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jueves, 19 de mayo de 2011

La Notte Di San Lorenzo - Vittorio Taviani e Paolo Taviani (1982)

TÍTULO 
La notte di san Lorenzo
AÑO 
1982 
SUBTITULOS 
Español (Separados)
DURACIÓN 
106 min.
DIRECTOR 
Paolo Taviani, Vittorio Taviani
GUIÓN 
Tonino Guerra, Paolo Taviani, Vittorio Taviani
MÚSICA 
Nicola Piovani
FOTOGRAFÍA 
Franco di Giacomo
REPARTO 
Omero Antonutti, Margarita Lozano, Sabina Vannucchi, Massimo Bonetti, Claudio Bigagli, Norma Martelli
PRODUCTORA 
Ager Films / R.A.I.

GÉNERO 
Drama | II Guerra Mundial


Sinópsis
Italia, noche del 10 de agosto de 1944. Plena Segunda Guerra Mundial. Un grupo de vecinos de un pueblo de la Toscana huyen a las montañas, la noche de San Lorenzo, tras los rumores de que los nazis van a bombardear la zona. (FILMAFFINITY) 

PREMIOS
1982: Cannes: Premio del Jurado Ecuménico

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2 
4  

La notte di San Lorenzo
Seminario 1995: lettura del film "La notte di San Lorenzo"
Di Massimo Calanca e Giuliana Montesanto 
 
Questo film parla di un viaggio: quello che un gruppo umano (ma anche i suoi singoli componenti, cioè ogni uomo) deve fare per uscire dall’oppressione e cercare la libertà. A ben vedere, questo viaggio riguarda ogni essere umano - e per ogni singolo uomo esso ha un esito particolare, irripetibile - ma il film ci dice che questa ricerca ha maggiori prospettive di successo se è condotta insieme ad altri, in un gruppo che agisce coralmente, affidandosi alla guida della propria parte più saggia (Galvano).
Il desiderio di difendersi dall’oppressione riguarda tutti: tutto il paese di S.Martino si è riunito nelle cantine di un compaesano più ricco per difendersi dalla rabbia dei fascisti e dei tedeschi in rotta, all’arrivo degli alleati e sotto l’attacco dei partigiani.
Anche il desiderio di libertà coinvolge molti, fino all’idealizzazione illusoria dei salvatori (gli americani), su cui solo un cinismo irresponsabile, per quanto bonario, può imbastire uno scherzo (l’inno americano suonato al grammofono). Ma per cercare veramente la libertà, anche al costo dei pericoli e dei disagi che ciò comporta, ci vuole una decisione. Una scelta realizzata in contatto con la propria saggezza profonda ("ci ho pensato!", dice Galvano più volte).
Come tutti i percorsi di trasformazione, anche questo è un viaggio m qualche modo iniziatico che richiede i suoi riti, come vestirsi di nero e aspettare la notte. E richiede di essere affrontato facendo conto innanzitutto sulle proprie forze (bisogna che ognuno attinga alle sue scarse provviste per mangiare prima, di partire), ma anche contando sulla forza del gruppo e sull’aiuto degli altri che condividono la propria scelta.
Come ogni scelta, anche quella di Galvano divide: da una parte chi decide di condividerla e di rischiare, e dall’altra chi è più debole, chi non è ancora pronto, chi ha paura ("siamo du’ cretine!" chi ha molto da perdere e chi ha bisogno ancora di fidarsi di un potere religioso pieno di buona volontà, ma compromesso con il potere dell’oppressore. Ma c è anche un potere religioso alleato con la vita, che benedice gli sposi e la loro creatura in arrivo e che incita tutti al dovere di vivere. E con questo torniamo all’inizio del film e alle scene della vita che lotta per affermarsi, anche sotto la minaccia continua della morte: l’albero carico di frutti scosso dal vento del cannone, il ventre gonfio di vita della giovane donna e i due sposi con le loro famiglie contadine che santificano un’unione fondata sull’amore.
Nella povera festa che il padre vuole fare comunque alla sua figlia "birbona", appare il tema dell’epica popolare, cioè di un patrimonio di cultura orale che parte di lontano (Iliade recitata dal vecchio) e che unifica, nell’immaginario contadino, motivi familiari e affettivi (Ettore e Andromaca che allatta Astianatte) con la guerra intesa come difesa della terra, della patria, dei propri cari, o come reazione ad un oltraggio subito ai sentimenti fondamentali ed alla stessa dignità di uomo. In questa cultura orale basilare, pre-letteraria in quanto precedente alla scrittura, fatta di epica mandata a memoria ma anche di proverbi e filastrocche ("villano nobilitato non riconosce il sii parentato", "Mardocchio, mardocchiati, S.Giorgio aveva i bachi..."), il bene ed il male appaiono con chiarezza, innanzitutto, come ciò che promuove o si oppone alla salvezza del proprio gruppo o clan ma più profondamente, come ciò che favorisce o contrasta lo sviluppo della vita. Per questo la chiara visione del bene e del male non sconfina nella schizofrenia, nella rigida scissione manichea tra buoni e cattivi tra amici e nemici, tra fedeli e infedeli, tutti ben separati e distinti dalla scelta di campo; ma può convivere con la stima dell’avversario, con il riconoscimento della viltà e del male anche nel nostro campo, con la pietà per il dolore dei vinti.
Si può dire che questo gruppo contadino viva in una dimensione olistica, dove le individualità esistono ma sono ben fuse nell’insieme. Le figure che emergono nei diversi momenti significativi sono sempre una parte dei tutto e presto si riemergono nell’insieme, diventano sfondo per altre figure. E spesso i processi di individuazione si fondano su identificazioni con ruoli sociali definiti (il capoccia, la giovane sposa, la vedova non bella ma sensuale, la "villana nobilitata",, la cameriera, il cantore, ecc.) o con personaggi reali idealizzati (Bruno, o l’amicizia) ed eroi mitici (Ettore e Achille). Ma tutto questo non è sufficiente a creare degli individui-persone, liberi pur nei limiti della storia e della realtà e responsabili di se stessi e della propria vita. Si presentano inevitabilmente, nell’esperienza umana, dei momenti decisivi di svolta cui la vita e la storia ci mettono di fronte. E giunge il momento di decidere se prendere in mano la propria vita, mettersi in cammino alla ricerca della libertà, opporsi alla violenza sopraffattrice e assumersi la responsabilità anche della propria violenza, affrontando i rischi e la morte che tutto ciò comporta.
D’altra parte, la scelta di rimanere sotto l’ala protettrice di un potere religioso compromesso, che si illude di poter mediare con il potere violento ed oppressivo, anche se al momento può sembrare più sicura e meno rischiosa, o apparire obbligata per chi è più debole e bisognoso (la sposa che sta per partorire) e anche se può donare ancora momenti di comunione e di fratellanza (la scena dell’eucarestia fatta coi pane condiviso, che richiama quella della povera festa di matrimonio con il pane ed il vino), si rivela ben presto un! illusione che conduce alla morte e che espone la vita all’offesa dell’odio vendicativo (l’esplosione nella chiesa e la morte della giovane sposa con il suo bambino nel ventre). La buona volontà del vescovo si tramuta in impotenza e senso di colpa.
La morte elevata ad ideologia, a ragione di vita (con l’illusione di tenere lontana la paura della propria morte), rappresentata dai fascisti - alleati sottomessi di una follia più terribile e totalizzante, quella del revanscismo tedesco avvelenato dal nazismo e da HitIer - ed espressa chiaramente dai loro simboli (il teschio) e dai loro colori (il nero), prima di soccombere diventa ancora più violenta e vendicativa. Giustamente Galvano non si fida e compie la sua scelta. E coloro che la compiono assieme a lui e lo seguono, ben presto vengono messi dalla vita di fronte a nuove scelte, fino a quella di assumere direttamente la paternità di se stessi - dopo aver accettato la paternità della saggezza di Galvano e dei coraggio del partigiano - fino a darsi da soli un nuovo nome. Darsi il nome è un po’ come decidere di rinascere, scegliersi la propria identità, e ognuno del gruppo lo fa o attraverso identificazioni con amici ed eroi (Bruno, Achille), o con autoironia che significa anche accettazione di sé (Pelo, Orango, Gufo), o esprimendo un sogno artistico di pace (Requiem), o direttamente dandosi il nome dei padre (Giovanni, che proprio in quel momento prende coscienza della tragedia che lo ha colpito e decide di essere padre di se stesso, cioè artefice del proprio progetto di resistere e combattere l’oppressione).
A questo punto il confronto diretto con il male è inevitabile ed esplode lo scontro. E nello scontro - terribile e ravvicinato - si scopre all’improvviso che anche i nemici sono esseri umani, che anch’essi soffrono delle stesse paure, degli stessi orgogli scambiati per dignità, della stessa compassione per gli amici ed i compagni colpiti. Così come già una scena precedente aveva efficacemente mostrato, con il triste funerale dei tedeschi caduti. Una scena struggente e bellissima, forse la più bella di tutto il film, sottolineata dalla musica di Wagner che accompagna 1a caduta degli dei, i tedeschi in fuga che si portano dietro i loro morti nel pullman requisito, e che esprime la compassione per il nemico, per lo stesso oppressore, anch’egli alla fine vittima dello stesso dolore degli oppressi.
Ora, nello scontro tra il grano, si scopre che anche i nemici sono parenti, compaesani, conoscenti. Sono insomma in qualche modo nostri fratelli. Ma l’inesorabilità della storia e la durezza delle difese umane è tale che spinge ad ignorare questi punti di umano contatto, di con-divisione e di com-passione, e a rinchiudersi nell’odio distruttivo (il giovane che spara all’amico in una lotta che è anche un abbraccio e il fascista che si irrigidisce e mitraglia il conoscente ferito, di cui ha provato per un attimo pietà risparmiando di deturpargli il viso). Anche il ragazzo fascista, a ben vedere, è una vittima dei bisogno infantile di identificazione con il padre (che richiama alla mente una immensa responsabilità educativa da parte degli adulti), ma questo non cambia l’immoralità del suo gesto vigliacco, di suscitare protezione dal nemico per attirarlo in un agguato mortale. E non cambia la pietà del contadino per la sua esecuzione e per il dolore disumano del padre, anche se accetta la decisione di vendetta di un altro uomo, privato tragicamente dai fascisti della moglie e del figlio nascituro nell’esplosione della cattedrale.
E in queste scene l’epica diventa etica. Se c’è un’epica della guerra che impone l’abbattimento del nemico, c’è anche un’etica che impone di salvare le vite dei bambini, delle donne e dei vecchi che non partecipano direttamente alla battaglia; e c’è un etica naturale che rende aberrante il tranello del bambino fascista con la complicità del padre e, nonostante questo, ci fa sperare per un momento che la vendetta di Giovanni non si compia, anche se comprendiamo il suo gesto "umano-troppo umano" e ne condividiamo anche in parte la soddisfazione liberatoria. Privata dell’ etica, la guerra da evento epico getta la maschera e si mostra nella sua viltà e nella sua tragedia. Inoltre, lo stato di guerra rende palese ciò che anche durante la pace riempie la storia, e cioè che la relazione più diffusa - più conformista in un certo senso - tra gli esseri umani e tra gli uomini e la natura è spesso una relazione di sopraffazione.
La guerra "civile" fra le spighe di grano (vita e morte che si confrontano) e la vendetta sul giovane fascista segnano il passaggio decisivo al rifiuto della violenza, alla nausea per rodio distruttivo ("Basta, basta!" alla quiete della notte nei casolari dei contadini, al mattino della liberazione. E, nella notte, sconvolti dalla stanchezza e dalle emozioni nei loro ruoli tradizionali, il saggio capoccia Galvano e la sua altera parente ben maritata (che ha perso durante il viaggio gran parte della sua corazza e dei suoi orpelli), trovano il coraggio di liberarsi dei loro vestiti logori, dei loro pregiudizi di classe, di una vita di rinunce, di ruoli imposti, di emozioni non dichiarate, per godersi una tenera notte d’amore. La vita riprende appieno il suo pulsare gioioso, nel brulichio allegro e indaffarato degli uomini, delle donne. dei bambini, dei vecchi contadini che si preparano alla festa della liberazione. Una festa fatta di gioia ancor più forte proprio perché viene a concludere un lungo periodo di sofferenze e di confronto con la morte e con il male. Ma come prima - durante la notte e la fuga - non tutto era male e sofferenza, perché tra le maglie del dolore e della paura si affacciavano anche momenti di gioco, di piacere, di sensualità e di solidarietà umana; così anche ora, nel momento della gioia, c’è il sole ma c’è anche la pioggia (quasi una momentanea alleanza, un momento di equilibrio e di fusione tra il bene ed il male, entrambi presenti nella vita), e Galvano - ancora fresco del turbamento per l’amore finalmente vissuto dopo tanti anni - vedendo che la vita ricomincia con le sue cose belle ma anche con le sue forme abituali e le sue superficialità, sente il bisogno di fermarsi a gustare il sapore e il rimpianto di un momento di verità che si allontana.

Perché il momento della tragedia, gli aspetti difficili e drammatici della vita, hanno anche l’altra faccia della medaglia di farci vivere intensamente le emozioni e i sentimenti più basilari, aumentando anche il sapore delle cose belle e della gioia e spingendo chi è disposto ad affrontarli creativamente al coraggio della libertà. Galvano, ancora una volta con la sua saggezza semplice, ci ricorda che è nostro dovere fermarsi ad assaporare i momenti belli che la vita ci dona, come è nostro dovere fermarci a sentire e a riflettere profondamente sull’esperienza vissuta, sul dolore e la paura sofferti, sulla violenza subita ed agita, perché affidarsi alla vita non significa essere soltanto trasportati dalla corrente, ma anche tenere ben saldo nelle proprie mani il timone della consapevolezza.
Tutta la storia della gente di S. Martino è vista, dagli autori e da noi, attraverso gli occhi, la sensibilità e le conoscenze di una bambina di sei anni, filtrati nel ricordo della stessa oramai divenuta adulta e madre a sua volta di un bambino. Perciò la realtà si fonde facilmente con la fantasia e i ricordi reali sfumano a volte in quelli prodotti dal desiderio e forse da un po’ di nostalgia. Questo consente ai registi di uscire dal puro neorealismo che ha caratterizzato gran parte del nostro cinema sulla resistenza (e che ha presieduto alla formazione dei Taviani come degli altri registi italiani della loro generazione), per intessere armoniosamente la cifra realistica con quella fantastica e visionaria,, in un risultato espressivo di rara efficacia. E soprattutto consente a noi di entrare nel tema della resistenza e della lotta di liberazione, forse troppo spesso agiograficamente celebrato e comunque a prima vista lontano dai problemi più immediati di oggi, in modo da poterlo più agevolmente a nostra volta filtrare attraverso la nostra personale esperienza di contemporanei. E così riferire i valori espressi dal film (e in parte dallo stesso fenomeno "resistenza" nel suo significato più generale e migliore) alla vita in genere e alla nostra esistenza in particolare.
Cosi, undici anni fa quando il film è uscito, in un’ epoca di maggiore intensificazione della guerra fredda prima della crisi dei bipolarismo, e nello stesso tempo di crisi grave delle ideologie e delle utopie rivoluzionarie e di apparente trionfo della mediocrità del consumismo, il film parlava ai contemporanei ancora una volta di speranza: che dopo la notte di un mondo schizofrenico minaccioso ed accecato dall’interesse egoistico, la vita potesse comunque prevalere e creare nuove opportunità. E qualche anno fa, di fronte all’esplosione improvvisa della guerra del Golfo e di quella jugoslava, e ancora oggi di fronte ai fatti di Bosnia e di altre parti dei mondo, questo film parla ancora di speranza. E cioè che la fiammata di distruttività, di egoismi e dì odi tribali e religiosi, sia soltanto il terribile ma necessario prezzo da pagare alla fine del controllo della distruttività garantito - pur nella tensione crescente e nel pericolo costante dell’olocausto - dalla scissione bipolare in blocchi contrapposti e nemici. Sia cioè un passaggio doloroso ma necessario di assunzione diretta della violenza e dell’odio da parte di popoli e di gruppi e, tendenzialmente, di tutti noi, dopo la lunga fase di scissione schizo-paranoide’ e di proiezione del male sull’altra parte del muro di Berlino. Un’assunzione diretta della violenza e dell’odio distruttivo che, se da un lato minaccia di estendere la distruzione e la guerra di tutti contro tutti, dall’altro è aperta anche ad un esito opposto: quello di una decisione generalizzata dì rifiuto, di nausea per la violenza (come nel film, alla fine della battaglia), e di scelta di nuovi modelli non violenti di gestione dei conflitti.
Ma questo richiede che le generazioni attuali non si trovino ad affrontare le nuove frontiere della violenza senza poter far tesoro dell’esperienza delle generazioni precedenti e della saggezza umana che anch’essa ha arricchito. Per questo il film ha inizio e fine con il racconto della madre al bambino. Un racconto che si svolge nella notte di San Lorenzo, una notte in cui oggi, come tanti anni fa, le stelle sembrano cadere sulla terra, promettendo nella saggezza popolare l’esaudimento di un desiderio; e parlandoci anche di un rapporto, tanto misterioso quanto reale, tra il microcosmo umano e il macrocosmo, tra il progetto della vita sulla terra e del genere umano e quello più generale dell’universo, tra la nostra personale ricerca della verità, della bellezza e dell’armonia e le leggi della vita e d
 

La Liberazione in una notte di mezza estate

Il 22 luglio 1944 avviene l’eccidio nel Duomo di San Miniato che costa la vita di cinquantacinque persone radunate nella chiesa per ordine del comando tedesco. L’evento è stato oggetto di controverse storiografiche, di inchieste di vari tribunali e solo nel 2004 è stato attribuito a una granata dell’esercito americano che ha colpito il duomo per errore. Fino ad allora era prevalsa la tesi della responsabilità tedesca, anche perché la ricostruzione aveva tutte le caratteristiche della rappresaglia, avvenuta dopo l’uccisione di soldati tedeschi, come quelle spesso perpetrate dai nazisti, vedi le Fosse Ardeatine. E certamente un eccidio non compiuto da loro non alleggerisce le loro pesanti responsabilità storiche né fa cambiare prospettiva alla Resistenza né sminuisce l’importanza della lotta partigiana, in quello come in altri luoghi d’Italia.

L’episodio segnò profondamente Paolo e Vittorio Taviani, di San Miniato, che all’epoca avevano 13 e 15 anni rispettivamente. Il loro padre, l’avvocato Ermanno Taviani, volle fortemente la commissione d’inchiesta, istituita già nel 1944, di cui fece parte ma da cui rassegnò presto le dimissioni, dissociandosi dalla piega che aveva preso. E quando i fratelli registi esordiscono al cinema, sotto l’egida di Cesare Zavattini, lo fanno proprio con un documentario su quella strage, San Miniato, luglio ’44 (1954). La notte di San Lorenzo si apre e si chiude con un’ambientazione contemporanea, in un appartamento moderno, una camera con vista su Firenze di sera, che iscrive la storia in un flashback. A raccontare è una donna che ha assistito ai fatti da bambina, era la piccola Cecilia: il tutto in forma di ninna nanna per il suo bimbo a letto. La narrazione come flashback serve ai Taviani per porsi già a distanza rispetto a fatti di quarant’anni prima, per poterli rileggere con il necessario distacco, e trasfigurarli in chiave fiabesca, epica, di mito con la Liberazione come lieto fine.

Molti fanno notare l’incongruenza di questo racconto in flashback: la bambina non era sempre presente nei fatti che racconta, non era nel duomo ma faceva parte del gruppo in fuga, né poteva evidentemente sapere della notte d’amore tra Galvano e Concetta. Lei stessa specifica al proprio figlioletto, alla fine: «Così finisce la mia storia, amore mio. Io non so se le cose andarono proprio a questo modo, io allora avevo solo sei anni. Ma la storia è vera, E anche le storie vere certe volte possono finir bene». A ben vedere la cornice del racconto, nell’appartamento moderno, possiede essa stessa una qualità fiabesca, una dimensione sospesa dove l’interno è come un’illustrazione. Dalla finestra si vede una stella cadente: questo racconto viene fatto nella notte di San Lorenzo, quella data magica, secondo la tradizione, quando si esprime un desiderio osservando il cielo, sperando di vedere una scia luminosa. Un racconto, con episodi bellici, cruenti, che pure non avrebbe senso fare a un bambino così piccolo, appena in fasce.

I Taviani comunque giocano ancora a confondere i fatti tenendoli in un’atmosfera di leggenda. L’eccidio di San Miniato è avvenuto il 22 luglio ma nel duomo, appena prima del massacro, si celebra il martirio di San Ciriaco, che è l’8 di agosto, avvicinandosi così alla notte di San Lorenzo. Lo stesso nome del comune da San Miniato viene trasformato in San Martino, nome frequentissimo tra i piccoli centri in Italia. C’è poi un’ulteriore incongruenza, voluta ed esibita, quella di Corrado che sogna di assistere la sua novella sposa, incinta, Belindia sul punto di morte, quando si erano già separati e non poteva conoscere la scena e le circostanze dell’eccidio in cui era rimasta vittima. La presenza della donna come io narrante, in voce off, è molto ridotta. Lei è una bambina buffa, pasticciona, capace di fare smorfie, vive la sua infanzia inconsapevole della tragedia storica che sta attraversando. «C’hai il cinematografo nel cervello» le dice qualcuno del gruppo. Cecilia è palesemente la trasposizione interna al film dei fratelli Taviani stessi, così come lo saranno i due fratelli protagonisti di Good Morning Babilonia. E i limiti del racconto oggettivo della donna, sono la stessa chiave di lettura di tutta l’ambiguità tra realtà e finzione, fiabesca, epica, che pervade il film. Già la bambina condivide il ruolo di narratrice insieme al vecchio, con cui sta seduta su una panca all’uscita della chiesa per il matrimonio, all’inizio del film. Lui, uno di quei contadini toscani colti, capace di recitare a memoria poemi classici, declama un brano dell’Iliade, che parla di Ettore e Andromaca nell’analogia con la situazione del matrimonio che si compie con la guerra alle porte. La bimba ripete il labiale del testo di Omero, che evidentemente conosce come farà con quella filastrocca che le cantano più volte, e corregge il vecchio che dice, in accento toscano “Ettorre”, come l’eroe troiano è riportato nella traduzione ottocentesca di Vincenzo Monti con la più moderna pronuncia di “Ettore”.

In questa scena tutta l’enunciazione della dimensione epica, di mito, di teatro con coro greco, del film, che passerà all’Odissea, in tutta la parte itinerante sulle colline toscane, e che troverà l’apice nella scena simbolo del film, quella del fascista Giglioli trafitto dalle lance dei guerrieri achei, ancora un momento teatrale, stilizzato. La notte di San Lorenzo contiene due momenti altissimi. Il primo è quello della ricostruzione dell’eccidio che avviene durante la liturgia della messa, dove si distribuisce il pane ridotto a briciole in mancanza di ostie. Quello che il vescovo acconsente a usare come tale contro il parere dogmatico di uno dei preti. Quel pane contadino toscano, che già il padre distribuiva all’uscita del matrimonio, che rappresenta il vero e genuino corpo di Cristo, quel pane che Gesù spezzò e diede ai discepoli. E il martirio successivo è celebrato con il Requiem: III. Offertorio di Arturo Toscanini. La preparazione dell’attentato, fatta dai fascisti, si colloca sul piano dell’osceno nel ruolo attivo svolto da un ragazzino in camicia nera, il figlio del gerarca Marmugi. Il tono dell’osceno si ripete nella lunga scena della battaglia tra i campi di grano, dove pure il piccolo camerata, toltasi la camicia nera, fa da trappola in cui cade il malcapitato giovane che vuole aiutarlo credendolo un bambino indifeso. E la stessa uccisione, impietosa, successiva del piccolo Marmugi assurge al carattere di osceno. Quella battaglia, tutta girata senza enfasi musicale, in un film con gli accompagnamenti pomposi di Nicola Piovani, vede anche situazioni come una gag slapstick: quando i due gruppi speculari di fascisti e contadini assistono una persona morente senza accorgersi di essere a fianco, arrivando anche a chiedere inavvertitamente dell’acqua al nemico. Un momento che in realtà amplifica la drammaticità di quegli assassinii a sangue freddo, di anziane e anziani, e di ragazzi. La connotazione è quella di una guerra fratricida, di compaesani di un piccolo urbano dove tutti si conoscono, di fratelli e sorelle che si uccidono tra di loro.

La notte di San Lorenzo coglie questo aspetto di guerra civile nella Resistenza, come nelle tesi esposte dallo storico Claudio Pavone a differenza di Novecento che invece ne esprime l’altra caratteristica di lotta di classe. Da ricordare poi la scena dell’uccisione della contadina di origini siciliane, Mara, che, in punto di morte, si vede assistita, in una delle tante trasfigurazioni del film, da soldati italo-americani. Si tratta in realtà di militari tedeschi, poveri ragazzi anch’essi, pedine di un disegno criminale superiore a loro, che si rammaricano di aver sparato per sbaglio a una ragazza ma esprimono sollievo perché è morta sul colpo.

Si può dare un’ulteriore lettura a La notte di San Lorenzo in chiave di sessualità, di scoperta e risveglio dei sensi. A maggior ragione una lettura estranea al racconto fatto da una bambina. Il film è percorso da riferimenti in tal senso. Si comincia con un matrimonio riparatore, di due ragazzi che hanno “peccato”; ci sono poi i ragazzi che si masturbano spiando Mara che, in quel contesto promiscuo, va a orinare. E poi ci sono tutte le situazioni di erotismo in quella mezza estate shakespeariana, in quella campagna magica toscana, che è l’estensione paesaggistica, tra ulivi e cipressi ordinati, dell’arte rinascimentale delle città. La seduzione di Dilvo nei confronti di Rosanna, che crede che il marito sia in India, che avviene mentre lei si rinfresca strofinandosi il corpo con una fetta d’anguria che poi lei assaggia, un frutto di cui già viene detto di non abusare quasi a intuirne una valenza peccaminosa, molto prima di Tsai Ming-liang. C’è poi la scena, ancora piena di sensualità, in cui Rosanna parla con la ragazza giovane, mentre si bagnano i piedi insieme in un ruscello, che, entro la fine dell’estate, conta di perdere la verginità. E si arriva alla fine a quel momento di amore senile, tra Galvano e Concetta, il consumarsi di un’attrazione latente che i due avevano avuto fin da giovani, sempre rimasta inespressa forse perché impedita da decisioni familiari. Quella scena vede le tappe classiche di una tensione erotica crescente: i due che finiscono nella stessa stanza da letto, lei che dice di essere la moglie, i goffi momenti di quando a testa vogliono nascondersi per spogliarsi, fino a cedere ai sensi con la donna che vuole lasciare accesa la luce. Galvano e Concetta si risvegliano e scoprono che nella notte sono arrivati gli Alleati. L’orgasmo inseguito durante il film diventa la Liberazione.

Giampiero Raganelli
https://quinlan.it/2020/04/25/la-notte-di-san-lorenzo/
 

I fratelli Taviani hanno costituito un punto di riferimento per il cinema d’autore italiano, nonostante alcune cadute di tono, nonostante il loro fosse un cinema ideologicamente orientato nel quale, però, ha sempre prevalso il peso della messa in scena, piuttosto che il dato narrativo. La loro espressività, in qualche misura, si voleva offrire come depositaria di un passato e di un presente attraverso il quale il cinema è diventato adulto, superando definitivamente ogni necessità dello spettacolo per convertirsi a scrittura del presente attraverso una forma sempre rigorosa che a volte diventa solenne, nella sua studiata semplicità. Un cinema che talvolta diventa straniante nel suo esito finale e nel quale è riconoscibile l’influenza della poetica di Jean Marie Straub i cui echi sono riflessi per tratti, per lampi improvvisi, nei film dei due fratelli registi. Una ricerca ontologica rispetto all’immagine che si atteggia come unica propaggine della realtà che si intende riprodurre sembra essere il tratto distintivo di questa scuola di pensiero. L’incipit di La notte di San Lorenzo diventa esemplare per dimostrare questa ricerca dell’essenza dell’inquadratura affrancata da ogni vicenda narrativa. Il cinema dei fratelli Taviani è stato sempre permeato da questo studio ed è proprio nell’affrontare i tratti di questa analisi, a volte in modo ossessivo, che il loro lavoro, si è impantanato non ritrovando un equilibrio saldo che riuscisse a coniugare la ricerca dell’efficacia espressiva, poiché in qualche caso la teoria sopravanzava la narrazione che restava comunque elemento costitutivo del film, in altri casi, invece, l’elemento teorico sembrava scomparire dall’immagine per affidarsi ad un testo non sempre convincente. Va detto che comunque il cinema dei Fratelli Taviani, al di là di ogni influenza, resta narrativo avendo attinto alla memoria personale dei suoi autori o alla letteratura.

La notte di San Lorenzo, è un film del 1982 e nasce come ulteriore estensione di un precedente loro cortometraggio dal titolo San Miniato luglio 44. Il nome del paese del quale sono originari i protagonisti del film è San Martino che rimanda al nome della località adombrata della quale sono originari gli autori e la vicenda narrata li vide in qualche modo testimoni. Forse per questo è il loro film più intimo nel quale vi è stata la necessità di mitigare l’enfasi della memoria.
La necessaria coralità del film si accentua nella studiata e sempre curata messa in scena che ne valorizza l’impianto drammatico con evidenti rimandi ad una classicità teatrale che fa riferimento alla tragedia della Grecia antica percepibile nella struttura duale che si instaura tra coro e protagonista. Alcuni abitanti di San Martino, alle porte di Firenze, mentre gli americani avanzano, liberando progressivamente le città italiane, per non essere costretti dai nazisti e dai fascisti a radunarsi nel Duomo, temendo una trappola, con alla testa l’anziano Galvano, decidono di andare incontro all’esercito liberatore. Molti di loro non raggiungeranno mai la libertà e per qualcuno quella notte di San Lorenzo del 1944 sarà da ricordare anche nel futuro, da adulto. La storia è narrata da una donna che all’epoca aveva sei anni e la vita, nonostante la guerra, era ancora un gioco.
Alla sua uscita il film, presentato nella selezione di Cannes del 1982, suscitò reazioni difformi, ma comunque (condivisibilmente) perplesse. Da ricordare il resoconto negativo dal festival francese di Paolo Bertetto (Alfabeta 38/39, luglio-agosto 1982) che in una più ampia critica non lusinghiera al cinema italiano, a proposito di questo film scriveva: “Perché un autore è responsabile in primo luogo dell’immaginario che propone e l’immaginario dei Taviani diventa sempre più asfittico e ripetitivo, dominato dall’aria di chiuso, dalla puzza dell’aria stagnante: solo variazioni continue su argomenti da Calendario del Popolo, misere esercitazioni sulla coscienza (cattiva e non) di sinistra. Mescolanza di ricostruzione storica e di inserti favolistici, di punti di vista “popolari” e di piattezze naturalistiche, La notte di San Lorenzo conferma l’impressione che la falsa ingenuità del popolaresco è uno dei registri espressivi più finti e intollerabili”.
Un duro attacco ad un cinema che voleva essere d’autore e che come tale conservava un certo ronzio di fondo di una impostazione rigida, forse troppo volta a dimostrare l’esistenza di un cinema politico e rigoroso nel rispetto di precise regole mai messe in discussione. È un po’ la pecca del cinema dei due fratelli toscani, quello di avere una riconoscibilità immediata nell’eccessivo rigore delle forme. Oggi si sente lontano questo modo di fare spettacolo, ma nonostante tutto l’ultimo film dei Taviani, fedele ad una linea mai tradita, non ha suscitato quello scandalo del vintage che magari era possibile aspettarsi. Tutto sommato qualcosa è rimasto di quella lezione e sul versante della critica, nei tempi radicalmente mutati, in cui il cinema si è affrancato (purtroppo o per fortuna, in questo ognuno ha la propria opinione) da ogni politica degli autori, ciascuno potrà esprimere la propria opinione con estrema libertà (e questo è un bene) senza diventare apostata, eretico o essere messo all’indice.
Cosa resta, quindi, oggi di questo film che visto sotto quella lente diventa così distante e colpevolmente stagnante?
Non vi è dubbio che alcune soluzioni non convincano del tutto come la sequenza della morte di Mara, la siciliana, o la posticcia pioggia purificatrice nel finale, con l’esplicita metafora della pioggia e del sole. D’altra parte però è anche vero che il film, che sarà pure un’altra rievocazione della resistenza italiana, conservi una propria originalità soprattutto sotto un profilo poco valorizzato che pure appartiene al film al quale si fa riferimento senza sottinteso alcuno. I continui rimandi all’epica classica da Virgilio, alle sembianze omeriche, sembrano permeare il film che si ammanta, in verità senza troppa presunzione, ma con una certa altrettanto esplicita raffigurazione, di un racconto molto somigliante a quello dell’esodo biblico in cui Galvano finisce per essere considerato il patriarca che conduce il popolo alla terra promessa. Non è estraneo a questo la notte d’amore con Concetta. Con una certa esemplare messa in scena questa sensazione si avverte con intensa efficacia nella sequenza immediatamente prima che i personaggi si mettano in cammino, quando Galvano chiede a tutti di sostare un momento e mangiare prima qualcosa. In quella sequenza, gli elementi religiosi popolari (il pane e i pomodori divisi), i toni della tragedia greca (con il coro schierato in perfetto ordine sulle gradinate) e quelli dell’epica classica che diventa scenario immaginario per Cecilia si confondono senza retorica, acquisendo una vita autonoma segno di una cifra autoriale non trascurabile. La bambina protagonista, dal canto suo riesce a tradurre, grazie al nonno appassionato di versi epici, il mito classico nel quotidiano trasformando il conflitto reale in trasposizione enfatica degli eroi dei poemi epici. Questo fondale che rimanda alle gesta gloriose è una costante che accompagna il film e con un equilibrio che non può essere trascurato. Anche questo, certo, è cinema della memoria, ma anche questo lo è in modo coerente poiché sintetizza un percorso personale che appartiene alla cultura dei due registi toscani che hanno, con sincero trasporto emotivo, trasfuso il loro ricordo in un film che guarda più che alla guerra a quella profonda ferita sociale causata da una inevitabile guerra civile che divise compaesani e concittadini e che avrebbe dato origine ad un Paese rinato si dalle macerie, ma diviso all’interno delle compagini della sua società. Un’altra riflessione anteriore sul futuro che apre scenari nuovi in quel cinema rigoroso, ma a volte rigido, dei fratelli Taviani.

Tonino De Pace
https://www.sentieriselvaggi.it/la-notte-di-san-lorenzo-di-paolo-e-vittorio-taviani/


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