblico di tutte le età e che si distingue appunto per la sua autenticità, per le verità che racconta in maniera assolutamente familiare. La pellicola mostra personaggi alle prese con le loro solite avventure quotidiane, “normali” per così dire; mostra un mondo che non è affatto stra-ordinario e che proprio per questo ci colpisce nel profondo, perché rimanda alla nostra esperienza.
L’autenticità del mondo ordinario di Gianni, il protagonista, è resa in maniera apprezzabilissima prima di tutto dal cast, costituito da attori che interpretano con rara spontaneità i loro personaggi. Ne emerge un realismo totale, dato da una vera e propria continuità tra vita reale e finzione cinematografica, tanto che ogni personaggio del film porta lo stesso nome dell’attore che lo interpreta.
In generale, l’elemento che più colpisce nel film è la capacità dello sceneggiatore di cogliere l’essenza di situazioni tipiche nelle quali gli italiani di oggi possono facilmente riconoscersi, a partire dalle generazioni più giovani fino alle più vecchie.
Tra queste, l’assenza di affiatamento in una coppia sposata da anni, ma anche l’incapacità generale, perfino tra i più giovani, di vivere serenamente il rapporto di coppia; indicativa a questo proposito è la battuta delle gemelle: “Gli uomini di oggi non si vogliono impegnare (...) Ma noi (dicono le gemelle) stiamo bene così”; e per ovviare alla monotonia di coppia, farsi l’amante appare la soluzione prescelta dai più (“Ma che è, l’amante è una psicosi collettiva?!”); preferibilmente un’amante nel fiore degli anni e con un fisico ancora attraente; e quindi, facile che la preda sia la bella e bionda badante polacca addetta alla cura dell’anziano decrepito di famiglia. Ma anche quando non si ricorre alle straniere o alle ragazzine, e si opta per una scelta più “nobile”, come ricontattare il primo amore, i risultati non sono dei più felici: “Sono anni che non ci vediamo e io mi sto addormentando”.
Un altro tema portante è quello della vecchiaia: da una parte, il terrore della senilità, che attanaglia gli adulti di oggi, aspiranti eterni giovani, dall’altra la vivacità e la vitalità degli ultra-ottantenni, dai vecchietti che sostano davanti al bar del quartiere spettegolando sui passanti, alle amiche della madre di Gianni, interpretata dalla straordinaria Valeria de Franciscis Bendoni (classe 1915!).
E poi c’è il divertentissimo rapporto tra Gianni e il fidanzato della figlia, Michelangelo, ventenne nullafacente, che invece di lavorare o studiare si diletta nella musica e nel cazzeggio: “Tanto ormai neanche quelli laureati in economia trovano lavoro, figurati io!”.
Un pensiero va infine a un co-protagonista indiscusso della commedia, una sorta di amico a cui un po’ tutti fanno ricorso nei momenti più critici: il mal di testa, senza dubbio la patologia a cui siamo più affezionati di questi tempi.
In conclusione, un film piacevole, senza troppe pretese, con una struttura debole perchè senza punti di svolta, ma che ci fa guardare allo specchio e sorridere. Il che non è poco.
Giulia Coccovilli
http://www.storiadeifilm.it/Gianni_E_Le_Donne.p0-r700

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«Gianni y sus mujeres»: La liberación del hombre
Dirigir, escribir el guión, protagonizarla... supongo que Gianni di Gre- gorio debía tener mucha fe en este proyecto, una especie de revisitación de aquella «Ciudad de las mujeres» felliniana en la que las donnas, hermosas, salvajes y libres, llevaban, como siempre en el cine del maestro romano, la voz cantante. Pero los años (era 1980)  han pasado y tampoco Di Gregorio es Fellini, claro, de ahí que la historia  que nos ocupa resulte, aunque enternecedora a ratos y divertida  otros tantos, escasa. Nada que objetar al trabajo del Di Gregori actor; el rostro del intérprete sabe reflejar las ataduras que la vida poco a poco le ha ido imponiendo (con su madre, con la esposa que ve sólo de vez en cuando, con una hija; no se trata exactamente del   «Doctor  T...», pero bueno...), de ahí que el dócil cincuentón prejubilado que interpreta decida un día olvidar las obligaciones y tener una aventura, aunque sea pequeñita. Si las señoras se dejan, porque los tiempos han cambiado hasta en la eterna Italia.
(Carmen L. Lobo: Diario La Razón)
http://www.larazon.es/noticia/6382-gianni-y-sus-mujeres-la-liberacion-del-hombre



El invierno del sexo
Hace un par de años llegó un debut de apariencia discreta, en forma de miniatura confeccionada sin aparente esfuerzo. Era un debut tardío: su director se estrenaba a los sesenta años de edad y lo poco que sabíamos de él es que había sido uno de los guionistas de Gomorra (2008), ambiciosa adaptación del libro de no ficción de Roberto Saviano a cargo de Matteo Garrone. El otoñal principiante en cuestión se llamaba Gianni Di Gregorio y su opera prima era Vacaciones de ferragosto (2008), una película de metraje escueto -tan solo 75 minutos- que evocaba la comicidad derrumbada y melancólica de la mejor comedia italiana de posguerra. Su historia era casi un vodevil disecado: la crónica del Ferragosto de un solitario sesentón, que se veía en el brete de cuidar, durante ese fin de semana, no solo de su anciana e irritante madre, sino también de las venerables madre y tía de su casero. Di Gregorio ejercía de protagonista, coguionista y director de la película, que ocultaba una secreta grandeza bajo su modesta apariencia: Vacaciones de ferragosto contenía afortunadas caracterizaciones cómicas trazadas casi con lápiz invisible, esbozaba una posible puesta al día,
casi poshumorística, de la clásica comedia italiana y construía un agridulce panorama de precariedades económicas y necesidades afectivas.
Ahora, el estreno de Gianni y sus mujeres confirma que Vacaciones de ferragosto no era un aislado capricho, sino la primera piedra de un proyecto creativo. Gianni Di Gregorio parece haber adoptado la metodología de trabajo de los grandes cómicos del cine mudo; un modo de hacer que se perpetuó en Jacques Tati y, en cierta medida, sigue teniendo en Woody Allen a un infatigable guardián de las esencias. Como en tiempos de Chaplin y Keaton, la clave está en acortar las distancias entre actor / creador y personaje: el Gianni de la película es una destilación autoirónica del propio Di Gregorio y, también, una modulación del Gianni de Vacaciones de ferragosto. Aquí, ese arquetipo de sesentón resignado tiene mujer, hija y seudoyerno con las horas contadas, pero sigue cargando con una mamma que es la mayor prueba que el destino ha puesto a su madera de santo Job.
Si en Vacaciones de ferragosto pervivía el vodevil en el contexto terminal de un hogar poblado de ancianas compitiendo por el afecto y la atención del antihéroe, Gianni y sus mujeres sería la negación crepuscular de una comedia de Álvaro Vitali o un funeral por el espíritu de Benny Hill: Gianni, el personaje, intenta recuperar su visibilidad frente al elemento femenino, obteniendo una sucesión de sutiles humillaciones que convierten a la película, por su habilidad para el slapstick del desencuentro masculino / femenino, en la respuesta desacelerada al Siete ocasiones (1925) de Buster Keaton. La sutileza con la que Di Gregorio establece dinámicas de pareja cómica casi con cada miembro restante del reparto -aunque la madre y el yerno se llevan la palma- es otro testimonio del genio cómico que anida en esta película que explora las amargas negociaciones con el invierno del deseo.
Jordi Costa: Diario El País)
http://www.elpais.com/articulo/revista/agosto/invierno/sexo/elpten/20110826elpepirdv_13/Tes

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Rispetto alla resistibile ondata del cinema italiano d’intrattenimento, che oscilla fra aspiranti commedie sofisticate e farse di dubbio gusto, Gianni e le donne, il secondo film di Gianni Di Gregorio (una vita da sceneggiatore e aiuto regista, culminata nell’ormai storico artistico sodalizio con Matteo Garrone, da Estate Romana a Gomorra) rappresenta una felice eccezione. Con il suo nuovo film, Di Gregorio riannoda le fila del discorso comincito con il precedente Pranzo di Ferragosto (2008), sorprendente esordio che, tra spunti autobiografici e note di tenerezza, raccontava la giornata particolare di un sessantenne alle prese con un gruppo di vecchiette fin troppo arzille. In Gianni e le donne Di Gregorio esplora con ironia il mondo di un uomo che si affaccia fiaccamente alla terza età, attraverso il rapporto impacciato, inconcludente e vagamente
umiliante con le donne che lo circondano. Gianni, sguardo mite e animo infinitamente paziente, in prepensionamento ormai cronico, trascorre le sue giornate ciondolando al servizio di una moglie e di una figlia quasi sempre assenti (giusto il tempo di un caffè al mattino e di uno sguardo distratto la sera), destreggiandosi fra il pagamento delle bollette, le faccende domestiche e le passeggiate col cane. A completare l’idilliaco quadretto c’è naturalmente sua madre (l’impareggiabile Valeria De Franciscis, che torna a collaborare con Di Gregorio dopo il suo debutto cinematografico, a 93 anni, in Pranzo di Ferragosto), nobildonna decaduta che abita in una villa alle porte di Roma, ben decisa a dissipare allegramente tutto il restante patrimonio, tra bottiglie di champagne e aperitivi pantagruelici con le amiche. A svegliare, momentaneamente, Gianni dal torpore è l’amico Alfonso (Alfonso Santagata, l’amministratore di “Pranzo di Ferragosto”), avvocato che millanta una brillante carriera amorosa e lo invita a prendere al volo gli ultimi bagliori di giovinezza. Inizia così per Gianni, un po’ perplesso e trasognato, una sorta di malinconica e sconclusionata rieducazione sentimentale, alla ricerca di un appuntamento galante o almeno di un sorriso d’intesa con una delle infinite donne che, tra vecchi amori (la compagna di scuola in carriera) e nuove muse (la procace infermiera della madre e la svagata Aylin, vicina di casa dotata di San Bernardo) popolano il suo
mondo o vi si affacciano per un attimo negli assolati pomeriggi romani. Inutile dire che ogni tentativo, compresi quelli a pagamento, per un motivo o per l’altro si risolve in un fallimento o si dissolve nell’indifferenza (qualcuna non lo nota nemmeno, qualcuna si dimentica, qualcun’altra addirittura si addormenta), mentre l’unica donna che non manca mai all’appello è proprio la madre che, telefono sempre a portata di mano, lo chiama per ogni evenienza, naturalmente nei giorni di riposo dell’infermiera. Ben presto si intuisce che la routine tornerà ad imperare, non prima però di una cenetta di famiglia condita di un po’ di sana ipocrisia e di uno stordito e involontario tentativo di fuga (in cui il lato onirico, complice un’improvvida visita alla vicina, prenderà per un po’ il sopravvento). Perdendo un po’ dello smalto e della freschezza di “Pranzo di Ferragosto” (si ricordi la mitica la scena dell’abbordaggio notturno, con il protagonista che cercava di frenare le avances della sua anziana ospite), Di Gregorio prosegue tuttavia in modo efficace nel tratteggiare un personaggio dai modi gentili, arresosi di fatto, per pigrizia o per rassegnazione, a imposizioni e piccole cattiverie altrui, eccezion fatta par qualche impercettibile tentativo di rivolta (si scola di nascosto la bottiglia di champagne della madre o spende tutti i soldi della pensione per un abito nuovo). Senz’altro meno caratterizzati gli altri personaggi, a partire dalla galleria di volti femminili che appaiono e scompaiono nella vita di Gianni senza lasciar traccia di sé, finendo per somigliare, secondo una vena naturalmente parodistica, non tanto a figure in carne e ossa, quanto ad archetipi del desiderio maschile: dalla vicina di casa alla fidanzatina dei tempi della scuola, dall’infermiera venuta dall’est alle bionde sorelle gemelle. Di Gregorio, il cui film è stato presentato all’ultima Berlinale nella sezione Speciale,  rimane comunque uno dei volti nuovi (non anagraficamente si intende) più interessanti e promettenti di un cinema italiano garbato e intelligente, capace di esplorare con coraggio e acutezza luoghi (come la terza età o la terra di mezzo che la precede) ultimamente troppo spesso disertati.
Sofia Bonicalzi
http://www.indie-eye.it/cinema/strana-illusione/gianni-e-le-donne-di-gianni-di-gregorio-italia-2011.
html

miércoles, 28 de diciembre de 2011

Ospiti - Matteo Garrone (1998)


TITULO ORIGINAL Ospiti
AÑO 1998
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS En español e italiano (Separados)
DURACION 78 min.
DIRECCION Matteo Garrone
ARGUMENTO Matteo Garrone
GUION Matteo Garrone, Attilio Caselli
MONTAJE Marco Spoletini
ESCENOGRAFIA Matteo Garrone
VESTUARIO Matteo Garrone
MUSICA Banda Osiris
PRODUCCION Matteo Garrone, per Archimede Produzione
REPARTO Corrado Sassi, Pasqualino Mura, Julian Sota, Llazar Sota, Maria Ramires, Paola Rota, Paolo Sassanelli, Alex Martayan, Alessandro Busiri Vici, Massimiliano Cambarau, Laura Denoyer, Gianni Di Gregorio

SINOPSIS Roma, estate, quartiere Parioli. Gherti (Julian Sota) e Gheni (Llazar Sota), due giovani cugini albanesi, lavorano in un ristorante rispettivamente come cameriere e lavapiatti. Un giorno si presenta al ristorante un certo Corrado (Corrado Sassi), fotografo balbuziente intenzionato a fare una mostra nel locale. Il proprietario del ristorante si dice disposto a farla dopo l'estate, ma nel frattempo gli domanda se conosce qualcuno disposto ad affittare una stanza ai due giovani albanesi. Il ragazzo si offre di ospitarli provvisoriamente a casa sua e col passare dei giorni fa amicizia con Gheni, mentre Gherti diventa amico di Salvatore (Pasqualino Mura), ex portiere del palazzo di Corrado con moglie psicolabile a carico.



Il secondo film di Garrone si presenta in qualche modo come la prosecuzione del primo, anzi, di una parte del primo, e precisamente dell'episodio sui due giovani albanesi. In “Ospiti” li ritroviamo come cameriere e lavapiatti di un ristorante italiano. In qualche modo, i due cugini Gherti e Gheni, sono riusciti a trovare una loro piccola e fragile possibilità di integrazione nel “territorio” italiano. Ma non hanno smesso di attraversare la vita e i luoghi della loro esistenza italiana con lo sguardo attento del viaggiatore, o, meglio, del “viandante”, il viaggiatore dell'anima che, come nella lunga passeggiata pomeridiana in bicicletta di Gheni, percorre con lentezza di sguardo il paesaggio esterno, allo stesso modo in cui lo fa al suo interno, nella propria anima. E' ovvio che sia Gheni che Gherti sono emigrati per ragioni economiche, ma è altrettanto vero che non è solo questo il motivo del loro viaggio. Lo leggiamo nei loro occhi tristi, ma perennemente mobili su ciò che hanno intorno. Infatti ognuno di loro in qualche modo percorre una propria strada di conoscenza, attraverso l'amicizia con Corrado, timido e fragile fotografo romano (Gheni), e nel rapporto silenzioso, ma pieno di echi storici e sociali, con l'anziano Salvatore (Gherti), ex portiere del palazzo in cui abita Corrado, anch'esso emigrato dalla Calabria in un'altra epoca di migrazioni. Ritorna poi anche in “Ospiti” un altro elemento importante di “Terra di mezzo”, e cioè la Roma assolata e periferica, deserta di presenze umane significative e di sentimenti da ricordare. La Roma che i protagonisti del film attraversano chi perdendosi in sogni e situazioni effimere senza passato né futuro (Gheni e Corrado), rinchiudendosi in un presente vagamente autistico e senza sbocchi reali, chi vivendo emotivamente in un passato forse un tempo sereno, ma che ora mantiene solo i colori di una malinconia pervasa dai segni di morte, dalla sensazione della finitezza della vita, dalla paura della caduta di sé e della possibile scomparsa degli altri (la moglie psicolabile di Salvatore). Senza nemmeno la promessa di un futuro migliore, di un secondo tempo in cui poter recuperare quello che si è perso nel primo. E' questo lo sguardo con cui incrociano i propri destini Gherti e Salvatore, quando vagano per Roma alla ricerca della moglie dell'anziano signore, scomparsa improvvisamente. Il tutto condito dallo stile documentaristico con cui è girato il film, da una narrazione che pare svolgersi in contemporanea allo sviluppo del film, da un regista che cerca sempre di “acchiappare la realtà” non per rinchiuderla sullo schermo del cinema o della televisione ma per moltiplicarne gli echi e le suggestioni emotive, per allargarne gli spazi di conoscenza. Anche Garrone si muove a proprio agio in un cinema umanistico che deve molto a Rossellini ed al suo desiderio di ripartire dall'uomo, “ovvero da sé stessi a contatto con gli altri” e con il proprio ambiente di vita.
Marcello Cella
http://www.neokifilm.it/articoli/registi-di-frontiera-matteo-garrone
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Gheni (L. Sota) e Gherti (J. Sota), due giovani albanesi che fanno i lavapiatti a Roma vanno ad abitare in casa del fotografo Corrado (C. Sassi) che diventa presto amico del primo, mentre Gherti, più irrequieto e insofferente, lega con Lino (P. Mura), anziano immigrato sardo che ogni giorno accompagna in giro per la città la moglie (M. Ramires), affetta da depressione e mania di persecuzione. Il taglio del secondo film di Garrone ("Terra di mezzo") è esistenziale più che sociologico; il malessere di Gheni e Gherti, pur così diversi tra loro, non è tanto dell'immigrato, ma di chi è "straniero a sé stesso", condiviso dagli altri due personaggi italiani. "Il film funziona soprattutto nei momenti di stallo in cui la macchina da presa osserva i vuoti, le pause, i silenzi ..." (Michele Marangi). Quando passa a un discorso esplicito, scade a sceneggiato televisivo. (Il Morandini)



Uno dei migliori registi italiani ,insieme a Sorrentino,autore di opere importanti che indagano a fondo sul malessere del genere umano e della società.Questa pellicola ,uno dei primi film di Garrone, è un'opera assai strana.Un film girato come fosse un documentario,narra la storia di due fratelli albanesi ospitati in casa di un presunto artista perdigiorno e del rapporto di amicizia che uno di loro costruisce con un anziano vicino di casa,il quale ha perso la moglie malata di alzheimer, alla fermata del bus.
Vite fragili che cercano di rimanere a galla,messe agli angoli eppure protagoniste e al centro di una narrazione robusta e vigorosa, di indagine zavattiana
D'altronde la nostra società tende ad allontanare le persone anziane,ormai hanno lavorato e prodotto una volta a casa sono un peso per il nostro mondo capitalista.Gli stranieri che lasciano casa e famiglia per una nuova vita e si scontrano con una realtà di sacrifici-anche umani sul posto di lavoro-di leggi xenofobe,di sottile razzismo quotidiano.Infine la generazione mia che è nata e cresciuta durante il trionfo della morte delle idee e si ritrova impreparata ad affrontrare tempi feroci e crudeli come questi.Insomma siamo tutti ospiti precari di un mondo impazzito.
http://lospettatoreindisciplinato.blogspot.com/2008/12/ospiti-di-matteo-garrone.html
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Ospiti, seconda opera di Garrone, segue Terra di Mezzo sia temporalmente che tematicamente che produttivamente, mentre si unisce al seguente Estate Romana per la modalità narrativa. Meno riuscito del seguente, Ospiti ha i difetti dell'inesperienza, qualche tempo morto e qualche difficoltà nello stendere la trama, tuttavia, aiutato anche dalla breve durata (78 minuti), scorre bene e riesce a parlare con originalità dell'estraneità.
Sicuramente il termine più giusto per tutto il cinema di Garrone è proprio l'originalità, intesa come originalità dei temi e delle strategie espositive. Per Ospiti Garrone tratta documentaristicamente un momento di vita, un'estate romana (splendida come quella del seguente film) di 4 personaggi, due ragazzi albanesi, un emigrato sardo ed un benestante fotografo romano, inseriti nel contesto del quartiere Parioli, fotografato come fosse un quartiere degradato, tutti e 4 estranei a qualcosa, chi al paese, chi al proprio status di emigrante e chi alla vita borghese. Colmo di silenzi espressivi e di sequenze documentaristiche dei margini del benestare romano Ospiti è ancora legato a molti morettismi (che si perderanno in Estate Romana a favore di un'ancor maggiore originalità), e somiglia un po' a tutto quel cinema italiano "sociale" facile facile, ma ad una visione attenta è evidente come se ne distacchi quasi subito con la prima sequenza, il tentativo di rimorchio delle due ragazze, per approdare (o quantomeno cercare di approdare) ad una dimensione molto più profonda della descrizione della realtà che al momento ha come punto di riferimento i fratelli Dardenne.
Garrone fa tutto da sè, dirige, produce coscrive, cosceneggia, e si occupa perfino di scenografie e costumi, un raro esempio di totale autrachia ed indipendenza produttiva che non incide sulla qualità, sempre eccelsa del girato e della recitazione, pur utilizzando attori non professionisti.
Gabriele Niola
http://sonovivoenonhopiupaura.blogspot.com/2005/08/ospiti-1998di-matteo-garrone.html



martes, 27 de diciembre de 2011

Il mercenario - Sergio Corbucci (1968)


TÍTULO ORIGINAL Il mercenario
AÑO 1968
IDIOMA Dual (Italiano o Inglés)
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 111 min.
DIRECTOR Sergio Corbucci
GUIÓN Sergio Corbucci, Giorgio Arlorio, Adriano Bolzoni, Franco Solinas, Sergio Spina, Luciano Vincenzoni
MÚSICA Ennio Morricone, Bruno Nicolai
FOTOGRAFÍA Alejandro Ulloa
REPARTO Franco Nero, Jack Palance, Tony Musante, Giovanna Ralli, Eduardo Fajardo, Álvaro de Luna
PRODUCTORA Produzioni Associate Delphos / PEA / Profilms 21
GÉNERO Western. Comedia | Spaghetti Western. Revolución Mexicana

SINOPSIS Un mercenario es contratado para proteger al propietario de una mina en el transporte de un cargamento de plata a lo largo de la frontera de Texas en los tiempos de la Revolución Mexicana. (FILMAFFINITY)



Un interesante western “zurdo”

Interesante Spaghetti Western sobre mercenarios inescrupulosos, sobre bandidos disfrazados de revolucionarios con una causa justa, sobre oportunistas ambiciosos que mezclan el espíritu de la revolución con el enriquecimiento personal ilícito.
Western bastante dinámico, cargado de secuencias de acción con tiroteos y salpicado con toques cómicos, con los arquetípicos personajes rudos muy hábiles para las peleas y punzantes en sus diálogos… Una cinta intensa y absorbente en sus momentos de violencia y de batallas.
Un rasgo distintivo que me resultó interesante de esta película es que no hay personajes “buenos”, pues todos, absolutamente todos tienen sus defectos y miserias. Eso me pareció interesante, pues es para destacar cuán corruptos, ventajeros y traicioneros son todos los personajes de este filme.
En cambio, algo que no me pareció logrado es que a pesar de ser una producción italiana se termina discriminando al pueblo mexicano al igual que en las cintas norteamericanas, pues se describe a los personajes mejicanos como brutos, sucios, torpes y tercermundistas. Por ello lamentablemente el italiano Sergio Corbucci ha caído en el típico cliché de menospreciar a México y a sus organizaciones políticas, militares y sociales.
Hay que mencionar como una fortaleza del filme a la banda sonora de Ennio Morricone y Bruno Nicolai, la cual mediante percusión, un silbido y una trompeta de fondo en su tema principal ha ido acompañando de manera coherente el espíritu aventurero y épico de la obra, así como también acentuando con melodías más simples el carácter solitario de algunos personajes.
Las actuaciones deben considerarse como un aspecto positivo, sobre todo la imponente presencia en pantalla de un Franco Nero que nada tiene que envidiarle a las mejores actuaciones de Clint Eastwood en el lejano oeste. Aquí el actor da vida a un mercenario al que sólo le interesa estar del lado del que mejor le pague, pues es un comerciante que ha olvidado los escrúpulos y que vende sus “habilidades y servicios” al mejor postor.
Secundan muy bien Tony Musante como el revolucionario Paco Roman y Giovanna Ralli como la bella mujer que le apoya a este último en su causa.
A Jack Palance me hubiera gustado verlo más en pantalla, con mejor desarrollo de su personaje y con más diálogos, pero no puedo negar que su sólo presencia física ya sugiere y entusiasma al espectador.
Intenso y entretenido western ambientado en el contexto de la Revolución mexicana, donde el mercantilismo y la ambición desmedida han subvertido a la mayoría de los ideales y de las causas políticas de los personajes, quienes de tan inescrupulosos que son muchas veces ponen sus beneficios particulares antes que las causas nobles y comunitarias.
Sigo sin destripar
spoiler:

Cortito y para destacar:
La idea de la película: robarle a los ricos para dárselo a los pobres.
La mejor actuación del filme: Franco Nero, sin dudas.

Las frases de la película:
“Un revolucionario no se avergüenza nunca de sus actos, un ladrón sí, y tú eres un ladrón”
“En vista de que siempre te has dispuesto a bajarte los calzones delante del polaco, por qué no te comprometes a suministrarle mujeres que le gusten?”
Betomovies
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/296524.html



Sergei Kowalski, apodado El Polaco (Franco Nero) es un mercenario que se une a Pancho Roman (Tony Musante) un líder mexicano revolucionario para asesorarle. Pero juntos tendrán que huir de un oficial del ejercito (Eduardo Fajardo) que no parará hasta acabar con ellos, y un pistolero llamado Rizos (Jack Palance) con una deuda personal con el Polaco y Roman.
Dos figuras del spaghetti wester, el director Sergio Cobucci y el actor Franco Nero, se unen en esta cinta. Además, como secundarios de lujos tenemos a Jack Palance y a Eduardo Fajardo. Todos ellos para contar la historia de el Polaco, un mercenario muy peculiar que a principios del siglo XX vende sus servicios en la frontera entre USA y México, ya que como él dice, "...siempre hay alguien que necesita un hombre experto en armas". Y así llega a conocer a Pancho Roman, un líder de una banda de mexicanos que se dedica a robar a los ricos para repartir entre los pobres, siendo él y su banda los principales beneficiarios, claro.
Uno de los primeros títulos del llamado "Zapata-western", "Salario para matar" (El Mercenario) es también la primera parte de la trilogia que su director Sergio Corbucci (1) dedicó a México ("Compañeros" y "Que nos importa la revolución" fueron las dos restantes). Pese a todo, Corbucci no terminó de involucrarse en esta primera película en demasiados jaleos políticos, y su tratamiento de la revolución está más cercano a la leve comedia o la ironía que intentar inculcar ideas en el espectador, aunque no se puede negar que algo hay de esto si nos detenemos a analizar la película durante su visionado.
Franco Nero es el protagonista de la historia. En voz en off su personaje nos comienza a contar la primera parte de la película. Sin duda, y pese a que nos cuenta la historia de un revolucionario mexicano, Sergei Kowalski es el verdadero motor, y lo mejor del film. Kowalski es un europeo que se dedica a vender sus conocimientos en armamento y su experiencia en batalla. Ataviado con una estupenda gabardina, unos impecables guantes negros, lleva con orgullo su Medalla de Distinción "La Polonia Restituta" (condecoración que se otorgaba a los héroes de la unificación polaca) (2) y usa con precisión su pistola española Astra 400 del 9 largo (3).
Contratado para un "simple" trabajo de transporte de plata de una mina, el Polaco se ve en medio de un levantamiento en dicha mina por parte de los trabajadores, hartos de las condiciones infrahumanas en las que malviven. A la cabeza de la misma se encuentra Pancho Roman, un paleto, simple y embrutecido mexicano. El Polaco no duda en ponerse de lado de los revolucionarios, pero a cambio de un alto sueldo. Así nace una sociedad entre ambos. Con la excusa de la revolución, todos empiezan a enriquecerse, aunque la banda pronto es perseguida por el Ejercito, mandado por el antiguo patrón de Pancho Roman, Alfonso Garcia (Eduardo Fajardo) y con la ayuda de "Ricitos", un asesino sin escrúpulos de la peor calaña, papel que recae sobre el siempre mal aprovechado Jack Palance.
Por desgracia para el Polaco, todo esto comienza a cambiar cuando se une a la banda una guapa muchacha, de nombre Columba (Giovanna Ralli), que poco a poco empieza a cambiar la mentalidad de Roman con ideales de justicia y de verdadera revolución. Desatendiendo los consejos del Polaco, Roman decide realmente luchar por la Revolución, y al final solo consigue que su gente muera arrasada por el ejercito, y a él no le queda otra que escapar y esconderse, aunque no logrará esquivar a su pasado bandolero, que se le presentará en forma de dos asesinos comandados por "Ricitos"...
Obviamente, con semejante demostración de que intentando perseguir los ideales justos uno no va a recibir nada bueno a cambio, podríamos pensar que estamos ante una historia bastante poco alentadora sobre la lucha revolucionaría, pero por suerte, creo que todo queda más claro en el ultimo dialogo entre los protagonistas, en el cual Roman le dice al Polaco que él tiene un sueño, y que por eso seguirá luchando, pese a tenerlo todo en contra.
Pero más allá de la cuestión moral que encierra "Salario para matar", yo sin duda prefiero quedarme con la verdadera virtud de la película, que no es otra que las excelentes escenas de tiroteos y acción desenfrenada.Y si, volver a ver a Nero con una metralleta no tiene precio...
El cinismo y la chuleria del Polaco le queda perfecto a Franco Nero. "Ricitos", aparte de su velada homosexualidad (diluida un poco en la versión que vimos en España) es un personaje que también se deja notar, y Tony Musante no desfallece pese a tener semejantes "rivales" en el reparto, y logra mantenerse a un buen nivel. Fajardo aporta su habitual saber estar, y la guapa Giovanna Ralli redondea un reparto notable.
Corbucci se mantiene fiel a su estilo, que le convierten sin duda en el segundo mejor directo del genero, y dicen las malas lenguas que para algunos puede ser el mejor, pero eso ya es otro asunto. Su planificación de la escena del duelo en la plaza de toro es por si misma una autentica belleza, y justifica sobradamente una película.
Aunque no se puede negar tampoco que la música de Morricone ayuda bastante, y nos vuelve a regalar una banda sonora de antología, con un tema principal arrebatador.
"Salario para matar" es un spaghetti ágil y que nunca aburre, que ha logrado que los años no le pesen demasiado, y una demostración del talento de Corbucci. Lo que viene siendo un clásico, amigo...
Julio Alberto

1.Originalmente, Gillo Pontecorvo debería dirigirla, pero él pasó a hacer Queimada con Marlon Brando.
2.Según nos dice Anselmo Núñez Marqués en su libro "Western a la europa...un plato que se sirve frio". Entrelineas Editores/2006.
3.Información extraída del libro "Breve Historia del Western Mediterraneo" Ediciones Glenat/2002 de Rafael de España.
http://www.spaghetti-western.net/index.php/Salario_para_matar_(El_Mercenario)_rese%C3%B1a

lunes, 26 de diciembre de 2011

Nata di Marzo - Antonio Pietrangeli (1958)


TÍTULO ORIGINAL Nata di marzo
AÑO 1958
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 109 min.
DIRECTOR Antonio Pietrangeli
GUIÓN Antonio Pietrangeli, Ruggero Maccari, Armando Crispino, Furio Scarpelli, Age, Ettore Scola
MÚSICA Piero Piccioni 
FOTOGRAFÍA Carlo Carlini
MONTAJE Eraldo Da Roma
REPARTO Jacqueline Sassard, Gabriele Ferzetti, Franco Rossellini, Tina De Mola, Ester Carloni, Eraldo Da Roma, Mario Valdemarin, Virgilio Ferzetti, Gina Rovere, Franca Mazzoni, Edda Ferronao, Lina Furia, Maulix Ferzetti, Elvira Tonelli
PRODUCTORA Carlo Ponti Cinematografica / Euro International Film (EIA) / Les Films Marceau 
PREMIOS 1958: Festival de San Sebastian: Mejor actriz (Jacqueline Sassard)
GÉNERO Comedia

SINOPSIS Architetto quarantenne (Ferzetti) sposa una ragazza la cui inesperienza, volubilità ed esuberanza mettono in crisi il matrimonio. Ma poi l'amore trionfa. Un po' superficiale nel profilo dei personaggi di contorno e scontata nel finale – ma fu imposto dalla produzione – è una commedia gradevole e a tratti felicemente ironica, ma conta soprattutto come ritratto della protagonista marzolina. Sceneggiatura di Age, Scarpelli, Scola, Maccari e Pietrangeli. (Il Morandini)


Da Roma ci si sposta a Milano, per un altro ritratto al femminile. Questa volta però la protagonista è la diciassettenne Francesca, "marzolina" e volubile, tanto moderna quanto infantile, che si innamora e si sposa con un architetto vent'anni più vecchio di lei. I motivi della loro separazione, due anni dopo, vengono raccontati nei tre lunghi flashback che compongono il film. Quello di Francesca è un personaggio equilibratissimo tra insopportabilità e tenerezza, che lotta con le sue armi - compresa quella del capriccio - la sua battaglia laica contro una società in cui anche le famiglie più progressiste sono legate a una concezione fallocratica in cui la "parità", per le donne, è ancora un sogno lontano. Il tutto, però, raccontato in forma di commedia - peraltro divertentissima, soprattutto per i dialoghi: dopotutto, la sceneggiatura è di Age, Scapelli e Ettore Scola. Gli ultimi due consolatori minuti, appiccicati dalla produzione e palesemente posticci, non sminuiscono la gradevolezza e la modernità del film. Una cosa buffa: Jacqueline Sassard (che è ancora viva, da qualche parte) è veramente nata all'inizio di marzo del 1940.
http://giovanecinefilo.splinder.com/post/20516375/il-sole-negli-occhi-nata-di-marzo-antonio-pietrangeli-19551957



Francesca, una ragazza vivace, educata modernamente, conosce Sandro, un architetto, uomo posato e non più giovanissimo, che attratto dal brio e dal temperamento esuberante della fanciulla, incomincia a corteggiarla. Francesca se ne innamora subito e i due dopo qualche tempo si sposano. I primi tempi sono felici, ma poi il carattere bizzarro di Francesca incomincia a provocare dei dissidi tra i coniugi. Le idee infantili di Francesca, la sua leggerezza, finiscono con l'irritare Sandro e i litigi sono tali che spingono Francesca ad andarsene via di casa. Va ad abitare in una pensione e si cerca un lavoro. Riallaccia qualche amicizia, che aveva prima di sposarsi con giovani della sua età ma il suo pensiero ritorna sempre al marito ed alla casa che ha lasciato. Anche Sandro rimpiange i primi felici mesi della loro vita coniugale. I due s'incontrano dopo qualche tempo ed entrambi pensano che la loro unione sia compromessa. Francesca si è messa in mente che Sandro l'abbia tradita e non nasconde la sua gelosia: per rappresaglia gli dichiara di avere un amante. Sandro, colpito da questa rivelazione, è deciso a lasciare per sempre Francesca ed a dimenticarla. I due si dicono addio, ma poi, superando il risentimento, si confessano di aver mentito per orgoglio e per dispetto. La verità è un'altra: si vogliono bene e vogliono tornare a vivere insieme.
CRITICA:
"Nata di marzo, si involge su sè stesso, si fa venire il fiato corto in una serie di divagazioni troppo spesso iterative (...) cercando quasi di nascondere una gracilità costituzionale che, non essendo in casi del genere un difetto, non andrebbe dissimulata. Ciò non toglie che il film offra, fino ad un certo punto, un notevole contributo al filone della commedia borghe, da cui è ancora lecito attendersi interessanti sviluppi." (G.C. Castello, "Bianco e Nero", n. 5, 1958)
NOTE:
PREMIO PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE FEMMINILE A JACQUELINE SASSARD AL FESTIVAL DI SAN SEBASTIAN DEL 1958.AL DAVID DI DONATELLO 1958 TARGA D'ORO AD ANTONIO PIETRANGELI.
fonte "RdC - Cinematografo.it"
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=18909&film=NATA-DI-MARZO