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domingo, 30 de septiembre de 2012

L'Italia vista dal cielo: Toscana - Folco Quilici (1971)

(La tierra de mis padres, que es también la mía)

TITULO ORIGINAL L'Italia vista dal cielo: Toscana
AÑO 1971
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 66 min.
DIRECCION Folco Quilici
MUSICA Piero Piccioni
TEXTO Mario Praz e Folco Quilici
FOTOGRAFIA Giovanni Scarpellini
GENERO Documental

Nel 1965 la Esso Italiana affidò a Folco Quilici la realizzazione di una serie di film su "L’Italia vista dal cielo". L’iniziativa fu particolarmente impegnativa sia per l’enorme patrimonio da documentare, che per l’innovativo uso dell’elicottero come vettore della macchina da presa. Una sorta di moderna “cartografia”, un ritratto ed una documentazione di mari, coste, città, opere d’arte note e meno note, filmate e documentate in maniera nuova. Un viaggio, un volo d’elicottero nella storia e nell’arte delle regioni d’Italia in cui fecero da guida a Quilici i maggiori letterati e storici dell’arte dell’epoca. Furono compagni di Quilici Sciascia, Brandi, Praz, Calvino, Piovene, Prisco, Silone, Soldati.
In tredici anni furono prodotti quattordici filmati e realizzate anche edizioni in lingua straniera che furono diffuse in tutti i continenti: l’Europa, le Americhe, l’Africa e l’Australia. "L’Italia Vista dal Cielo" ottenne numerosi premi, venne trasmessa dalla RAI e dalle maggiori televisioni internazionali. Dal 1969 al 1984 furono pubblicati anche sedici volumi illustrati, che accompagnarono tutta la serie dei film.
Convinta dell’immutato fascino di questi documenti, la Esso Italiana ha intrapreso - tra il 2002 ed il 2006 - un programma di recupero dell’intera opera, per riproporre i filmati debitamente restaurati con le tecniche più avanzate e garantirne la conservazione per il futuro, quale testimonianza documentaria dei mutamenti che il paesaggio italiano ha subìto negli ultimi trent’anni.
Un omaggio all’Italia ed alla sua bellezza, un viaggio alla scoperta di civiltà e luoghi, un ritorno al passato ed alla storia attraverso lo sguardo di uno dei più affermati registi del cinema italiano e la voce di alcune delle più autorevoli firme della letteratura nazionale.


TOSCANA
Lungometraggio della serie "L'ITALIA VISTA DAL CIELO" prodotto dalla Esso Italiana nel 1971 e restaurato nel 2006
1. Le foci dell'Ombrone e dell'Arno; Le cime delle Apuane; La presenza degli Etruschi; Testimonianze dei Romani; Arezzo; Lucca; Le abbazie e i conventi; I castelli
2. Il volto moderno: lo sviluppo turistico, commerciale, industriale; Le ville toscane; Lo Stato dei Presidi; Le ville medicee; Firenze: la colombina e la cupola del Brunelleschi.

ABSTRACT
Un susseguirsi di ambienti naturali e geografici diversi, raccontati dalle riprese di Folco Quilici e descritti dal grande autore Mario Praz.
Un viaggio attraverso la storia della Toscana, delle sue civiltà, dei suoi aspetti controversi che la rendono unica e proprio per questo incantevole.
Il filmato di Quilici, le sue descrizioni realistiche ed emozionanti regalano allo spettatore la possibilità di avvicinarsi e di conoscere i numerosi luoghi della regione, le sue molteplici sfumature che si svelano in tutta la loro autentica bellezza.
“Quel che voi vedete è unico al mondo. In nessun altro luogo la natura è sottile, elegante e squisita fino a questo punto. Il Dio che ha fatto le colline di Firenze era un artista (…)” scriveva, parlando della Toscana, Anatocle France.
L’itinerario alla scoperta di questa terra che pare “gemma in anello (…) incastonata in una cerniera [montuosa] (…) istoriata con grandi nomi, con memorabili eventi” si apre immediatamente con l’immagine delle cime Apuane che avvolgono la regione.
“Le Apuane, i monti più sublimi della catena che cinge la Toscana, pel loro aspetto dolomitico, son legate al nome dell’artista più sublime che essa abbia mai avuto, Michelangelo” che da queste rocce creò mirabili sculture che contribuirono più di tutti a celebrare una terra famosa per la sua arte e per lo stuolo di grandi artisti ai quali diede i natali.
Poco lontano, nella Valle del Mugello, nacque Giotto i cui dipinti contribuirono a diffondere oltralpe l’arte italiana. E l’itinerario degli artisti continua sorvolando Arezzo, patria del Petrarca, per giungere fino all’Alta Maremma, celebre per i cipressi che “alti e schietti van da San Guido in duplice filar” cantati da Giosuè Carducci.
Ad interpretare al meglio lo spirito di questa terra meravigliosa è la civiltà degli Etruschi, da cui deriva la sua più antica denominazione, Etruria. La vivacità e la spensieratezza di questo popolo rivivono attraverso le tradizioni ed i costumi che, a distanza di secoli, sopravvivono alla modernità.
Con il procedere del volo in elicottero il tempo degli etruschi sfuma rapidamente e, sorvolando le rovine della Villa di Giannutri, i romani scandiscono un’altra epoca.
Il teatro di Fiesole, l’anfiteatro di Arezzo e l’impianto urbanistico di Lucca rievocano con la loro struttura la magnificenza dell’architettura romana.
Lontano dai tetti rosso bruno delle città, nella solitudine delle colline toscane, brulicano una moltitudine di abbazie, testimonianza di epoche e stili diversi.
Tra le lunghe distese di cipressi, di ulivi e le fitte coltivazioni di vite si alternano l’Abbazia di Farneta in Val di Chiana, il Convento di Bosco ai Frati nella Valle del Mugello, la Certosa del Galluzzo nella Val d’Ema e l’Abbazia di Vallombrosa.
Alture coronate da monasteri ed altre dominate da castelli, come Montecchio Vesponi a Castiglion Fiorentino che sovrasta ancora il paesaggio con la sua torre e la cinta di mura merlate.
Il viaggio prosegue e dalla gloria comunale evocata da Prato, Volterra e San Gimignano si passa alla gloria marinara di Pisa e Livorno.
Allontanandosi dalle acque del Tirreno e proseguendo verso l’interno, si percorrono le ondulate colline della campagna senese. Scorrono le immagini ed ecco apparire Siena che, al centro della sua conchiglia rosa striato, ospita il palio.
Il corso dell’Arno conduce lentamente nel capoluogo toscano, Firenze, dove le ville “La Ferdinanda” di Artimino e “La Petraia", scelte come dimore dalla famiglia dei Medici, aprono le porte alla città di Dante.
Il viaggio virtuale, attraverso epoche e gusti scanditi dalla creatività dello spirito artistico toscano, si conclude con le immagini emblematiche di una città che, come afferma il grande autore Mario Praz, è “il ciel che più della sua luce risplende (…) simbolo di una civiltà il cui spirito si è diffuso di qui fino ai confini della terra”.
http://www.esso.it/Italy-Italian/PA/news_Toscana.aspx

sábado, 29 de septiembre de 2012

Un branco di vigliacchi - Fabrizio Taglioni (1962)


TITULO ORIGINAL Un branco di vigliacchi
AÑO 1962
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 96 min.
DIRECCION Fabrizio Taglioni
GUION Fabrizio Taglioni, Giuliano Carnimeo
REPARTO Roger Moore, Pascale Petit, Aroldo Tieri, Franck Villard, Luisa Mattioli, Renato De Carmine, Memmo Carotenuto, Aldo Bufi Landi, Carl Schell, Archie Savage, Attilio Dottesio, Manlio De Angelis, Scilla Gabel
FOTOGRAFIA Aldo Giordani
MONTAJE Mario Serandrei
MUSICA Aldo Piga
PRODUCCION Enrico Bomba apra FI.C.IT. (ROMA), COLISEUM FILM (PARIGI)
GENERO Drama

SINOPSIS Odissea di un gruppo di persone mentre i tedeschi si ritirano e gli alleati avanzano. Storia dura, ispirata a un racconto di Guy de Maupassant, raccontata senza troppi peli sulla lingua, dalla quale il mondo maschile esce malconcio.AUTORE LETTERARIO: Guy de Maupassant (Il Morandini)


Trama
Giuditta, una bella ragazza che lavora per mantenere il suo fratellino Marcello, nasconde in un cascinale quattro prigionieri inglesi fuggiti da un campo di concentramento l'8 settembre. Scoperti dai tedeschi, i quattro vengono uccisi e con loro muore Marcello, che era accorso per avvisarli del pericolo. Giuditta fugge disperata e si unisce ad un gruppo di persone che per vari motivi cercano di passare nella zona d'Italia già occupata dagli anglo-americani. Durante una sosta in una cascina, sopraggiunge una pattuglia tedesca il cui comandante, invaghitosi di Giuditta, tiene gli altri in ostaggio fino a quando la ragazza non avrà soddisfatto i suoi desideri. Per evitare il peggio, i componenti del gruppo usano i mezzi più vili per convincere la ragazza ad accontentare il tedesco. Giuditta dapprima resiste, poi vedendo che la situazione si mette al peggio, si rassegna a subire. Proprio in quel momento arrivano le avanguardie americane alle quali i viaggiatori forniscono una versione completamente falsa dei fatti: tutti loro si sono comportati da eroi; è stata la ragazza che ha voluto disonorarsi.

Critica
"Polpetta resistenziale, ispirata liberamente al racconto 'Boule de suif' di Maupassant".
(Anonimo, 'Nuovo Spettatore Cinematografico', agosto 1962).

Note
- IL FILM HA PARTECIPATO AL FESTIVAL DI MOSCA (1963), DOVE HA VINTO IL PREMIO PER IL MIGLIOR FILM STRANIERO. AL FESTIVAL DI VICHY GLI E' STATO RICONOSCIUTO IL PREMIO PER "IL MIGLIOR COMPLESSO INTERPRETATIVO".
- REVISIONE MINISTERO APRILE 1994.
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=10961

Bel tentativo, da parte di un regista semisconosciuto come Taglioni, di riproporre l'antieroismo da commedia all'italiana su una tematica tutt'altro che semplice come quella della Liberazione. La sceneggiatura scritta dal regista e da Giuliano Carnimeo, infatti, trova i suoi punti di forza nei momenti in cui il dramma passa in secondo piano ed emerge la componente satirico-polemica, che va maggiormente a colpire i personaggi maschili; l'italiano disposto a sacrificare l'onore della donna altrui, l'impavido a parole che appena tutti girano le spalle prova a trattare con il nemico, il combattente disastroso che attacca il proprio alleato sono tutte figure che integrano di diritto la galleria dei personaggi creati da Age-Scarpelli, Monicelli, Risi, Salce e in definitiva stereotipi della sopra citata commedia all'italiana. Una sorta di aggiornamento della Grande guerra (Monicelli, 1959) traslata al secondo conflitto mondiale, se si vuole, con un ottimo cast in cui spiccano i nomi di Roger Moore, Aroldo Tieri, Pascale Petit, Aldo Bufi Landi, Memmo Carotenuto, Scilla Gabel. Moore è senza dubbio l'interprete che maggiormente lascia il segno e funzionano pure, sebbene con qualche riserva, i caratteristi dalla chiara impronta comica come Tieri e Carotenuto, che peraltro saranno riconfermati da Taglioni come protagonisti assoluti nella sua successiva commedia, La ballata dei mariti (1963). Non male la risoluzione finale e così anche la sequenza di apertura (il momento più drammatico dell'intero lavoro), ma l'apice si raggiunge in certi momenti di tensione in stile kammerspiel (una stanza, un gruppo di personaggi, un intreccio fatto di dialoghi più che di azioni) nella parte mediana della pellicola.
mm40
http://www.filmtv.it/film/22294/un-branco-di-vigliacchi/


 

viernes, 28 de septiembre de 2012

La coscienza di Zeno - Sandro Bolchi (1988)


TITULO ORIGINAL La coscienza di Zeno
AÑO 1988
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DIRECCION Sandro Bolchi
ARGUMENTO Novela "La coscienza di Zeno" de Italo Svevo
GUION Tullio Kezich, Dante Guardamagna
REPARTO Jonny Dorelli, Ottavio Piccolo, Eleonora Brigliadori, Christiane Jeane, Laura Devoti, Franca Tamantini, Mario Maranzana, Sergio Fantoni, Andrea Giordana, Alain Cluny
ESCENOGRAFIA Elio Balletti
VESTUARIO Andretta Ferrero
MUSICA Bruno Nicolai
FOTOGRAFIA Giorgio Di Battista
PRODUCCION Susanna Bolchi per la First Film

SINOPSIS Dall’omonimo romanzo di Italo Svevo pubblicato nel 1923, la storia di Zeno Cosini, uomo d’affari triestino, che per smettere di fumare va in psicanalisi ed è così spinto a ripercorrere tutte le tappe fondamentali della sua vita.



Trama
Trieste, fine Ottocento. Una città nel pieno del suo fulgore, vivace, curiosa, carica di attese. È qui che vive, e rimugina, Zeno Cosini: diffidente fruitore della scienza medica, abbarbicato alle sue nevrosi, continuamente alle prese con l’ingrato mestiere di vivere. Nell’esistenza ipocondriaca di Zeno tutto precipita quando all’orizzonte appaiono le quattro signorine Malfenti: tripudio di gonne, carosello di crinoline. In quest’orgia di “a” che lo travolge (si chiamano infatti Ada, Anna, Alberta, Augusta) Zeno ha più di un capogiro. Ne corteggerà due e poi, per non smentirsi, sposerà l’unica che non ha mai desiderato. Finire sul lettino psicoanalitico del dottor S. pare dolorosamente inevitabile… Da un adattamento di Tullio Kezich, per la mirabile regia di Sandro Bolchi, due intensissime puntate che ci catapultano nel mondo nevrotico e frammentato di Zeno. A interpretarlo, leggero e sofferto, mai sopra le righe, Johnny Dorelli in uno dei suoi primi ruoli drammatici. Accanto a lui Ottavia Piccolo, Mario Maranzana, Sergio Fantoni capaci di interpretazioni che lasciano il segno.
http://elleu.com/customer/product.php?productid=2205&cat=33
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"La coscienza di Zeno" è il titolo di una miniserie televisiva a colori in due puntate trasmessa dalla RAI nel 1988. Andò in onda il 14 aprile e il 21 aprile.
Prodotta da First Film per Rai 2, era tratta dal romanzo omonimo di Italo Svevo ed interpretata, nel ruolo principale di Zeno Cosini, da Johnny Dorelli, qui impegnato in una delle sue prime interpretazioni drammatiche dopo il successo ottenuto come cantante melodico ed attore comico (Dorellik) e brillante.
La sceneggiatura della fiction televisiva (le cui riprese vennero effettuate a Trieste), era curata come già nel precedente sceneggiato televisivo del 1966 di Daniele D'Anza dallo stesso titolo - La coscienza di Zeno - dal giornalista, critico e drammaturgo Tullio Kezich coadiuvato da Dante Guardamagna. La regia televisiva era di Sandro Bolchi.
Il cast vedeva all'opera, oltre a Dorelli, le attrici Ottavia Piccolo ed Eleonora Brigliadori, rispettivamente nei panni della moglie e della cognata del tremebondo protagonista. Completavano la distribuzione Christiane Jean e gli esperti Mario Maranzana, Sergio Fantoni, Andrea Giordana ed Alain Cuny.
http://it.wikipedia.org/wiki/La_coscienza_di_Zeno_(miniserie_televisiva)
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Nicotinico e psicanalitico. Fedele trasposizione del romanzo di Svevo su sceneggiatura di Kezich e Guardamagna. Vengono toccati tutti i temi relativi alla “malattia” del protagonista Zeno Cosini, affidato ad un convincente Dorelli, che ne mette in luce sia l’inettitudine sia le intuizioni. La Piccolo ritrae Augusta, personificazione della salute borghese e Giordana l’apparentemente infallibile e perfetto Guido Speier. Girato a fine anni Ottanta, ma con approccio e feeling da sceneggiato anni Settanta: non a caso il regista è il buon Bolchi.
Homesick
http://davinotti.com/index.php?f=12091

...
Verso la fine degli anni Ottanta inizia ad affermarsi un nuovo genere di film, quello destinato alla televisione, antisignano delle moderne fiction.
Prova ne è la riedizione de "La coscienza di Zeno" firmata da Sandro Bolchi per la Rai; un film - tv che riesce a mettere a fuoco la figura del suo protagonista Zeno Cosini e che, grazie anche ad un bravo direttore della fotografia, riesce ad immortalare anche gli angoli più nascosti di Trieste.
http://www.triestecasting.com/_IT/Storia.asp
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SANDRO BOLCHI, L'UOMO CHE PORTO' LA LETTERATURA IN TV
Alessandro Bolchi nacque a Voghera nel 1924, laureatosi in lettere, esordisce come attore al Teatro Guf di Trieste, si era poi trasferito a Bologna e dopo aver fatto per qualche anno il giornalista si era cimentato come attore professionista. Nell’immediato dopoguerra si diede all’organizzazione e alla regia teatrale, nel 1948 fondò con alcuni amici divenuti poi celebri (Lamberto Sechi, Vittorio Vecchi, Luciano Damiani, Giuseppe Partirei, Giorgio Vecchietti) uno dei primi teatri stabili d'Italia, La Soffitta, uno dei primi teatri stabili d’Italia. Sul palcoscenico de La Soffitta aveva conosciuto la moglie Welleda, lei si era presentata per fare la comparsa, un anno dopo si sposarono. Bolchi aveva fra l’altro diretto molti classici del teatro come, ad esempio, L’Avaro di Moliere e allestendo L’imperatore Jones di O’Neill, nel 1952 La Soffitta chiuse a causa di difficoltà finanziarie, Bolchi iniziò allora a lavorare per la tv, ancora nella sua fase sperimentale. Dopo anni di gavetta in teatro e interessanti sperimentazioni in tv (ecco cosa manca a coloro che lavorano oggi in tv, registi, attori ecc., la gavetta), propose nel 1956 il suo primo sceneggiato televisivo la commedia Frana allo Scalo Nord di Ugo Betti. Da allora in poi fu un susseguirsi di lavori, con lunghi periodi preparazione, grandi attori e nuovi talenti scoperti, ecco altre cose che mancano agli attuali “professionisti”, si preparano lavori in poche settimane, se non giorni, si scelgono attori mediocri, esordiscono parenti, amici ed amici degli amici.
Bolchi ha diretto per la tv un gran numero di sceneggiati: Nel 1963 firma Mulino del Po, dall’omonimo romanzo di Riccardo Bacchelli, sceneggiato insieme all’autore, con Raf Vallone e Giulia Lazzarini, considerato sempre da Bolchi il suo miglior lavoro televisvo.     Nel 1964 è la volta di Demetrio Pianelli, dall’omonimo romanzo di Emilio De Marchi, con Loretta Goggi, Tino Carraro, Ave Ninchi e un esordiente Luca Ward (3 anni), oggi uno dei volti più popolari della fiction italiana (Cento vetrine, Elisa di Rivombrosa).   Nel 1967 è la volta de I promessi sposi, tre anni di preparazione, cinque mesi di lavoro, costo 500 milioni e 8 puntate seguite da tutta Italia. Per annunciare la scelta di Paola Pitagora come protagonista fu interrotto un servizio del tg sulle guerra del Vietnam.
Fra gli altri suoi lavori: I fratelli Karamazov da Dostoevski, con Corrado Pani, Umberto Orsini, Salvo Randone; Le mie prigioni di Silvio Pellico, con Arnoldo Foà e Tino Carraro; Anna Karenina con Lea Massari e Giancarlo Sbragia;  I miserbali da Victor Hugo con Gastone Moschin e Giulia Lazzarini; Il cappello del prete da De Marchi; Puccini la biografia del musicista;  Camilla da un romanzo di Fausta Cialente; Disonora il padre dal romanzo di Enzo Biagi; Bel amie da Gur de Maupassant, Melodramma; La coscienza di Zeno; Solo. Per cinque anni è stato premiato quale miglior regista italiano. Soprannominato dagli amici “il regista dei mattoni” per il carattere serio delle sue opere, Bolchi – come sottolinea Aldo Grasso sulla sua Storia della televisione italiana –resta certamente l’autore più rappresentativo dei tentativi di conferire alla televisione la stessa dignità riconosciuta al cinema e al teatro. Era convinto assertore della funzione pedagogica del nuovo mezzo ,ed ha contribuito attraverso i suoi numerosi sceneggiati a divulgare la conoscenza di grandi opere della letteratura. Per questo motivo è stato accusato di mancare di una certa levità e di esprimere nei confronti dell’orginale una fedeltà quasi ossessiva. Ma la sua trasposizione de I promessi sposi, se paragonata a quella di Nocita del 1989, appare a distanza di molti anni stilisticamente più controllata e meno esposta alle mode del consumo.
Bolchi si era cimentato anche con la pubblicità: suo lo spot con Ernesto Calindri che beveva un amaro seduto a un tavolino su una strada in mezzo al traffico.  L’ultimo suo lavoro risaliva al 1995, Servo d’amore con Remo Girone, quell’anno confessò con amarezza: “in Rai non ci vado più tanto non c’è più posto per me”. Da tempo sffriva di malattie dell’apparato cardiovascolare e di diabete, ricoverato al Policlinico Gemelli, poi si era trasferito in clinica per una terapia che aveva prodotto i suoi effetti, era tornato a casa e sembrava essersi ripreso. Si faceva portare tutte le mattine alcuni giornali che leggeva con molto interesse, si teneva aggiornato sui fatti di politica interna ed internazionale. Sandro Bolchi morì il 2 agosto 2005 nella sua abitazione romana di via Cassia, gli erano accanto la moglie Welleda e la figlia Susanna.
I funerali di Sandro Bolchi si sono svolti a Piazza del Popolo, nella Chiesa degli Artisti, a Roma, totalmente assente la Rai, che non ha inviato nè rappresentanti ufficiali nè corone. La cerimonia funebre è stata molto semplice e ristretta, oltre a famigliari e ad amici hanno preso parte Paola Pitagora e Lea Massari, due attrici legate al lavoro del regista, entrambe commosse. Gli attori Luca Barbareschi e Mario Maranzana hanno pronunciato parole di saluto ricordando le notevoli doti professionali ed umane del regista scomparso. Dopo la cerimonia religiosa il feretro di Bolchi è partito per Novi Ligure, dove è stato sepolto nel cimitero di famiglia.
Non credo che leggendo da Lassù i titoli dei giornali che annunciavano la sua scomparsa Bolchi abbia gradito quelli che lo definivano “il padre della fiction italiana”. Fiction, per definizione, è finzione, Bolchi in tv ha portato la letteratura, i suoi erano sceneggiati. Bolchi è stato un esempio di tv qualità, di tv culturale.
Massimo Emanuelli
http://www.storiaradiotv.it/SANDRO%20BOLCHI.htm

jueves, 27 de septiembre de 2012

Uomini sul fondo - Francesco De Robertis (1941)


TÍTULO ORIGINAL Uomini sul fondo
AÑO 1941
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglès (Separados)
DURACIÓN 99 min.
DIRECTOR Francesco De Robertis
GUIÓN Francesco De Robertis (Historia: Francesco De Robertis)
MÚSICA Edgardo Carducci
FOTOGRAFÍA Giuseppe Caracciolo (B&W)
REPARTO Felga Lauri, Diego Pozzetto, Marichetta Stoppa
PRODUCTORA Scalera Film S.p.a.
GÉNERO Drama

SINOPSIS Película rodada con actores no profesionales en la que, durante una maniobra, un submarino italiano choca contra un buque. Será necesario que un miembro de la tripulación salga y se enfrente a una muerte casi segura... (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
http://www47.zippyshare.com/v/61216126/file.html


UOMNI SUL FONDO
Durante un'esercitazione, in seguito alla collisione con una nave di scorta, un sommergibile affonda. Grazie al comportamento dell'equipaggio e ai servizi di salvataggio, tutti gli uomini a bordo sono salvati dopo settantadue drammatiche ore. Secondo un'opinione critica che condividiamo, merita un posto d'onore tra i predecessori del cinema neorealistico per la sobrietà del suo approccio semidocumentaristico, la rinuncia alla retorica militare, il sagace impiego degli attori non professionisti - tutti marinai della Marina Militare - l'uso espressivo del montaggio cui probabilmente non fu estranea la lezione del cinema sovietico muto e del documentarismo britannico degli anni '30. Prodotto dalla Scalera con la collaborazione del Centro Cinematografico della Marina, è il primo lungometraggio di De Robertis (1902-59) che dopo la guerra diresse diversi film di guerra o di ambiente marinaro senza ritrovare la vena genuina degli inizi.
Strutture linguistiche a confronto.
C'è un curioso equilibrio nei film di guerra prodotti nel periodo 1940-43, perché, a parte la Francia, sono documentate vicende su tutti i fronti (l'Africa con "Bengasi" e "Giarabub", la Grecia con "Un pilota ritorna", "I trecento della settima" e "Quelli della montagna", la Russia con "L'uomo della croce") e si dà un risalto pressoché simile anche al ruolo delle varie armi (la marina con "Alfa Tau" e "Uomini sul fondo", l'aeronautica con "Un pilota ritorna" e "I tre aquilotti", l'esercito con "Bengasi", "Giarabub", "L'uomo dalla croce", gli alpini con "I trecento della settima" e "Quelli della montagna"). Se con questo gioco di alchimia si salva l'equilibrio, non si può tuttavia dire che i film di guerra facciano la parte del leone nella cinematografia degli anni di guerra; al contrario ne costituiscono una piccolissima parcella, il 2/3-% circa; in più, come abbiamo visto, ogni riferimento alla guerra, sia pur minimo o di sfuggita, viene accuratamente evitato in tutti gli altri film. E per contro anche i film di guerra scelgono una strada in cui scarsissimi sono gli intrecci con i problemi della popolazione civile: l'unico, si può dire, in questo senso è il film di Genina, "Bengasi", mentre per gli altri film si preferisce documentare una situazione di guerra in qualche modo asettica, in cui i combattenti sono isolati in una specie di camera stagna e vivono solo con i problemi della guerra guerreggiata. Così è in particolare con i film di De Robertis, "Uomini sul fondo" e "Alfa Tau", ma anche con quelli di Rossellini, "Un pilota ritorna" e "L'uomo dalla croce", e persino con i film storici che pure potrebbero adombrare situazioni di guerra, sia pure della storia passata, che preferiscono scegliere tutt'altri momenti e tutt'altre situazioni.
"Bengasi" (sulla falsariga del riuscito "Assedio dell'Alcazar" vedi scheda ). Esemplare è "Un pilota ritorna", di Rossellini, che, dopo un inizio ambientato all'Accademia aeronautica che non si scosta dai più vieti toni di rimpatriata e di discorsi da naia (vedi anche un film come "I tre aquilotti"), propone un percorso psicologico da parte del protagonista in cui questi, dopo la cattura e la prigionia nel campo inglese, vede tutti gli orrori della guerra, distaccandosene e approdando a una sorta di pacifismo, sia pure, per evidenti motivi, non esplicitato in modo palese. Questo senso della sconfitta è molto evidente in un film come "I trecento della settima", in cui i protagonisti, pur irrigiditi in una sorta di eroismo di maniera (e il modello militare è ancora quello della prima guerra mondiale, con le sue trincee, la difesa ad oltranza delle posizioni, o la conquista di quote che non si sa perché debbano essere conquistate e tenute, il sacrificio degli uomini fino all'ultimo), subiscono una dopo l'altra senza reazione ogni decisione, ogni imposizione, sempre fermi in un'obbedienza rassegnata e passiva.
Questa lontananza e rifiuto della guerra, e proprio nel genere di guerra, trovano il loro culmine nei due film del 1943, "L'uomo dalla croce", di Rossellini, e "Uomini e cieli", di De Robertis. Nel primo il cattolicesimo di Rossellini, sempre più evidenziato, gli permette di approdare al rifiuto della guerra e della violenza da cui nasce e che comporta; per il secondo il discorso è più complesso, anche data la storia particolare del film: la lavorazione viene infatti interrotta all'8 settembre mentre è in fase di montaggio. Viene ripreso, ultimato e presentato in pubblico, senza più nessun successo, dato che la guerra è ormai lontana, nel 1947. Certamente molte battute nel dialogo sono del dopoguerra, ma la struttura del film, che è del '43, rispecchia invece già un profondo allontanarsi dalla guerra. La guerra sembra una condizione eterna: per i quattro amici piloti protagonisti della storia, che si ritrovano tutti gli anni a cena insieme in una trattoria, gli anni passano, ma la guerra c'è sempre; e anche alla fine del film l'ultimo pilota rimasto in carriera accenna ad un continuare a combattere, che forse adombra la prosecuzione nella Repubblica di Salò. Per i quattro personaggi, amici per la pelle, la guerra porta a una divaricazione dei destini: solo il più scettico compie poi la scelta più romantica, vale a dire quella di restare nell'aeronautica, mentre uno, ritiratosi, diventa un pescecane di guerra mettendosi a produrre latte in polvere e scatolette per forniture militari; per gli altri due la mutilazione (uno a un braccio, l'altro a una gamba) è un'occasione per recuperare una dimensione della vita civile e di inserimento nel mondo degli altri anche attraverso la famiglia. 
http://digilander.libero.it/freetime1836/cinema/cinemaguerra.htm

L'esordio di De Robertis (San Marco in Lamis, [Foggia], 1902), un ufficiale di marina "prestato" al cinema, avviene con una pellicola di carattere semidocumentaristico, Uomini sul fondo (98 min.), promossa dal ministero della Marina. Essa non tratta direttamente della guerra ma ne parla implicitamente. La vicenda del sommergibile A103, bloccato sul fondo dopo un banale incidente e salvato con una spettacolare azione di soccorso che coinvolge navi ed aerei, nonche' con il concorso eroico del suo stesso equipaggio, pronto ad ogni sacrificio nel tentativo di recuperare anche il prezioso mezzo navale, racconta (e auspica) soprattutto un'atmosfera, quella della serena collaborazione di tutti, marinai, ufficiale e perfino famiglie a casa, sostenuta dall'orgoglio di una marina tecnologicamente agguerrita e sicura. Uomini sul fondo anziche' fomentare nel popolo atteggiamenti bellicosi, preferisce rassicurarlo: nulla di grave puo' accadere all'Italia, poiche' il suo esercito e' preparato ad ogni evenienza. Il ministero conosce bene l'atteggiamento italiano sostanzialmente scettico e pacifista, attento al proprio "particolare" e alla propria autoconservazione piu' che alle conquiste imperiali, e dunque esso punta a minimizzare: la guerra (poiche' di questo si parla tra le righe, pur raccontando una semplice esercitazione) e' un'avventura necessaria alla quale siamo ampiamente preparati. Anche la necessita' del sacrificio (la morte di un marinaio nel finale) e' appena accennata, posta quasi tra parentesi, esorcizzata; tuttavia ad essa si fa riferimento nella didascalia finale: essa e' il prezzo di sangue da pagare per assicurarsi il "Mare Nostrum".
Questa propaganda tranquillizzante svolge un ruolo non secondario, tanto piu' in quei primi mesi del 1941, dopo i disastri di Taranto (affondamento delle navi nel porto, novembre '40), la fallimentare campagna di Grecia (iniziata precipitosamente il 28-10-40, con un esercito ancora impreparato), la perdita della Cirenaica (dicembre '40) e di Mogadiscio (febbraio '41), il bombardamento dal mare di Genova (febbraio '41) e soprattutto la tragedia navale di Matapan (marzo '41). Il paese e' smarrito: non solo in Libia l'esercito italiano perde posizioni nel confronto con gli inglesi, ma addirittura la piccola Grecia mette in ginocchio l'Italia, potenza europea e coloniale. Inizia da questi eventi il fatale e incontrovertibile distacco degli italiani dal regime fascista.
La pellicola utilizza attori non professionisti (marinai e ufficiali "autentici") ed e' una narrazione corale e semidocumentaristica. Rispetto alla produzione prevalente negli anni trenta, estremamente artificiosa sia nelle commedie popolari (autore principale Camerini), sia nei polpettoni storico-patriottici (autore principale Blasetti), si affaccia un nuovo realismo, piu' sobrio e verosimile. L'ideologia, ovvialmente, attraversa ogni immagine del film di De Robertis, ma lo fa con piu' discrezione, senza troppa, fastidiosa enfasi. Questo modesto film segna una svolta epocale nel cinema italiano (il celebrato "neorealismo" postbellico in realta' incomincia qui per cio' che riguarda il tipo di scrittura), quasi che la societa',  resasi conto di essere a un momento decisivo della sua storia, decidesse anche nel racconto filmico di accantonare le sciocchezze favolistiche per passare ad occuparsi della realta' in corso. Il nuovo, maturo realismo invita tutti a un maggiore impegno, a un porre in atto quel senso di comunione nazionale tanto propagandata dal regime e che ora affronta, per la prima volta, la dura prova dei fatti.
In ogni caso, sobrio realismo a parte, la pellicola e' intrisa di ideali nazionalisti e conservatori. Gli uomini affrontano la guerra come un rito gioioso, uniti e determinati, consci del loro dovere di fronte alla nazione; le donne, angeli del focolare, attendono ansiose ai cancelli o ascoltano apprensive le notizie alla radio mentre si prendono cura di simpatici marmocchi. Appena saputo dell'incidente al sommergibile 103, la mobilitazione e' totale: un imponente spiegamento aeronavale si precipita in aiuto, mentre gli equipaggi danno prova di abnegazione e generosita'. Questo quadro idilliaco e irreale (si pensi solamente alle tragiche inadeguatezze, per non dir peggio, che segnano il disastro di Matapan) tocca il proprio acme nell'improbabile telefonata della madre al figlio imprigionato nella nave sul fondo. Il clima di fattiva collaborazione e' uno dei due grandi protagonisti del film: esso svolge la funzione di incitare all'operosita' come di rassicurare il popolo intorno alla competenza della sua marina e in fondo alla sostanziale sicurezza delle sue navi. Tutto cio' culmina nella solenne sequenza finale: il sommergibile alla fine riemerge tra l'acclamazione generale dei marinai, acclamazione appena smorzata dalla bandiera a mezz'asta che commemora il giovane morto. In questo finale, degno del teatro lirico (si vedra' che la componente melodrammatica e' un elemento essenziale del cinema italiano), De Robertis celebra la religione laica della comunione nazionale, ideale di mazziniana memoria esaltato dalla propaganda fascista fin dagli anni venti. Ne' puo' mancare in esso l'immagine di una didascalia mussoliniana ("Sono fiero di voi"), richiamo al padre buono di quella comunione di sangue lanciata alla meritata conquista del "Mare Nostrum".
Il secondo grande tema del film e' la tecnica. Sommergibili, navi e aerei vengono descritti con palese compiacimento per il livello di avanzamento tecnico che esprimono. "Ascensori" cilindrici che collegano le navi con il sommergibile sul fondo, telefonate da un canotto alla base operativa, palombari che riparano in tempi record lo squarcio della nave e le "ridanno vita": l'ammirazione per la tecnica, vera protagonista di un film costruito (e faticosamente dilatato) su un unico evento, e' il secondo motivo propagandistico, volto a rassicurare un'opinione pubblica impaurita dagli eventi e ora titubante intorno a un regime per lungo tempo accettato anche con entusiasmo. Ma anche intorno al progresso tecnico molte sono le obiezioni, a cominciare dai miopi ostacoli (ancora per non dir peggio, addentrandoci nella sinistra polemica intorno a una marina che sembrava non voler combattere e che sara' accusata di segreti accordi di natura massonica con il nemico inglese) opposti al lavoro di ricerca dell'ingegner Tiberio che in quei mesi cerco' inutilmente di concretizzare il radar, la cui presenza avrebbe salvato migliaia di vite a Matapan. In definitiva De Robertis dipinge una comunione di popolo, tecnicamente agguerrita, pronta alle sfide piu' alte; e lo fa con accenti sobri, mostrando il volto di gente comune, felice di essere coinvolta in una "sacra" missione. L'ambiguita' del cinema e' qui tutta presente: esso mente, sotto le spoglie del rigoroso documentario. In tal senso Uomini sul fondo anticipa tutta la poetica neorealista, nella quale l'accurata verosiglianza nasconde l'ideologia.
http://www.giusepperausa.it/uomini_sul_fondo_e_la_nave_bia.html

miércoles, 26 de septiembre de 2012

Gruppo di famiglia in un interno - Luchino Visconti (1974)


TÍTULO ORIGINAL Gruppo di famiglia in un interno
AÑO 1974
IDIOMA Italiano, Alemán e Inglés (Tres pistas separadas)
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 120 min. 
DIRECTOR Luchino Visconti
GUIÓN Suso Cecchi D'Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti
MÚSICA Franco Mannino
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Burt Lancaster, Silvana Mangano, Helmut Berger, Claudia Marsani, Stefano Patrizi, Elvira Cortese, Dominique Sanda, Claudia Cardinale
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Rusconi Films / Gaumont International
PREMIOS
1974: Premios David di Donatello: Mejor película y actor extranjero (Burt Lancaster)
1975: Festival de Valladolid - Seminci: Espiga de Oro: Mejor película
GÉNERO Drama
 
SINOPSIS Un profesor norteamericano jubilado vive una vida solitaria en su lujoso palacio de Roma. Tiene un enfrentamiento con una vulgar marquesa italiana y sus acompañantes: su amante, su hija y el novio de su hija, y se ve obligado a alquilarles el apartamento del ático del palacio. Su vida hasta entonces rutinaria se verá sumida en el caos por las maquinaciones de sus inquilinos (FILMAFFINITY)



RETRATOS DE SOLEDAD CON INQUILINOS AL FONDO
Sin duda hay frases que reflejan a la perfección la personalidad intelectual de un artista. Luchino Visconti era un especialista en narrativa profunda y convertía, con sombría lucidez, la literatura más barroca en intensas imágenes de fuerte impacto emocional. Así fue en su penúltimo trabajo cinematográfico, Gruppo di famiglia in un interno, A.K.A. Confidencias, de la que cito textualmente: (El Profesor): “Los cuervos vuelan en bandada; el águila vuela sola”; (Konrad): “Pero en La Biblia está escrito, ¡Ay del que esté solo!, porque cuando caiga no habrá nadie dispuesto a prestarle ayuda”. Con estas significativas palabras el maestro encerraba gran parte de su filosofía, de su arrollador universo y de su lúgubre corazón al descubierto. Visconti vendría a contarnos el mortuorio camino de un lobo solitario, El Profesor (genial Burt Lancaster), y su difícil coexistencia con unos peculiares inquilinos, los cuales habitan en el piso de arriba, y que vendrán a importunar su pacifica y erudita vida como coleccionista de arte.
Formidable retrato humano el de una película exquisita, con el habitual gusto decorativo de Visconti. Melodrama inteligente, holgadamente ambiguo e intimista que vuelca un esforzado y profundo estudio del hombre en su inevitable paso hacia la muerte, ese trágico destino que aquí bien podría estar disfrazado de vida, representado en unos extraños vecinos que rozando la locura acabarán por comulgar en un mismo deseo de comprensión y entendimiento. Con el apoyo de unos intérpretes colosales, el gran duque italiano rueda uno de esos monumentales cuadros de sentimientos en donde todo, absolutamente todo, parece cristalizar en completa armonía. El oficio del cineasta sobresale incluso en las condiciones menos favorables (estaba gravemente enfermo), procreando de forma cuasi natural una meticulosa mirada reflexiva entre dos vasos comunicantes estupendamente perfilados. La relación padre-hijo/maestro-alumno de Helmut Berger y Burt Lancaster nos conmueve, nos imanta, nos transforma en bastante más que simples espectadores, somos cómplices voyeurs de corta distancia, claros participantes de una maraña piramidal donde flotan recuerdos, secretos y confidencias.
Grupo di famiglia in un interno sería, en cierto modo, una película autobiográfica, que presagiaba la inminente desaparición del autor de Muerte en Venecia. Trabajo penetrante, con amplísimo carácter testimonial, de apurado empaque fantasmagórico, fiel a las bases de un arte solo atribuible al talento desbordado de uno de los mayores y más honestos representantes que el cine, por suerte, ha sabido y deberá seguir teniendo como parte integrante de una cultura artística universal, inexcusable y académicamente imprescindible.

LO MEJOR: El papel llevado a cabo por un mesurado, adecuadísimo Burt Lancaster. La química entre el amoral Konrad y la aristocrática, refinada mente del profesor (del que nunca conoceremos su nombre, aspecto que subraya la poética presencia del protagonista, un enigma de pasado misterioso), ambos en simbiótica conexión. El detallado encuadre de Visconti, apoyado por la impresionante fotografía de Pasqualino De Santis y su realzada fuerza descriptiva como preámbulo del verdadero testimonio viscontiniano, la melodramática, y no menos dolorosa, El Inocente.

LO PEOR: Que en su momento, y quizás todavía hoy, no fuera del todo reivindicada poniendo mayor énfasis en sus pequeños defectos que en sus logradas virtudes, en las siempre inútiles y odiosas comparaciones con el resto de su mayestática filmografía.
deivi
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/619384.html
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Mario Praz: Scene di conversazione di Alessandro Bencivenni
Il riferimento alle conversation pieces testimonia la familiarità di Visconti con un recente volume di Mario Praz: Scene di conversazione, e con l'intera opera di questo singolare saggista. Con la diabolica levità che gli è propria, Praz accenna più volte al sottile e morboso legame che intercorre tra l'Anima e il suo anagramma, Mania.
Il fascino delle sue opere consiste nel modo in cui risale lungo questo filo tortuoso e sconcertante, senza mai abbandonare l'abito insospettabile ed austero del professore all'antica. Dannunziano alla rovescia, indica l'erudizione nel delirio immaginifico, il metodo nella bizzarria. I suoi libri sono come una visita guidata nell'"inferno"del romanticismo, o come dice bene Arbasino - «il Catasto del Decadentismo».
Le Scene di conversazione sono scritte come uno studio erudito, ma si leggono come un romanzo. Praz insegue, con amorevole e minuziosa dedizione, le vicende delle generazioni ritratte in questo squisito genere di pittura borghese. Il suo interesse si sofferma con predilezione sugli episodi macabri e luttuosi, sicché il volume possiede il fascino perverso del vagheggiamento di un'epoca defunta.
Il Professore di Gruppo di famiglia in un interno non possiede certo i grandi tratti del "prazzesco", né la sua casa quelli del cenotafio neoclassico di casa Praz. Tuttavia certe affinità sono evidenti. «Oggi l'arte del porgere non esiste più» scrive Praz ne Il patto col serpente «il telefono ha pressoché abolito gli epistolari (...) e distrutto ogni possibilità di continuati e armoniosi discorsi»: un motivo questo che ricorre per tutto il film. Nelle stesse pagine troviamo quella che porrebbe essere la definizione dell'eloquio del Professore: «una serie di frasi ben tornite, sorvegliate da uno spirito brillante che si compiace d'ascoltar se stesso», contrapposto al «rozzo e sboccato parlar plebeo» esibito nel film dalla nuova borghesia in jeans.
Visconti si è insomma rifatto a quel certo gusto antiquato caro a Praz per mettere il suo Professore a confronto con un presente nel quale non riesce più a riconoscersi.
Lo scrittore stesso racconta ne La casa della vita di essersi trovato in una situazione simile a quella descritta in Gruppo di famiglia: «da un'ispirazione profetica doveva essere animato Luchino Visconti quando (a sua stessa confessione in interviste sui giornali) prendendo le mosse dalle mie Scene di conversazione pel suo film Ritratto di famiglia in un interno metteva a protagonista un vecchio professore assistito da un'anziana domestica (qui evidentemente alludeva a una situazione simile alla mia), ma anche immaginava che nello stesso casamento venisse ad abitare una banda di giovani drogati e dissoluti. Che è pressapoco quello che è accaduto, ma soltanto dopo la presentazione del film, nel palazzo dove abito. Il film, come potei constatare, è rispettoso verso il mio sosia, e forse esagera nei riguardi dei coinquilini, di cui dirò solo che, venendo richiesto dal più notorio di essi, della dedica di un mio libro, vi scrissi: "Per (seguiva il nome) vicino di casa, lontano d'idee"». Una dedica che sembra uscita dalla penna del Professore.
Ma il maggiore elemento di affinità tra Visconti e il saggio di Praz sta nella sensibilità di entrambi verso quella teatralità degli atteggiamenti, quella concezione della stessa vita come teatro, che è caratteristica delle conversation pieces. In esse si esprime la falsa coscienza di una classe che amava mettersi in posa nell'illusione di garantire a se stessa «certezza e saldezza». La sconfitta di questa illusione, lo smascheramento di questa falsa coscienza costituiscono il tema del film.
Il Professore cade in un duplice inganno: mentre nega ogni rapporto tra sé e la volgarità dei tempi nuovi, è poi costretto ad ammettere l'esistenza di un legame, ma quando crede che questo possa costituire l'inizio di una nuova vita, è solo per poi dovervi riconoscere il presagio della sua morte.
Il testo è tratto dal libro:
Luchino Visconti di Alessandro Bencivenni
© Il Castoro, Milano 1994
http://www.luchinovisconti.net/visconti_al/mario_praz.htm

Soggetto
La vita solitaria di un anziano professore, appassionato collezionista di quadri che ritraggono gruppi familiari, viene un giorno turbata dall’irruzione di una signora dell’alta borghesia, Bianca Brumonti, accompagnata dalla figlia Lietta e da Stefano, il suo ragazzo. Chiedono al professore di affittare loro l’appartamento situato sopra il suo. Dopo alcune resistenze, vinte con il regalo di uno degli amati quadri, il professore cede alle insistenze e acconsente all’affitto. Bianca vi sistema Konrad, ex sessantottino con un travagliato passato politico, ora suo amante e mantenuto. Tra Konrad e il professore si stabilisce una inaspettata intesa. Una notte che Konrad, implicato in oscuri traffici di droga, viene aggredito, il professore lo soccorre, lo ospita nel suo appartamento e lo cura amorevolmente. Sconcertato dai rapporti che legano i suoi nuovi coinquilini, dalla loro invadenza e volgarità, il professore decide di non vederli più e di tornare alla sua silenziosa solitudine confortata dai ricordi della moglie e della madre. Ma accortosi che essi lo hanno strappato allo sterile isolamento in cui si era chiuso e, per quanto estranei, sono ora per lui la famiglia che non ha avuto, ristabilisce i contatti. Durante la cena di riconciliazione in casa del professore scoppiano i conflitti latenti. Konrad rivela di avere denunciato il marito di Bianca, un industriale appartenente a un gruppo eversivo di destra, coinvolto in un tentativo di colpo di stato. Il boato di un’esplosione fa accorrere il professore al piano superiore dove trova Konrad morto. Rimasto di nuovo solo, pensa alla morte e ne attende la venuta.
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Gruppo di famiglia in un interno è la storia di un intellettuale della mia generazione che, non riuscendo a vivere in accordo con il proprio tempo, si scontra violentemente con le odierne generazioni ed esce da questa prova ferito profondamente per tutto il resto della vita. Il professore è un collezionista di conversation pieces, quella pittura inglese del Settecento che rappresentava famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia con i loro bambini, i domestici, i cagnolini: figure deliziose, eleganti, aggraziate delle quali grande è la tentazione di immaginare le passioni e i vizi, al di là della fissità del quadro. Il mio film è appunto una conversation piece: il ritratto di una famiglia. La scena più bella, per me, è quella che, nell’ultima parte, riunisce intorno a un tavolo i cinque personaggi principali. Questa scena consente che i personaggi si affrontino dicendosi le verità più atroci: un quadro e un pranzo di famiglia che si trasforma in tragedia. Vorrei cercare di dire che, se un uomo anziano tenta di accostarsi ai giovani come se fossero suoi figli, il rapporto non può funzionare perché essi non si comprenderanno mai. A un certo punto, Lietta domanda al professore: «Ma lei che cosa faceva, quando era giovane? Ciò che facciamo noi adesso?», e lui risponde: «Nient’affatto! Ho studiato, ho fatto dei viaggi, mi sono sposato; e il mio matrimonio è stato un fallimento. Improvvisamente ho aperto gli occhi, e mi sono ritrovato in mezzo a un mondo di cui non riesco neppure a comprendere il significato». E infatti, egli soffre di questa solitudine e capisce di essersi ingannato. Si è chiuso in se stesso temendo che i problemi degli altri diventassero anche suoi e finissero con l’annientarlo. Egli preferisce occuparsi delle opere che hanno lasciato gli uomini, piuttosto che degli uomini stessi: sono parole che gli faccio dire nel film, perché la conclusione della sua vita è tragica. Il professore non comprende mai i fatti che gli accadono intorno. Quando Konrad, il più corrotto dei tre giovani, si riscatta denunciando un complotto fascista organizzato da un industriale di estrema destra, marito di Bianca Brumonti, il professore non capisce niente perché, in fondo, egli non crede che esista veramente un pericolo da destra. E così non sa dare alcun aiuto a Konrad che si aspettava, se non fiducia, almeno un appoggio, un segno. E quando infine Konrad sarà assassinato dai fascisti, il professore si ricrederà dolorosamente, chiudendosi nella propria tristezza. Da una parte c’è la tentazione, negli uomini in età avanzata, di difendersi da una vita che ormai non riserva loro alcuna illusione; e dunque il desiderio di rifugiarsi nei ricordi, in un’eredità di conoscenze immodificabili; dall’altra ci sono i giovani, la loro vitalità, il lato irrazionale, la sfiducia e il rifiuto nei confronti di tutto ciò che è esistito prima di loro. I giovani con il loro fascino.
(Luchino Visconti)
Gruppo di famiglia non è un film autobiografico. Il protagonista detesta gli uomini, detesta la presenza rumorosa degli altri, e vive in un silenzio totale. È un egoista, un collezionista maniaco. È colpevole perché rifiuta di ammettere che ciò che soprattutto conta sono gli uomini e i loro problemi, non le cose che essi hanno prodotto. Per quanto mi riguarda, non sono affatto egoista in questo senso: ho aiutato molti giovani, consigliandoli e, talvolta, anche concretamente. Mi circondo di amici, amo la compagnia degli altri. Attraverso il personaggio interpretato da Burt Lancaster ho voluto esaminare la posizione, le responsabilità, gli slanci e le sconfitte degli intellettuali della mia generazione. La parabola di una cultura. È stato un modo di rappresentare, con la mediazione di quel personaggio, un momento e una classe alla quale, se si vuole, appartengo anch’io. Ma l’identificazione si ferma qui. Detto questo, mi sembra evidente che, quando si vuole raccontare qualcosa a qualcuno, non si può farlo che attraverso se stessi. Come testimoniano Gustave Flaubert e il suo «Madame Bovary sono io».
(Luchino Visconti)
http://digilander.libero.it/godot61/gruppodifamigliainuninterno.htm
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Il fiato della morte, l’insufficienza dell’arte a riempire la solitudine dell’uomo, il rimpianto di paternità non concesse, e nei giovani la ricerca del padre, il fascino che il male e il bene esercitano su chi non li possiede... Ancora: l’inevitabile disfarsi di quel nucleo sociale che fu la famiglia, la confusa realtà storica che attraversano l’Italia e l’Europa, e finalmente l’antico, immedicabile pessimismo sul destino degli uomini, sulla loro impotenza ad amare, riassunto nell’ironico rinvio del titolo a un modello sociale, e a un genere di pittura, la conversation pièce, sepolti nei secoli senza recupero. Quante cose, e quanto malinconiche, ha messo Visconti in quello che forse resterà uno dei suoi film più personali, certamente più sinceri. Troppe? Ma non c’è da dolersi che la limpidità dell’assunto vada a scapito della potenza drammatica con cui il film dice l’angoscia di Visconti, portavoce fra i più illustri d’una famiglia di autori che si è formata nel clima del decadentismo, e fa consistere la virtù dell’arte nella rappresentazione critica d’una catastrofe cui concorrono storia, morale e società.
A chi chieda se il film tradisca le stanchezze di un uomo malato si risponde di no. Accade il contrario: che Visconti, rinunciando ai languori di un estetismo da capezzale e alle fughe letterarie, entri con furiosa fantasia nel cuore dell’epoca, e la svisceri e la batta. L’esito di questa sorta di colluttazione può lasciarci insoddisfatti, per un sospetto di fatalismo che sembra governarla, ma indubbia è la parte che il razionale Visconti continua ad assegnare alla forza della passione nell’inverarsi dei destini umani. Un vinto non ha quest’occhio caldo e questa mano prensile.
A Roma, oggi. Un ricco professore sui sessanta, americano di madre italiana, vive tutto solo, custodito da una anziana governante, nel suo antico palazzo del centro. Del suo passato si sa poco: che il suo matrimonio non fu felice, che lasciò gli studi scientifici, che venne in Italia con la guerra. Misantropo, insofferente di genti e modi volgari, si divide fra la sua bella collezione di quadri antichi, la buona musica, dotte letture. A turbarne la pace felpata irrompe una sconosciuta (la chiamano marchesa), Bianca Brumonti, elegante e bella, ma indiscreta fino all’arroganza, sboccata fino al turpiloquio, che pretende di avere in affitto l’appartamento superiore a quello in cui abita il professore. Non per sé, come il padrone di casa a poco a poco viene scoprendo, ma per il suo giovane e squattrinato amante, un Konrad già coinvolto a Berlino nei moti studenteschi del ‘68. Il professore diffida: quella gente non gli piace, e minaccia di portare disordine nella sua vita. Tuttavia, galeotto un quadro prezioso offertogli in pegno, non sa dire di no. Né sa come difendersi quando capisce che la casa serve anche agli incontri fra Konrad, la figlia della Brumonti, Lietta, e il «fidanzato» di Lietta, figlio d’un industriale: tre giovani sciagurati che, tacitamente consenziente la madre, si drogano e s’amano in turpi connubi.
L’appartamento è semidistrutto da brutali lavori di ripristino, e persino la collezione del professore è in pericolo, ma l’uomo passa col tempo dallo sdegno allo stupore: scopre un mondo ignorato, che detesta ma di cui avverte il fascino impensato. Sicché col tempo allenta la guardia, quasi complice dei suoi ospiti rumorosi: Konrad gli si rivela, fra le righe, colto e sensibile, Lietta piuttosto una bimba viziata che una precoce canaglia, la madre una fragile vittima della sensualità. È, la loro, una umanità corrotta e perversa, ma proprio per ciò ricca di umori e vibrante di affetti, ben differente dalle composte pitture affisse alle pareti e dalle pagine ben rilegate della biblioteca. La verità della vita sta per spazzare i sogni dell’arte? L’aquila solitaria invidia i corvi?
Caduto nell’inganno, il professore ora è incuriosito e pietoso, di loro e di sé (e loro di lui). Quando Konrad viene aggredito dai teppisti per un affare di droga lo assiste e lo nasconde in una camera segreta, e non protesta quando sorprende i tre giovani intesi ai loro giochi impudichi; nega alla polizia il proprio aiuto; accetta che l’appartamento di sopra venga trasformato... E invano, quando la nausea torna ad avere il sopravvento, cerca di racchiudersi nel suo guscio tranquillo: la paura della solitudine è così forte che i suoi libri e i suoi quadri ormai sono muti. Accarezza persino l’idea di far vita in comune coi suoi coinquilini, di considerarli la sua famiglia. Sembrano, seppure con una morale e un comportamento tanto lontani dai suoi, così uniti, così vicini; e, altre volte, così indifesi, così bisognosi di soccorso: potrà essere il padre che cercano, e loro i figli che non ha avuto.
Invece viene il momento della verità. La cena che fingeva la nascita della famiglia si trasforma in una rissa. Gli ospiti si sbranano a vicenda. La melma viene a galla, volano cazzotti e ingiurie; l’odio e il disprezzo si rivelano la radice di mille infamie. Konrad morirà tragicamente, forse suicida. Il vecchio dovrà discolparsi. «Mi avete bruscamente svegliato da un sonno profondo», dirà ma impotente a restituire una parvenza di ordine al mondo che lo ha aggredito e illuso, a riconquistare la pace. Anche per lui la morte è vicina: non gli resta che misurare nelle lacrime la durezza dello scontro avuto con una realtà dove tutto si disfa, anche il dolore, e l’amore è un germe di corruzione.
Al pessimismo della ragione, Visconti non contrappone più, come nell’età verde, l’ottimismo della volontà. Testimone di una generazione lacerata dai complessi di colpa, che ha vissuto (è una battuta-chiave del film) l’impossibilità dell’equilibrio fra politica e morale, Visconti afferma che il prezzo del progresso è la distruzione: non soltanto dei sistemi e delle classi nelle cui mani è il potere e il metro del bello e del buono (essi si autodemoliscono giorno per giorno) ma della stessa utopia di un amore universale, d’una fiducia nel valore positivo della protesta, troppo compromessa per essere credibile. Cosa significano la tragica consapevolezza raggiunta dal professore e la morte di Konrad, l’ex studente del ‘68 che forse redento dall’esempio di pulizia offertogli dal vecchio ha cercato di salvarsi l’anima denunciando le trame golpiste del marito della sua amante? Significano che il mondo di oggi non accetta più trucchi camuffati da crisi di coscienza: chi ha giocato con se stesso viene sommerso dal diluvio. E tutti, più o meno, vi sono coinvolti.
Amarissimo ritratto di una sofferenza in cui anche si manifesta il tramonto della libertà, il film racconta questa tragedia, biologica e storica, con un senso insieme classico e moderno della drammaturgia. Definiti strada facendo i caratteri, e lasciando loro intorno una larga zona di inespresso (i flash-backs sulla madre e la moglie del professore sono spie subito chiuse), Visconti si dedica con costante puntiglio all’analisi critica dei personaggi, dei conflitti e delle loro ambiguità socio-culturali. Le sue simpatie non vanno, come potrebbe sembrare, al professore, murato nel miraggio dell’autosufficienza: semmai a Konrad, il più denso e infelice. L’immagine che offre del gruppo riecheggia il gusto del teatro espressionista, con le consuete inflessioni melodrammatiche, ma non per questo manca di concretezza. Più luoghi hanno un’intensità di accenti e ricchezza di prospettive psicologiche (anche tocchi di humour) che appartengono al Visconti migliore. I riferimenti alla cronaca degli ultimi mesi sono un po’ forzosi, e nella seconda metà contorsionismi e capziosità sono addebitabili alla sceneggiatura (Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli: quest’ultimo autore del soggetto), ma il film nel suo insieme dirà bene ai posteri come e perché agli intellettuali di tradizione liberale sembrò che gli anni Settanta bruciassero nell’esasperata convulsione dei rapporti personali le ultime stoppie della ragione, talché non rimasero che lamenti. Al pubblico d’oggi dice con quanto accorato vigore artisti quali Visconti si sentano partecipi del dramma, e nel rappresentarlo anche si giudichino.
Gruppo di famiglia in un interno è una di quelle opere complesse di fronte alle quali il recensore torna a verificare l’insufficienza dei propri strumenti e dei propri spazi. Lo spettatore sensibile e attento, integrandone i cenni, vorrà valutare, insieme all’apporto dello scenografo Garbuglia, del fotografo de Santis, del musicista Mannino, la coerente utilizzazione degli interpreti, scelti in modo da riflettere anche nella recitazione il confronto tra un mondo di pacate apparenze ma nascoste inquietudini (un Burt Lancaster sulla soglia dell’accademia) e un universo di cupe e brutali nevrosi, che ha i suoi campioni nel duttile Helmut Berger e nella stavolta sovraccarica Silvana Mangano. In rapide apparizioni, Claudia Cardinale e Dominique Sanda. E arredi di lusso, ovviamente, e belle toilettes: spettacolo pieno.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera (11/12/1974)

martes, 25 de septiembre de 2012

Darò un milione - Mario Camerini (1937)


TÍTULO ORIGINAL Darò un milione
AÑO 1937
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 79 min.
DIRECTOR Mario Camerini
GUIÓN Mario Camerini, Giaci Mondaini, Ivo Perilli, Cesare Zavattini (Historia: Giaci Mondaini, Cesare Zavattini)
MÚSICA Gian Luca Tocchi
FOTOGRAFÍA Otello Martelli, Carlo Montuori (B&W)
REPARTO Vittorio De Sica, Assia Noris, Luigi Almirante, Mario Gallina, Franco Coop, Gemma Bolognesi, Cesare Zoppetti
PRODUCTORA Novella Film
GÉNERO Comedia

SINOPSIS Dos hombres se arrojan al mar al mismo tiempo. El primero (Luigi Almirante) es un pobre de solemnidad, que se ata una piedra al tobillo buscando una muerte rápida. El segundo, el millonario Gold (Vittorio De Sica) se lanza al agua desde su yate, aburrido del dinero y de la hipocresía de sus invitados. El millonario salva al pobre e intercambian sus ropas. Asegura que daría un millón con tal de encontrar a alguien que fuera capaz de un gesto amable desinteresado. El pobre vestido de frac cuenta su increíble historia al director de un periódico. El director del diario decide cambiar el titular: "Daré un millón", clama la primera plana a cuatro columnas. Y como cualquier pobre puede ser el millonario disfrazado, los burgueses se apresuran a ser generosos y amables con cuanto menesteroso se les pone a tiro. (FILMAFFINITY)

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Non mi stancherò mai di ripetere che Mario Camerini è uno dei più grandi geni misconosciuti del nostro cinema, uno dei cineasti più tecniciche abbia mai visto orchestrare un film nel nostro paese e uno dei più delicati narratori.
Penalizzato (forse) dal cinema dei telefoni bianchi e dal dover girare continuamente commedie rosa (ma in molti casi si trattava di scelte precise) Camerini ha attuato in silenzio e senza clamori, una serie di sperimentazioni visive e narrative fuori dal comune.
In particolare Darò Un Milione si apre con un montaggio alternato tra un milionario stanco nel suo yacht e un barbone desideroso di porre fine ai suoi giorni, entrambi meditano di buttarsi nelle medesime acque ma con scopi differenti. Alla fine lo farà solo il milionario per fuggire dalla sua di realtà e tuffarsi in quella del barbone (la vita di indigenza). Ma che rigore nel montare...
Al favolismo zavattiniano del soggetto Camerini (che non aveva buoni rapporti con il soggettista) risponde con una messa in scena rigorosissima e densa di poesia nascosta (e non esibita come è invece uso di Zavattini). Esempio di questo è ancora verso l’inizio del film la scena in cui il giovane milionario che si finge barbone si sveglia in un prato erboso tra panni stesi al sole. La prima cosa che vede è un cane che fa le capriole mentre sente la voce della ragazza destinata (come vogliono i canoni) ad essere la sua amata. Le percezioni dello spettatore si confondono tra le ombre ingannevoli di altre lavandaie dietro ai panni, il cane che fugge e un montaggio che confonde ancora di più come se ci si trovasse in una stanza degli specchi. Una tecnica che sembra mantenere una continuità insperata con il mondo dei sogni da cui il giovane barbone milionario dovrebbe essersi destato, cosa che personalmente ho ritrovato in un altro solo film girato almeno 10 anni dopo cioè Scala al Paradiso (il risveglio in spiaggia).
In particolare poi, per gli amanti della lotta ai regimi, Darò Un Milione cambia ambientazione dall’Italia alla Francia per poter mostrare una diffusa povertà, una meschinità umana non comune nel cinema dei telefoni bianchi e un opportunismo alto borghese che appartiene tutto alla matrice originale, cioè la storia di Zavattini.
Gabriele Niola
http://pellicolerovinate.blogosfere.it/2008/10/daro-un-milione-1936-di-mario-camerini.html

Si sa, il denaro non rende felici. Il ricco non conosce mai i veri sentimenti di chi lo circonda, non sa quanto le persone siano mosse dai propri interessi. E intanto il tempo scorre, la vita vola via. E’ mentre si trova immerso in pensieri di questo genere che il facoltoso Gold – un giovane e magrissimo Vittorio De Sica – decide di mettersi nei panni del povero per vedere “l’effetto che fa”. Scatenando, senza neanche volerlo, una caccia all’uomo, complice la fame di audience di un giornale quotidiano che – ritoccando la realtà – trasforma, in uno dei classici titoli a nove colonne, un “darei” in “darò”: si riferiva ad un milione di lire degli anni Trenta, che il miliardario avrebbe donato a chi avesse dimostrato un incondizionato gesto d’affetto nei suoi confronti…
Camerini, anche se in coproduzione con la Francia, butta un occhio oltre Atlantico, prosegue la sintonia col coevo Capra, e mette in scena – con l’aiuto di un esordiente Cesare Zavattini e di Giaci Mondaini – un personaggio ironico, scanzonato, i cui panni calzano perfettamente sul corpo d’attore di De Sica: facile immaginare reazioni contrastanti di contemporanea immedesimazione e repulsione per le sue azioni anarcoidi ed imprevedibili, da parte di un pubblico assuefatto ai conformismi e ai rituali di una ormai matura dittatura fascista.
Il terzetto De Sica/Noris/Camerini, che si ripete in altri grandi film dell’epoca (Il Signor Max, Grandi Magazzini), conserva una fenomenale capacità di dare vita a commedie particolarmente ariose, improntate sì alla brillantezza delle omologhe opere a stelle e strisce, ma rivedute alla luce di un piacevole provincialismo italiano. Curioso il livello di denudazione a cui giunge, senza malizia ma piuttosto con placida ritrosia, il personaggio circense della Noris, attrice che di lì a poco avrebbe stretto un legame sentimentale con Camerini. Remake due anni dopo negli Stati Uniti, col titolo I’ll give a million e la regia di Walter Lang.
http://www.sentieriselvaggi.it/articolo.asp?sez0=16&sez1=0&art=27232


lunes, 24 de septiembre de 2012

Quei due - Gennaro Righelli (1935)


TÍTULO ORIGINAL Quei due
AÑO 1935
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados) 
DURACIÓN 75 min. 
DIRECTOR Gennaro Righelli
ARGUMENTO Inspirado parcialmente del acto único "SIK SIK, L'ARTEFICE MAGICO"
GUIÓN Eduardo De Filippo
MÚSICA Armando Fragna
FOTOGRAFÍA Massimo Terzano (B&W)
REPARTO Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Assia Noris, Maurizio D'Ancora, Lamberto Picasso, Luigi Almirante, Franco Coop
PRODUCTORA G.A.I.
GÉNERO Comedia | Teatro 

SINOPSIS Aventuras de dos actores de provincia que buscan por todas formas hacerse con algo para comer. Se les une una muchacha, Lili. Representan un número de magia, pero lo único que consiguen son pifias y abucheos... (FILMAFFINITY)




Trama
Due poveri disgraziati che fanno la fame, si arrabattano in ogni maniera per sbarcare il lunario. Passano da giocolieri di teatrini suburbani, a camerieri di caffeucci da porto, e non disdegnano il facchinaggio. Durante questa loro miserrima esistenza, una ragazza, che vuol lavorare sul teatro e che pure è afflitta da fame arretrata, viene da essi scritturata come "terzo" nel numero di varietà che hanno organizzato; ma segue la disgraziata sorte dei suoi impresari quando essi vengono violentemente cacciati dal teatro. E i due l'invitano a dividere la soffitta che occupano e la mensa che, saltuariamente, li nutre. La ragazza si unisce così a loro e convive servita e, segretamente, amata da tutti e due. Ma un giovane violinista che da una soffitta accanto può vederla e ammirarla, le dichiara il suo amore ed è riamato. I due, dopo movimentatissime vicende, comprendono che è inutile seguire l'illusione d'amore per la quale si sono perfino malmenati, e ritornano in pace e accordo dopo che la fanciulla va sposa al violinista.

Note
SOGGETTO ISPIRATO LIBERAMENTE AI PERSONAGGI DI ALTRI DUE ATTI UNICI SEMPRE DI EDUARDO DE FILIPPO: "L'ULTIMO BOTTONE" E "TRE MESI DOPO"
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=26576&film=QUEI-DUE
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El mago Sik-Sik (Eduardo de Filippo) y su ayudante Giacomino (Peppino de Filippo) tienen hambre atrasada. En realidad, su hambre es un mal crónico porque son artistas de variedades.
El Profesor Sik-Sik debuta esta noche en el Alcázar después de varios meses desempleado. Giacomino ha contratado como asistente a Lily: tres funciones diarias por 15 liras… ¡y sin anticipo! Pero es que Lily hace un par meses que tampoco trabaja y tenía puesta toda su esperanza de comer ese día en el anticipo. El Alcázar es un teatrito de variedades de Nápoles donde también se presentan, al modesto precio de 60 céntimos, espectáculos de lucha y Ercolino, el hombre más fuerte del mundo.
Lily oficiará de asistente y Giacomino servirá de cómplice entre el público; un falso voluntario, el “stooge” que dicen los sajones. Pero mientras Sik-Sik convierte el agua en vino con ayuda de Lily, Giacomino pierde la paloma que llevaba escondida en el sombrero. La sustituye in extremis por la gallina que pensaban cenarse pero el público se da cuenta del cambiazo y los tres pierden contrato, sueldo y cena.
Entre otras aventuras que van de la picaresca a lo grotesco, terminan en una feria donde frecen sus habilidades como artistas. El problema es que Sik-Sik termina de cobrador en el tiovivo donde se marea y Giacomino en el pim-pam-.pum, como blanco de los bolazos de los gamberros. Mientras tanto, los dos compiten por el amor de Lily sin darse cuenta de que ésta se ha enamorado de un vecino violinista (Maurizio D’Ancora). Assia Noris se limita a dar pie a sus discusiones, pero en una escenita aparece, como un ciclón, Anna Magnani.
El guión está escrito por el gran creador del teatro napolitano Eduardo de Filippo, a partir de una comedia en un acto titulada “Sik-Sik, l’artefice mágico”. Eduardo y Peppino demuestran que entonces la máquina cómica estaba perfectamente engrasada. Asumen respectivamente el papel de clown y augusto y dotan a todas las escenas, por episódicas que resulten, de una gracia alada feliz. Los temas son los del humor de entreguerras: la locura, el suicidio y la reclusión. Asuntos ligeros, todos ellos.
Y, como hilo conductor de todos los episodios, el hambre. El hambre del artista, que es un hambre ancestral, que va más allá de su propia biografía y se remonta al principio de los tiempos. Hambre primigenia, que sólo será satisfecha como compensación al corazón destrozado. Eso sí, después de la palabra fin.
http://www.circomelies.com/2011/11/el-hambre-del-profesor-sik-sik.html

I fratelli De Filippo alla prese con la fame atavica degli artisti incompresi. Eduardo, mago, fa sparire i colombi mentre Peppino, aiutante, fa ricomparire galline. I fischi scortano la loro uscita di scena che vede la fame aumentare e i due protagonisti, accompagnati dalla bella Assia Noris, entrare in un mondo di ombre cinesi, matti a piede libero, coltelli per tagliare un cibo che non viene mai servito. I due affamatissimi artisti continuano a rimandare il pasto alimentando negli spettatori l'appetito per la loro comicità e l'attesa per la loro meritatissima abbuffata di applausi.
Artisti senza alcuna manualità, i due vengono scartati nella selezione operata all'ingresso di un cantiere. La fame non si placa, scorrono i simboli del fascio vicini a quelli dei Savoia, mentre i fratelli finiscono a girare sulla giostra prima di cominciare il duello finale per conquistare il cuore della loro bellissima ospite. La resa dei conti tra i due fratelli, che con questo film si lanciano nel cinema per costituire un'alternativa italiana a Stanlio e Ollio, arriva sul tetto dal quale precipitano in un terrazzino di un suicida per amore di una giovanissima Magnani dal temperamento già evidente.
La storia prende spunto da due atti unici L'ultimo Bottone e Tre Mesi dopo con l'inserimento del primo successo da autore teatrale di Eduardo Sik-Sik, L'Artefice Magico che segnerà nel 1981 la sua ultima apparizione sul palcoscenico. I giovani fratelli gettano le basi della loro grande popolarità proponendo la loro comicità dalle sapienti trovate di Eduardo miste alla esilarante fisicità di Peppino. La regia di Gennaro Righelli segue fedelmente lo stile dei fratelli inserendo elementi di follia che lasciano intuire le incredibili potenzialità degli irresistibili De Filippo.
Andrea Monti
http://www.filmfilm.it/film.asp?idfilm=27270

domingo, 23 de septiembre de 2012

Miracoloni - Francesco Massaro (1982)


TITULO ORIGINAL Miracoloni
AÑO 1981
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 88 min.
DIRECCION Francesco Massaro
ARGUMENTO Enrico Vanzina, Gianfranco Manfredi, Francesco Massaro
GUION Enrico Vanzina, Gianfranco Manfredi, Francesco Massaro
FOTOGRAFIA Giorgio Di Battista
MONTAJE Daniele Alabiso
EFECTOS ESPECIALES Giovanni Corridori
MUSICA Giancarlo Chiaramello
ESCENOGRAFIA Andrea Crisanti
VESTUARIO Mario Carlini
PRODUCCION Galliano Juso para Cinemaster S.r.l.
GENERO Comedia
REPARTO Benedetto Casillo, Ania Pieroni, Victor Cavallo, Mauro Di Francesco, Sergio Di Pinto, Danilo Mattei, Francesco Salvi, Franco Bracardi, Enio Drovandi, Leo Gavero, Gegia, Sandro Ghiani, Simona Marchini, Lucio Montanaro, Nadia Cassini, Franco Oppini, Umberto Smaila, Bombolo, Ennio Antonelli, Arnoldo Gaivano, Valerio Isidori, Galliano Sbarra, Walter Margara, Ovidio Taito, Italo Vegliante, Francesco Bertucci, Eolo Capritti, Paolo Fiorino, Franco Laitano, Moana Pozzi, Valentino Simeoni, Maria Tedeschi, Alba Parietti.

SINOPSIS In una borgata romana dei nostri giorni, Giosuè (Gesù), si scorge improvvisamente detentore di poteri "straordinari"; se ne stupisce lui stesso e soprattutto cercano di approfittarne, a scopi pubblicitari, quanti gli si muovono attorno (pescati tutti fra i personaggi del vangelo). In cielo ci si preoccupa di questo borgataro; per neutralizzarne l'attività miracolistica vengono inutilmente inviati dall'alto prima Francesco d'Assisi, Antonio da Padova e San Gennaro, poi Giovanna D'Arco; mentre questi non faranno più ritorno in paradiso, in terra continua e ... finalmente finisce ogni strumentalizzazione dei "miracoloni" di Giosuè. (Coming Soon)


Francesco Massaro, il regista di Miracoloni (1981)
Francesco Massaro (Padova, 1935), lavora come aiuto regista dal 1960 al 1969, nella bottega di grandi autori come Pietro Germi (Sedotta e abbandonata, Signore e signori, L’immorale, Serafino), Luchino Visconti (Il gattopardo), Dino Risi (Il profeta, Straziami ma di baci saziami), Mario Camerini, Lucio Fulci, Eduardo De Filippo e Marco Vicario.
Il suo primo film da regista è la divertente farsa antimilitarista Il generale dorme in piedi (1972), interpretata da Mariangela Melato, Ugo Tognazzi, Franco Fabrizi, Mario Scaccia ed Eros Pagni. La pellicola racconta i ricordi d’un ufficiale che aspira a diventare generale, un uomo dal carattere instabile ben interpretato da Tognazzi, conteso tra la voglia d’indipendenza e l’obbedienza militaresca. Massaro sceneggia un film satirico sul mondo delle caserme, insieme a Ugo Pirro e Giuseppe D’Agata, che si regge sulle magistrali prove di Scaccia (un allucinato generale che pensa d’essere sempre in guerra) e Tognazzi.
Massaro si specializza in commedie umoristiche, lavori satirici inclini alla pochade e alla farsa surreale. La banca di Monate (1976) è una commedia tratta dal racconto di Piero Chiara (raccolta Sotto la sua mano), interpretata da Walter Chiari, Magalì Noël, Paolo Bonacelli e Vincent Gardenia. Matrimonio d’interesse, finta rapina in banca, vizi della provincia e peccati di un uomo sull’orlo del fallimento sono un bel mix per una gustosa ricostruzione della vita sul lago. Non è solo una storia di corna, corruzione e vizi provinciali, ma si tratta di una buona rappresentazione del dopoguerra italiano, cattiva al punto giusto, con i poveri prossimi a diventare consumisti. Il film è girato a Omegna invece che a Monate (si tratta pur sempre di un paese lacustre), si ricorda per le belle musiche di Armando Trovajoli e per la fotografia di Gabor Pogany.
Il lupo e l’agnello (1980) è una commedia dai risvolti misogini interpretata da Michel Serrault, Tomas Milian, Ombretta Colli, Enrico Luzi, Cariddi Nardulli, Laura Adani e Giuliana Calandra. Il parigino Léon (Serrault) trova a Roma una moglie (Colli), un lavoro da parrucchiere per signora, una suocera ricca ma avara (Calandra) e due cognate. La suocera è l’acquisto peggiore, perché lo obbliga a fingersi gay e lo tratta come uno schiavo. Léon si allea con Milian, che entra in gioco come er Cuculo (una specie di Monnezza redivivo) per depredare moglie e suocera e rifugiarsi a Montecarlo. I due protagonisti sono bravi ma il film è un fiasco colossale, soprattutto perché la sceneggiatura si basa su due personaggi ormai sfruttati. Serrault aveva avuto successo come gay ne Il vizietto (1978) di Edouard Molinaro e Milian come trucido nei vari film di Monnezza e Giraldi. Vengono riproposte le stesse macchiette in un lavoro ad alto budget che però ha un esito penoso. Autori del soggetto sono Amendola e Corbucci che per l’occasione si fanno aiutare da Enrico Vanzina.
I carabbinieri (1981) è un barzelletta-movie interpretato da Diego Abatantuono, Giorgio Bracardi e Leo Gullotta, ma il regista tenta di costruire una trama più o meno credibile basata sulle vicissitudini di un politico coinvolto in uno scandalo, per dare un senso all’operazione commerciale. I carabbimatti (1981) di Giuliano Carmineo è un sottoprodotto comico di pura imitazione, un vero e proprio barzelletta-movie su matti e carabinieri, interpretato da un cast tipico della commedia sexy.
Miracoloni (1982) è il lavoro più interessante di Francesco Massaro, che scrive e sceneggia la pellicola insieme a Enrico Vanzina e al cantautore Gianfranco Manfredi. Produce Galliano Juso. La fotografia è di Giorgio Di Battista, il montaggio di Daniele Alabiso, la musica di Giancarlo Chiaramello. Gli attori sono: Francesco Salvi, Benedetto Casillo, Franco Oppini, Umberto Smaila, Victor Cavallo, Mauro Di Francesco, Sergio Di Pinto, Lucio Montanaro, Sandro Ghiani, Bombolo, Ennio Drovandi, Danilo Mattei, Eolo Capritti, Franco Bracardi, Simona Marchini, Gegia, Ania Pieroni e Nadia Cassini. Moltissime le brevi partecipazioni, tra tutte citiamo Moana Pozzi, che si vede per un fotogramma, vestita di rosso nei panni di una barista sexy.
Il film è un piccolo cult per i collezionisti, perché è stato scarsamente distribuito e per lungo tempo era introvabile. Oggi si può vedere in streaming, a volte lo passano in qualche circuito televisivo privato, ma non è stata ancora fatta un’edizione in dvd. Al cinema non riscosse molto successo, contrastato dai moralisti e osteggiato dalla Chiesa, contraria a una satira in chiave ironico - surreale della vita di Gesù.
Miracoloni racconta la storia di Giosuè (Francesco Salvi), una sorta di Gesù - borgataro romano che vive in via Trucis a Roma, in un condominio che l’amministratore Giuda (Victor Cavallo) tenta di evacuare dai residenti per rivenderlo a caro prezzo. Giosuè è un borgataro vestito di bianco che ama la musica e compie miracoli, cosa che sconvolge le alte sfere del Paradiso, intenzionate a fermarlo con l’aiuto di Sant’Antonio (Smaila), San Francesco (Oppini), San Gennaro (Casillo) e persino Giovanna D’Arco (Cassini), dotata di spada laser come un guerriero Jedi. Massaro cerca di ricalcare il Pap’occhio (1980) di Renzo Arbore, ma confeziona un prodotto meno intellettuale, raccontando la storia di Gesù Cristo - molto liberamente - ambientata nella Roma contemporanea. Barabba (De Pinto) è un ladruncolo di borgata che se la fa con Giuda; Tommaso (Montanaro) se non tocca non crede, per questo approfitta di una procace Maddalena (Pieroni), molto sexy e disponibile; Lazzaro sta sempre a letto, quando muore dentro un Pronto Soccorso romano dopo aver ingerito cozze avariate, Giosuè lo resuscita (“Lazzaro, alzati e cammina!”; risposta: “Con calma e per piacere!”), ma insieme a lui torna in vita tutto l’obitorio, anche un suicida piuttosto contrariato. “Resurrezione, offerta speciale! Tutti vivi!” esclama Giosuè. Per lui Dio è qualcosa di grande, non lo può capire, “è più di Little Tony, di Celentano, persino di Barry White, ma De Niro no, è troppo anche per Dio”. Ennio Antonelli interpreta per pochi istanti una suora rozza e bisbetica. Ponzio Pilato (Capritti) è un maresciallo che “se ne lava sempre le mani”, fino a quando Giuda non lo invita “a farsi un bidè”, perché non ne può più di sentire quella battuta.
Bombolo è un volgarissimo tassista, al meglio della sua comicità mimica e gergale, che vediamo infoiato al punto giusto quando incontra la Cassini - Giovanna D’Arco, che non gradisce le esplicite avance e distrugge l’automobile a colpi di spada. Da citare la battuta di Bombolo alla bella Cassini: “Venga nel mio taxi che è profumato mentre nella carrozza il cavallo fa certe scorregge…”. E poi via con i consueti tsè-tsè, una serie interminabile di mortacci tua e di bestemmie borgatare.
La parte sexy della pellicola è nelle mani di Ania Pieroni, una convincente Maddalena che irretisce Lazzaro e persino Giosuè, salvato dal peccato dai tre santi e da Giovanna D’Arco. La maggior parte dei nudi sono della Pieroni, mentre la Cassini si limita a pochi sculettamenti, canta uno stornello romanesco, sfoggia una mise in bianco con spacchi vertiginosi e si doppia da sola con accento americano. Ania Pieroni cita pure Marylin Monroe quando un soffio di vento artificiale provocato da Lazzaro le alza il vestito e mette in mostra le lunghe gambe. Molto bravi Oppini, Smaila e Casillo come santi che alla fine vengono licenziati dal Superiore, “perdono i super poteri” e restano sulla Terra canticchiando un tema da musical insieme a una Giovanna D’Arco con la spada di gomma. Non manca un cattivissimo Caino (Ghiani), Simona Marchini è Maria, Franco Bracardi è Giuseppe, Danilo Mattei è un Lazzaro tecnologico che inventa congegni elettronici surreali, mentre Gegia è la disperata moglie di Lazzaro. Pietro (Di Francesco) è un imprenditore ittico che tenta di mettersi in società con Giosuè, ma lui non ne vuol sapere.
Molte le trovate demenziali che ironizzano sul Vangelo e si fanno beffe di episodi edificanti. Vediamo la calata dei santi dal cielo come se fossero alieni, che è pure una citazione di Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica. Non mancano il lupo di Gubbio che scodinzola davanti al padrone, il flipper fuso dal fluido magico di Giosuè, Caino e Abele che si menano di brutto, San Francesco che dice sempre laudato, una sindone moderna messa in lavatrice e i santi che telefonano in Paradiso con i gettoni. Il massimo del trash si tocca con la canzone interpretata da Oppini - Smaila - Casillo: “Siam tre piccoli santin/ mai nessun ci dividerà…”. Quando Giosuè fa i miracoli, Enio Drovandi (Abele) esclama: “Sto’ Giosuè è meglio di Mandrake!”. Il miracolo del pesce alla griglia durante una comica ultima cena con la Cassini che canta uno stornello romanesco - americano mentre i tre santi suonano il mandolino è uno dei momenti più trash della pellicola. A un certo punto il protagonista legge il Vangelo, si convince che è un romanzo horror e che la resurrezione è soltanto un’idea dell’editore che voleva il lieto fine. Giosuè non ne vuol sapere di assecondare le pagine che sta leggendo. Finisce a fare il barbone insieme a Pietro e persino a Maometto, dopo aver camminato sulle acque, facendo attenzione a mettere i piedi sugli scogli.
Piero Mereghetti definisce Miracoloni “una farsa desolante”. Non concordiamo con l’illustre critico milanese, perché il film è ancora oggi molto divertente, pieno di gag e di trovate originali, forse eccessivamente blasfemo, ma senza dubbio coraggioso nella sua ironia ai limiti del turpiloquio che prende di mira argomenti religiosi. Miracoloni è una pochade che finisce in bagarre, cerca di realizzare una comicità alla W la foca! (1982) di Nando Cicero e a tratti ci riesce, mentre in alcuni momenti le battute sono stanche e prevedibili.
Francesco Massaro continua a girare commedie collaborando con il comico Jerry Calà che dirige in due lavori di taglio televisivo, come Al bar dello sport (1983) e Domani mi sposo (1984).
Al bar dello sport è scritto e sceneggiato dal regista insieme a Franco Ferrini, Enrico Oldoini ed Enrico Vanzina. vede tra gli interpreti un mostro sacro della commedia sexy come Lino Banfi, non al massimo della forma, e una sensuale Mara Venier, non ancora  padrona di casa della domenica pomeriggio. Tra gli interpreti citiamo Pino Amendola, Tognella (Armando Russo), Mirella Banti, Franco Barbero, Annie Belle, Sergio Vastano, Enzo Andronico, Ennio Antonelli e Omero Capanna. Jerry Calà è un cameriere muto che aiuta il povero immigrato pugliese Lino Banfi a vincere più d’un miliardo al Totocalcio. Il tema è abbastanza sfruttato, perché mette in gioco parenti avidi (Banti e Barbero) e amici profittatori che frequentano il Bar Sport (Vastano, Tognella e Amnedola) che rendono la vita difficile al neo miliardario. Banfi fugge da Torino insieme al socio muto, trova rifugio Costa Azzurra, ma il compagno non resiste al demone del gioco e perde tutto al Casinò.
Massaro cita solo nel titolo il romanzo di Benni (Bar Sport) perché le trovate comiche sono una continua rievocazione della commedia all’italiana. La coppia Banfi - Calà è inedita e ricca di contrasti, ma diverte, alternando il gusto classico per la battuta pugliese all’invenzione moderna e surreale dell’ex componente dei Gatti di Vicolo dei Miracoli. Lino Banfi veste come Gianni Agnelli, indossa la cravatta sul maglioncino e l’orologio sopra il polsino della camicia. Tra lui e Calà, inutile dire chi fa la parte del leone, anche se l’attore veronese non è male in un ruolo da muto con il cuore d’oro che si ispira alla comicità di Harpo Marx. Mara Venier è molto sensuale, tra l’altro è la ragazza di Jerry Calà, non ha ancora un ruolo televisivo ma si fa notare per interpretazioni sexy in alcune pellicole che mettono in evidenza la sua prosperosa bellezza. Mirella Banti le contende la palma della ragazza più procace e mostra in alcune sequenza le grazie nascoste. Si vede anche Annie Belle.
Domani mi sposo (1984) è un’altra commedia scritta e sceneggiata dal regista, con la collaborazione di Enrico Vanzina, Franco Ferrini e Jerry Calà, protagonista di una commedia esemplare per comprendere come si faceva cinema popolare nei primi anni Ottanta. Gli ingredienti base ci sono tutti. Calà va di gran moda presso i giovani che amano le sue macchiette stereotipate e un umorismo surreale che era originale, ma l’attore ha avuto il limite di non sapersi rinnovare.
Calà adesso fa il regista di film invisibili (e invedibili), replicando in eterno il se stesso degli anni Ottanta con storie patetiche come Vita smeralda (2006) e lo squallido remake di Vado a vivere da solo (1982) di Marco Risi, intitolato Torno a vivere da solo (2007). Isabella Ferrari è l’ingrediente sexy che garantisce il successo della pellicola, viene da una serie di film azzeccati e dopo i vari Sapore di mare pervade l’immaginario erotico degli italiani.
Tra gli interpreti citiamo la non ancora televisiva Milly Carlucci, il tipico commenda milanese Guido Nicheli, la biondissima Karina Huff, Claudio Bisio e Pupo De Luca. Tutto ruota attorno a Jerry Calà e agli scherzi di un gruppo di amici burloni che gli rendono la vita difficile alcuni giorni prima delle nozze. La promessa sposa è Isabella Ferrari, ma alcune vecchie fiamme tornano dal passato per complicare la situazione. Milly Carlucci - provocante come non mai - è una di queste. Karina Huff è la ragazza offerta dagli amici, pure lei molto sexy, occhi azzurri e  capelli biondi. Si nota lo stile dei Vanzina che prenderà campo, ma per Jerry Calà è l’inizio della parabola discendente. Non si risolleverà più.
Ti presento un’amica (1987) è l’ultimo film girato per il cinema da Francesco Massaro. Il regista scrive e sceneggia con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico, Enrico Vanzina e Franco Ferrini. Interpreti: Giuliana De Sio, Kate Capshaw, Michele Placido, Luca Barbareschi, David Naughton, Carolina Rosi, Micaela Pignatelli, Sergio Fantoni e Angela Goodwin. Si tratta di una commedia sofisticata all’americana, o meglio di come i Vanzina interpretano la commedia sofisticata, perché il prodotto ricorda il loro stile. La storia segue le vicende sentimentali e lavorative di Giuliana De Sio, un’aspirante giornalista televisiva, e di Kate Capshaw, impiegata di alto livello preso una casa di moda.
Sembra di assistere ad un remake di Via Montenapoleone (1987) in versione romana e di Sotto il vestito niente (1985) - entrambi di Carlo Vanzina -, ma senza delitti e suspense. Non è un gran film. Dialoghi e personaggi sono superficiali e la storia non decolla mai. La frase di lancio “Un film che assomiglia alla vostra vita” è eccessiva, perché la pellicola non ha niente della realtà contemporanea. Il regista originario doveva essere Citto Maselli, che forse avrebbe potuto realizzare qualcosa di più interessante, ma Francesco Massaro non va oltre una modesta commedia sofisticata.
A questo punto la carriera di Francesco Massaro si rivolge al più facile mezzo televisivo, anche perché il cinema sforna sempre meno prodotti di genere e i titoli che passano sul grande schermo si contano sulla punta delle dita. Ricordiamo i lavori televisivi realizzati dal regista padovano: Little Roma (1987), Pronto Soccorso (1989), Pronto soccorso 2 (1991), Provincia segreta (1998), Benedetti dal Signore (2004) e O la va, o la spacca (2004). Francesco Massaro è anche valido sceneggiatore di commedie come Paolo Barca maestro elementare praticamente nudista (1975) di Flavio Mogherini, I giorni cantati (1979) di Paolo Pietrangeli e Sposerò Simon Le Bon (1986) di Carlo Cotti. La sceneggiatura di Ti presento un amico (2010) di Carlo Vanzina è il suo ultimo lavoro in ordine di tempo, una sorta di remake al maschile del vecchio Ti presento un’amica. 
Gordiano Lupi
http://cinetecadicaino.blogspot.com.ar/2011/09/francesco-massaro-il-regista-di.html

Riferimenti culturali e di attualità
L'intero film riprende in chiave comica situazioni e personaggi biblici e della storia cristiana, focalizzando in particolare sul Nuovo Testamento e spingendosi fino ai santi medievali. Nella trama convivono sia le figure storiche originali che dei loro "adattamenti" moderni. In particolare, la figura di Pietro è incarnata in due distinti personaggi: il vero e proprio santo apostolo a guardia del paradiso ed il mistico industriale Pietro Rio Maruzzella, il cui cognome è la fusione di due marche di pesce in scatola Rio Mare e Maruzzella.

Nella scena in cui Giosuè cambia canale televisivo schioccando le dita, la televisione si sintonizza su un video clip di Strong Arm of the Law del gruppo heavy metal inglese Saxon.

Nella scena in cui due carabinieri a cavallo vedono i tre santi atterrare in Villa Borghese, uno consiglia all'altro di non riferire l'accaduto al comando, per evitare che si dia loro dei "carabbinieri con due b". I carabbinieri è il titolo di un altro film diretto dallo stesso Francesco Massaro, che narra con fare scanzonato delle vicende fittizie di membri dell'Arma. Nel corso della scena si può anche udire il motivetto principale de I carabbinieri.

Sempre nella scena in Villa Borghese, i due carabinieri tentano di arrestare Sant'Antonio da Padova, scambiandolo per il filosofo politico padovano Toni Negri. All'epoca del film, Toni Negri fronteggiava numerose accuse di carattere giudiziario, fra cui quella di essere il mandante morale dell'assassinio di Aldo Moro. Le accuse sarebbero quasi tutte cadute nel periodo successivo alle riprese.

Nel film W la foca del 1982, nella scena in cui la famiglia Patacchiola gioca a mantenere il silenzio per decidere chi laverà i piatti, si sente l'audio de I miracoloni, in onda sulla televisione in salotto.
http://it.wikipedia.org/wiki/Miracoloni